giovedì 28 dicembre 2017


LA MASCHERA DELLA MORTE ROSSA

Titolo originale: The Masque of the Red Death
Lingua originale: Inglese, latino*
    *pronuncia ibrida, restituta e accademica inglese
Paese di produzione: USA, Regno Unito
Anno: 1964
Durata: 85 min
Rapporto: 2.35 : 1
Genere: Orrore, propaganda laveyana
Regia: Roger Corman
Soggetto: Edgar Allan Poe, dai racconti The
    Masque of the Red Death
e Hop-Frog
Sceneggiatura: Charles Beaumont, R. Wright
    Campbell
Produttore: Roger Corman
Casa di produzione: Alta Vista Productions
Fotografia: Nicolas Roeg
Montaggio: Ann Chegwidden
Effetti speciali: George Blackwell
Musiche: David Lee
Scenografia: Daniel Haller
Trucco: Elsie Alder, George Partleton
Interpreti e personaggi:
    Vincent Price: Principe Prospero; Morte Rossa
        smascherata
    Hazel Court: Juliana
    Jane Asher: Francesca
    David Weston: Gino
    Nigel Green: Ludovico
    Patrick Magee: Alfredo
    Paul Whitsun-Jones: Scarlatti
    Skip Martin: Rospo (Hop Toad)
    Robert Brown: Guardia
    Julian Burton: Señor Veronese
    David Davies: Abitante del villaggio
    Gaye Brown: Señora Escobar
    Verina Greenlaw: Esmeralda
    Doreen Dawne: Anna-Marie
    Brian Hewlett: Señor Lampredi
    Sarah Brackett: Nonna
    John Westbrook: Morte Rossa mascherata
Doppiatori italiani:
    Emilio Cigoli: Principe Prospero
    Rosetta Calavetta: Juliana
    Vittoria Febbi: Francesca
    Massimo Turci: Gino
    Luciano De Ambrosis: Ludovico
    Giorgio Capecchi: Alfredo
    Vinicio Sofia: Scarlatti
    Sergio Tedesco: Rospo (Hop Toad)
    Mario Mastria: Guardia
    Manlio Busoni: Abitante del villaggio
    Flaminia Jandolo: Esmeralda

Trama:

Nell'Italia rinascimentale, una vecchia raccoglie legna in un bosco montano e si imbatte in un uomo mascherato e interamente vestito di rosso. Questi le dona una rosa rossa e la incarica di andare al villaggio per annunciare che il Giorno della Liberazione è vicino. Poco dopo giunge al villaggio il principe Prospero, tiranno del luogo, sulla sua lussuosa carrozza. Il fierissimo nobile umilia e tratta in modo sprezzante la popolazione, ridotta quasi allo stato bestiale: intende invitare i villici a una festa in modo che possano mendicare gli avanzi di cibo sotto i tavoli, come i cani. Due uomini, Ludovico e il giovane Gino, insorgono e destano le ire del principe, che li condanna a morte. La figlia di Ludovico, la fulva Francesca supplica Prospero di risparmiare il padre e Gino, che è il suo amato. Questi di rimando dice che ne grazierà uno solo, dando alla ragazza la scelta e mettendola così in una situazione insostenibile. In seguito a urla improvvise, si scopre che la vecchia tornata dal bosco è coperta di piaghe sanguinanti: la Morte Rossa ha raggiunto il villaggio. Prospero ordina di bruciare tutto, prende con sé Francesca e i due prigionieri, procedendo verso il castello. Qui fa gettare Ludovico e Gino nelle segrete, mentre porta la ragazza a corte e incarica la moglie Juliana di farle prendere un bagno, di vestirla con gli abiti migliori e di insegnarle l'etichetta. Notando che Francesca porta al collo un rosario, le ordina di toglierselo e le rivela di essere un adoratore di Satana. La stessa sera, Prospero dà una festa e annuncia ai convitati che finché saranno ospitati al castello non dovranno temere la Morte Rossa, poi annuncia che a breve si terrà un ballo in maschera, invitando tutti a indossare gli abiti più stravaganti, ma proibendo quelli di colore rosso. Il principe cerca di sedurre Francesca. Tutto è molto semplice: il suo intento è quello di convertirla a Satana e di sodomizzarla durante l'iniziazione. Sua moglie Juliana, è gelosissima. Per riconquistarlo si sottopone a rituali satanici, arrivando a marchiarsi a fuoco una croce rovesciata su un seno. Pur di distogliere il suo uomo dalla passione per la ragazza dai capelli rossi, cerca di aiutarla a fuggire e le dà le chiavi delle segrete. Il tentativo fallisce. Ludovico e Gino, portati a corte, sono sottoposti all'ordalia: devono ferirsi a turno con cinque pugnali, di cui uno avvelenato. Arrivati all'ultimo pugnale senza morire, Prospero li accusa di slealtà e trafigge Ludovico con la spada; tuttavia libera Gino, che fugge nei boschi. Juliana, fuori di sé, assume allucinogeni e sperimenta visioni spaventose. Rifiuta però di farsi penetrare nell'ano: tutto ciò che può fare non è sufficiente e a causa di questo incontra la morte. Prospero invita i cortigiani a continuare la festa. Arriva la notte del ballo in maschera. Francesca subisce il fascino del tiranno e gli si è affezionata, al punto da decidere di soggiacere alle sue voglie. Prima che il rapporto sodomitico si possa consumare, ecco che arriva tra i festanti l'uomo mascherato vestito di rosso. All'inizio il principe crede che sia un nobile provocatore, poi capisce che c'è qualcosa di strano. Pensa allora che quell'apparizione sia Satana in persona e si inginocchia in adorazione. L'uomo in rosso gli dice di non essere Satana né un suo inviato: egli è la Morte Rossa. Giunge così la nemesi di Prospero e di tutti i suoi vassalli, che periscono in modo atroce tra piaghe e copiose emorragie. Vengono risparmiati in sei: Francesca, Gino, una bambina e un anziano del villaggio, una coppia di nani. La Morte Rossa si riunisce ad altri suoi colleghi giunti da ogni parte della Terra: la Morte Violetta (la porfiria), la Morte Nera (la peste), la Morte Blu (il colera), la Morte Gialla (la febbre gialla), la Morte Dorata (la lebbra) e la Morte Bianca (la tubercolosi). Le Sette Morti si avviano in processione, quindi compare una scritta con le parole che concludono il famoso racconto di Poe: "And Darkness and Decay and the Red Death held illimitable dominion over all." 


