martedì 13 ottobre 2015

ALCUNE NOTE SULL'ETIMOLOGIA DI FINOCCHIO E DI INFINOCCHIARE

Tutti conoscono la parola finocchio "omosessuale", ma sulla sua etimologia si sono detti i più grandi spropositi. Alcuni affermano ad esempio che gli omosessuali fossero chiamati "finocchi" perché quando venivano bruciati sul rogo sarebbero stati mescolati alle fascine semi di finocchio in gran quantità, allo scopo di rendere l'agonia dei malcapitati più lenta. Per altri i finocchi aggiunti al rogo servivano invece a mascherare l'odore di carne bruciata. Orbene, non so se i semi di finocchio abbiano queste proprietà, che sono incline a ritenere fantomatiche e forgiate ad hoc dall'ignoranza del popolino per giustificare la falsa etimologia.

In un sito ho letto una larvata critica a questa paretimologia: la si riteneva improbabile perché le streghe non erano chiamate "finocchie", e non erano "finocchi" nemmeno gli eretici. La combustione sul rogo era in ogni caso una delle tante forme di pena capitale applicata ai sodomiti, non qualcosa di esclusivo. Non era l'Inquisizione ad applicare queste pene, ma l'autorità civile, il Principe. Si può anche citare il fatto che i roghi di omosessuali non dovettero essere molto comuni, specalmente dopo il Basso Medioevo. Ad esempio agli inizi del XVII secolo Campanella si lamentava dell'impunità degli atti sodomitici, tanto che nella sua Città del Sole ne auspicava una punizione congravescente: all'uomo còlto per la prima volta in flagranza di sodomia si doveva appendere una scarpa al collo, a mostrare a tutti che aveva violato l'ordine della Natura (con buona pace di cani e di altri animali che si inchiappettano dalla mattina alla sera), mentre le punizioni sarebbero state aumentate ad ogni successiva caduta, fino ad arrivare alla pena capitale.


Un'altra proposta pseudoetimologica fa riferimento a una maschera popolare. Finocchio era un personaggio della Commedia dell'Arte con caratteristiche affini a quelle di Arlecchino - di cui tra l'altro non si conosce l'attribuzione di attitudini sodomitiche. Questa è una descrizione tratta da "Opere di Pierjacopo Martello: Seguito del Teatro italiano" (1723):

"Finocchio è un rigiratore, prontissimo ad attaccarsi ancora alle paglie, per non sommergersi, ed intanto comparisce egli malizioso, ed astuto, in quanto creduli troppo color si dipingono, a quali ardisce di vendere le sue frottole; e il suo Dialetto da Montagnaro di Bergamo non è dei più belli d'Italia; arroge poi l'abito bianco, e verde, e la schiacciata Beretta, e la Maschera sua da Marmotta, cose tutte, che ajutano a riderne."


Avanzo l'ipotesi che finocchio sia semplicemente da un latino *fe:miniculus, volgare *fe:mnuclus, con lo stesso cambiamento di suffisso che si riscontra in fe:niculus "finocchio" (il vegetale), diventato *fe:nuclus e quindi finocchio, con regolare mutamento di -u- breve in -o-. Così è accaduto che *fe:mnuclus si è presto confuso con *fe:nuclus, donde l'errata credenza che l'epiteto dato agli omosessuali sia derivato dal nome dell'ortaggio. L'etimologia vera di finocchio sarebbe molto simile quindi a quella del napoletano femminiello, ma con diverso suffisso e con radice contratta. In origine il termine finocchio doveva essere usato per indicare unicamente il soggetto passivo, che subisce la penetrazione anale. Solo in epoca successiva si è avuta una confusione che ha portato la parola ad indicare ogni soggetto omosessuale, anche quello attivo.

A chi farà notare che la parola finocchio "omosessuale" è abbastanza recente, dirò che spesso le parole sono come fiumi carsici che riaffiorano all'improvviso dopo secoli di silenzio. È possibile che il termine si sia formato in una zona ristretta e rurale della Toscana, passando a lungo inosservato, e che solo in seguito si sia diffuso fino a diventare comune in tutta Italia. La sua natura popolare è indubitabile. Chi non ricorda le furiose reazioni di Pacciani alle accuse di sodomia? "Finocchio io?" sbottò, "Io che ho avuto rapporti con più di 500 donne?"

Esiste un'altra parola a parer mio corradicale di finocchio: il verbo infinocchiare "imbrogliare". Anche qui non sono mancate etimologie fallaci. È diffusa l'idea di una derivazione di infinocchiare dalla supposta usanza (ovviamente priva di qualsiasi documentazione reperibile) degli osti di servire il vino cattivo con i finocchi, perché il finocchio avrebbe la proprietà - ancora una volta fantomatica - di far sembrare buono anche il vino più scadente. Non manca chi attribuisce al finocchio il potere di mascherare il sapore del cibo cattivo o non più fresco. Ad avere proprietà aromatiche sono i semi del finocchio, che trovano ad esempio impiego nella preparazione di alcuni salumi. Non è che abbiano la capacità di far rinvenire la carne rancida: il loro sapore è di anice ed è intensissimo, al punto che copre qualsiasi altro sapore. Non si imbroglia qualcuno propinandogli del cibo che sa di anice, perché l'aggiunta dell'aroma in questione è riconoscibile all'istante. 




In realtà infinocchiare è inseparabile da finocchio "omosessuale passivo": il significato d'origine è "sodomizzare" o meglio "rendere omosessuale passivo tramite intrusione anale": era diffusa l'idea che se un uomo viene penetrato nell'ano diventi automaticamente omosessuale - e penso che questo pregiudizio non sia ancora del tutto estinto. Un parallelo è il verbo inculare usato col senso di "imbrogliare", particolarmente diffuso in Lombardia. Anche buggerare ha la stessa semantica: in origine alludeva alla penetrazione anale. In gran parte della Romània, dal subire l'intrusione di un fallo nel retto all'essere ingannati il passo è breve. Se infinocchiare ha trovato spazio nei dizionari mentre finocchio nell'accezione di "effeminato" è stato a lungo ignorato, è perché i compilatori pensavano che il verbo derivasse dal nome della pianta senza avere connotazioni sessuali di sorta, e non coglievano quindi nel suo uso alcunché di sconveniente - mentre la menzione dell'omosessualità era ritenuta sconveniente. Del resto i benpensanti non hanno mai capito che cappellata "errore madornale" deriva da cappella nel senso di "glande", non dalla cappella da cui esce il Papa.

Ricostruisco così una forma verbale *infe:mnucla:re "rendere effeminato, sodomizzare", derivata da *fe:mnuclus, *fe:miniculus. Vediamo così che *fe:miniculus spiega in modo chiaro due parole: finocchio e infinocchiare. Invece le false etimologie popolari non riconoscono l'origine unica delle due parole e si inventano storielle mirabolanti che non rendono conto di nulla.

giovedì 8 ottobre 2015

I RINOGRADI, ANIMALI FANTASTICI CHE CAMMINAVANO CON IL NASO




Titolo: I rinogradi di Harald Stümpke e la zoologia fantastica
Autore: Massimo Pandolfi 
Anno: 1992
Lingua: Italiano
Genere: Zoologia
Sottogenere: Fantazoologia, fantabiologia
Editore: Franco Muzzio Editore
Collana: Scienze Naturali Testi
Data uscita: 01/1992
Pagine: 152 pagg.
Formato: Illustrato
Curatore: Massimo Pandolfi
Altri contributi: Stefano Benni, Giorgio Celli, Marco Ferrari,
     Alessandro Minelli, Aldo Zullini 
Codice ISBN: 88-7021-485-0
Codice EAN: 9788870214857
Traduttore (fantomatico): A. von Hardenberg

