Lingua originale: Francese
Paese di produzione: Francia
Anno: 1951
Durata: 115 min
Dati tecnici: B/N
Rapporto: 1,37:1
Genere: Drammatico
Regia: Robert Bresson
Soggetto: Georges Bernanos (romanzo)
Sceneggiatura: Robert Bresson
Produttore: Pierre Gériu
Casa di produzione: Union General Cinematographique
Distribuzione in italiano: LUX FILM
Fotografia: Léonce-Henry Burel
Montaggio: Paulette Robert
Musiche: Jean-Jacques Grunenwald
Scenografia: Pierre Charbumier
Interpreti e personaggi:
Claude Laydu: Il curato di Ambricourt
Jean Rivière: Il Conte
Armand Guibert: Il curato di Torcy
Antoine Balpêtre: Il dottor Delbende
Marie-Monique Arkell: La Contessa
Nicole Ladmiral: Chantal
Jan Danet: Olivier
Bernard Hubrenne: Louis Dufrêty
Gaston Séverin: Il canonico
Gilberte Terbois: La signora Dumouchel
Jeanne Etievant: La donna delle pulizie
Léon Arvel: Fabregars
Martial Morange: L'assistente
Martine Lemaire: Séraphita Dumontel
Nicole Maurey: La signorina Louise
Doppiatori italiani
Gianfranco Bellini: Il curato di Ambicourt
Augusto Marcacci: Il Conte
Mario Besesti: Il curato di Torcy
Gaetano Verna: Il dottor Delbende
Giovanna Scotto: La Contessa
Miranda Bonansea: Chantal
Giuseppe Rinaldi: Olivier
Pino Locchi: Louis Dufrêty
Amilcare Pettinelli: Il canonico
Rina Morelli: La signora Dumouchel
Maria Saccenti: La donna delle pulizie
Lauro Gazzolo: Fabregars
Germana Calderini: Séraphita Dumontel
Renata Marini: La signorina Louise
Riconoscimenti:
- Premio Louis-Delluc 1951
- Gran Premio del Cinema Francese 1951
- Premio Internazionale della XII Mostra d'Arte Cinematografica
- Premio dell'Office Catholique International du Cinema (OCIC) 1951
- Premio per la miglior fotografia a Léonce-Henry Burel alla Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia 1951
Trama:
Francia rurale, plumbea e incubica. Nello spettrale villaggio di Ambricourt, nell'Artois, il nuovo parroco tiene un diario, in cui annota le sue insicurezze sulla fede che vacilla, la sua inesperienza, la sua salute declinante. È un giovane corvino e segaligno, fresco di seminario, che si mantiene con una dieta innaturale fatta di pane raffermo inzuppato in vino scadente ottenuto dal “clinto”, con l'aggiunta di zucchero; il suo massimo lusso è la minestra di patate. L'unico suo amico è il curato di Torcy, grassoccio e dal sembiante porcino, che cerca invano di convincerlo a nutrirsi in modo decente, dicendogli: “Dio non si offenderà se mangerai un buon arrosto”. Il curato di Ambricourt persiste nelle proprie abitudini, nonostante sia tormentato da forti dolori allo stomaco. L'altro consiglio del pingue curato di Torcy è prettamente politico: invita il collega a intrattenere stretti rapporti con la nobiltà, unico modo per avere sostegno. Il giovane prete non riesce a riscuotere le simpatie della popolazione. Non ottiene il rispetto delle bambine, che al catechismo si fanno beffe di lui. Fa pressioni sulla Contessa, distrutta dalla perdita dell'unico figlio maschio e da una vita di corna, cercando di convincerla della bontà di Dio. Poco dopo, la nobildonna muore all'improvviso, stremata. Gira il sospetto che la colpa sia proprio del prete che le ha estorto la conversione. Il Conte lo tratta male e non gli dà alcun aiuto per realizzare progetti strampalati come la fondazione di un “patronato dei giovani”. La figlia adolescente del Conte, Chantal, è ribelle e bramosa di godere il mondo. Il medico del paese a un certo punto si spara nel cranio. I villici, a causa del loro terrore superstizioso, fanno passare per accidentale la morte del dottore, convinti che la sola menzione della verità attrarrebbe l'ira divina. In ogni caso, tutti capiscono che è un suicidio, anche il curato di Torcy. La situazione peggiora. Ormai il curato di Ambricourt ha fama di essere un beone e voci sempre più insistenti ne chiedono l'allontanamento. Isolato, finisce col recarsi a Lilla per una visita medica. Quando sta per partire, riceve la visita della fiera Chantal, che lo affronta e lo sfida dicendogli: “farò il male per il male”. Giunto dallo specialista, riceve un brutto colpo. Si aspettava una diagnosi di tubercolosi, invece ne riceve una di cancro allo stomaco. Chiede ospitalità a un ex compagno di seminario, che si è spretato e convive con una donna. Lì trascorre i suoi ultimi giorni, spegnendosi dopo aver pronunciato le parole “Tutto è grazia”.