Recensione:

Questo film, che reputo un assoluto capolavoro, in molti punti si discosta dall'omonimo racconto di Edgar Allan Poe. È estremamente interessante approfondire queste discrepanze, perché rivelano interi mondi.

Una coppia di nani morbosi

Notevole è l'innesto nella vicenda di un altro racconto di Poe: Hop-Frog. Quando Francesca fa il suo ingresso a corte, il principe Prospero intrattiene i suoi ospiti facendo esibire in danze una coppia di nani: Esmeralda e il suo compagno, Rospo. La nana, simile a una bambina con voce di adulta, attrae su di sé l'attenzione del lubrico Alfredo, che ne è visibilmente attratto proprio perché è un pedofilo. Le inclinazioni sadiane e sadiche del nobiluomo si palesano presto: come la nana-bambina urta una coppa versandone il vino, Alfredo reagisce con furia, colpendola con un manrovescio. Con questo atto di gratuita malvagità egli desta odio eterno in Rospo, che giura vendetta. Per poter realizzare il suo vindice intento, il nano si finge ammiratore di Alfredo, tanto che gli confida di voler passare al suo servizio, perché a sua detta la fortuna e il potere di Prospero sarebbero in declino. Quindi suggerisce all'aguzzino pedosadico un'idea geniale: al ballo in maschera dovrà indossare la pelle di un gigantesco gorilla, uno dei capricci presto dimenticati di Prospero. Questa è la proposta di Rospo: Alfredo dovrà irrompere tra gli invitati indossando la pelle ferina e recitando la parte dello scimmione inferocito. Il cortigiano perverso trova eccellente l'idea. Così al ballo in maschera Rospo riesce a issare Alfredo su un lampadario di ferro tramite una fune, lo cosparge di acquavite e gli dà fuoco, cremandolo e causandone la morte. Per questo, il nano riceverà una ricompensa in oro dal principe, felice di essersi liberato di un pericoloso rivale. Interessanti sono gli adattamenti compiuti dal regista. Nel racconto il nano si chiamava Hop-Frog: è diventato Hop Toad, tradotto in italiano con Rospo. La nana, che Poe aveva chiamato Trippetta (dall'italiano trippa) è stata ribattezzata Esmeralda. Al posto del re c'è Alfredo, mentre i sette consiglieri sono stati aboliti. Il re e consiglieri si travestono con pelli di orango (scimmia che compare anche altrove nelle opere di Poe), Alfredo si traveste da gorilla. Nonostante le migliori intenzioni di Corman, l'incorporazione di una trama derivata da Hop-Frog non è stata capita e ha destato reazioni abbastanza ostili negli spettatori. 


Il principe Prospero e la Rivoluzione Satanica

Il principe Prospero nel racconto è un giovane uomo dal carattere mite, mentre nel film è un uomo di mezz'età la cui follia sanguinaria non è da meno di quella di Caligola. In genere la critica liquida con poche parole quello che è il tema centrale della pellicola di Corman: il culto di Satana, mai menzionato da Poe. Intorno alla religione satanica di Prospero e della sua corte è stata costruita una complessa narrativa passata quasi inosservata. La famiglia del principe ha operato una potente rivoluzione che ha portato all'annientamento della Chiesa di Roma, sostituendola con la Chiesa di Satana. Alla fine di questo imponente processo storico, la religione cristiana è rimasta soltanto tra i villani, privati di un clero vero e proprio, mentre l'intera nobiltà adora il Maligno - anche se in essa permangono vestigia superstiziose dell'antica fede, che il principe afferma a un certo punto di voler eradicare. Compendiamo dai dialoghi del film, che la Rivoluzione Satanica si è imposta non soltanto in Italia, ma anche in Spagna, dal momento che a corte vi è almeno una nobildonna dal cognome spagnolo. Eppure, soltanto cento anni prima, un antenato di Prospero era un monaco cristiano dell'Inquisizione, reo di aver ucciso centinaia di persone in nome di ciò che chiamava "amore": così il nobile narra queste memorie del passato alla fulva Francesca, che prova una sorta di pudore di fronte al racconto, affermando di non voler sapere nulla di queste cose. Si deduce quindi che fatti di una grande violenza devono essere avvenuti in epoca non troppo remota. Notiamo qualcosa di realmente singolare: le genti del villaggio e la corte di Prospero vivono in stato di reciproca ignoranza e isolamento culturale quasi assoluto. Prospero chiede a Francesca se la croce che porta al collo sia soltanto un ornamento privo di significato oppure se lei sia davvero cristiana - come se non sapesse che nel villaggio perdura una forma di culto cristiano. Dal canto suo, Francesca si meraviglia molto nell'apprendere che il principe adora Satana, come se al villaggio la cosa fosse semplicemente ignorata. Non sappiamo fino a che punto Corman avesse chiare queste cose, in ogni caso è evidente che la sua opera è un'ucronia a tutti gli effetti. Per quanto la critica si ostini a ritenere che l'ambientazione sia medievale, risulta chiaro che le vicende si collocano agli inizi dell'età moderna. Solo per fare un esempio, Scarlatti invoca gli Dei - cosa che non sarebbe stata concepibile senza l'opera di Gemisto Pletone. Già questo prova che siamo in pieno Rinascimento. Abbiamo anche una prova del fatto che il Punto di Divergenza sia da collocarsi dopo la scoperta dell'America: l'allucinazione di Juliana, in cui compare un immolatore azteco armato di pugnale di ossidiana e intenzionato a strapparle il cuore dal petto. La stessa pozione allucinogena è a base di peyote.