Tutto ebbe origine dall'impresa dello svedese Einar Pettersson-Skämtkvist, prigioniero di guerra dei Giapponesi, che nel 1941 riuscì a fuggire e raggiunse un arcipelago sconosciuto del Pacifico Meridionale, sbarcando sull'isola chiamata dagli indigeni Hiduddify (Aidadaifi). Queste isole, le Hi-iay (il cui nome è a volte trascritto Hi-yi-yi o Aiaiai), erano state completamente separate dalle più vicine masse continentali fin dal Cretaceo, e per questo avevano evoluto una fauna priva di connessioni con alcunché di noto. La scoperta sensazionale di Pettersson-Skämtkvist fu un ordine di mammmiferi fino ad allora del tutto sconosciuto: i Rinogradi (Rhinogradentia), detti anche Nasuti, così battezzati per via del naso, sviluppatissimo e fornito di tutta una serie di funzioni mai viste in altri organismi viventi. Tra questi usi non convenzionali del naso, si menzionano la deambulazione e la caccia. L'ordine dei Rinogradi fu diviso in due grandi generi, corrispondenti a due diverse linee evolutive: da una parte i Monorrini (Monorrhina), provvisti di un'unica appendice nasale, dall'altra i Polirrini (Polyrrhina), provvisti di molteplici appendici nasali. L'antenato comune, speculò lo studioso svedese, doveva essere un minuscolo mammifero affine al toporagno. 


Nell'introduzione scritta da Gerolf Steiner agli scritti di Harald Stümpke, che trattano in dettaglio questi argomenti, si legge:

"L'ordine dei Rinogradi ha particolare importanza poiché in esso compaiono principi strutturali, moduli comportamentali e tipi ecologici a noi sconosciuti non solo per i mammiferi ma per i vertebrati in genere."

Questi sono i generi dei Rinogradi:

Monorrhina:

Archirrhinos
Rhinolimacius
Emunctator
Dulcicauda
Columnifax
Rhinotaenia
Rhinosiphonia
Rhinostentor
Rhinotalpa
Enterorrhinus
Holorrhinus
Remanonasus
Phyllohoppla
Hopsorrhinus
Mercatorrhinus
Otopteryx
Orchidiopsis

Liliopsis

Polyrrhina:

Nasobema
Stella
Tyrannonasus
Eledonopsis
Hexanthus
Cephalanthus
Mammontops
Phinochilopus
Larvanasus
Rhizoidonasus
Nudirhinus

I Rinogradi non erano tra l'altro le uniche meraviglie della fauna locale: esistevano numerosi insetti endemici, vere e proprie reliquie del Paleozoico, e persino un bizzarrissimo uccello-megafono.


L'arcipelago delle Hi-iay era abitato da una piccola e pacifica popolazione umana, gli Hooakha-Hutchi. Sulle loro lingua non si sa nulla: a parte gli impenetrabili e complessi toponimi non risulta nemmeno una lista di parole del lessico di base che possa valere a spiegarne misteri ed eventuali parentele; dato l'assoluto isolamento di quelle genti, c'è da aspettarsi che parlassero una lingua del tutto priva di somiglianze con qualsiasi altra. È scritto che la popolazione aborigena fu colpita da una spaventosa epidemia di raffreddore dopo i primi contatti con Pettersson-Skämtkvist, estinguendosi in breve tempo senza lasciare tracce. Trovo a dir poco sorprendente che gli etnologi e i linguisti non abbiano potuto raccogliere alcun dato utile, né abbiano mostrato a quanto pare alcun interesse a farlo. Lapidario il commento dello stesso Steiner su questi misteriosi aborigeni: 

"Gli abitanti dell'arcipelago - scrive ancora lo zoologo Stümpke - sono ormai estinti per colpa del raffreddore, introdotto involontariamente dall'evaso svedese."

In pratica, oltre al nome dell'arcipelago e all'endoetnico delle genti aborigene ci restano quasi soltanto i nomi delle diciotto isole, scritti in una rudimentale ortografia anglosassone: 

Annoorussawubbissy 
Awkoavussa 
Hiddudify 
Koavussa 
Lowlukha 
Lownunnoia 
Mara 
Miroovilly 
Mittuddinna 
Naty 
Nawissy 
Noorubbissy 
Osovitissy 
Ownavussa 
Owsuddowsa 
Shanelukha 
Towteng-Awko
Vinsy. 

I dati sono davvero troppo scarsi per cercare di ricostruire qualcosa di sensato: evidentemente lo scopritore (e involontario sterminatore) della popolazione locale non ebbe nemmeno il tempo di raccogliere informazioni sensate prima che accadesse l'irreparabile. Si nota che diversi nomi di isole terminano in -issy o in -ussa, ma non sappiamo attribuire una funzione a questi morfi. Oltre ai toponimi di cui sopra, sono stato in gradi di reperire nel Web il nome nativo di un rinogrado, il Nasobema lyricum: honatata.

 

Per 16 anni, le Hi-iay furono visitate in gran segreto da biologi specializzati nello studio dei Rinogradi, tanto che vi venne fondato un nuovo ramo della zoologia: la Rinogradologia. Allo scopo di studiare in modo approfondito i bizzarri animaletti, furono create istituzioni scientifiche in gran numero, ovviamente in un tale clima di riservatezza che in nessuna parte del mondo il pubblico ha potuto usufruire della benché minima fuga di notizie. 

Nel 1957 una catastrofe improvvisa si abbatté sulle isole Hi-iay, spazzandole via e cancellandone ogni traccia: l'esplosione di un ordigno nucleare di inusitata potenza, esploso a centinaia di chilometri di distanza, ha provocato uno tsunami imponente. Come per coincidenza, tutti i rinogradologi del pianeta Terra si trovavano nell'arcipelago proprio in quel frangente per un congresso internazionale, perendo nel modo più misero assieme all'intero ecosistema locale. Un'unica testimonianza dell'esistenza dei Rinogradi riuscì a scampare allo spaventoso disastro: si tratta di un manoscritto dello zoologo tedesco Harald Stümpke, ex curatore del museo dell'Istituto Darwin di Hi-iay. Il prezioso testo è stato rielaborato e pubblicato dal dottor Gerolf Steiner, professore di Zoologia dell'Università di Heldelberg. In Italia è stato pubblicato col titolo "I Rinogradi di Harald Stümpke e la zoologia fantastica". Oltre allo stesso Steiner, il volume contiene interessanti interventi sulla zoologia alternativa, ad opera di personaggi di spicco del mondo accademico e della narrativa: Stefano Benni (scrittore), Giorgio Celli (professore ordinario di Tecniche di lotta biologica, Università di Bologna), Marco Ferrari (biologo e giornalista scientifico), Alessandro Minelli (professore ordinazio di Zoologia, Università di Padova), Massimo Pandolfi (professore incaricato di Ecologia, Università di Urbino), Aldo Zullini (professore ordinario di Zoologia, Università di Milano). 

Qualcuno si chiederà a questo punto come mai non gli sia mai giunta voce dei Rinogradi e delle isole Hi-iay. Ebbene, riporterò la verità in modo molto semplice: si tratta di parti della fantasia, creati proprio dal professor Gerolf Steiner da Heidelberg. L'arcipelago delle Hi-iay non è mai esistito, così come non sono mai esistiti i Nasuti, e neppure gli aborigeni Hooakha-Hutchi. Non c'è mai stato nessun maremoto provocato da un folle esperimento nucleare americano all'origine dello sprofondamento in stile atlantideo dell'arcipelago immaginario. Eppure sappiamo che alcuni membri del mondo accademico hanno abboccato e hanno creduto alla veridicità delle creazioni di Steiner. Nonostante i dettagli anatomici dei Rinogradi siano assolutamente improbabili, la cosa non ha impedito a qualcuno di prendere tutto molto sul serio. Se vogliamo, possiamo dire di trovarci di fronte a una vera e propria truffa scientifica. Poco importa che le intenzioni dello stesso Steiner fossero bonarie, goliardiche e persino edificanti, volendo egli sensibilizzare le genti sul tema del drammatico declino della biodiversità: il meme dei Rinogradi e delle isole Hi-iay è stato inoculato nell'immaginario del genere umano. 

