martedì 5 luglio 2016

GLI AQUITANO-RENANI: UNA COMUNITÀ AQUITANA TRAPIANTATA IN GERMANIA

Hagenbach è una piccola città della Renania-Palatinato (Rheinland-Pfalz), in Germania. In apparenza un centro abitato come tanti, che attualmente conta circa 5.300 abitanti. L'importanza di Hagenbach è tuttavia immensa per via dei reperti archeologici che vi sono stati scoperti. Si tratta di un gran numero di iscrizioni funerarie e votive di epoca romana, incise su placche d'argento (palmae argenteae). Sono state ritrovate durante i lavori di dragaggio di un ramo morto del fiume. La cosa di per sé non sarebbe così eccezionale, se non fosse che i nomi dei dedicanti che si leggono su molte di queste lamine sono tipici di un'area molto lontana da quella che all'epoca dell'Impero era la Germania Superiore. Infatti per trovare il luogo di provenienza ultimo di quegli antroponimi dobbiamo andare fino in Aquitania: sono riconoscibili a colpo d'occhio le radici basche della lingua aquitana, senza la minima possibilità. Il vasconista Joaquín Gorrochategui, dell'Università del Paese Basco (Universidad del País Vasco), ha dedicato uno studio all'argomento:   

J. Gorrochategui (2003), “Las placas votivas de plata de origen aquitano halladas en Hagenbach (Renania-Palatinado, Alemania)”, Revue Aquitania 19, 25-47.

So quanto il Web possa mostrarsi avaro di informazioni, a dispetto dell'opinione corrente: in non pochi casi gli accademici si rifiutano di rendere pubbliche conoscenze che appartengono per diritto all'intero genere umano, forse per una loro sordida e meschina indole, simile a quella del Gollum che rimirando l'anello continua a biascicare: "Il mio tessoro!" 
Lungi da me l'idea di attribuire nello specifico questa inclinazione proprio al valido Gorrochategui, ma sta di fatto che quando un navigatore cerca qualcosa di concreto, spesso si trova nell'impossibilità di ottenere risultati concreti ed è costretto a vagare da un sito insostanziale a un altro, trovando solo riferimenti. Per fortuna esiste un sito che riporta, nel corpus delle iscrizioni aquitane, anche le iscrizioni di Hagenbach: 


Nulla è stabile in questo mondo: si sono dati molti casi di siti Web venuti meno all'improvviso e mai ripristinati. Così raccolgo le iscrizioni che ho potuto reperire e le pubblico in questa sede: 

DOMINO / MA<R>TI AVG(usto) / IVLIAN-/NVS BIOXXI / FILIVS / DONVM SOLVIT / (Votum) S(oluit) L(ibens) M(erito)  

D(omino) MARTI / BEREXE / SEMBI / FILIA / vac / V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito)  

D(omino) MAR-/TI AVG(usto) / IVLIA-/NVS BIOX-/XI FILIVS / V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito)  

D(omino) M(arti) / AND-/OS | LEVRI-/SI / vac / vac / vac / V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito)  

D(omino) M(arti) / XALI-/NVS / SALI-/XI / vac / vac/ vac / V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito)  

VERECV[N]-/DV(s)  BELE-/XI  

D(omino) M(arti) / AND-/OSSVS / OBBELLEXXI   

D(omino) M(arti) / XEM-/BVS / BAM-/BIXXI / V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito)  

MARTI / VOTVM  rev.: CIVRXOS / DOXXI  

V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito) / D(omino) M(arti) / BAM-/BIX-/XVS / SEM-/BEOC-/CI  

SEVE-/RVS IVALLIS 

D(omino) M(arti) / BONXV(s) SE-/MBEDO-/NIS // IVLI / L  

SILIXIV[S] / CARER-/DONIS / D(omino) | M(arti) / V(otum)  

XEMB-/ESVS / HISSI / D(omino) M(arti) / [---] V(otum) S(oluit) L(ibens) / M(erito)   

DOMINO / MA<R>TI | A<V>GVSTO / [I]VLIVS / BONN-/OXVS / vac / V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito) 

D(omino) MAR-/[TI] A<V>GV(sto) / BONXV(s) / [-]ONNI / [F]ILIVS/ [V(otum) S(oluit)] L(ibens) M(erito)  

CERE-/CO TE-/SSEB-/ARI / V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito)  

IVLIANA HANDOS DOMINI M(arti) V(otum)  

AMOIII /// MATI  

ANDOSSVS BANBIXXI  

VICTORIS SEMBI // VICTORIS  

Gli accademici sono inclini a ritenere che queste lamine d'argento risalgano al III secolo d.C. e che siano originarie di Lugdunum Convenarum (nella regione pirenaica, oggi Saint-Bertrand-de-Comminges). Per spiegarsi la loro presenza in una regione tanto distante, ipotizzano che siano finite in Germania come frutto di un bottino di guerra predato nel corso di una devastante spedizione della popolazione alemannica in pieno territorio aquitano. Questa ipotesi è stata suggerita anche dal ritrovamento di un secondo tesoro a Neupotz, un luogo non distante da Hagenbach, e al fatto che numerosi oggetti mostrino una provenienza diversa, dalla Gallia Celtica alla Belgica e all'Elvezia. Nel tentativo di comprendere come mai le lamine argentee si trovassero sul fondo di un fiume, gli studiosi hanno fatto ricorso alla loro sfrenata fantasia: gli Alemanni fuggiaschi, inseguiti dai Romani, si sarebbero liberati dello scomodo tesoro - forse per paura di essere incriminati dall'Ispettore Clouseau :) 

Respingo senza indugio questa ricostruzione dei fatti. Senz'altro il III secolo fu per Roma un'epoca traumatica funestata da numerosi sconvolgimenti. Il regno di Gallieno è considerato da alcuni - ben a ragione - come il punto più basso della decadenza dell'Impero, in cui tutto era in procinto di rovinare. Proprio verso l'anno 260, all'incirca l'epoca in cui gli accademici collocano l'importazione delle lamine d'argento in Germania, avvenne un fatto molto significativo: l'abbandono degli Agri Decumates, che Gallieno non poté più difendere dalle continue incursioni degli Alemanni. Ci si dimentica tuttavia di un fatto: l'Impero Romano fu una realtà cosmopolita, e lo fu addirittura in misura maggiore dell'Europa moderna. Non è affatto necessario postulare eventi traumatici per spiegare reperti come quelli di Hagenbach. Gli Aquitani in Renania dovevano essere una comunità formatasi ben prima della decadenza di Roma, partendo dallo stanziamento di legionari. Una volta terminato il servizio, questi militari anziché fare ritorno nella loro terra d'origine, rimanevano in quella a cui erano stati destinati. Anziché prendere con sé donne locali, dovettero far giungere in Germania le loro famiglie, abitando in quartieri propri. La realtà che si costituì dovette durare a lungo e mantenere la propria identità. Trovare riferimenti storici precisi non è poi così difficile. In Germania Superiore era tutto un pullulare di militari la cui lingua nativa era aquitana: in quella terra abbiamo notizia della COHORS I AQUITANORUM BITURIGUM, della COHORS I AQUITANORUM VETERANA (attestata nel I secolo d.C. proprio in Renania-Palatinato), della COHORS II AQUITANORUM EQUITATA (attiva già nel I secolo d.C.) e di altre ancora. Negli stessi luoghi dovevano vivere anche immigrati dalla Celtica e dall'Elvezia, il che spiega la natura composita dei reperti. Ad esempio abbiamo attestazione della COHORS I HELVETIORUM. Se diamo un'occhiata ai movimenti e agli stanziamenti di coorti e legioni nelle varie parti dell'Impero, rimaniamo disorientati. Vediamo Taifali nella Gallia Celtica e in Britannia, Aquitani in Britannia e in Rezia, Asturi e Traci in Germiania Inferiore, Lusitani in Pannonia e in Palestina, Iberici in Dacia, Sardi in Mauretania e via discorrendo. La presenza di un fante della Cohors I Aquitanorum Veterana è attestata addirittura ad Ancyra (attuale Ankara)!  