Recensione:
Film depressivo e suicidario, complice anche il bianco e nero opprimente. Le sequenze irradiano uno squallore esistenziale insopportabile. Il mondo descritto è di estremo interesse antropologico. Si nota che la Chiesa di Roma stava perdendo il controllo sociale anche sulle campagne. Il rapporto con la nobiltà vacillava (il Conte fa le corna, la Contessa maledice Dio, loro figlia vorrebbe vivere a Parigi e fare sesso promiscuo). La popolazione iniziava a mostrare segni di insofferenza verso il clero e la religione cattolica (le bambine che scherniscono la transustanziazione). Il dottor Delbende, erroneamente menzionato come Delbeude nella Wikipedia in italiano, si dichiara ateo mentre visita il protagonista. È un morfinomane, come molti medici dei suoi tempi. Non trovando un senso nell'esistenza, finisce con l'arrovellarsi troppo e si uccide. Di fronte a questo strappo nel tessuto della realtà, la gente è lesta a fabbricare spiegazioni inconsistenti (si era sparsa voce che il dottore trascurava l'igiene e nessuno voleva più andare da lui). Il finale mi è parso propaganda antidonatista. La voce narrante descrive i fatti, mentre lo sfondo mostra una grande croce. Spiega che il curato agonizzante ha chiesto l'assoluzione al suo ex compagno di seminario, che lo ha avvertito di avere scrupoli (temeva che il sacramento fosse inefficace a causa della sua condotta, condannata dalla Chiesa di Roma). Il moribondo quindi lo ha rassicurato con quel misterioso "Che cosa importa? Tutto è grazia".
In realtà le cose sono più complesse. Georges Bernanos (Parigi, 1888 - Neuilly-sur-Seine, 1948) era un bigotto animoso e rancido, oltre che un monarchico aggressivo. A quanto pare sognava il ritorno dell'Inquisizione e dei roghi. La sua biografia ha dell'incredibile. Furiosamente antitedesco, è stato tra gli ispiratori della Resistenza Francese. Ha sposato una discendente di un fratello di Giovanna d'Arco, sfinendola con continue gravidanze. Tra le altre cose, era un devoto di Teresa di Lisieux (1873 - 1897), carmelitana francese beatificata nel 1923 e santificata nel 1925 da Papa Pio XI. La frase “Tutto è grazia” è stata presa dallo scrittore proprio da Teresa di Lisieux, che predicava uno stato di “infanzia spirituale”, descrivibile come “abbandono a Dio”. Nel personaggio del curato di Ambricourt confluisce anche un altro santo, Jean-Marie Baptiste Vianney, noto come il Curato d'Ars (1786 - 1859), che nei lineamenti del volto rassomigliava in modo notevole a Michel Houellebecq. Cosa rende interessante Bernanos? Nonostante il suo fondamentalismo cattolico, era ossessionato dal Male ed era ben consapevole della corruzione universale. Credeva però che potesse esistere un rimedio, per l'appunto la grazia divina. I suoi personaggi sono sempre incredibilmente tormentati, tanto che sembrano dover espellere da un momento all'altro lo spirito urlante, in fiamme, fuori dal corpo dilaniato.
Riporto ora la recensione di Pietro Ferrari, ricchissima di spunti di riflessione e pubblicata sul blog Il Volto Oscuro della Storia il 28 settembre 2012:
“Dov'è la tua scintilla adesso?”