Mettiamoci ora nei panni di un complottista. In tempi in cui si parla tanto di Rettiliani, in cui riemergono antiche teorie sulla Terra piatta, sulla Terra cava di hitleriana memoria, e addirittura sulla Terra cubica dei Monty Python, non sorprenderà se qualcuno si metterà ad elucubrare, producendo una razionalizzazione di questo tipo: "Le Hi-iay e i Rinogradi sono davvero esistiti, il Governo degli USA è davvero responsabile della loro distruzione e ha insabbiato tutto, mettendo poi in giro la voce che sia stata tutta un'invenzione". Come confutare questo meme? Sarò molto schietto: richiederebbe uno sforzo ciclopico e non convincerebbe nessuno. Mostrare che i geni coinvolti nella formazione del naso del toporagno non potrebbero mai produrre appendici nasali tanto specializzate e in alcuni casi fornite persino di scheletro e di articolazioni, trascende le mie conoscenze di genetica e richiederebbe uno studio che non ho il tempo di intraprendere. Anche se riuscissi nell'impresa, a che servirebbe? Farebbe desistere qualcuno dalla propagazione memetica? No, perché nessun lettore convinto dell'esistenza dei Rinogradi acquisirebbe le necessarie conoscenze di genetica solo allo scopo di leggere una confutazione. Allora è meglio lasciar perdere, tanto si tratta di una masturbazione mentale abbastanza innocua. 

Intanto vengo a scoprire la possibile esistenza di rinogradologi annidati nell'Unità di Analisi e Gestione delle Risorse Ambientali dell'Università dell'Insubria, come parrebbero mostrare i seguenti documenti:


giovedì 1 ottobre 2015

ALCUNE RIFLESSIONI SULLA NATURA DELL'INFINITO

Riporto in questa sede un breve estratto di un interessantissimo articolo, Il destino ultimo dell'universo, pubblicato da Marco Marchetti sul sito del Planetario di Ravenna, planet.racine.ra.it

"Una definizione dell'infinito afferma che l'infinito è sempre più grande del più grande numero che noi riusciamo ad immaginare. Secondo lo scrivente questa definizione è un po' fuorviante perché l'infinito non è semplicemente qualcosa di molto grande, immensamente grande o talmente grande da sfidare qualsiasi immaginazione: l'infinito è qualcosa di concettualmente diverso."

"Immaginiamo un tempo infinito; qualunque evento abbia una sia pur minima probabilità di avvenire prima o poi avverrà. Per esempio, avendo a disposizione un tempo infinito, una scimmia che batta a casaccio i tasti di una tastiera di un personal computer finirà con lo scrivere tutte le opere di Manzoni; inoltre ciò non avverrà una sola volta bensì infinite volte." 

"Immaginiamo adesso un universo spazialmente infinito. La probabilità che esista un'altra Terra con una copia di noi stessi è incredibilmente bassa ma non nulla. Quindi, in un universo di estensione infinita, esiste sicuramente una copia della Terra con una copia di tutti noi che, in questo momento, stanno facendo esattamente ciò che stiamo facendo noi. Ma di queste copie non ne esisterà una sola bensì infinite. Ma non è finita qui perché, continuando il ragionamento sulle probabilità, dovranno esistere sì infinite copie della Terra con infinite copie di noi stessi che stanno facendo esattamente le stesse cose che stiamo facendo noi ma anche inifinite copie della Terra con infinite copie di noi stessi che stanno facendo tutto ciò che avremmo potuto o voluto fare e non abbiamo mai fatto."

"C'è davvero da perderci la testa. Purtroppo c'è chi l'ha persa (sic) sul serio poiché il primo grande studioso dell'infinito, il matematico tedesco George Cantor (Georg Ferdinand Ludwig Philipp Cantor, 1845 - 1918), ha chiuso i suoi giorni in una clinica psichiatrica." 

Sembra tutto perfetto, ma in realtà non lo è. Analizziamo dunque la questione.

1) Le battiture della scimmia non sono casuali.

La conformazione anatomica della mano della scimmia, la natura degli impulsi elettrici nella corteccia cerebrale che danno inizio ai movimenti dell'animale, così come la distribuzione dei tasti sulla tastiera con lo schema usuale "qwerty", fanno sì che non possa sussistere una distribuzione di lettere compatibile con la fonotattica di una qualsiasi lingua del globo terracqueo. La stringa "esfwefefwefgefewfew" è un caratteristico esempio di produzione quando a premere i tasti è un umano, secondo uno schema apparentemente casuale, ma in realtà indotto dalla natura degli impulsi motori, della mano e della tastiera. I movimenti della mano utili a produrre testi sensati o comunque leggibili sono talmente complessi che le probabilità di applicazione in caso di battitura casuale sono nulle. In altre parole, per produrre testi come "afaweffaedfgadsfaw" e per produrre testi come "la luna sorge all'olimon e i palmipedon neppur" si applicano schemi drasticamente diversi e incompatibili. Se prendiamo un qualsiasi intervallo di tempo t contenuto nell'eternità numerabile, e dividiamo ognuno di questi intervalli di tempo t in un numero n di sottointervalli ti (con 1 ≤ i ≤ n) contenenti, mettiamo, cento battute ciascuno, le probabilità di ottenere un testo sensato in un numero sufficiente di questi sottointervalli t sono nulle. Se anche ammettessimo che una parola breve come "con", "naso" possa con bassissima probabilità uscire, le probabilità che due o più sottointervalli ti contigui possano contenere un testo sensato in una qualsiasi lingua formato a partire da quelle parole decrescono in modo drastico fino ad azzerarsi. La ripetizione di simili risultati anche per l'intera eternità non porterà così ad alcuna sequenza razionale. Non soltanto non ne usciranno tutte le opere del Manzoni, ma non ne uscirà nemmeno l'imprecazione di un guappo. 

2) Le battiture realmente casuali danno risultati incompatibili con la struttura di una lingua sensata. 

Ammettiamo adesso che si riesca a far sì che le battiture della scimmia siano davvero casuali. Ebbene, le cose non cambierebbero poi tanto. Ogni battuta sarebbe infatti priva di correlazione con la precedente e con la seguente, così le probabilità che ne possa uscire un lumgo testo anche solo di apparenza articolata - per non dire sensato - è non soltanto prossima allo zero, ma esattamente nulla. La causa è la sproporzione tra consonanti e vocali, unita all'assenza di un legame tra le successive occorrenze delle lettere: se anche una serie di estrazioni desse come risultato qualche parola sensata in qualche lingua, questa modalità di formazione delle parole non potrebbe essere mantenuta abbastanza a lungo per produrre una frase, figuriamoci l'opera di un qualsiasi autore. La probabilità di un testo sensato crollerebbe drasticamente al crescere delle parole sensate contigue, fino a diventare zero.

L'inganno della mente, come mostrato tra gli altri anche da Steven Pinker, porta gli esseri umani a ritenere casuali sequenze che hanno una causa precisa, e per contro a ritenere dotate di causa le sequenze casuali. Paradigmatico è il caso delle larve luminescenti che vivono sulle pareti di una grotta o la distribuzione delle stelle nel cielo. Una sequenza casuale di lanci di una moneta, in cui "testa" ricorre quattrodici volte e "croce" soltanto due è ritenuta truccata, mentre una sequenza composta da una o due occorrenze "testa" e di "croce" che si alternano con regolarità, causata da monete truccate, è ritenuta casuale. 

Nel famosissimo e meritorio libro La Storia Infinita di Michael Ende, è descritta la Città degli Imperatori, un luogo dove umani svuotati di ogni volontà lanciano dadi sulle cui facce ci sono lettere anziché punti, sotto la direzione di una terribile scimmia che non li fa smettere mai, pretendendo di ottenere, in un tempo infinito, tutte le storie concepibili da mente umana. Così argomenta la Scimmia (strano caso che ci sia sempre un primate coinvolto nei ragionamenti sull'Infinito), che dopo migliaia di anni il lancio continuo dei dati porta alla composizione di qualche parola articolata. Non cose dotate di grande senso, ma perlomeno comprensibili: parole come SALAMEDIPERE, e via discorrendo. Si può capire che la Scimmia è una grande ingannatrice.