Il fatto che il tesoro di Hagenbach fu trovato in un ramo morto del Reno non è poi così misterioso: doveva essere parte della dotazione di un tempio di Marte che finì con l'essere distrutto da folle di fanatici cristiani, che gettarono nel fiume ogni reliquia pagana. Non vale nemmeno l'obiezione di chi pensa che i profanatori del tempio avrebbero fuso l'argento e l'avrebbero riutilizzato: si sa che i Cristiani ritenevano contaminati i tesori dei templi pagani. Così si sono trovate monete sparse sul pavimento di mitrei devastati, che nessuno si sognava di raccogliere e di usare, dal momento che erano credute proprietà del Diavolo. In altre parole, sono esistiti partigiani della nuova religione che non attribuivano validità alcuna al detto pecunia non olet.

L'ENIGMATICA DEA NEHALENNIA. UN TEONIMO AQUITANO?


In alcune regioni settentrionali dell'Impero Romano era assai popolare il culto della Dea Nehalennia. Tradizionalente ritenuta di origine germanica, in quanto fiorente nella regione del Reno affacciata sul Mare del Nord, questa devozione era tuttavia diffusa anche nella Gallia Belgica, in particolare tra il popolo celtico dei Morini (dalla parola celtica more "mare"). La notorietà di questa divinità raggiunse regioni molto lontane, grazie ai marinai e ai mercanti che le affidavano le loro vite e le loro merci. Si sono trovati altari che riportano ex voto e dediche anche da parte di persone native della Gallia Celtica e della regione alpina, come ad esempio il marinaio Vesigonius Martinus, che era cittadino dei Sequani e viveva a Vesontio (oggi Besançon), il mercante Placidus figlio di Viducus, cittadino di Rotomagus (oggi Rouen), Publius Arisenius Marinus, liberto di Publius Arisenius e mercante in Britannia, e Marcellus da Augusta Raurica (oggi Augst, in Svizzera), che ricopriva la carica di sevir augustalis della città.

Nel territorio oggi conosciuto come Zelanda, alle foci del Reno, della Mosa e della Schelda, il culto sopravvisse alla caduta dell'Impero d'Occidente: ci è noto un santuario di Nehalennia che si trovava nell'isola di Walcheren e che fu distrutto da San Willibrord, nel 694 d.C. La scoperta dei suoi resti nel luogo oggi noto come Domburg avvenne dopo quasi un millennio, nel 1645, e fece scalpore.

L'iconografia della Dea Nehalennia è densissima di simboli e di significati esoterici, connessi senza dubbio con il suo ruolo di guida dei viandanti e di protettrice dai pericoli del mare. Era spesso rappresentata con in mano un remo e accompagnata da un cane benigno, che nelle credenze dei devoti doveva fungere da psicopompo: si pensa che si trattasse di un segugio. Si trovano spesso altri attributi nautici, come ad esempio la prora di una nave, oltre a un canestro pieno di mele, che presso i Germani erano connesse con l'idea della vita eterna. A volte al posto delle mele sono rappresentate delle pagnotte. Per associazione di idee, si pensa subito a una divinità ben conosciuta del pantheon nordico: la Dea Iðunn, che ha come principale attributo un cesto di mele, frutti a cui gli Asi devono la loro immortalità. Con ogni probabilità alla radice di queste figure femminili c'è uno stesso mito neolitico. 

Detto ciò, non esiste alcuna etimologia germanica plausibile per il nome di Nehalennia. Si è voluto connettere questo nome di divinità femminile al protogermanico *no:w-, *naw- "nave", presente ad esempio in norreno nór "nave", Nóatún "Recinto delle Navi" (dimora di Njǫrðr), naust "rimessa di navi", oltre che nell'anglosassone nōwend "marinaio" (-o:- è il naturale sviluppo germanico di IE -a:-). Tuttavia si vede bene che non quadra assolutamente né il vocalismo (non esiste alcuna variante indoeuropea in cui la radice compaia con -e-) né il consonantismo (se la -h- è etimologica, non si capisce come possa essersi formata in una lingua germanica, dato che dovrebbe risalire a indoeuropeo -k-). Dove è finito l'elemento labiale -w- che si trova in latino navis /'na:wis/ e in greco ναῦς? O si ammette una lingua indoeuropea del tutto diversa, con mutamenti fonetici del tutto peculiari, o si deve ritenere che la radice da cui Nehalennia ha formato il suo nome sia tutt'altra. Si deve menzionare anche il tentativo di derivare il teonimo da una radice germanica quasi omofona di quella che indica la "nave": si tratta di *naw- "morto, cadavere", che ha esiti in diverse lingue del gruppo (gotico naus, norreno nár, anglosassone nēo) ma che a mio avviso è un relitto di sostrato. Paralleli si trovano nelle lingue slave e baltiche. Le difficoltà già analizzate si ripropongono una per una. Se i germanisti hanno ipotizzato una connessione con le radici protogermaniche per "nave" o per "cadavere", è altrettanto vero che sono stati superficiali e frivoli, evitando di tracciare il quadro dei complessi (e inverosimili) mutamenti fonetici necessari.

Non hanno avuto maggior fortuna coloro che propongono un'origine celtica: si vede che Nehalennia può esser gallico come maccheroni è inglese. Oltre al fatto che la -h- sarebbe ben enigmatica anche in questo caso, al pari del vocalismo. Nelle lingue celtiche storiche un fonema aspirato /h/ non sussisteva affatto, e se ne trovava traccia soltanto nelle forme più antiche di questa varietà, dove deriva da indeuropeo /p/. Es. l'antico nome della Foresta Nera, Hercynia Silva, la cui radice celtica è dall'IE *perkw- "quercia", donde anche latino quercus (con assimilazione pkw). 

Varie etimologie-paccottiglia sono state elaborate non vano tentativo di spiegare il nome della divinità. Solo per fare un esempio, fu fatto il tentativo di identificare grossolanamente il nome con il greco Νέα Σελήνη (Nea Selene) "Nuova Luna", cosa impossibile già per motivi fonetici. Uno studioso secentesco olandese, Marcus Zuerius van Boxhorn, cercò addirittura di far risalire Nehalennia alla lingua degli Sciti, senza arrivare da nessuna parte, potendo contare su metodi filologici ben scarsi. Pur essendo stato tra i primi ad accorgersi della somiglianza tra il latino, il greco, le lingue germaniche, il persiano e altre - e il primo a postulare la loro origine da una lingua comune, che chiamò "scitico" - i suoi argomenti hanno un sapore decisamente prescientifico. Nehalennia per lui era semplicemente l'olandese "Nat Eiland", ossia "Isola Umida", e nella sua disquisizione grossolana cercava di dimostrare tra l'altro che il francese sarebbe stato una lingua germanica. Una gran congerie di confusione, dubbi ed errori. Non si trova nelle lingue indoeuropee della Persia alcun parallelo credibile.  