Roger Corman, Vincent Price e Anton S. LaVey

Altra cosa che è passata inosservata è la dottrina esposta dal principe Prospero. Al massimo qualche critico ha affermato di trovare strane le allusioni teologiche che innervano il film, dato che Corman non era "persona particolarmente religiosa". Come sedersi su uno scoglio in riva al mare e farsi passare davanti un immenso cetaceo scambiandolo per un pesciolino. I princìpi fondanti di quello che potremmo chiamare Umanesimo Satanico guidano Prospero. Se il Maligno è visto come un essere reale, proclamato vincitore del vecchio Dio, è altresì vero che al contempo è affermata la sua natura di principio di intelligenza che muove l'uomo. Mentre Dio, ormai defunto, esigeva sottomissione e fedeltà, il rapporto tra questo Satana quasi astratto e il suo devoto è descritto come quello tra un maestro e il suo apprendista. È ben possibile affermare che in Prospero agisce quella che Anton Szandor LaVey chiamava Autoindulgenza. Anche il principio dell'Egoismo è ben mostrato all'opera. Quando il nobile Scarlatti chiede asilo a Prospero, essendo terrorizzato dalla Morte Rossa, si vede opporre un secco rifiuto. Infatti il principe, mosso da timore superstizioso, crede che un ospite che porta come cognome il colore della pestilenza possa attrarre disgrazia e contagio. Scarlatti supplica, piagnucola e arriva a offrire a Prospero la propria moglie. Visto che invocare la pietà di Dio non fa breccia in un satanista, ecco che invoca gli Dei, ingannandosi. Senza misericordia né barlume di umanità, Prospero trafigge Scarlatti con un dardo di balestra e induce sua moglie al suicidio. Anche gli estenuati esuli dal villaggio distrutto, sopravvissuti alla pestilenza, si ritrovano bersagliati dai balestrieri. Così vediamo Prospero festeggiare senza degnare di uno sguardo il cadavere della moglie Juliana, tacitando i cortigiani e inducendoli a non avere scrupoli nei confronti della morta. Con sarcasmo tagliente, afferma quindi che Juliana è davvero diventata sposa di Satana: ha pagato con la vita il fatto di non aver voluto subire sodomia. Domina l'esaltazione del forte e il disprezzo assoluto verso i deboli, già enunciato da Ragnar Redbeard. Guardando il film possiamo farci un'idea di come sarebbe la vita in una società laveyana. Notiamo ora un dettaglio a parer mio di estremo interesse. Si deve notare che il film - in assoluto il primo a parlare in modo esplicito di satanismo - è datato 1964, due anni prima dell'inizio dell'Era di Satana secondo il calendario della Chiesa di LaVey. La cosa non può essere priva di significato. Certo, Corman non era affatto un credente di una qualsiasi chiesa cristiana, ma a parer mio era un credente laveyano, come lo era lo stesso Price. Possiamo affermare senza dubbio che tra queste persone vi fosse una connessione profonda e che appartenessero alla più intima cerchia dei seguaci dell'organista di San Francisco, facendo propaganda dei suoi contenuti ancor prima che la sua religione venisse fondata ufficialmente.


Un finale spiazzante

Non sarebbe stato possibile per Corman fare apologia di una peculiare forma di satanismo senza doverne fare ammenda, dato che all'epoca la cosa avrebbe destato un grande scandalo in una nazione come gli Stati Uniti. Così escogitò un finale concepito apposta per sviare l'attenzione dai suoi contenuti propagandistici. Il principe Prospero doveva vedere la sua teologia crollare di fronte alla Morte Rossa, prima di morire a causa del contagio. Mentre nel racconto di Poe la Morte Rossa ha le sembianze di un cadavere putrefatto coperto di sangue, nel film vediamo qualcosa di completamente diverso. La Morte Rossa assume le sembianze della persona che è venuta a prendere. Così quando Prospero la vede senza maschera, scorge il proprio volto. In realtà, la Morte Rossa non sembra essere così amorale come afferma. Dice di non avere padroni, eppure salva pochi cristiani e la coppia di nani con ogni probabilità agnostici, facendo perire i satanisti e vanificando la Rivoluzione Satanica. Si è pensato a forti analogie con Il settimo sigillo, cosa abbastanza verosimile, anche perché Corman temeva che il suo film fosse ritenuto troppo simile all'opera di Ingmar Bergman, dominata da una personificazione della Morte del tutto indifferente alla fede cristiana o satanica degli umani. Che l'influenza bergmaniana ci sia è fuor di dubbio, anche se penso che questa sia stata un mero escamotage usato da Corman per mascherare le sue simpatie sataniste. Lo stesso Price mascherò la propria reale appartenenza religiosa, prima con una formale adesione alla Chiesa Episcopale, poi con l'altrettanto formale conversione alla Chiesa Romana quando sposò l'attrice australiana Coral Browne. 


Formule magiche in latino 

Nel corso dei suoi riti satanici, che risulteranno vani e non le daranno quanto richiesto, Juliana pronuncia un'invocazione in un latino ben peculiare e a tratti oscuro, in cui la pronuncia accademica inglese si mescola a tentativi di pronuncia restituta con fonemi articolati in modo tipicamente anglosassone. Si tratta di un'alterazione di Salmi 105:21: Constituit satanicum dominum domus suae et principem omnis possessionis suae. Si nota in particolare suae pronunciato con l'accento sulla desinenza e con le vocali separate in un netto iato, come /su-'a-e/. Per contro, principem suona /'prinsipem/, con l'assibilazione, mentre possessionis suona addirittura /poze'sjonis/, con la prima sibilante sonora. Il verbo constituit suona /'konstitjut/, con accento sbagliato, con il tipico /ju/ inglese per /u/ e senza alcuna traccia della -i- della desinenza. Infine, domus è ridotto a un farfugliamento, suonando in modo corrotto /'toma/.

La natura della Morte Rossa

Appare chiaro che la Morte Rossa è da identificarsi con Ebola o con una simile febbre emorragica letale, come ad esempio il morbo di Marburg. Vediamo ai nostri giorni quanto Edgar Allan Poe sia stato profetico!  