Teorema della Città degli Imperatori
   a) Enunciato. Se si associa l'estrazione di una lettera dell'alfabeto a un evento casuale, come il lancio di una serie di dadi sulle cui facce sono incisi caratteri, gli accostamenti delle lettere prodotte da una serie di eventi danno origine a sequenze che riflettono la preponderanza delle consonanti rispetto alle vocali e non la struttura fonotattica di una qualsiasi lingua umana.  Non soltanto: stando alla scimmia della Città degli Imperatori, dovremmo vedere, in un tempo successivamente lungo, tutti i testi concepibili in qualsiasi lingua. Quindi anche in lingue le cui parole hanno una struttura semplicissima ma fortemente peculiare, come il giapponese antico e il protobasco. Peccato che i vincoli fonotattici di tali lingue siano talmente rigidi da azzerare le probabilità. 
   b) Dimostrazione. Il risultato di un'estrazione è scorrelato da quello del lancio successivo, e questo impedisce la formazione di schemi nelle sequenze generate. Lo stesso principio vale anche nel gioco d'azzardo: non esiste alcuna correlazione tra due lanci di dadi. In altre parole il detto "più giochi più vinci" è una deplorevole baggianata. Naturalmente, uno può sempre cercare un testo in una sequenza sufficientemente lunga di lettere estratte. Per esempio, se voglio trovare la parola EKUPETARIS, che ricorre sulla tomba di un principe dei Veneti di epoca preromana, non dovrò fare altro che prendere la prima E in cui mi imbatto, procedere scartando tutte le lettere seguenti finché non trovo una K, reiterare la procedura cercando una U, e così via. Questo però non è esattamente ciò che la scimmia della Città degli Imperatori intende: sono io ad avere già in mente un testo e a cercarlo, non l'azione di estrazione dei dadi a produrlo. Allora posso fare lo stesso prendendo una copia della Bibbia, fissando una raccontino pruriginoso su Moana che pratica la fellatio all'intero Collegio Cardinalizio e procedere scartando lettere fino a ritagliarla.

3) La storia di un pianeta non è un semplice giochetto con la macchina da scrivere o con i dadi. 

Si dimostra che la formazione e l'evoluzione di un pianeta, e la sua storia nel corso delle epoche, non sono il semplice prodotto di operazioni elementari come la battitura di un testo o l'estrazione di dadi con lettere. è il prodotto dell'azione di un numero immenso di particelle atomiche e subatomiche e delle loro distribuzioni probabilistiche. La "spaventosa azione a distanza", che terrorizzava Einstein, si è dimostrata un dato di fatto scientificamente provato. Pensare che ogni singolo organismo possa duplicarsi in una storia parallela, con gli stessi movimenti, identici, che defechi allo stesso identico modo stronzi identici nel corso di milioni di anni, per arrivare a una storia umana identica in cui ogni atto sessuale è avvenuto allo stesso identico modo, è una palese assurdità. Si tratta di eventi di una tale impressionante complessità che la loro ripetizione ha probabilità nulla. Così non si daranno mai due fiamme identiche, due vortici identici, due genomi identici in persone che non siano cloni o gemelli omozigoti. L'autore del testo sull'Infinito è a quanto sembra un meccanico classico che non è in grado di comprendere il concetto di Caos.

venerdì 25 settembre 2015


LO SPECCHIO E LA PISTOLA

Regia e Sceneggiatura: Alberto Rizzi
Montaggio: Luigi Recanatese
Regista: Alberto Rizzi
Produttori: Seautòs Produzioni 
Sceneggiatore: Alberto Rizzi 
Fornitore: Alberto Rizzi
Interprete: Riccardo Braggion

Anno: 2009
Durata: circa 4 min.
Tratto dall'omonimo racconto di Alex Tonelli.


Trama e recensione: La spettrale narrazione post mortem di un suicida quantistico, che come l'ombra di una distribuzione probabilistica aleggia nella stanza e rivede continuamente quel colpo di pistola che perfora il cranio del suo corpo che fu - atto che ha reso possibile la transizione a qualcosa che non è cessazione dell'essere, ma non è neppure vita. A parer mio non si tratta una forma di rinascita o di una seconda possibilità, come potrebbe credere chi è legato a un'ottica materialistica, ma di qualcosa di gran lunga peggiore della pura e semplice scomparsa nel Nulla. Immaginate lo sfarfallio di un segnale audio disturbato da un fruscio di fondo, che riverbera senza fine parvenze di pensiero...    

Punti oscuri: L'autore del racconto è un carissimo amico, che colgo l'occasione di salutare. Ho assistito alla presentazione del corto a Stienta, nel 2010. Sono rimasto molto sorpreso quando ho appreso che secondo altri il racconto da cui è stato tratto sarebbe invece "Creature del buio e del silenzio" di Mauro Ferrari. Non sono mai riuscito ad appurare a cosa si debba questa singolare confusione. 

Una considerazione: La cosa che più mi ha innervosito quando ho visto il corto la prima volta è stata di certo quella bottiglia di whisky non finita.

martedì 22 settembre 2015


LA PELÍCULA DEL REY

Titolo originale: La película del Rey
Aka: A King and His Movie; C'era una volta un re
Lingua originale: spagnolo
Paese di produzione: Argentina
Anno: 1986
Durata: 107 minuti (versione in inglese: 97 minuti)
Colore: colore
Audio: sonoro
Genere: drammatico, biografico  
Regia: Carlos Sorín
Aiuto regista: Miguel Fernández Alonso, José Luis Ambrosio,
   Gumersindo Rama, Cristian Pauls
Produttore: Axel Pauls, Perla Liechtenstein, Gustavo Sierra,
   Ezequiel Ábalos, Carlos Sor
ín Cine S.A.
Produttore esecutivo: Axel Pauls
Sceneggiatura: Carlos Sorín, Jorge Goldenberg
Scenografia: Margarita Jusid
Costumi: Margarita Jusid
Musiche: Carlos Franzetti
Fonico: Bebe Kamin
Fotografia: Esteban Pablo Courtalón
Montaggio: Alberto Yaccelini
Distribuzione: Motion Pictures

Interpreti e personaggi:
  
Ulises Dumont: Arturo
   Julio Chávez: David Vass
   Villanueva Cosse: Desfontaines
   Roxana Berco: Lucía
   Ana María Giunta: Madama
   David Llewelyn: Lachaise
   Miguel Dedovich: Oso
   Marilia Paranhos: Lulu (Lula) 
   Ricardo Hamlin: Maxi
   Eduardo Hernández: Rosales
   Rubén Patagonia: Quillapán
   Rubén Szumacher: interprete
   César García: Bonanno
   Carlos Rivkin: Rogelio
   Sergio Raso: assistente
   Alicia Curmona: assistente
   Marcela Luppi: truccatrice
   Fernando Bravo: giornalista
   Diego Varzi: sottosegretario
   Susana Tanco: Laura
   Monica Tosser: segretaria
   Victoria Lustig: artigiana
   Rubén Santagada: annunciatore
   Omar Tiberti: Antonio
   Susana Sisto: donna
   Guillermo Schaft: figlio
   Jesus Berenguer: gestore
   Felipe Méndez: gestore
   Iván Grey: padre
   Hilda Rey: madre
   Jorge Vela: rappresentante
   Aldo Piccioni: rappresentante
   Floreal Briasco: fotografo
   Pablo Castro Videla: assistente
   Roberto Pagés: giornalista
   Martín Coria: istruttore
   Jorge Goldenberg: tecnico
   Saúl Salvo: tecnico
   Carlos Urquiza: tecnico 
   Carlos Laterza: imitatore
   Victor Catalano: attore
   Alfredo Quesada: attore
   José Gramatico: vicino
   Juan José Valera: parrucchiere
   Diego Frasán: assistente
   Manuel Morales: elettricista
   Luisina Brando