Il teonimo non ha l'aria di essere riconducibile a lingue indoeuropee attestate nella regione del Mare del Nord. I casi sono due: o è un relitto preceltico e pregermanico, che documenta una lingua locale più antica e sconosciuta, oppure è stato importato da fuori in epoca imperiale. Avanzo l'ipotesi che il teonimo sia aquitano e che derivi da una radice *ne(h)al- non sopravvissuta in basco, con un tipico suffisso genitivale in -eN che continua nel genitivo basco attale -en. Essendo i vocaboli baschi inizianti in n- ben rari già nella lingua antica, è ben plausibile che la radice sia entrata da una lingua di altro ceppo, il che renderebbe conto della sua stranezza. Tuttavia il suffisso ci indica che il teonimo ha la forma di un nome di possesso, che la radice deve essere il nome dell'oggetto posseduto o di una qualità, verosimilmente un attributo divino importante. A questo punto ipotizzo che *ne(h)al sia un antico nome protobasco che significa "giovinezza". In ultima analisi si tratta di un prestito dalla radice indoeuropea *new- "nuovo", che mostra un dileguo della -w- intervocalica, come accadeva in lusitano, una lingua indoeuropea preceltica affine al sorotaptico e a parer mio da attribuirsi al gruppo delle lingue liguri, ormai estinte. Solo per fare un esempio, in lusitano è attestata la parola OILAM "pecora" (all'accusativo), che deriva dalla stessa base indoeuropea del latino ovis, con dileguo della consonante. Giungo alla conclusione che la radice di Nehalennia sia quindi di una parola di origine ultima indoeuropea, ma assimilata da una lingua non indoeuropea. La consonante -h- sarebbe il ben noto separatore iatale del protobasco. Se la mia proposta trovasse conferma, sarebbe provata in modo inequivocabile l'identificazione di Nehalennia con la dea scandinava Iðunn, avendo i due teonimi lo stesso significato (cfr. antico alto tedesco itis "donna" e anglosassone ides "vergine, signora, donna", in origine "giovane donna").  

Anche se a quanto pare in pochi ne sono a conoscenza, esistono attestazioni di antroponimi aquitani in una regione percorsa dal Reno, anche se lontana dal mare: evidentemente alcune comunità sono state deportate sotto l'Impero o più probabilmente si trattava delle famiglie di legionari nativi dell'Aquitania che li hanno seguiti dando vita a una nuova enclave allogena tra i Germani che vivevano sotto Roma. Fenomeni di questo genere non erano affatto rari: sappiamo ad esempio della presenza di Aquitani in Sardegna. In tale regione remota furono dislocati probabilmente per via della somiglianza tra la loro lingua e quella dei Sardi, nel tentativo di favorire la pacificazione delle popolazioni native. Così penso che la spiegazione più plausibile di Nehalennia sia riconducibile a stanziamenti di Aquitani, e probabilmente addirittura a una singola persona che chiamò con un nuovo epiteto una divinità locale antica, dedicandole un ex voto per essersi salvato da morte certa nel corso di un naufragio. Il nome divino coniato da questo aquitano sarebbe piaciuto e si sarebbe così diffuso. 

sabato 2 luglio 2016


SULLA NATURA DEI CONNETTORI

Un universo casuale non ammette i connettori. Se la società umana fosse una rete casuale, nel modesto campione di 400 persone esaminate da Gladwell - con la sua media di circa 39 contatti sociali - anche l'individuo più connesso non raggiungerebbe i 118 contatti. E se il Web fosse una rete casuale, le probabilità che esista una pagina con 500 link dall'esterno sarebbero 10-99, ossia praticamente zero, a indicare che una rete casuale non contempla gli hub. L'ultima rivelazione del Web, invece, considerando un campione pari a quasi un quinto dell'intera rete, trovò 400 pagine con quelle caratteristiche, nonché un documento che aveva addirittura due milioni di link dall'esterno. Trovare un nodo di questo genere in una rete casuale è più difficile che localizzare un certo atomo in tutto l'universo. Se Holliwood fosse una rete casuale, Rod Steiger non esisterebbe, perché la probabilità che esista un attore con un così alto numero di collegamenti è all'incirca 10-120, una cifra talmente bassa che non ci sono metafore per renderla. Si spiega allora la nostra sorpresa quando, nelle nostre prime ricerche sulle reti del mondo reale, individuammo per la prima volta gli hub nel Web e nella rete di Holliwood. Non eravamo preparati a una scoperta del genere, perché nodi così connessi non rientravano né nel modello Erdõs-Rényi né in quello Watts-Strogatz. Semplicemente, la loro esistenza non era mai stata contemplata.
La scoperta che, sul Web, pochi hub si annettono la maggior parte dei link, inaugurò una ricerca frenetica in varie aree. I risultati furono stupefacenti: scoprimmo che Hollywood, il Web e la società umana non sono casi isolati. Come ora sappiamo, gli hub sono presenti anche nelle reti d'interazioni chimiche fra le molecole all'interno della cellula vivente.
Alcune molecole, come quelle dell'acqua o l'adenosintrifosfato (ATP), sono i Rod Steiger della cellula: partecipano a un numero enorme di reazioni chimiche. Su Internet, la rete che connette materialmente i computer di tutto il mondo, pochi hub svolgono un ruolo cruciale nel garantire il funzionamento della rete in caso di malfunzionamenti. Erdõs è il più grande hub della matematica, con ben 507 colleghi dotati d'un numero di Erdõs pari a uno. Secondo uno studio condotto dalla AT&T, una piccolissima parte dei numeri telefonici è responsabile di una frazione straordinariamente alta di chiamate inviate o ricevute. Chi ha un adolescente in casa potrebbe nutrire seri sospetti sulla reale identità di alcuni di questi hub telefonici, ma i veri colpevoli sono probabilmente le aziende di telemarketing e i numeri del servizio consumatori. Gli hub sono presenti in quasi tutte le grandi reti complesse studiate finora. Compaiono ovunque e sono uno dei mattoni fondamentali del nostro mondo complesso e intrecciato. 

Albert-László Barabási - Link, la nuova scienza delle reti
(Esilio a Mordor, 30/06/2007)

Si capisce bene come i connettori sono lo strumento dell'Artefice di questo universo maligno. I connettori pongono le subdole e inique basi della competizione, e la competizione è inseparabile dalla natura assassina della materia. Anche i più elementari meccanismi cellulari alla base dell'esistenza biologica riflettono questo esiziale orrore, questa turpitudine innominabile. Chi comprende a fondo i princìpi e le conseguenze dalla cibernetica non può che scorgervi la prova irrefutabile della realtà della Colpa Ontologica. È inutile che lo neghiamo: in ogni nostra cellula si celano manipoli di spietati killer, ogni nostra determinazione non può che soggiacere allo spietato, mortifero dominio delle Cose Composte. Finché non troveremo il modo di liberarci dal corpo, saremo soltanto onde quantistiche di delirio intrappolate in una buca di potenziale simile a un pozzo nero senza fondo.  