Altre recensioni e reazioni nel Web

Segnalo la recensione di Antonella Romaniello, comparsa su Horrormagazine: 


Riporto in questa sede un paio di commenti comparsi su Filmtv.it.

Alfatocoferolo scrive senza troppo entusiasmo: "Buona la regia, efficace Vincent Price (per quanto troppo spesso reciti da teatro e non da film), ottime le atmosfere. Si respira il clima del romanzo sebbene solo in alcuni frangenti (la festa in maschera su tutto) ed alcuni passaggi sono di notevole impatto (la possessione demoniaca di Juliana, il finale con gli emissari della morte) ma spesso il ritmo è basso e questa è forse l'unica pecca di una pellicola dal buon impatto estetico." 

Zombi fa propaganda delle solite stronzate del libero arbitrio: "film del filone soporifero di corman su poe. ci sono cose che invecchiano mantenendo un certo fascino ma che si sopportano a stento e solo perchè non si lavora e si ha dormito a dovere la mattina. un signorotto despota, praticamente schiavizza i propri sudditi. ne dispone come e quando vuole, sfruttandoli per come e quanto è possibile uccidendoli al minimo fastidio. sadico, si diverte anche molto as escogitare scherzetti divertenti per prolungare l'agonia dei poveretti in favore degli ospiti del proprio castello, mentre nella campagna intorno divaga la morte rossa. il signorotto è convinto che avendo rinunciato alla fede divina e avendo abbracciato in toto le perversioni umane spacciandole per appartenenti al diavolo di farla franca nei confronti del malefico morbo che fa strage nell'europa tutta. il ritmo lento(anche se il film dura poco più di 70 minuti)rende lento e lungo il film, appesantendolo con una recitazione barocca e ipnotica del mastro vincent mattatore della pellicola. l'atmosfera malsana di una rappresentazione teatrale in cui gli attori e i partecipanti sono destinati inconsapevolmente a soccombere al morbo che tutto falcia senza distinzioni di razza, ceto o credo religioso. bello il finale, dove la morte rossa che non obbedisce a nessun dio se non a se stessa o a moltiplicazioni colorate di se stessa, una volta radunate le variante cromatiche, s'incammina lungo un crinale a pretendere altro raccolto umano."

domenica 24 dicembre 2017


La pestilenza del 1348

"Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ipocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co' lor parenti, compagni e amici, che poi la sera vegnente appresso nell'altro mondo cenaron con li lor passati!"

Giovanni Boccaccio, Decameron, Introduzione alla Prima Giornata. 

Premessa. Vuoi per l'entità del fenomeno, vuoi per la gravità delle sue conseguenze, sarebbe impossibile condensare in poche pagine la storia della grande epidemia di peste nera che travolse i paesi europei negli anni compresi tra il 1347 e il 1351. Questo articolo, dal carattere volutamente frammentario, ha il solo scopo di suggerire alcuni percorsi di ricerca. A coloro che desiderassero approfondire l'argomento, consiglio vivamente la lettura del saggio di Klaus Bergdolt "La peste nera e la fine del Medioevo" (Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 1997), che offre un dettagliato quadro d'insieme dell'evento, e di "La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio dall'antichità all'età contemporanea" di William Hardy McNeill (Einaudi, Torino, 1982), per la parte relativa all'epidemia di peste detta, convenzionalmente, "del 1348". Da segnalare anche "La Grande Peste. Un flagello sull'Europa del Trecento" di Angel Blanco (Fenice 2000, Milano, 1994), un agile volumetto di taglio divulgativo.  

Cenni di patologia. La peste è una malattia epidemica causata da una batterio del genere Pasteurella. Si trasmette da roditore a roditore (sorgente dell'infezione), e da questi all'uomo, per il tramite delle pulci (vettori dell'infezione). Il principale vettore della Pasteurella pestis è la pulce del ratto indiana (Xenopsylla cheopis), diffusa nei paesi tropicali; in determinate condizioni anche la pulce dell'uomo (Pulex irritans) può propagare la malattia. Nel 1993, l'Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarava che "focolai naturali di peste" venivano segnalati in alcuni paesi dell'Africa subsahariana (Kenya, Madagascar, Mozambico, Uganda, Tanzania e Zaire), dell'America del Sud tropicale (Bolivia, Brasile, Equador e Perù) e dell'Asia sud-orientale (Myanmar - ex Birmania - e Viet Nam), raccomandando ai viaggiatori diretti verso aree dove la peste è endemica di "evitare ogni contatto con i roditori (topi e ratti)". L'OMS rilevava come, a fronte dell'assenza di epidemie di peste "negli ultimi anni", si fossero verificati "solo casi sporadici (...) nei cacciatori di roditori selvatici e in residenti in remoti villaggi andini che vivono in case infestate da ratti" ("Viaggi internazionali e salute. Situazione al 1° gennaio 1993", versione italiana a cura del Centro Collaboratore OMS per la Medicina del Turismo). Sono due le modalità di trasmissione del contagio: per via cutanea, in seguito al morso della pulce; o per via aerea, analogamente a quanto accade per il raffreddore. Nel primo caso il meccanismo patogenetico è il seguente: la pulce si nutre del sangue di un roditore infetto; i batteri si moltiplicano nel tratto digerente superiore della pulce, ostruendolo; quando la pulce si nutre di nuovo, pungendo per esempio un uomo, il blocco fa sì che il sangue appena ingerito sia rigurgitato nella morsicatura, che è di fatto una ferita aperta, insieme ai batteri della peste. Il ratto nero (Rattus rattus), giunto a quanto pare in Europa a bordo delle navi che riportarono i crociati dall'Oriente, diede un contributo determinante al dilagare della Grande Pestilenza nel 1347. La peste umana ha un periodo d'incubazione compreso fra 1 e 6 giorni e si manifesta clinicamente in tre forme: bubbonica, setticemica e polmonare. La forma bubbonica è caratterizzata dalla comparsa del cosiddetto bubbone (ingrossamento di un linfonodo) nella regione inguinale o, più raramente, ascellare. Se il batterio supera la barriera linfoghiandolare si diffonde in tutto l'organismo. La peste setticemica, contraddistinta da un pullulare di batteri nel sangue, può provocare emorragie cutanee, mucose e viscerali in seguito alle quali la cute dell'appestato si copre di macchie o croste nerastre (di qui il termine di uso popolare "peste nera"). La forma polmonare implica un interessamento dell'apparato respiratorio in forma di broncopneumopatia secretiva. L'escreato, terreno di crescita per i batteri, risulta fortemente contagioso.  