Trama:
Il film narra la storia di David Vass, un regista di Buenos Aires ossessionato che tenta di fare un resoconto epico delle gesta dell'avventuriero francese Orélie-Antoine de Tounens, che nel XIX secolo si proclamò Re di Patagonia e di Araucania. Vass incontra gravi ostacoli, ma il principale problema è trovare l'attore perfetto per interpretare il Re. Tutti gli attori professionisti che si presentano sono ritenuti inidonei e respinti, tanto che alla fine Vass cerca per la strada. Trova una specie di hippie e riesce a convincerlo ad accettare la parte. Assembla il cast e si prepara ad andare in Patagonia per girare il film. Tuttavia il suo produttore si ritira dal progetto e fugge all'estero con i soldi. Vass rimane senza soldi per pagare il suo staff. Gli attori abbandonano il progetto, e Vass è ancora una volta costretto a cercare i suoi attori per la strada. Dopo una serie di disavventure, il cast si dissolve. Il regista, lasciato da solo e senza mezzi, sprofonda in uno stato di irrealtà e non intende abbandonare, così decide di interpretare lui stesso la parte del Re, effettuando le riprese usando manichini per dare vita alle scene più spettrali del film.

Recensione:
A tratti surreale e capace di esprimere un intenso senso della desolazione. Particolarmente significativa è la scena in cui lo studioso anziano, che si è aggiunto al cast perché capace di parlare la lingua dei Mapuche (nel film chiamati Araucani), si trova finalmente davanti a discendenti di tale popolo e cerca di iniziare una breve conversazione. Si accorge però che quelli non lo ascoltano nemmeno e che lo guardano straniti come se fosse un pazzo, dando segno di non ricordare più la lingua dei loro Padri e di non saperla neanche riconoscere. Così lo studioso crolla e le lacrime gli rigano gli occhi. "Questo mondo non ha cuore", singhiozza, e un'anziana prostituta è la sola che cerchi di consolarlo. Tutto ciò mi è rimasto impresso. L'Oblio che cancella ogni cosa, che la rende irriconoscibile. Se non vado errato, Pirandello diceva che qualcuno è morto non quando il suo cuore non batte più, ma quando non è più in grado di riconoscere se stesso e le cose che lo circondano. 
 
Produzione:
Un precedente progetto sullo stesso tema fu avviato in Argentina nel 1979, con il titolo La Nueva Francia. Diretto da Juan Fresán e Jorge Goldenberg (che compaiono nel cast de La Película del Rey), il film  non è mai stato concluso per una serie di complessi motivi, tra i quali la mancanza di fondi. Gli attori principali furnon Goran Nicolic, Rubén Falbo, Bernardino Rivadavia e Bertha Dreschler. Nel 1984 l'argentina Narcisa Hirsch diresse un mediometraggio girato in 16 mm, intitolato Orelie Antoine, rey de la Patagonia. Un altro progetto, sempre argentino, risale al 1988, a pochi anni dopo di quello della Hirsch. Questo film, mai girato, avrebbe dovuto essere prodotto da Lita Stantic col contributo di capitali tedeschi, francesi e italiani e si sarebbe dovuto intitolare Yo Antoine de Tounens, rey de la Patagonia.

EL TOPO

Titolo originale: El Topo
Lingua originale: spagnolo
Paese di produzione: Messico
Anno: 1970
Durata: 125 minuti
Colore: colore
Audio: sonoro
Genere: western
Regia: Alejandro Jodorowsky
Soggetto: Alejandro Jodorowsky
Sceneggiatura: Alejandro Jodorowsky
Produttore: Juan López Moctezuma,
     Moshe Rosemberg, Roberto Viskin
Fotografia: Rafael Corkidi
Montaggio: Federico Landeros
Musiche: Alejandro Jodorowsky, Nacho Méndez
Scenografia: Alejandro Jodorowsky
Costumi: Alejandro Jodorowsky

Interpreti e personaggi:  
 Alejandro Jodorowsky: El Topo
 Brontis Jodorowsky: Miguel, il figlio di El Topo
     (da piccolo)
 Mara Lorenzio: Mara
 Jacqueline Luis: la nana
 Robert John: Miguel, il figlio di El Topo
     (da grande)
 Paula Romo: la donna in nero
 David Silva: il colonnello
 Alf Junco: bandito del colonnello
 Gerardo Zapeda: bandito del colonnello
 Alfonso Arau: bandito del colonnello
 Federico Gonzales: bandito del colonnello
 Vincente Laura: bandito del colonnello
 Héctor Martínez: il Primo Maestro
 Juan José Gurrola: il Secondo Maestro
 Víctor Fosado: il Terzo Maestro
 Agustín Isunza: il Quarto Maestro
 Bertha Lomelí: la madre del Secondo Maestro

Premi:
 Ariel Awards, Mexico 1972
 Avoriaz Fantastic Film Festival 1974

Trama e recensione:

Un film western allegorico, bizzarro, ultraviolento e onirico. In spagnolo El Topo è la Talpa. Come si dice nella presentazione, la Talpa è un animale che scava le sue gallerie nel buio e quando arriva alla luce diventa cieco. Il film è diviso in due parti che sono spesso interpretate come complesse metafore dell'Antico e del Nuovo Testamento.

Nella prima metà, El Topo, un violento pistolero in abiti neri interpretato dallo stesso Jodorowsky, vaga nel deserto accompagnato dal suo figlio nudo. El Topo e il figlio giungono in un villaggio messicano la cui popolazione è stata sterminata: la strada è un fiume di sangue che scorre tra i cadaveri. A compiere l'eccidio sono stati gli uomini del Colonnello, un bandito megalomane che si è insediato in una missione francescana. I frati, ridotti in schiavitù, vengono abusati in modo atroce e sodomizzati dai malviventi. El Topo sconfigge il Colonnello e servendosi del coltello lo evira. Il Colonnello, nudo e castrato, per l'umiliazione si suicida sparandosi un colpo in bocca. Il viaggio di El Topo prosegue solitario: egli pensa bene di lasciare il figlio alle cure dei frati. Dopo aver a lungo vagabondato nel deserto con una donna salvata da un abietto rapporto col Colonnello, El Topo viene da lei istigato a sfida a duello quattro Maestri Zen. Li uccide uno dopo l'altro, ma per farlo ricorre ogni volta all'inganno e al tradimento. Quando si rende conto di ciò che ha fatto, il dolore è talmente lacerante che si innesca in lui una terribile crisi. Distrugge la sua pistola. Intanto la sua amata lo lascia per andare con un'altra donna, una dominatrice che l'ha sedotta sferzandola e leccandole il sangue colante dalle ferite. Gli eventi precipitano: El Topo viene colpito dalla sua ex, che gli scarica il revolver nello stomaco. Tuttavia si accorge di essere incapace di morire.   

Nella seconda metà del film, El Topo si risveglia dopo un lunghissimo sonno rigeneratore nelle viscere di una montagna cava. In quelle spelonche vive una comunità ctonia di emarginati resi deformi da generazioni di incesti. Sono persone spesso affette da nanismo e da rachitismo, che si nutrono di insetti ed anelano ad uscire alla luce del sole. El Topo si accorge presto di essere rinato con un nuovo aspetto: le sue chiome e la sua barba, un tempo corvine, sono ora di un color fulvo splendente. Purtroppo si fa radere completamente in una sorta di rito di passaggio, giungendo ad essere pelato come un bonzo. La sua nuova compagna è una nana che si è presa di lui durante il suo lungo sonno. Pensa di aver trovato la pace e si dà molto da fare per scavare un tunnel che permetta alla popolazione di giungere in superficie. Non riuscirà tuttavia ad eludere nuove terribili prove. Insieme alla sua compagna esce dalla montagna cava. I due si ritrovano in una città di gringos governata da una terribile setta massonica che ha fatto tappezzare ogni edificio con il suo emblema: la Piramide con l'Occhio Onniveggente. Questi settari, che per certi versi ricordano il Ku Klux Klan, commettono crimini spaventosi. Fanno marchiare gli schiavi con ferri roventi e sparano nella schiena dei fuggiaschi. Sotto una patina di ipocrisia nascondono ogni sorta di aberrazione. El Topo e la nana per vivere sono costretti ad elemosinare e a fare lavori umilianti. Arrivano persino a copulare in un bordello clandestino, e in questa occasione lei rimane gravida. Volendosi sposare, vanno in chiesa, ed è allora che El Topo si trova davanti suo figlio, che è un frate francescano. Gli eventi precipitano e finiranno in una spaventosa carneficina.   

