L’umanista italiano Paolo Pompilio (1455-1491) si imbatté in un uomo che gli recò notizia di una comunità nordafricana che parlava una lingua neolatina affine al sardo (Cfr. Charlet 1993; Varvaro 2000). Così scrisse nella sua opera (Notationes, Vat. lat. 2222, f° 120 r-v):
Item ex libro tertio notationum. Latinum sermonem olim promiscuum fuisse.
Caput sextum.
«Venit nuper ad urbem mercator quidam exploratae fidei a Tunete, homo Gerundensis, nomine Riaria; quem cum multa de Aphrica interrogassem, rettulit se maximam illius partem peragrasse, idque spatio triginta annorum, vidisseque in agro Capsensi regionem multis pagis habitatam, cui nomen est arabice Niczensa, et in montanis Gibel Oresc, ubi pagani integra pene latinitate loquuntur et ubi voces latinae franguntur, tum in sonum tractusque transeunt sardinensis sermonis, qui, ut ipse novi, etiam ex latino est. Regio illa quinque diariis distat ab agro Carthaginensi, ubi Tunis nunc est, ex quo latini nominis fuit Africa. Idioma hic priscum servatum est et in insula, quamvis valde corruptum».
Dal terzo libro delle osservazioni. La lingua latina un tempo era di uso comune.
Capitolo sesto.
"Di recente è venuto in città da Tunisi un certo mercante di provata fedeltà, un uomo di Gerona, di nome Riaria; quando gli ho chiesto molte cose sull'Africa, ha risposto che l'aveva girata in massima parte nell'arco di trent'anni e che aveva visto nel territorio di Gafsa una regione abitata con molti villaggi, il cui nome arabo era Niczensa, come nelle montagne del Gibel Oresc, ove i villici parlano in una latinità quasi integra e quando le voci latine si interrompono, allora passano nel suono e nei tratti al linguaggio della Sardegna che, come so, è anch'esso dal latino. Quella regione dista cinque giornate di viaggio dal territorio di Cartagine, dove ora si trova Tunisi, da cui fu l'Africa del nome latino. Questo idioma ancestrale si è conservato anche in un'isola, per quanto molto corrotto."
Lorenzini e Schirru riportano alcune considerazioni molto eloquenti in merito:
"Un’ultima considerazione: come avrebbe potuto Riaria inventarsi che l’afroromanzo somigliava al sardo? Che cosa fosse l’hanno sospettato gli studiosi moderni: TAVONI (1984, p. 301, nt. 2) cita giustamente WAGNER (1951, pp. 129-130) e TERRACINI (1957 [1936], pp. 128-131), cui si può aggiungere almeno FANCIULLO (1992). Come sarebbe potuta venire in mente a Riaria una parentela scientificamente così plausibile, se non avesse avuto esperienza diretta tanto del sardo che dell’afroromanzo?"
(Varvaro, 2000)
La domanda posta dal professor Alberto Varvaro è senza dubbio retorica: risulta evidente che l'informatore Riaria conosceva il sardo e aveva potuto notarne la grande somiglianza con l'afroromanzo. A cosa si deve questa somiglianza? Semplicemente a due fatti.
1) L'afroromanzo di cui parla Pompilio aveva un sistema vocalico comune al sardo:
a breve (ă); a lunga (ā) => a
e breve (ĕ); e lunga (ē) => e
i breve (ĭ); i lunga (ī) => i
o breve (ŏ); o lunga (ō) => o
u breve (ŭ); u lunga (ū) => u
2) L'afroromanzo di cui parla Pompilio conservava l'occlusiva velare /k/ davanti a vocali anteriori.
A mio parere è ben possibile che altre caratteristiche arcaiche contribuissero a dare questa impressione di assonanza con la lingua sarda nella sua forma più conservativa, ad esempio i plurali in -s, derivati dall'accusativo plurale latino. Tuttavia, non avendo attestazioni dirette, siamo nel campo delle ipotesi.
Così possiamo azzardarci a fornire un vocabolarietto e un paio di frasi della lingua neolatina d'Africa del territorio di Cartagine, etichettandola al momento come conlang in attesa di nuove scoperte che permettano di confrontarne i lemmi con parole reali.
aka, acqua
asnu, asino
aurikla, orecchio
auru, oro
bakka, vacca
bobe, bue
boke, voce
deke, dieci
dekembre, dicembre
Deu, Dio
diket, dice
dìkere, dire
domna, signora
domnu, signore
faket, fa
fàkere, fare
ghenuklu, ginocchio
ghenus, genere
kartu, quarto
kastru, castello
kàttoro, quattro
kella, cella
kelu, cielo
kentu, cento
kinke, cinque
kintu, quinto
kista, cesta
koket, cuoce
kòkere, cuocere
kruke, croce
linnu, legno
luke, luce
mannu, grande
nabe, nave
nibe, neve
nuke, noce
oklu, occhio
okto, otto
oktombre, ottobre
òmines, uomini
omo, uomo
pake, pace
pike, pece
piske, pesce
plumbu, piombo
porku, maiale
pullu, pollo
ribu, fiume
tauru, toro
turre, torre
issos bobes traunt issu aratru, i buoi tirano l'aratro;
issos òmines bibunt issu binu, gli uomini bevono il vino.
Faccio infine notare che nello scritto di Pompilio i parlanti neolatini sono denominati pagani, parola che nel latino classico vale "villici, paesani", senza alcuna connotazione religiosa. Ho usato questa traduzione, perché appare la più semplice e credibile. Tuttavia sussiste una certa ambiguità, avendo Pompilio scritto in epoca cristiana ed essendo la parola passibile di indicare qualcosa di diverso dagli abitanti di un villaggio. Cosa intendeva davvero l'umanista? All'epoca nella Cristianità la religione islamica era chiamata "pagana", anche se tale etichetta è una pura e semplice assurdità. L'umanista voleva forse dire che tali popolazioni, seppur di lingua neolatina, professavano l'Islam? Se la risposta fosse affermativa, quelle genti sarebbero state in origine cristiane e la loro religione ancestrale sarebbe andata perduta, a differenza della lingua. Appare troppo remota la possibilità che i parlanti neolatini non fossero mai stati islamici né cristiani, ma avessero una religione discendente in qualche modo dal paganesimo dell'antichità. A distanza di tanto tempo, è arduo capire cosa passasse per la mente dell'autore.