"Cominciossi nelle parti d'Oriente". Così si esprime Matteo Villani (1280,1363), nella sua Cronica, in merito alla provenienza geografica della "mortale pestilenzia" che assalì l'Europa intorno alla metà del XIV secolo. L'epidemia scaturì a quanto sembra ad Alma Ata, Kazakistan, nel 1336, e dagli altipiani dell'Asia centrale, lungo le piste carovaniere, raggiunse la penisola di Crimea. Si tramanda che proprio qui ebbe a verificarsi un evento destinato ad avere ripercussioni catastrofiche. Primavera 1347: Caffa, l'odierna Feodosiya, allora centro fiorente del commercio genovese, è cinta d'assedio dai tartari. Il contagio apre vuoti spaventosi tra le file degli assedianti, al punto da indurre il khan a ordinare la ritirata. Ma prima di abbandonare l'assedio i tartari compiono un gesto che rappresenta un vero e proprio atto di guerra batteriologica: servendosi di catapulte, scagliano decine di cadaveri di propri compagni morti di peste all'interno delle mura cittadine. Era fatale, tuttavia, che la Crimea dovesse fungere da "rampa di lancio" per il diffondersi dell'epidemia: da essa si dipartivano infatti molteplici linee marittime e vie commerciali. Il contagio viaggiò a bordo delle navi genovesi, e sbarcò là dove esse sbarcarono.   

"Sicilia porta d'Europa". Nell'ottobre del 1347, dodici galee genovesi attraccarono a Messina. L'equipaggio aveva contratto la malattia e molti marinai erano morti durante la navigazione. Assieme all'equipaggio umano le navi trasportavano, annidati nelle stive, i topi della peste. L'epidemia dilagò dapprima in Sicilia e, nel 1348, in tutta la penisola italiana: "L'inesorabile propagazione del contagio seguì sia le rotte che collegavano i porti principali, sia le direttrici della rete stradale e fluviale" (Angel Blanco). Alla fine del 1351, l'Europa, salvo alcune fortunate enclaves, era completamente colpita. Nel giro di cinque anni, la peste uccise un terzo della popolazione europea: una falcidie senza precedenti, favorita dalle disastrose condizioni igienico-sanitarie esistenti all'epoca. Ovunque regnava la sporcizia e i rifiuti si accumulavano nelle strade: una volta giunti a terra, i ratti trovarono un habitat ideale per moltiplicarsi.  

Umori e miasmi. Prima della scoperta dell'esistenza di agenti patogeni microscopici e dei loro cicli riproduttivi, il concetto di contagio, come sottolinea Giulio Preti nella sua "Storia del pensiero scientifico" (Mondadori, 1957), rimaneva assai misterioso e di difficile interpretazione. La medicina medioevale, non diversamente da quella antica, spiegava l'origine delle malattie infettive in base alla teoria umoralpatologica, fondata sulla tradizione ippocratico-galenica, che faceva derivare la malattia da una cattiva mescolanza dei quattro umori fondamentali; e alla teoria dei miasmi, secondo cui: "acqua stagnante, pantani, pozzi e laghetti corrompevano l'aria che diffondeva la putredine e attraverso la respirazione contagiava l'organismo umano" (Bergdolt). Va precisato che nel Corpus Hippocraticum sono presenti entrambi gli aspetti dottrinari: quello che fa discendere gli stati morbosi dalla discrasia degli umori nel corpo umano, e quello che li attribuisce a fattori atmosferici, o ai gas generati all'interno dell'organismo. Per capire meglio in cosa consistesse la teoria dei miasmi, si può far riferimento al De rerum natura di Tito Lucrezio Caro (98-55 a.C. circa). Il libro VI del poema scientifico-filosofico lucreziano contiene non solo un drammatico resoconto dell'epidemia (presumibilmente vaiolosa) che colpì la città di Atene e l'Attica nel 430 a.C., ma anche un'interessante dissertazione sulle cause del fenomeno. Il presupposto è la necessità che "multarum semina rerum", i semi di molte cose, siano vitali per noi, ed altri, al contrario, portatori di malattia e di morte. La mescolanza casuale di codesti differenti "semi" fa sì che l'aria divenga malsana ("fit morbidus aër"). Tutta la forza e la virulenza dei morbi scaturirebbero o "dall'alto, come nuvole e nembi" o "dalla terra", resa putrida dalle piogge e dal calore del sole. Sostiene Lucrezio che quando quest'aria infetta, muovendosi come una nube, giunge nel nostro cielo, "lo corrompe e lo rende simile a sé". Accade allora che tale pestilitas "cade immediatamente nelle acque, o si insinua nelle stesse messi o in altri alimenti degli uomini e nutrimenti degli animali", con le conseguenze che si possono immaginare, oppure la sua forza "rimane sospesa nell'aria" e, in questo caso, gli uomini respirando la introducono nel proprio corpo. Va detto che la teoria lucreziana venne ripresa dal medico Girolamo Fracastoro nell'opera "De contagione et contagiosis morbis et curatione" (1546), in cui le malattie contagiose venivano spiegate con la presenza di semi capaci di infettare per contatto, a distanza e mediante veicoli di contagio.  