I simbolismi sono talmente intricati da costituire una selva geroglifica. Si potrebbe parlarne per mesi. Le tombe dei Quattro Maestri; la religione superstiziosa degli adepti della Massoneria-KKK; il frate figlio di El Topo che preso dalla disperazione toglie l'enorme simbolo dell'Occhio Onniveggente dalla parete della chiesa dietro l'altare, scoprendo la Croce; il bambino che prende la pistola di un uomo durante una roulette russa collettiva e si spara finendo col cranio scoperchiato: tutte queste cose non si dimenticano facilmente. Potrei continuare, ma sarebbe inutile. Consiglio a tutti la visione di questo capolavoro assoluto. 

Trailer: 

Pubblichiamo il link al trailer del film su Youtube: 


martedì 15 settembre 2015

I PREFISSI NELLA LINGUA PALEOSARDA RICOSTRUITA: MARCATORI DEL SECONDO TIPO

Chiamo marcatori del secondo tipo alcuni prefissi in uso nella lingua paleosarda che si prefiggono a radici inizianti per consonante, salvo alcune eccezioni. Questi elementi si comportano in modo decisamente diverso dai marcatori di primo tipo già analizzati. 

1) Prefissi in consonante alveolare:

Presentano due varianti essenziali: una iniziante per T- e un'altra, chiaramente un allomorfo, iniziante per TZ-. Non in tutti i casi è chiaro quale delle due forme sia la più antica. Il vocalismo è incerto e può dipendere - anche se non sempre - dalla vocale tonica della parola a cui si aggiungono i prefissi. Questo tipo di prefisso non comporta alterazioni del vocalismo della radice a cui si prefigge.
Così abbiamo:

TA-, TZA-
TE-, TZE-
TI-, TZI-
TU-, TZU-

Questi elementi sono tuttora vivi nella lingua sarda neolatina, dove si ritrovano prefissi sia a resti del sostrato preromano che a parole di chiara origine latina. In sardo le varianti in tz- si scrivono solitamente come th-, esprimendo ormai un suono fricativo interdentale.   

Esempi di prefissi applicati a parole sarde di origine latina:

thi-ghinisa "cenere incandescente"
       < lat.
cinus 
thi-likerta "lucertola"
< lat. lacerta(m)  
th-ukru "collo" < lat. iugulu(m)
th-únniu "fungo" < lat. fungu(m)

Esempi di prefissi applicati a parole sarde di origine paleosarda:

thi-likukku, tza-lakuka "gongilo
        (un lucertolone)" 
thi-lingrone "lombrico" (1)
thi-lipirke "locusta" 
thu-lurthis "biscia d'acqua" (2) 

(1) Variante senza prefisso: lingrone "individuo allampanato"; altre forme molto lontane foneticamente potrebbero essere ricondotte a diverse radici.  (2) Varianti su-lurzi (con articolo romanzo) e lúrtsis, lircis (senza prefisso). 

Non è sempre facile in questi casi separare il lessema originario e ricostruirlo in modo corretto, anche perché spesso si presentano forme problematiche e molto complesse, come ad esempio: 

thilibríu "nibbio"
thurulía "poiana" 

tzarantzula "tarantola"
tzintzimureddu "pipistrello"
tzurrundeddu "pipistrello"

Frequenti sono le interferenze tra lemmi nativi e voci neolatine. Così sospetto che tzintzigorru, sitzigorru "chiocciola" risenta della voce neolatina corru, gorru (< lat. cornu:), che non ha nulla a che vedere con il paleosardo GORRU "rosso"

Possibili spiegazioni: le posizioni di Blasco Ferrer e di Pittau

Blasco Ferrer non riconosce la natura paleosarda di questi prefissi e aderisce alla teoria di molti romanisti, che vedono in tali formazioni nient'altro che agglutinazioni delle parole latine (di origine greca) thi:u(m) "zio" e thi:a(m) "zia". Accolgo senza dubbio le obiezioni di Pittau a una simile posizione, che mi pare inconsistente con l'impostazione di uno studioso come il Blasco Ferrer, che non è certo affetto da Horror Praeromanus e che tanto ha contribuito a chiarire la natura della lingua paleosarda. Una tale analisi è infatti tipica di persone che si fanno in quattro per negare qualsiasi realtà anteriore all'arrivo della lingua latina, spiegando a forza Omero con Omero.

Così si sintetizza la posizione di numerosi romanisti, adottata da Blasco Ferrer: 

1) Le parole latine thi:u(m) e thi:a(m) sono all'origine dei prefissi sardi;
2) La motivazione dell'uso di tali parole è totemica ed esprime aspirazione alla caccia o timore;
3) Esistono in dialetti dell'Italia meridionale e centrale forme tabuistiche in apparenza analoghe come ciammaruca "lumaca" < lat. *thi:am eru:ca(m); zimmadonna "chiocciola" : it. *Zia Madonna; zalaura "lupo" : it. *Zia Laura.

Così si sintetizza la posizione di Pittau: 

1) I vocabili thiu e thia in sardo non elidono mai le vocali -u, -a davanti a consonante, ma il solo thiu lo fa davanti a vocale;
2) Non si ha la benché minima documentazione di forme abbreviate *thu e *tha.
3) I prefissi si trovano con specie di animali che non sono mai state prede ambite o oggetto di timore; 
4) Si trovano questi prefissi anche con alcuni nomi inanimati, come il barbaricino ta-ni'ele "coso" per nikele id. (trascritti taniqele e nichele dal Pittau).

Aggiungerei alle considerazioni del Pittau anche il fatto che le forme tratte da dialetti meridionali e centrali sono argotiche e di natura diversa da quella delle forme sarde. Non si ha mai qualcosa come *thi:u(m) lupu(m) per esaugurare il lupo: si ricorre a un eufemismo di natura diversa (un nome proprio femminile). Anche ciammaruca non sarà tanto da *thi:am eru:ca(m), quanto piuttosto da *Zia Maria Ruca.

La soluzione offerta da Pittau a questi gravi difficoltà è il paragone con il pronome dimostrativo etrusco ta, arc. ita: i prefissi paleosardi sono da lui interpretati come articoli che si sarebbero poi cristallizzati perdendo la loro originaria funzione. La cosa mi pare sospetta, anche perché i sostantivi neolatini derivano quasi sempre da accusativi, e all'accusativo l'etrusco ta fa tn. Se le parole in questione fossero entrate nel latino volgare da una lingua affine all'etrusco, è molto probabile che avrebbero conservato un elemento nasale come antica desinenza dell'accusativo fossile. 

La teoria dell'origine berbera

Non va nascosto che esistono anche romanisti che accettano l'origine neolatina dei prefissi in questione, ma li ritengono di origine berbera e li utilizzano nel tentativo di ricondurre la popolazione isolana a un sostrato africano. Il prefisso berbero utilizzato per il paragone è il ben noto marcatore femminile ta-:

a-fullus, fullus "pulcino" < lat. pullus
ta-fullus-t "gallina" 

Va detto però che dall'analisi della parole sarde, non si evince affatto un uso di questo prefisso per marcare parole di genere femminile in opposizione a parole di genere maschile: l'ipotesi, basata su un'assonanza e contraddetta dai dati di fatto, è quindi da respingersi. Wagner, le cui conoscenze di berbero erano alla meglio fragili, credeva che vi esistesse un fantomatico prefisso maschile *tu- opposto al femminile in ta-, mentre invece nella realtà il prefisso maschile è a-.  