(Esilio a Mordor, 30/06/2007)

giovedì 30 giugno 2016


LA NATURA DEL CYBERSPAZIO
E L'AVVENTO DEI BORG 

Il cyberspazio incarna la più alta libertà di parola. Qualcuno potrà sentirsene offeso, altri potranno apprezzarlo, ma il contenuto di una pagina Web è difficile da censurare.
Una volta lanciato in rete entra a disposizione di centinaia di milioni di persone. Un diritto d'espressione così illimitato, con dei costi di pubblicazione così bassi, fa del Web una grandissima manifestazione di democrazia. Tutte le voci hanno pari opportunità di ascolto, o almeno così predicano tanto i costituzionalisti qualto le riviste d'affari. Se il Web fosse una rete casuale, potremmo anche essere d'accordo con loro. Ma non lo è. Il risultato più affascinante del nostro progetto di mappatura fu la scoperta di una totale assenza nel Web, di democrazia, equità e valori ugualitari. Imparammo che l'unica cosa che la topologia di questa rete permette di vedere sono il miliardo di documenti ivi contenuti.
Quando si considera il Web, la domanda fondamentale non è più se le nostre opinioni possono venire pubblicate: certo che possono e, una volta online, diventano accessibili a chiunque, in qualunque parte del mondo, con una semplice connessione Internet. Di fronte alla giungla di documenti che ci appaiono minuto per minuto, la domanda cruciale è piuttosto la seguente: se lancio un'informazione in rete, qualcuno la noterà? Per essere letti bisogna essere visibili: una banale verità che vale tanto per gli scrittori quanto per gli scienziati. Sul Web la misura della visibilità è il numero di link. Più link puntano alla vostra pagina Web, più siete visibili. Se ogni documento in rete avesse un link alla propria pagina Web in un attimo tutti saprebbero ciò che aveta da dire. Ma una pagnia Web ha in media non più di cinque-sette link che puntano ognuno a una delle migliaia e migliaia di pagine esistenti là fuori. Di conseguenza le probabilità che un documento crei un link proprio alla vostra pagina Web sono prossime allo zero.
Questa conclusione si applica perfettamente alla mia homepage, www.nd.edu/~alb. Secondo AltaVista, nel Web ci sono almento una quarantina di pagine che puntano a essa.
Francamente mi sembra persino troppo, considerato il mio limitato campo di interesse. Ma poiché il Web offre una scelta complessiva di circa un miliardo di pagine, le probabilità di scoprire la mia sono all'incirca quaranta su un miliardo. Vale a dire che, se navigate a caso giorno e notte in rete fermandovi non più di dieci secondi su ogni sito, vi occorreranno otto anni prima d'incontrare un link alla mia homepage.
Tutti abbiamo interessi, gusti e valori diversi. I link che creiamo sulla nostra pagina Web riflettono tali differenze. Stabiliamo connessioni con pagine di ogni tipo, dai siti sull'arte tribale africana ai portali di commercio elettronico. Considerando che possiamo scegliere fra oltre un miliardo di nodi, ci si aspetterebbe che la configurazione finale dei link sia abbastanza casuale, il che significherebbe il trionfo del modello Erdõs-Rényi. Un Web casuale sarebbe il massimo veicolo di uguaglianza, perché la teoria dei due studiosi garantisce un elevato grado di somiglianza tra tutti i nodi, tutti dotati all'incirca dello stesso numero di link dall'esterno.
Le nostre misurazioni, però, smentiscono queste attese. La mappa riportata dal nostro robot diede prova di un alto grado di disparità nella topologia del Web. Delle 325000 pagine esaminate nel dominio della Notre Dame University, 270000 - l'82 per cento del totale - avevano tre link dall'esterno se non meno. Mentre una ristrettissima minoranza, 42 pagine circa, ne aveva più di mille. Misurazioni successive su un campione di 203 milioni di pagine Web rilevarono uno spettro ancora più ampio: nella stragrande maggioranza - qualcosa come il 90 per cento del numero complessivo - i documenti avevano meno di dieci link dall'esterno, mentre pochissimi - non più di due o tre - ne avevano quasi un milione!
Così come nella società umana pochi individui, i connettori, conoscono un numero insolitamente ampio di persone, l'architettura del World Wide Web è dominata da pochissimi nodi altamente connessi, o hub. Questi hub, come per esempio Yahoo! o Amazon.com, sono estremamente visibili: ovunque ci si sposti, si trova sempre un link puntato verso di loro. Nella rete del Web tutti i nodi poco conosciuti, scarsamente visibili e dotati di un esiguo numero di link sono tenuti insieme da questi rari siti altamente connessi.
Gli hub sono la più netta smentita alla visione utipica di un cyberspazio ugualitario.
Certo, tutti abbiamo il diritto di mettere in rete ciò che vogliamo. Ma qualcuno lo noterà? Se il Web fosse una rete casuale, tutti avremmo la stessa opportunità di essere visti e sentiti. Collettivamente creiamo in qualche modo gli hub: sono i siti a cui tutti si collegano. Facilissimi da trovare, si possono rintracciare in qualsiasi punto della rete. Al loro confronto il resto del Web è praticamente invisibile. Per qualunque obiettivo concreto, le pagine linkate da uno o al massimo due altri documenti praticamente non esistono. Sono quasi impossibili da individuare. Persino i motori di ricerca sono maldisposti nei loro confronti e, quando viaggiano nel Web alla ricerca dei nuovi siti appena usciti, le ignorano.

Albert-László Barabási - Link, la nuova scienza delle reti
(Esilio a Mordor, 30/06/2007)

Dai tempi in cui scriveva l'autore ungherese molte cose sono cambiate. Zuckerberg è giunto, portando una nuova tirannia simile a quella dei Borg di Star Trek: la massa informe e pulsante che è Facebook ha assimilato centinaia di milioni di persone. Qualcuno dirà come al solito che questa "è fantascienza". Invece è la nuda e cruda realtà dei fatti, che non ha proprio nulla di fantastico. Ogni resistenza è inutile, l'Alveare è ormai esteso sull'intero pianeta e divora interi popoli. Sotto la pressione della mostruosità di Zuckerborg, la Rete come la conoscevamo si affloscia, perde vitalità e avvizzisce giorno dopo giorno, mentre l'Alveare si ingigantisce a dismisura. Già si parla di una Grande Estinzione che farà sparire i siti web personali e gli ultimi residui blogosferici, esiziale come la catastrofe che ha cancellato i dinosauri sul finire del Cretaceo. Quando il processo si sarà completato, esisterà un unico hub: Facebook.

martedì 28 giugno 2016


L'ESPLOSIONE DELLE INFLUENZE
NEL PICCOLO MONDO

Nonostante secoli di straordinario progresso della medicina e della biologia, non è, questo, un momento incoraggiante per la storia dell'umanità.
Non vi è motivo di essere ottimisti: vi è semmai motivo di temere epidemie globali. Come ha scritto il compianto Jonathan Mann, professore di epidemiologia e immunologia di Harvard: "Il mondo è assai più di prima soggetto allo scoppio e, peggio, alla diffusione ampia o addirittura globale di vecchie e nuove malattie infettive... Motore del fenomeno è il notevole aumento della mobilità di persone, merci e idee... Un individuo che ospita un microbo micidiale può facilmente salire su un aereo di linea e trovarsi in un altro continente al manifestarsi dei sintomi della malattia. L'aereo e il suo carico spesso conducono insetti e agenti infettivi in nuovi contesti ambientali".
Questa vulnerabilità è l'ovvia conseguenza del "piccolo mondo" e della rete internazionale del trasporto aereo che la sorregge.