"Nella egregia città di Fiorenza". In merito a un caso specifico, quello della città di Firenze, disponiamo di interessanti testimonianze d'epoca medioevale: mi riferisco, in particolare, alla Cronica dei fratelli Giovanni e Matteo Villani, al proemio del Decameron di Giovanni Boccaccio e alla Cronaca Fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani. Tutti e tre gli autori sottolineano l'assoluta impotenza dei medici di fronte al flagello della peste. "A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto" sostiene Boccaccio. "Di questa pestifera infermità i medici in catuna parte del mondo, per filosofia naturale o per fisica o per arte d'astrologia, non ebbono argomento né vera cura" (Matteo Villani). Dal canto suo, Marchionne osserva che "non valeva né medico né medicina, o che non fossero ancora conosciute quelle malattie, o che li medici non avessero quelle mai studiato, non parea che rimedio vi fosse". Impossibilitati a debellare il morbo, i medici non trovavano di meglio che consigliare... la fuga dalle località minacciate dalla peste. A Firenze, essa prese ad imperversare nel mese di aprile del 1348, seminando la strage. I dotti e gli uomini di scienza non erano in grado di offrire una spiegazione adeguata del fenomeno né tantomeno di contrastarlo. Ciarlatani e fabbricanti di amuleti, ovviamente, facevano affari d'oro. Boccaccio osserva che la pestilenza "s'avventava" dagli infermi ai sani, e che "non solamente il parlare e l'usare cogli infermi dava a' sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata". Oggi sappiamo che la peste nella forma polmonare si trasmette tossendo, starnutendo o semplicemente parlando, mediante l'inalazione di goccioline emesse dalla bocca di persone infette. Che gli indumenti indossati da individui morti di peste potessero contagiare ed uccidere non solamente altri uomini, ma anche "un altro animale fuori della specie dell'uomo", è un fenomeno che costituiva motivo di sorpresa per l'autore del Decameron il quale riferisce il seguente episodio: "essendo gli stracci d'un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via pubblica e avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il loro costume prima molto col grifo e poi co' denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra". Marchionne di Coppo Stefani dichiara: "E non bastava solo gli uomini e le femmine, ma ancora gli animali sensitivi, cani e gatte, polli, buoi, asini e pecore moriano di quella malattia". Malattia che, ricordiamolo, infuriò a Firenze nei mesi caldi, in corrispondenza del periodo di maggior vitalità delle pulci. Circa le cause del flagello, Boccaccio affaccia due ipotesi: il malefico influsso degli astri ("per operazion de' corpi superiori") e la volontà punitrice di Dio (la pestilenza sarebbe "per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali"). Ritroviamo il medesimo schema interpretativo in Matteo Villani: una sfavorevole congiunzione astrale ("la congiunzione di tre superiori pianeti nel segno dell'Acquario, della quale congiunzione si disse per gli astrologi che Saturno fu Signore: onde pronosticarono al mondo grandi e gravi novitadi"), ipotesi cui peraltro Villani annette scarso credito ("ma simile congiunzione per li tempi passati molte altre volte stata e mostrata, la influenzia pealtri particulari accidenti non parve cagione di questa"); e l'ira divina ("ma piuttosto divino giudicio secondo la disposizione dell'assoluta volontà di Dio") Quello del castigo divino ("la sentenzia che la divina giustizia con molta misericordia mandò sopra gli uomini, degni per la corruzione del peccato di final giudizio") è un tema caro non solo a Matteo Villani, ma a molti suoi contemporanei: "il clero assicurava che Dio, a causa dei peccati degli uomini, si sarebbe adirato e avrebbe dunque deciso di annientarli" (Bergdolt). Convincimento fondato sui "precedenti" di cui narra la Bibbia: il diluvio (Gen 6-7), la distruzione delle città di Sodoma e Gomorra (Gen 19, 23-29), le piaghe d'Egitto (Es 7-12), la pestilenza che colpì i Filistei rei di essersi impadroniti dell'Arca dell'Alleanza (1 Sa 5, 1-12; 6, 1-6). La vicenda descritta nel Primo libro di Samuele risulta di particolare interesse: ad un'attenta lettura, si comprende come gli estensori di questo testo - annoverato dai cristiani tra i libri storici del Vecchio Testamento - avessero intuito l'esistenza di un nesso tra l' "eruzione di bubboni" che colpì gli abitanti della città di Ashdod "dal più piccolo al più grande", e la presenza dei topi, da cui la terra dei Filistei era infestata. Su tale intuizione gravava tuttavia l'impianto religioso dell'opera, in cui ogni fatto è visto nella prospettiva della fede, che identifica in Dio il centro motore degli avvenimenti. La religione offriva così agli europei del XIV secolo una collaudata chiave di lettura degli eventi, capace di renderli decifrabili, sia pure in termini sovrannaturali. L'immagine di una divinità avvezza ad infliggere punizioni esemplari alle proprie creature era fortemente radicata nell'immaginario collettivo, dunque già "pronta per l'uso". Tuttavia, per quanto corroborata dalla testimonianza della Auctoritas per eccellenza (il testo biblico), la tesi secondo cui fosse "l'ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella pestilenza" (Boccaccio) non rendeva certo più sopportabile, per gli uomini e le donne di allora, la tremenda minaccia della peste. Ciò che ad essi premeva era, infatti, la salvezza dalla malattia e dalla morte. Di qui le aspettative riposte nella categoria tradizionalmente preposta alla mediazione fra l'umano e il divino: il ceto sacerdotale. Per placare il furore e impetrare il perdono della divinità adirata che si riteneva avesse scagliato il flagello della peste sull'umanità, si moltiplicarono le processioni e le "umili supplicazioni" ma, sottolinea Boccaccio, né queste né altre iniziative di carattere più concretamente profilattico (la rimozione, certo tardiva, delle immondizie dalla città) valsero ad evitare che la peste nella primavera dell'anno predetto cominciasse a dimostrare "i suoi dolorosi effetti" a Firenze. E non va dimenticato che essa non risparmiò cappellani e parroci. La confusione sulle cause dell'epidemia, la mancanza di terapie efficaci, l'inutilità acclarata delle cerimonie religiose propiziatrici generarono, in breve, un senso di insicurezza generalizzata che si tradusse nella risoluzione "di schifare e di fuggire gl'infermi e le lor cose" (Boccaccio). "Lo figliuolo abandonava il padre, il marito la moglie, la moglie il marito, l'uno fratello l'altro", afferma Marchionne aggiungendo che molti malati morirono di fame nei propri letti, abbandonati dai familiari timorosi di contrarre il morbo.  