2) Prefissi in consonante velare: 

Per alcune parole che in molte varietà di sardo neolatino si hanno prefissi in dentale, esistono anche forme che presentano invece un prefisso in consonante velare, a volte palatalizzata: 

ka-
ci- /tʃi-/
 

Così abbiamo in campidanese per thi-likerta:

ka-lixerta
ci-lixerta  

Si dovranno quindi ricostruire le seguenti forme paleosarde: 

KA-
KI-

È lampante il fatto che questi prefissi non possono essere ridotti artificiosamente a thi:a(m). Pittau riterrebbe di certo questo prefisso confrontabile con il pronome dimostrativo etrusco ca, arc. ika; non mi risulta tuttavia che lo studioso barbaricino abbia trattato queste forme nel suo sito.

3) Prefissi in vocale:

Si danno casi di parole sarde con antichi prefissi in vocale agglutinati. Questi sono: 

a-
u-

Esempi:

a-tzanda "papavero", rispetto a tzanda id.
u-kau "gabbiano", rispetto a kau, kaone id.

Il prefisso u- non sembra mostrare alcuna vitalità, mentre il prefisso a- ha la proprietà di aggiungersi spesso ai prefissi in dentale per dare una sequenza a-tza- (a volte dissimilata in an-tza-) o at-ta-.
Ricostruiamo quindi i corrispondenti prefissi paleosardi: 

A-
U-

Ancora una volta, sembra che questi elementi non alterino in alcun modo il significato delle parole a cui sono aggiunti: non è facile capire la loro antica funzione.

Considerazioni finali

A parer mio la natura di tutti questi elementi non è chiara. In una fase molto antica del protobasco dovevano esistere simili marcatori, di cui restano oggi pochissime tracce.

In un caso particolare possiamo ricostruire tale situazione in basco: 

urki, burk(h)i "betulla" - varianti: turki (vizcaino di Zigoitia), epurki (Gipuzkoa, arc.) 

La situazione che si ricostruisce è questa: 

*burki, *te-burki 

L'occlusiva dentale sorda t- del prefisso è quindi sparita nella maggior parte dei dialetti; in questo modo *te- si è mutato in e-. Respingo l'idea di Michelena, che postulava un'improbabile assimilazione da burki a *gurki, passando poi a *kurki e quindi provvidenzialmente dissimilando in turki. Una spiegazione contorta che postula una serie di mutamenti non usuali. La mia spiegazione invece riduce a una sola origine le forme turki ed epurki.

In aquitano, una forma antica di basco e in pratica una varietà di protobasco, si danno casi di conservazione dell'antico T- accanto a forme in H-

TALSCO-, HALSCO- : basco haltz "ontano" + -ko
TARBEL-, HARBELEX : basco harbel "ardesia" (lett. "pietra nera")

In particolare TARBEL- deve essere da *TA-HAR-BEL-, con successiva contrazione. 

Ho una domanda da porre sia al Blasco Ferrer che al Pittau, e spero che non cada nel vuoto. Quanto visto per le fasi più antiche del basco e per l'aquitano è poi così diverso dalla situazione dell'attuale sardo?

lunedì 14 settembre 2015

I PREFISSI NELLA LINGUA PALEOSARDA RICOSTRUITA: MARCATORI DEL PRIMO TIPO

Numerose radici paleosarde, a prima vista enigmatiche, vengono comprese non appena si capisce che sono formate a partire da radici ben note tramite aggiunta di prefissi. Chiamo marcatori del primo tipo i prefissi in uso nella lingua paleosarda, che si prefiggono a radici inizianti per vocale. Ce ne sono diversi:

a) prefisso B-, con variante M-
b) prefisso D-, con variante L-
c) prefisso G- d) prefisso N- (raro)
e) prefisso S- 
f) prefisso TZ- 

Non sempre è evidente la funzione di questi elementi, che in alcuni casi modificano il significato della parola a cui si aggiungono. In non poche occasioni potrebbero tradursi come se fossero antichi articoli agglutinati, anche se non sappiamo bene che sfumature esprimessero. Occorre anche stare attenti a non separare consonanti che fanno in realtà parte di una radice, dando luogo a fraintendimenti, dato che il paleosardo, così come il protobasco, aveva un gran numero di parole omofone o quasi omofone.

Così abbiamo le seguenti derivazioni:

1) da ARANA = valle

Senza chiara modifica del significato:
G-ARANA = la valle
   Toponimi derivati:
   G-ARAU-NELE = la valle nera.

Con modifica del significato:
M-ARANA = fenditura
M-ARA-GONI < *M-ARAN-GONI = masso con fenditura.
Il vocabolo maragoni "crepaccio" vive tuttora nel sardo neolatino e non può certo essere ricondotto a mara "stagno, palude".

2) da ARDAULE, ARDIULE = lana

Senza chiara modifica del significato:
S-ARDULE = la lana
   Toponimi derivati:
   S-ARDUL-AI = alla lana, luogo della lana 
 

3) da ILI = villaggio

Con possibile modifica del significato: 
G-ILI = presso il villaggio
   Toponimi derivati:
   G-ILI-ARTZ-AI = alla pietraia presso il villaggio
   G-IL-ISTI = la palude presso il villaggio    G-ILI-ORRO = il fogliame presso il villaggio 

4) da IRI = paese

Senza chiara modifica del significato:
B-IRI = il paese
    Toponimi derivati:
    B-IRI-A = al paese, verso il paese
    B-IRI-AI = al paese
G-IRI = il paese
    Topomimi derivati:
    G-IRI-AI = al paese
    G-IR-IL-É = del villaggio del paese
    G-IR-ITZO = paese freddo
    G-IR-ITZ-OL-AI = alla capanna del paese freddo

5) da ISA = acqua, flusso d'acqua

Senza chiara modifica del significato:
B-ISI = il flusso d'acqua, il rivolo
     Toponimi derivati: 
     B-ÍS-INI = luogo del rivolo

L-ISA = il flusso d'acqua, il rivolo
   Toponimi derivati:
      L-IS-ORG-ONI = il buon flusso del ruscello   

6) da ISTI = fango, palude

Con possibile modifica del significato:
G-ISTI = presso la palude
    Toponimo derivato:
    G-IST-ORR-AI = al fogliame presso la palude

7) da ITILE = acquitrino

Con modifica del significato:
B-ITILE = luogo dove le bestie si abbeverano
  Sardo neolatino: bidíle
I romanisti hanno proposto la derivazione di questa parola da un fantomatico latino volgare *bibiti:le, formato male e mai esistito.