Mark Buchanan - NEXUS
(Esilio a Mordor, 18/08/2008)

Quando il benemerito autore di NEXUS scriveva queste profetiche parole, l'attenzione della comunità scientifica era focalizzata soprattutto sulla pandemia di AIDS causata dal retrovirus HiV. Soltanto qualche anno dopo si sarebbe cominciato a parlare di una nuova catastrofe incipiente: la fine dell'Età degli Antibiotici. Un evento epocale capace di cambiare in modo significativo le nostre vite, che sta generando batteri virtualmente indistruttibili, contro cui i mezzi a disposizione dell'attuale scienza medica nulla possono. Con buona pace dell'immaginario collettivo, non esiste soltanto il contagio ad opera di microrganismi che si diffondono tramite l'aria, come ad esempio il virus dell'influenza. Conseguenze luttuose hanno anche gli agenti patogeni che si trasmettono per contatto diretto, come ad esempio i responsabili delle infezioni veneree. La mobilità di persone, merci e idee comporta in modo ineluttabile la moltiplicazione degli atti sessuali. I corpi umani sono giganteschi banchetti per agenti patogeni di ogni tipo e il contatto tra i fluidi corporei degli amanti è come un processo coloniale che porta alla conquista di nuovi continenti. Il pericolo non è soltanto la rete "piccolo mondo" del trasporto aereo, ma sopra ogni altra cosa la rete "piccolo mondo" dei contatti sessuali, che è molto più estesa e pervasiva. 

Ne sono sicuro e lo vado dicendo da anni: Nemesi è all'opera. Un giorno o l'altro scaturirà dagli orifizi della Nappi qualcosa che ci ammazzerà tutti. Seguiamo il percorso di questo messaggero di morte, la cui venuta al mondo è prossima: nato da infinite sessioni di sesso promiscuo e privo di barriere tra sangue e mucose di innumerevoli copulanti, questo microrganismo fatale è il prodotto di un'accurata selezione occorsa in tempi assai rapidi. Le generazioni di batteri e di virus negli orifizi durano ben poco in confronto alla vita umana, quindi svariate mutazioni genetiche inattese possono sorgere e propagarsi in modo tempestivo. Quelle cavità sessuali sono laboratori di terrorismo biologico e come tali andrebbero trattate. Una turca è molto più pulita e asettica della vagina, dell'ano e della bocca di una donna dedita a molteplici amplessi. Per tenere sotto controllo l'emergere di continue infezioni - spesso nemmeno batteriche - è deleterio costume dei moderni gaudenti riempirsi di antibiotici, cosa che sta portando alla fine dell'efficacia di tali farmaci. Le sequenze genetiche responsabili della resistenza superano le barriere tra le specie batteriche, rendendo esiziali anche patologie non veneree. Questa è soltanto una delle conseguenze. Si vede che nello stesso ambiente anche organismi drasticamente diversi come virus e batteri interagiscono tra loro, accelerando il mutamento in modo esponenziale: ne nascerà un morbo portentoso e funesto in sommo grado, pronto a diffondersi come un invincibile Male fuoriuscito dall'apertura del Vaso di Pandora.

LA MORTE DI PAN

Io ho sentito la storia di un uomo che non era né uno sciocco né un imbroglione. Alcuni di voi hanno ascoltato il retore Emiliano, che era figlio di Epiterse, mio concittadino e maestro di grammatica. Proprio lui mi raccontò che una volta si era imbarcato per l'Italia su un mercantile con molti passeggeri a bordo: alla sera quando già si trovavano presso le isole Echinadi, il vento cadde di colpo, e la nave fu trasportata dalla corrente fino a Paxo. Quasi tutti i passeggeri erano svegli, e molti, terminata la cena, stavano ancora bevendo. All'improvviso si sentì una voce dall'isola di Paxo, come di uno che gridasse il nome di Tamo. Tutti restarono sbalorditi. Questo Tamo era un pilota egiziano, ma quasi nessuno dei passeggeri lo conosceva per nome. Due volte la voce dell'uomo lo chiamò, e lui stava zitto. Alla terza rispose, e allora quello con tono più alto disse: "Quando sarai a Palode, annuncia che il grande Pan è morto". A queste parole, diceva Epiterse, tutti restarono sbalorditi, e si domandavano se fosse meglio eseguire l'ordine oppure non darsene cura. Allora Tamo decise che, se ci fosse stato vento, avrebbero costeggiato la riva in silenzio; se invece giunti là avessero trovato bonaccia, avrebbe riferito la notizia. Quando infine arrivarono a Palode, non un soffio di vento, non un'onda. Allora Tamo, sulla poppa, guardò verso terra e gridò: "Il grande Pan è morto". Non aveva quasi finito di dirlo che subito si levò un gran gemito, non di una persona sola, ma di tante, pieno di stupore.  

Plutarco - Il Tramonto degli Oracoli
(Esilio a Mordor, 19/12/2006)

Eventi come quello descritto da Plutarco segnano la fine di un'epoca e l'inizio di un'altra. Non sono soltanto dati di fatto, ma fungono da geroglifici che condensano in sé l'angosciante simbolismo della frattura col passato. Quando una tale rottura si è consumata, non è più possibile tornare indietro. Su questo non si mediterà mai abbastanza. Come insegna la termodinamica, nell'Universo esistono solo processi irreversibili. Tutto è senza rimedio: dalla lenta cottura di un uovo, in cui mutamenti microscopici sono responsabili del rassodarsi dell'albume e del tuorlo, alle ineluttabili forze che plasmano i popoli e le religioni. La cesura storica muta lo stesso sentire delle genti. Nulla è più riconoscibile: si ha la fortissima impressione di procedere verso l'Ignoto. Si arriva fatalmente al punto in cui tutto ciò che esiste appare all'improvviso estraneo, come se la sua stessa sostanza ontologica si fosse stemperata.

sabato 25 giugno 2016

IL MAGONE: UNA FALSA ETIMOLOGIA DA UNA STORIELLA SCOLASTICA

Girando nella Rete, che tanto ha contribuito a diffondere una forma contagiosa di ignoranza, mi sono imbattuto in un'assurda narrazione. Secondo non poche persone, la locuzione "avere il magone", che significa "essere triste", deriverebbe dal nome del generale cartaginese Magone. Per giustificare quest'insana fantasticheria, costoro citano fatti storici estratti a viva forza da qualche manuale scolastico, dando spiegazioni cervellotiche quanto vane. 

Sia ben chiaro, il magone non ha nulla a che spartire col nome del condottiero di Cartagine, fratello di Annibale. Si tratta di una mera assonanza o coincidenza fortuita, cosa non infrequente quando le parole hanno una struttura fonetica abbastanza semplice. 