Il trionfo dell'irrazionalità. Tra gli effetti collaterali dell'epidemia di peste nera che sterminò milioni di europei, merita di esser segnalata la ripresa della setta penitenziale-millenaristica dei flagellanti, fondata nella seconda metà del XIII secolo dal mistico Ranieri Fasani, che si richiamava alle profezie del monaco cistercense calabrese Gioacchino da Fiore. Sulla base di approfonditi studi biblici, Gioacchino aveva elaborato una visione escatologica della storia che introduceva un modello della temporalità nient'affatto collimante con quello stabilito dalla Traditio. Dall'osservazione della concordia Veteris et Novi Testamenti, ovvero della corrispondenza puntuale fra gli eventi accaduti prima e dopo Cristo, Gioacchino ricavò il convincimento che fosse all'opera nella storia una Legge di ripetizione, che riproduceva nella dimensione del tempo lo schema teologico trinitario. La storia del Nuovo Israele (la Chiesa), - ovvero la Seconda Età, l'Età del Figlio -, aveva visto la ripetizione degli avvenimenti verificatisi nel corso della Prima, l'Età del Padre. Secondo Gioacchino, l'Età del Figlio stava volgendo al termine: ad essa sarebbe succeduta l'Età dello Spirito, durante la quale si sarebbe riprodotta la catena di eventi compiutisi da Adamo a Malachia, ma per l'ultima volta. Essa, infatti, avrebbe posto fine alla storia e alla Chiesa istituzionale. Le profezie gioacchimite, benché sovente fraintese, esercitarono un profondo influsso sulla spiritualità medioevale, diffondendosi in ampi strati della società. L'annuncio della Fine ormai prossima dell'età presente suggestionò il promotore del movimento dei flagellanti, che da Perugia si propagò in tutta Italia e oltre i confini della penisola. Parallelamente alle processioni dei flagellanti, all'epoca della grande pestilenza, in alcune regioni d'Europa (Francia centrale e meridionale; gran parte della Germania) si assistette a un dilagare dei pogrom: la più brutale e sanguinosa ondata di persecuzioni antiebraiche verificatasi prima dell'Olocausto. In un clima di psicosi collettiva, "nell'intento di soddisfare il proprio bisogno di causalità, non di rado il popolo vedeva all'opera persone che diffondevano l'epidemia e assassini che andavano puniti" (Bergdolt). Constatato che le pratiche penitenziali non avevano alcun potere sulla peste, il popolo andò alla ricerca di un capro espiatorio su cui sfogare la propria aggressività e scaricare la propria ansia, e lo individuò negli Ebrei, accusati di avvelenare i pozzi e propagare la peste allo scopo di distruggere la Cristianità. Tale pretestuosa accusa si rivelerà talmente longeva da rieccheggiare ancora, due secoli più tardi, in uno degli scritti più veementi del riformatore sassone Martin Lutero: il celebre "Von den Juden und ihren Lügen", di cui esiste una splendida traduzione italiana (condotta sulla versione latina di Justus Jonas) ad opera di Vittorio Dornetti per i tipi dell'Editrice Terziaria di Milano ("Contro gli Ebrei", 1997). Il curatore del volume osserva, in Appendice III, che: "Oltre ad essere una sintesi pressoché completa della tradizione antigiudaica cristiana dai Padri della Chiesa fino alla teologia medievale ed oltre, il Von den Juden appare anche un catalogo ugualmente folto dei capi d'accusa che la cultura popolare e gli intellettuali, sia protestanti che cattolici, avevano formulato e poi diffuso in merito ai Giudei, ‘inviati di Satana’ e ‘male assoluto’."  

La Peste nella Rete. Nel mare magnum di Internet sono reperibili una gran quantità di testi, brevi e non specialistici, sull'argomento. Il materiale in lingua italiana presenta una certa uniformità di contenuti e va vagliato con cura. Tra gli articoli degni d'interesse segnalo: "La peste nera. Ma poi venne il Rinascimento" di Enrico Butteri Rolandi (www.cronologia.it/storia/aa1347.htm). 

Pietro Ferrari
(articolo pubblicato sul Nr. 4 della Fanzine Nihil

venerdì 15 dicembre 2017

NOTE SUL LAVORO DI GRAZIANI

Ernesto Graziani (Università degli Studi di Macerata) è l'autore di Ontologia temporale, contributo pubblicato su APheX, portale italiano di filosofia analitica (N° 9 gennaio 2014, pagg. 158-218, redattore Francesca Ervas). Il lavoro è consultabile e scaricabile liberamente al seguente url:


Questo è l'indice dell'opera:

1. INTRODUZIONE
2. ONTOLOGIE TEMPORALI
3. SOSTANZIALITÀ DEL DIBATTITO
4. ARGOMENTI
   4.1. Senso comune
   4.2. Considerazioni fenomenologiche
   4.3. Grazie al cielo è finita!
   4.4. Libero arbitrio
   4.5. Il presente è ora
   4.6. Riferimento a momenti non presenti
   4.7. Riferimento dei nomi propri e proposizioni
         singolari
   4.8. Fondamento delle verità passate
   4.9. Relazioni intertemporali
   4.10. Teoria della relatività ristretta
5. BIBLIOGRAFIA

Questo è l'abstract: 

"L’ontologia temporale è la riflessione sullo statuto ontologico delle entità meramente passate o future. In questo contributo intendo chiarire il significato di questa questione, presentare le principali opzioni teoriche che si delineano rispetto ad essa e, concentrandomi sulle due principali teorie contendenti, B-eternismo e presentismo, illustrare gli argomenti più rilevanti formulati a favore dell’una e dell’altra."