“Che cosa importa? Tutto è grazia”. Sono queste le ultime parole pronunciate, prima di morire, dal protagonista del film di Robert Bresson “Diario di un curato di campagna” (1950), ispirato all’omonimo romanzo di Georges Bernanos. Parole che esprimono un sentire diffuso. Prevale, tra i nostri contemporanei, l’idea che il male acquisti pregnanza e visibilità solo quando lo si isoli dal contesto, di cui rappresenterebbe un semplice dettaglio, funzionale, per di più, al mantenimento dell’insieme. Se “tutto è grazia”, il male – riassorbito all’interno degli insondabili schemi divini -, acquista un senso e cessa di costituire motivo di scandalo. Nel vocabolario di Luigi Giussani occupava un posto di speciale rilievo il termine “Mistero” (in maiuscolo). I suoi seguaci sono soliti spenderlo ogni qual volta le evidenze fenomeniche contraddicano la tesi della bontà soccorrevole del Creatore. “Tutto è grazia”, anche la malattia grave di un figlio, anche la prematura scomparsa di una persona cara. Per quanto apportatori di sofferenza, questi eventi possono produrre nel medio termine effetti salvifici, in primis l’accettazione del dolore in nome dell’abbandono fiducioso al volere divino.
TUTTO È GRAZIA
“Dov'è la tua scintilla adesso?”
“Che cosa importa? Tutto è grazia”. Sono queste le ultime parole pronunciate, prima di morire, dal protagonista del film di Robert Bresson “Diario di un curato di campagna” (1950), ispirato all’omonimo romanzo di Georges Bernanos. Parole che esprimono un sentire diffuso. Prevale, tra i nostri contemporanei, l’idea che il male acquisti pregnanza e visibilità solo quando lo si isoli dal contesto, di cui rappresenterebbe un semplice dettaglio, funzionale, per di più, al mantenimento dell’insieme. Se “tutto è grazia”, il male – riassorbito all’interno degli insondabili schemi divini -, acquista un senso e cessa di costituire motivo di scandalo. Nel vocabolario di Luigi Giussani occupava un posto di speciale rilievo il termine “Mistero” (in maiuscolo). I suoi seguaci sono soliti spenderlo ogni qual volta le evidenze fenomeniche contraddicano la tesi della bontà soccorrevole del Creatore. “Tutto è grazia”, anche la malattia grave di un figlio, anche la prematura scomparsa di una persona cara. Per quanto apportatori di sofferenza, questi eventi possono produrre nel medio termine effetti salvifici, in primis l’accettazione del dolore in nome dell’abbandono fiducioso al volere divino.
Fin qui i cattolici. Le devote della filosofia New Age si spingono oltre: definiscono il male una mera “distorsione percettiva”, un inganno dei sensi. Si direbbe che il loro cervello abbia subito troppi scossoni, probabilmente a causa dei molteplici amplessi consumati, riportando danni permanenti. Piaccia o non piaccia a codeste fattucchiere, il male continua ad esistere e ad infierire anche se lo si nega. Né la sua accettazione produce miglioramento alcuno nell’ordine delle cose. Una riproposizione del messaggio di Bresson è ravvisabile nel film di Terrence Malick “La sottile linea rossa” (1998). Il testamento spirituale del giovane curato di Ambricourt è raccolto e fatto proprio, inconsapevolmente?, dal personaggio interpretato da Jim Caviezel, il soldato Witt, il quale, come un alieno caduto sulla terra, si aggira stranito per il campo di battaglia, senza provare odio per il “nemico” ma solo un sentimento di struggente meraviglia al cospetto delle forme che la vita e la morte assumono nelle giungle contese di Guadalcanal. Di nuovo la “grazia”, dunque, che la natura manifesterebbe persino nella crudeltà. Si tratta di un evidente tentativo di trasfigurazione del male, volto a disinnescarne la carica perturbante. Il male non è negato ma stemperato nel più vasto enigma dell’Essere, un enigma che richiede da parte nostra, suggerisce Malick, la sospensione cautelativa del giudizio.
Pietro Ferrari
Pietro Ferrari

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