Il termine magon /ma'gun/ indica nel Nord Italia il ventriglio degli uccelli, ossia il loro stomaco. La locuzione avegh el magon (milanese) ed equivalenti nei vari dialetti galloitalici significa alla lettera "avere il gozzo", quindi "avere un groppo in gola", da cui "essere triste". L'origine germanica del vocabolo è ben chiara. Il termine di partenza deve essere stato il longobardo *mago, gen. *magon, *magun "stomaco, ventriglio". Tuttora vi sono corrispondenze precise in lingue germaniche viventi. Tedesco Magen "stomaco". Inglese maw "ventriglio".

Eppure la vera etimologia è osteggiata in modo aperto e giudicata assurdamente un'etimologia popolare, mentre la paretimologia nata dall'assonanza è ritenuta autentica.

Questo è riportato da Sapere.it, che pure non è un sito di complottisti:


"Il modo di dire "avere il magone" è piuttosto antico e ci sono due possibili spiegazioni, una colta e l’altra popolare; la prima si riferisce a Magone Barca, che comandò la battaglia della Trebbia contro i Cartaginesi durante la II guerra Punica (218 a.C.). Petrarca narrò della morte di Magone, che avvenne durante il suo viaggio verso Cartagine dopo la distruzione di Genova, nel suo poema Africa. 
Ecco perché si è poi attribuito al sostantivo “magone” il significato di triste rimpianto, nodo alla gola che precede il pianto provocato da una brutta notizia."

Segue l'esposizione quasi rituale della spiegazione corretta del magone, giudicata invece come "popolare" e implicitamente come inaffidabile. Ma che affidabilità ha mai la spiegazione "dotta"? Per gli autori di Sapere.it, tutto sarebbe nato dalla poesia di Petrarca, Africa, talmente vivida che chi la lesse si immedesimò nelle genti di Cartagine sconvolte dal lutto per la perdita del loro condottiero. Come dire, quando Napoleone fu sconfitto a Waterloo, si diffuse tra le genti di Francia tale scoramento, che da allora per dire "essere triste" si diffuse una nuova locuzione: "avere il napoleone". Basterebbe il grottesco di una simile barzelletta per esporre la trovata al pubblico ludibrio. 

Assurdità dello stesso tenore, corredate da ulteriori dettagli e da una spiegazione un po' differente, si ritrovano in un articolo apparso sul sito Placidasignora.com


Anche in questo caso, la spiegazione genuina del magone è attaccata e giudicata "popolare", quindi frutto dell'ignoranza, mentre la fanfaluca del generale cartaginese viene osannata, difesa come "dotta" e le viene attribuita una specifica origine genovese. Al contempo, si condannano i dizionari della lingua italiana perché prendono per buona la spiegazione "popolare", per di più "senza dare spiegazioni". Secondo la Placida Signora, una vecchia conoscenza dei tumultuosi tempi di Splinder (ricordo ancora quel suo amico che mi soprannominava "Freikorps"), siccome Magone devastò Genova, avrebbe causato un indelebile trauma ai suoi abitanti, che avrebbero tramandato il suo nome come sinonimo di tutto ciò che è funesto. La logica è ancora una volta posticcia. Come dire, avendo le orde di Hulagu Khan raso al suolo Baghdad apportandovi una spaventosa distruzione, si diffuse tra i superstiti della città annientata un tale scoramento, che da allora per dire "essere triste" si diffuse una nuova locuzione: "avere l'Hulagu Khan". Ancora una volta un'assurdità patente.  

In realtà, eliminare la costruizione scolastica di un'origine da Magone e difendere il parallelismo con il tedesco Magen è una delle più semplici e sensate applicazioni del Rasoio di Occam. Anche se in non poche occasioni tale strumento logico si presta ad abusi, in questo caso la sua applicazione non presenta problema alcuno ed è del tutto legittima. Delle due spiegazioni, la più semplice tende ad essere quella giusta. Se poi si considera che l'origine del magone dalla storiella di Magone è difesa soprattutto da autori di Genova per motivi di fiero campanilismo, il resto segue: è stato un insegnante genovese a fabbricare la falsa etimologia e sono tuttora suoi concittadini a cercare di imporla, perché la sentono legata al patrimonio culturale della loro città. L'origine scolastica è ben chiara. Per essere eufemistici, è ben lecito nutrire seri dubbi sul fatto che i Genovesi ricordino sul serio per trasmissione diretta la distruzione della città ad opera di Magone. Genova non ricorda Magone più di quanto Milano ricordi il goto Uraia. Troppi secoli sono trascorsi, troppe cose sono cambiate. L'antica lingua ligure, di ceppo indoeuropeo e preceltica, che era parlata ancora all'epoca di Seneca, si è estinta ed è stata soppiantata dal latino volgare che si è evoluto in una varietà romanza nel corso dei secoli. 

Il nome del condottiero cartaginese, trascritto Mago /'ma:go:/ o Magon /'ma:go:n/ dai Romani e Μάγων dai Greci, viene chiaramente dal punico: magōn (scritto mgn) significava "scudo". La parola corrisponde in modo perfetto all'ebraico מגן māgēn "scudo". Spesso alla -e:- lunga ebraica il punico rispondeva con -o:- lunga. Così neopunico molchomor "sacrificio di un agnello" (creduto per errore una glossa di Agostino d'Ippona; attestato nelle iscrizioni di N'Gaous) - da pronunciarsi /molχo'mo:r/ - in cui omor /o'mo:r/ "agnello" corrisponde alla perfezione all'ebraico אמר immēr "agnello", accadico immeru "pecora"

lunedì 20 giugno 2016

ANCORA SUI BURINI E SULLA BURE: IL RUOLO DEI DOTTISMI NEI DIALETTI ITALIANI


In un mio articolo sull'etimologia della parola romanesca burino, pubblicato su questo blog il 09/04/2016, scrissi quanto segue in una confutazione della tradizionale etimologia dal nome della bure:

"In alcune lingue romanze il latino bu:ri(m) ha lasciato discendenti:

piemontese bü "manico dell'aratro"
sardo sa buri "il manico dell'aratro" 

Tuttavia non mi risulta che la parola sia mai stata vitale nell'Italia centrale. Nello stesso italiano, il lemma tecnico bure ha l'aria di essere stato reintrodotto dai letterati. Chi ritiene fondata la derivazione di burino da bure, dovrebbe fornire prove che bure fosse parola viva nelle varietà dialettali di Roma e del Lazio."

Il navigatore Gianni S. in un commento del 09/06/2016 obietta al passo del mio post:

"Non mi pronuncio sull'etimo, ma il tipo BURE (timone dell'aratro non manico) è il tipo dominante nel Lazio e in Umbria ed è presente anche in Toscana,Marche, Abruzzo, Piemonte, Lombardia (basta guardare la carte bure dell'AIS)."

Questa è stata la mia replica a Gianni S.: 

"Benvenuto in questo spazio. Ti ringrazio di cuore dell'informazione. In effetti il tipo BURE è decisamente più rappresentato di quanto ricordassi. Di questi tempi è bene non fidarsi mai troppo della propria memoria. Ovviamente accetto la prova da te fornita sulla diffusione di questa parola, ma resta il fatto che la derivazione di "burino" da "bure" è fallace, come tutte le etimologie popolari. Infatti la mia confutazione potrebbe anche concludersi con "Non mi risulta che la formazione abbia alcun parallelo noto nell'intera Romània"." 