Con possibile modifica del significato:
G-ITILE = presso l'acquitrino
Toponimi derivati:
     G-ITILE (antico GITIL) = presso l'acquitrino

8) da ITZO = brina, gelo

Con modifica del significato:
B-ITZO, B-ITZI = rio freddo, acqua fredda
    Toponimi derivati:
    B-ITZ-ITZ-AI = alle acque fredde 
       (con collettivo collettivo -ITZA = basco -tza,
       -tze
; attestato come Vithithai)
    B-ITZI-KORO = acque fredde rossicce
        (oggi Bissicoro)
    B-ITZO-NELE = acque fredde scure
        (attestato come Bissonele)

9) da OBI = caverna, fossa, tana 

Con possibile modifica del significato:
G-OBI = presso la caverna, la fossa, la tana

     Toponimi derivati:
     G-ÓB-OLO = la capanna presso la caverna
         (oggi Gòvolo)
     G-OB-OS-AI = alla fonte presso la caverna
         (oggi Govosai)   
 

10) da ORGA = fonte

Senza chiara modifica del significato:
D-ORGA = la fonte
   D-ORG-ONE = buona fonte
   D-URGU-DEI = la fonte bianca
   D-URG-UI = alla fonte
G-ORGA = la fonte
   Toponimi derivati:
   G-ORG-ONI-AI = al colle della fonte
M-ORGA, M-URGA = la fonte
   Toponimi derivati:
   M-ORG-OL-AI = alla capanna della fonte
   M-URG-ULI-AI = alla capanna delle fonte
N-ORGA = la fonte
   Toponimi derivati:
   N-ORG-ERI = il paese della fonte
S-ORGA = la fonte
   Toponimi derivati:
    S-ORG-ONO = colle della fonte
TZ-URGA
= la fonte

Composti e derivati:
D-ORGA-LI, D-ÓRGA-LE = trogolo, canalone 
   Sardo neolatino:
      dúrgalu "trogolo"
TZ-URGA-LE = trogolo, canalone 
   Sardo neolatino:
      túrgalu, thúrgalu "trogolo";
      thurgále "pantano, luogo acquitrinoso" 
TZ-URG-USA = sedanino
   Sardo neolatino: 
      thurgusa
, urgusa "sedanino".
Queste forme sarde sono tratte da Pittau, ad eccezione di urgusa, che è riportata da Blasco Ferrer. 

È interessante notare che Pittau, che pure critica questa procedura di analisi, a suo dire arbitraria, riporta poi parole che ne danno conferma. Così egli arriva a tradurre il toponimo Sorgono con "abbeveratoio" a partire da parole sarde come sorgonada "lungo sorso" e sorgonare "tracannare". Un'associazione con latino sorbi:re, da lui proposta per spiegare questi dati, è senza dubbio da rifiutarsi. 
Ciò è perfettamente consistente con la parentela protobasca:

S-ORG-ONO (1), lett. "colle o base della fonte"
S-ORG-ONO (2); lett. "(atto di) bere a fondo" 
dove il suffisso -ONO equivale a basco oin "piede, base".

Blasco Ferrer reputa che il prefisso S- sia l'articolo neolatino sardo su < lat. ipsu(m), ma non mi sento di sottoscrivere questa ipotesi. Tra l'altro esiste anche una località chiamata Su Sorgono.

11) da ORTU = valle

Senza chiara modifica del significato:
B-ORTU, B-URTU = la valle
   Toponimi derivati:
   B-ORT-OL-AKE = le capanne della valle
   B-URT-EI = alla valle
   F-URT-EI = alla valle (/f/ è una bariante di /b/)
G-URTU = la valle
  Toponimi derivati:
  G-URT-EI = alla valle 
M-ORTU = la valle
  Toponimi derivati:
  M-ORTU-NELE = valle nera
  M-ORT-URU-NELE = acqua nera della valle

12) da OSA = fonte

G-USA = la fonte
   Toponimi derivati:
   G-US-UN-ÍE = al colle presso la fonte 
B-OSA, B-USA, M-OSA = pozzo. 
   Toponimi derivati:
   B-US-AKE = i pozzi


13) da OSTO = fogliame

Con possibile modifica del significato:
G-OSTO, G-USTO = presso il fogliame
Toponimi derivati: 
   G-OST-OL-AI = alla capanna presso il fogliame
   G-UST-OSP-ENE = del nasturzio presso il
      fogliame

Si noterà che il paleosardo è molto attento a non formare nello stesso modo derivati dalla parola corradicale ORRI "foglia, fogliame": si ingenererebbe infatti grave confusione con una diversa radice, ossia GORRI, GORRU, GURRI "rosso".

14) da URA, URI  = acqua

Con possibile modifica del significato:
G-URI = presso l'acqua
    Toponimi derivati:
    G-UR-UI = luogo presso l'acqua
TZ-URRU = getto d'acqua
TUT-T-ÚRRI-KE = rivolo 
    Parole sopravvissute in sardo:
    tzurru, thurru, turru, ciurru "zampillo"; tuttúrrihe
    "rivolo"
.
Si noti la rotica intensa. Malgrado la somiglianza fonetica di certi esiti sardi, questa forma va tenuta ben distinta da TURRI "fonte" (basco iturri id.).

15) da USSU, USSI = bosco, selva

Senza chiara modifica del significato: 
B-USA = selva, macchia.

Nella sua pagina Toponimi della Sardegna meridionale, Pittau riporta le seguenti forme sarde: busa, usa "macchia, grosso cespuglio" (Illorai, Bolotana). Non è chiaro il perché della differenza della sibilante rispetto a USSU e derivati. A causa di questo non sarà sempre facile distinguere la forma paleosarda dal quasi omofono B-USA "pozzo", allomorfo di B-OSA.  

Secondo Blasco Ferrer, queste formazioni sarebbero alterazioni arbitrarie dovute a una tendenza dell'antica lingua degli abitanti dell'isola di prefiggere consonanti alle parole per evitare che iniziassero per vocale, come è avvenuto nel sardo neolatino b-essire "uscire", etc. A parer mio si tratta invece di residui di qualcosa di molto antico che è andato quasi perduto in basco e che si è in parte conservato in paleosardo. La giustificazione addotta da Blasco Ferrer circa l'irrilevanza di queste consonanti prefisse è la seguente: "I prefissi non sono di regola ammessi nelle lingue agglutinanti". Quanto questo assunto sia falso lo dimostra l'esistenza stessa del ceppo delle lingue del Nord Caucaso (orientali e occidentali), ricchissime di prefissi che servono a classificare i sostantivi in diverse categorie (ad es. animati, inanimati, femminili, etc.).

Lo stesso basco, oltre ai ben noti prefissi verbali, conosce relitti di formazioni tramite prefissi fossili che a parer mio presentano affinità con quelli incontrati nell'analisi dei toponimi paleosardi. Ecco alcune tipologie: 

1) Il prefisso reduplicativo m- in formazioni espressive come le seguenti:
handi-mandi "persona pomposa", derivato da handi
     "grande"

hizka-mizka "spettegolando"
, derivato da hitz
    "parola"
;
ikusi-makusi "vedo-vedo (gioco infantile)", derivato
    da ikusi "vedere".

2) Il prefisso m- in formazioni come le seguenti:
magal "ala", derivato da hegal "ala";
mako "gancio", derivato da kako "gancio";
madari "pera", derivato da udari "pera".  

3) Il prefisso tx- /tʃ/ che si trova in alcune varianti di parole inizianti per i-:
txenara "rondine", variante di enara "rondine"
txingude
"incudine", variante di ingude "incudine"
    < lat.
txingurri "formica"
, variante di ingurri "formica".

4) Altri prefissi in sibilante, s- e z-:
saltza "ontano" da haltza "ontano"
sokal "riccio di castagna" da akal "vuoto (detto di
    castagna)"

zenbor "tronco d'albero" da enbor "trondo d'albero"

5) Il prefisso e-, i-, che marca molti infiniti verbali, compare anche nella formazione di sostantivi e aggettivi:
eile "lana", variante dialettale di ile "lana"
eiloba "nipote"
, variante dialettale di iloba "nipote"
ipete "obeso", derivato da bete "pieno"
itsu arri "pietra focaia", variante dialettale di
     suharri "pietra focaia"

Osservate poi le varianti del basco ospel "luogo ombroso", forme che i vasconisti ritengono "espressive" e che non indagano a fondo:

mospel
nospel
suspel
 

Ci aspetteremmo, anche se non mi risultano attestate, forme paleosarde corrispondenti, che sarebbero perfette in ogni dettaglio:

M-ÓSPILE
N-ÓSPILE 
S-ÚSPILE

Quanto riassunto in questo articolo conferma il valore della toponomastica nativa della Sardegna nel progresso della conoscenza delle caratteristiche più oscure e misteriose della lingua basca, rinnovando l'auspicio che in futuro la nostra capacità di indagine della preistoria linguistica europea sia accresciuta in modo sostanziale.