"in merito alla pronuncia restituta, che presuppone una pronuncia solo dura della C (pakem), questa non può avere spazio in una ricerca rigorosa e scientifica (6). Tuttavia anche se per assurdo fosse esistita, questa non avrebbe riguardato il latino che per un brevissimo periodo (latino classico) e non si sarebbe allontanata da Roma, dato che oltretutto non se ne trova traccia in nessuna nazione europea ed in nessun toponimo. Per puro caso infatti in due delle tavole eugubine si trova ripetuto e ben chiaro il termine 'pase' (pace), che testimonia, scritta più volte nel bronzo, una pronuncia dolce della C. Oltre al termine 'desen' (decem)."
Le conclusioni dell'autore dell'intervento sono assolutamente false - non me ne voglia - in quanto contrastano con la realtà dei fatti tracciabile e documentabile. Da quanto scrive, sembra che confonda il latino con l'umbro. Le Tavole Iguvine sono scritte in umbro e non in latino. La lingua umbra appartiene, assieme alla lingua osca (sannitica) e alle lingue sabelliche (sabino, volsco, marrucino, vestino, marso, etc.) al gruppo osco-umbro delle lingue italiche, essendo l'altro gruppo il latino-falisco, che comprende latino, falisco, prenestino, lanuvino e altre varietà parlate nel Lazio antico. Ora, tra le lingue del gruppo osco-umbro e quelle del gruppo latino-falisco sussistono importanti differenze. Le lingue osco-umbre, rispetto a quelle latino-falische, presentano una gran quantità di mutamenti fonetici innovativi e al contempo diversi arcaismi. Nel complesso, direi che tra osco-umbro e latino-falisco sussiste grossomodo la differenza che c'è tra latino e gallico, cosicché ritengo abbiano piena ragione quei pochi autori che invocano la collocazione delle lingue in questione in due gruppi separati.
Detto questo, desen è una parola umbra: la sua radice si trova in desenduf "dodici". Non è una parola latina, quindi non va additata come esempio di una pretesa pronuncia palatale in latino. I fenomeni di assibilazione riguardano la lingua umbra e la lingua volsca, che mostravano tratti fonetici più evolutivi rispetto all'osco. Tuttavia nella lingua osca parlata a Bantia esistevano casi di assibilazione dovuti all'effetto di una semiconsonante -i-, che potrebbero essere visti come antesignani di una tendenza all'evoluzione della velare in un suono fricativo.
Esempi di mutamento dell'occlusiva velare sorda:
1) In volsco si ha façia esaristrom (Tavola Veliterna), dove ç è scritto con una c rovesciata: questa forma verbale equivale al latino faciat, che era invece letto /fakiat/. Il vocabolo esaristrom significa "sacrificio" e deriva dalla radice etrusca ais-, eis- "dio".
2) In umbro si hanno numerosi esempi dalle Tavole Iguvine, oltre ai citati desen- e pase:
śesna corrisponde al latino ce:nam (acc.);
stru(h)çla corrisponde al latino struiculam (acc.), etc
3) In osco bantino si ha pru meddixud, che significa "per la magistratura" (Tavola Bantina), dove meddixud si è sviluppato da un precedente *meddikiu:d. La forma diretta meddicim non mostra per contro traccia di mutamento, data l'assenza di semiconsonante. Si dovrebbe parlare di assibilazione parziale, visto che si mantiene una componente velare.
Lungi da me l'intenzione di generare flames. Tuttavia servono alcune precisazioni. Se uno studioso ignora un dato di fatto, dovrebbe documentarsi prima di affermare per certo qualcosa, inoltrandosi in argomenti che non conosce bene: già in rete esistono numerose fonti, e i libri cartacei sono sempre reperibili con poca fatica. Se invece non ignorasse il fatto, ma operasse per farlo passare inosservato, il suo scopo sarebbe allora quello di dimostrare una propria idée fixe alterando i dati e presentandoli con malizia. Dio non voglia che la seconda ipotesi sia quella giusta. Se così fosse, lo studioso si collocherebbe all'istante al di fuori della Scienza, e argomentare si farebbe difficile. Sono tuttavia convinto che le falsità che inquinano la conoscenza debbano essere confutate presentando i dati di fatto: un indagatore della realtà dovrà adattare le proprie idee ai fatti, non trasformare i fatti con osservazione selettiva e altre fallacie logiche pur di adattarli alla propria idea. Questo è quanto.
Passiamo ora alla pronuncia della lingua latina. Ai tempi di Augusto il latino realizzava "c" e "g" come /k/ e /g/, ossia come occlusive velari, che poi divennero /kj/ e /gj/ durante il III e il IV secolo e sviluppando suoni affricati o palatali nei secoli successivi, anche se non allo stesso modo in tutto il territorio dell'Impero (Grandgent riporta INTCITAMENTO e BINTCENTE in iscrizioni del V secolo). In altre parole, la pronuncia restituta non fu una bizzarria limitata alla sola area di Roma, e neppure un sogno dei linguisti, ma qualcosa di diffuso capillarmente in tutto l'Impero dei primi secoli. La sua esistenza è reale e tipica del latino standard, e non può essere smentita nemmeno se fossero mostrate sporadiche attestazioni precoci di pronunce palatali tra la plebe, che al massimo attestano l'esistenza di fenomeni fonetici di origine italica. In altre parole, la lingua latina standard era considerata prestigiosa, era conservativa ed evolveva in modo indipendente dalle sue forme volgari. Il latino che si studia a scuola in Italia ha una pronuncia detta ecclesiastica che non è quella di Cicerone e che non è un'autorità in materia di fonetica del latino classico, non più di quanto la pronuncia scolastica dell'inglese moderno possa essere di aiuto nel leggere il Beowulf.
Le prove di quanto asserito si articolano in diversi punti:
1) Epigrafia
2) Trascrizioni greche di parole latine
3) Esiti romanzi
4) Prestiti latini in lingue non romanze
Ciascuno di questi punti merita una trattazione approfondita in separata sede: sarebbe eccessivo comprimere la grande mole di dati e di ragionamenti nello spazio di un singolo post.