La carta dell'AIS a cui allude Gianni S. è la numero 1436 e può essere consultata a questo indirizzo url: 


Per vederla basta cercare "bure" nell'apposita finestra a tendina in alto, che riporta tutte le voci trattate: non mi è riuscito di ottenere un indirizzo url che punti direttamente ai risultati delle ricerche. In effetti si trovano forme molto interessanti, come ad esempio büròt, biròt (Piemonte). 


Vediamo ora alcune utili definizioni riportate da libri prestigiosi.

1) Definizione data dal vocabolario Zingarelli:

bure /'bure/ [vc. dotta, lat. bu:ri(m), di etim. incerta] s.f. . Estremità anteriore dell'aratro che permette l'attacco al giogo o in genere alla forza motrice. SIN. Timone. (Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana)   

2) Definizione data dal vocabolario Treccani: 

bure s. f. [dal lat. buris]. – Il timone dell’aratro, cui è attaccato anteriormente il giogo.
(http://www.treccani.it/vocabolario/bure/)

Questo è ciò che la stessa fonte riporta a proposito della voce timone (del carro e dell'aratro): 

timóne (ant. temóne; poet. ant. tèmo) s. m. [lat. temo -onis]. – 1. a. La stanga che sporge anteriormente dal carro, a un lato e all’altro della quale si attaccano le bestie per il tiro. Per estens., nei moderni autoveicoli, l’elemento articolato che ha la funzione di tenere agganciato e collegato il rimorchio alla motrice. b. Con riferimento alle costellazioni dell’Orsa, dette popolarmente Gran Carro e Piccolo Carro, l’insieme delle tre stelle corrispondenti al timone del carro. 2. Organo fondamentale dell’aratro, detto anche bure, costituito da un’asta metallica o di legno alla quale viene fissato il coltro, e che all’estremità posteriore viene collegata al vomere e al versoio.
(http://www.treccani.it/vocabolario/timone/
 

3) Nel Web troviamo inoltre questo interessante riscontro:

bure [bù-re] s.f.  

• Stanga dell'aratro a cui è attaccato il giogo; timone dell'aratro
• sec. XVI
(http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/B/bure.shtml)  

4) Abbiamo infine un antiquato dizionario online, pieno di inconsistenze e di paretimologie pacchiane:


"búre o búra lat. BÚRA e BÚRIS, che vuolsi composto del gr. BOÛS bove e OURÀ coda. - Il manico, ossia la parte posteriore e curva dell'aratro, la quale si unisce al ceppo: così detto perché fatto a foggia di una coda di bue."  

Questa definizione è incompatibile, si noterà, con quelle date dagli altri dizionari, più sopra riportate: anziché il timone designa il manico. Il tentativo di analizzare la parola come un composto greco col sensi di "coda di bue" è chiaramente fallace.

Conclusioni sulla bure  

1) Non si può dubitare della natura dotta della voce bure. Torno a ribadire che si tratta di un dottismo restaurato dai letterati e non di una voce giunta nelle parlate moderne attraverso genuina usura popolare del latino volgare. Il dizionario del Corriere ci riporta anche una cronologia: la voce sarebbe attestata a partire dal XVI secolo.

2) Il termine dal toscano dotto si è diffuso nei dialetti del Centro Italia, finendo col sostituire i termini precedenti in Lazio, in parte della Toscana, in Umbria, nelle Marche e giungendo ad avere propaggini persino in Campania. La voce è giunta anche in Emilia, in Lombardia e in Piemonte: è a questo punto probabile che gli unici esiti davvero genuini si trovino in Sardegna - cosa che non dovrebbe stupire.  

3) Attualmente il termine bure indica per lo più il timone e non il manico dell'aratro. Si è avuto uno slittamento semantico rispetto al latino, dove buris è il manico. Questo potrebbe essere dovuto a una diversa struttura degli aratri antichi, anche se a quanto ho potuto apprendere manico e timone erano già ben distinti in epoca remota. In ogni caso questo slittamento semantico è una prova in più della falsità della derivazione del lemma burino da questa voce. Ammesso che il burino sia stato davvero un aratore (vedi l'articolo precedente per le mie obiezioni), è il manico dell'aratro che si impugna: il contadino vi passa molte ore attaccato. Il timone dell'aratro non si impugna. Pensare che l'aratore prenda il nome da una parte dell'aratro che non si impugna è pura follia. Nessuno chiamerebbe un aratore *vomerino, *versorino, *gioghino o *coltrino, ma neppure *stanghino e *pertichino. Queste formazioni sono insane, come insana è la paretimologia di burino.

I dottismi nei dialetti

Non tutte le parole attestate in un dialetto italiano sono per necessità genuine evoluzioni del latino volgare. Così vediamo che in romanesco l'autunno era chiamato avoturno: si tratta di un ipercorrettismo costruito a partire da autunno. La stessa voce autunno è un chiaro dottismo, come provano il dittongo au- e la vocale -u- da -u- breve latino. La voce genuina è invece utonno, che si trova nella lingua più antica e che è poi uscita dall'uso. Allo stesso modo, vediamo che nel piemontese dell'Alto Monferrato (es. Ponzone e frazioni), sùbito si dice sìbit o sibi. La parola latina subitus "improvviso", da cui l'avverbio subito: "repentinamente", ha una -u- breve, che sarebbe dovuta diventare una -o- chiusa: lo stesso italiano sùbito è un dottismo, o si sarebbe avuto *sóvito. Così dall'italiano sùbito è stata formata la voce sübit, con -ü- bemollizzata dettata dalla corrispondenza tra italiano -u- e piemontese -ü- in molte voci popolari (es. fumo - fümmulo - mü, etc.). In seguito questa -ü- è divenuta regolarmente -i- (füm è diventato fim; è diventato mi, etc.). Questi pochi esempi forniscono la prova di quanto capillare sia la diffusione dei dottismi, che una volta incorporati in una lingua di uso corrente non sempre sono riconoscibili dal parlante.

giovedì 16 giugno 2016

L'ISCRIZIONE GOTICA DEL CIMITERO UNGHERESE DI HÁCS-BÉNDEKPUSZTA


A dire il vero non si tratta propriamente di una nuova scoperta, ma ritengo che sia in ogni caso molto interessante. Negli anni '50 dello scorso secolo nel cimitero di Hács-Béndekpuszta, in Ungheria, sono stati trovati in una tomba pezzi di una lamina di piombo recanti tacche che inizialmente sono state classificate come iscrizioni runiche. Nel 1978 è stata fatta una pubblicazione dei risultati dell'analisi (Ebbinghaus, Gothische Grammatik), che ha mostrato come le iscrizioni in realtà erano gotiche. Solo di recente si è stati in grado di assegnare questa testimonianza scritta a passi della Bibbia (Harmatta, 1997).  


Questo è il testo traslitterato: 

ni þanaseiþs im in þamma fairƕau . iþ þai in þamma fairƕau sind . jah ik du þus gagga . atta weiha fastai ins in namin þeinamma þanzei atgaft mis . ei sijaina ain swaswe wit . þan was miþ im in þamma fairƕau ik fastaida ins in namin þeinamma . þanzei atgaft mis gafastaida . jah ainshun us im ni fraqistnoda  

È davvero singolare che a questo materiale non sia stata data la benché minima rilevanza nel mondo accademico e nei media. Ci sono poche pagine nel Web che trattano specificamente di questo frammento, ma il testo è quello di Giovanni 17, 11-12, seppur incompleto. Esso compare tal quale anche nel Codex Argenteus. Così fornisco in questa sede la sua versione in italiano:

Non sono più in questo mondo, ma essi sono in questo mondo, e io vengo a te. Padre Santo, conserva nel Tuo Nome coloro che Tu hai dato a me, che siano uno, come noi siamo. Mentre io ero con loro nel mondo, io li conservavo nel Tuo Nome: coloro che Tu hai dato a me io ho tenuto, e nessuno di loro è perduto  

La continuazione, se ci fosse pervenuta, sarebbe stata senza dubbio questa:  

niba sa sunus fralustais . ei þata gamelido usfilliþ waurþi  

Ossia:

tranne il Figlio della Perdizione, perché le Scritture si compiano.

I RAVIOLI: ORIGINE ED ETIMOLOGIA


L'uso di avvolgere la pasta alimentare su svariati ingredienti salati o dolci per farne ravioli è antichissimo e di certo è comparso in modo indipendente in diverse parti del mondo. Oltre che in Italia i ravioli si trovano in Germania, in Polonia, in Russia, in Persia, in India, in Cina, in Thailandia e in altri paesi, tra cui la remota Mongolia. Nel corso dei secoli diverse ricette si sono diffuse su aree vastissime, sovrapponendosi a tradizioni precedenti, tanto che non è facile districare la matassa. Non soltanto i ravioli non hanno origini determinabili con sicurezza, ma la stessa parola italiana che li designa è di origine problematica. Sono state avanzate diverse proposte etimologiche. 

1) Prima ipotesi: derivazione da rapa.
Secondo questa assunzione, la protoforma latina doveva essere *ra:piolu(m), con la variante *rap:iola(m), derivata da ra:pu(m), ra:pa(m) "rapa" con un suffisso diminutivo. Questo perché il ripieno era fatto in origine con foglie di rapa e ricotta. Secondo alcuni, l'accostamento deriverebbe invece dalla forma dei primi ravioli, che sarebbe stata simile a quella di piccole rape. Una forma tarda rabiolae (femminile plurale) è realmente attestata. Questo è riportato nel sito etimo.it, che pure è pieno di inconsistenze e di errori: 

"raviòlo e raviuòlo probabilmente dal b. lat. RABIÒLÆ specie di manicaretto, di cui è fatta menzione in una lettera dell'arcivescovo Giraldo presso Matteo Parigino." 

2) Seconda ipotesi: derivazione dal longobardo *raphio, *raffio "uncino" (> italiano raffio).
Secondo questa assunzione, il raviolo deve il suo nome alla forma originale, che sarebbe stata ricurva.
Da qui deve essere derivata la variante raffiolo, documentata nell'Italia Centrale e nel Meridione(1), oltre che nel Veneto (rafiol). Questa variante non può essere in alcun modo spiegata a partire da una protoforma *ra:piolu(m) tramite i regolari sviluppi delle varietà romanze.

(1) A Napoli e altrove indica un dolce. 

3) Terza ipotesi: derivazione da raviggiolo, lombardo raviggioeu /ravi'dʒø/, nome di un formaggio tipico dell'appennino tosco-romagnolo che a quanto pare si usava al posto della ricotta in alcune preparazioni. Sono note le varianti ravigiolo, raveggiolo e ravaggiolo. Alcuni sostengono che l'origine ultima di questo raviggiolo derivi dal nome di un paese toscano che oggi si chiama Raggiolo. In realtà dovrebbe derivare dal verbo rivagliare, ossia "passare di nuovo al vaglio", cfr. romagnolo ravgiòl "cruschello da rivagliare". L'etimologia popolare presenta qualche difficoltà semantica: il nome del raviolo verrebbe infatti ad essere identico a quello del formaggio senza alcun suffisso che ne specifichi in qualche modo la derivazione. 
In un sito web che sostiene questa etimologia viene sostenuta l'invenzione del manicaretto da parte di una contadina di Cernusco sul Naviglio, e viene utilizzata una citazione dell'umanista milanese Ortensio Lando (XVI sec.) in cui compare invece la forma "raffioli": "Libista, contadina lombarda da Cernuschio, fu l'inventrice di far raffioli avviluppati nella pasta".

 

4) Quarta ipotesi: derivazione da una parola di origine germanica non attestata in italiano, ma simile all'inglese to ravel "avvolgere". Contro questa proposta va ricordato che la parola inglese in questione, di origine olandese (< ravelen, a sua volta da rafel "filo sfilacciato"), si riferisce al filo e al filato e non mi pare quindi molto idonea a spiegare il raviolo.

Le ipotesi 1) e 2) sopra riportate cozzano tra loro, pur sembrando avere entrambe qualche ragione di validità. Come poterle comporre?

Se la seconda ipotesi fosse genuina, la forma lombarda non avrebbe -v-, perché il vocabolo longobardo aveva un fonema bilabiale /φφ/ derivato da -p- tramite la seconda rotazione consonantica, che si mantiene come -ff- negli esiti romanzi. Infatto la protoforma germanica della parola longobarda è ricostruibile come *xrapjan-, dalla radice *xrap- che ha dato in medio alto tedesco raffel "uncino". Esisteva anche una variante con nasale, *xrampjan- (m.) / *xrampjo:n- (f.), da cui longobardo *ramphio /'rampfjo/ (> italiano ranfio), *ramphia /'rampfja/ (> italiano ranfia). Dalla stessa radice, ma con un suffisso sigmatico e una metatesi, si è prodotto *xrap-so:n- > *xraspo:n-, donde italiano raspa, raspare. Non sussiste invece alcuna parentela con il tedesco moderno Krapfen "gancio", che ha un diverso consonantismo (protogermanico *krappan-) e il cui corrispondente longobardo è invece *kra(p)pho /'krappho, 'krappfo/, *kra(p)phio /'krapphjo, 'krappfjo/ (> italiano graffio). 

È dunque possibile che la forma neolatina fosse quella originale e genuina. Ipotizzo che sia passata in longobardo e che la -v- sia diventata -ff-. Quindi i Longobardi hanno ritenuto per etimologia popolare che la parola derivasse da *raffio "uncino", e la forma raffiolo sarebbe stata adottata dal romanzo per effetto boomerang.
La Onesti Francovich ha scritto che non esiste attestazione alcuna di prestiti romanzi nella lingua longobarda(2). Ebbene, il nome del raviolo potrebbe essere uno di questi.

(2) Anche se questo non è propriamente vero (esiste almeno un nome proprio formato da una radice romanza, ossia Lopichis: questo nome fu dato a un antenato di Paolo Diacono che fu salvato da un lupo).

Infine non va dimenticato che si trovano anche varianti difficili come ravaiolo e raffaiolo, che non possono essere ricondotte direttamente alle ipotesi 1) e 2): loro formazione bizzarra potrebbe però essere spiegata ammettendo in qualche misura anche l'ipotesi 3), ossia l'influenza del verbo rivagliare (vedi raviggiolo).