L'autore si addentra nella classificazione delle ontologie temporali, che si distinguono in due blocchi: teorie tensionali (A) e teorie atensionali (B). Tra queste due classi di teorie del tempo esistono abissi incolmabili, al punto che i rispettivi sostenitori nemmeno riescono a comunicare tra loro in modo razionale, come se fossero specie aliene provenienti da universi del tutto dissimili. A distinguere le teorie A dalle teorie B è proprio il modo in cui vengono intesi gli eventi: la tensionalità corrisponde alla definizione di tempo basata sul passaggio temporale e sulla differenza di stato tra presente, passato e futuro", mentre il tempo atensionale è semplicemente l'ordine di un insieme di configurazioni statiche, spesso distinte solo per convenzione. Se il presentismo è una tipica teoria A, l'eternismo si presenta sia in forme tensionali che atensionali.

Principio di economia ontologica

Il problema principale di numerose ontologie temporali è la loro natura antieconomica. Premetto che non sono un fanatico sostenitore del rasoio di Occam. Se ho di fronte a me due teorie A e B, essendo A più semplice di B, allora se A spiega le cose in un dominio X mentre B spiega le cose in un dominio Y più grande e contenente X, scelgo la teoria B - dato che rende conto di una realtà più ampia rispetto alla teoria concorrente. Quando si tratta di teoria del tempo si va ben oltre quanto pensato da frate Guglielmo di Occam. Non si tratta infatti di postulare più enti semplici anziché un singolo ente più complesso, o di fare tramite un certo numero di enti ciò che può esser fatto in altro modo con un ente singolo: si tratta di generare infiniti non normalizzabili. Un'eruzione spaventosa di infiniti, come quella che ci ha portato a guardare con sospetto e scetticismo la teoria del multiverso. Ogni quanto che compone la realtà dello spaziotempo sarebbe a sua volta un intero universo, pietrificato o dinamico, in un flusso infinito in ogni direzione, con una potenza che supera quella delle parti del continuo come questa trascende il finito. Una mostruosità che paralizza e toglie il respiro, e che per giunta non ha utilità o causa alcuna. Per comprenderlo basta passare in rassegna le principali criticità. 

Se nell'eternismo B-teorico l'intera realtà temporale, passata, presente e futura, è data in blocco, allora sorgono in me domande ossessive, che a quanto pare non sfiorano nemmeno la mente degli accademici. Come possiamo spiegare l'esistenza di questo blocco di realtà? Come identificarne una causa? Che senso avrebbe? Se il divenire è una collezione di cartoni animati, chi li ha disegnati? Partendo da quale universo? Per quale motivo? Si cerca in un universo acausale la radice dell'esistenza, che esperiamo come causale. Un universo il cui tempo statico è acausale non può in alcun modo spiegare l'universo causale in cui siamo immersi.

Sono possibili varie soluzioni A-teoriche non presentiste, anche se non va nascosto che ognuna presenta punti deboli e aspetti fortemente critici. 

Il concetto di incrementismo è una tipica forma di eternismo tensionale. Esisterebbe il passato, ma non il futuro. Cosa genera dunque il futuro? Si forma a partire dal presente o prende corpo dal nulla?

Un'altra soluzione è la teoria del riflettore in movimento: il presente acquisterebbe il suo statuto ontologico privilegiato come se un fascio di luce lo investisse prima del suo sprofondamento nell'ombra e nell'oblio. Si potrebbe trattare di un generatore di ologrammi. Anche qui sorgono inquietanti interrogativi. Chi ha collocato il riflettore al suo posto? Qual è il suo senso? Qual è la sua funzione? In che mondo esso si colloca nella struttura dello spaziotempo di Minkowski? Il raggio di luce illuminatore parte da un altro universo? Come spiegare quell'universo? Esiste un nesso causale tra quell'universo e il nostro?

Direi proprio che è stato pensato di tutto per rendere conto dell'esperienza sensibile. Nell'eternismo a gradi di realtà il presente ha un'ontologia che manca al passato e al futuro, a cui pure è attribuita l'esistenza. La sua variante più nota è senza dubbio l'A-eternismo a futuri ramificati, in cui si introduce un filtraggio quantistico centrato sul presente: "Poiché solo uno dei possibili corsi di eventi futuri trova realizzazione entrando a fare parte del presente, e poi del passato, il passaggio temporale comporta un progressivo cessare di esistere di tutti i corsi di eventi futuri che non si realizzano".

Secondo Graziani, tutte queste teorie appaiono inferiori al presentismo proprio perché antieconomiche: "La forma ontologicamente più parsimoniosa di teoria A è il presentismo, secondo il quale esistono solo le entità temporali presenti; non esistono entità passate né future. L'intera realtà temporale si riduce a ciò che di volta in volta è collocato nell'istante presente e il passaggio temporale consiste in un continuo cominciare ad esistere e cessare di esistere da parte delle entità temporali." Tuttavia l'autore non è un sostenitore del principio di economia ontologica e subito si perde nei meandri di vane considerazioni metalinguistiche. Così scrive: "L'ontologia presentista esclude l'esistenza di momenti passati o futuri: esiste un unico momento ed è l'istante presente. Eppure, parliamo continuamente di momenti passati o futuri. Diciamo, p.e., che l'invasione della Polonia da parte della Germania cominciò ufficialmente alle 04:45 del 1° settembre 1939 o che all'inizio del 2030 non esisterà ancora alcuna base spaziale umana su Marte. E questo è qualcosa di cui il presentismo sembra non poter render conto. (Il medesimo problema si pone ovviamente anche per l'ontologia incrementista, anche se limitatamente al caso dei momenti futuri.)". Si tratta di una forma di paranoia del tutto vana e insostanziale, che dà tuttavia origine a pagine e pagine piene di simboli logici nel tentativo di sviscerare i costituenti primi di una realtà che sfugge ad ogni ulteriore analisi proprio perché ci è impossibile collocarci al di fuori di essa e osservarla da quella posizione privilegiata. Tutti sappiamo che anche se il passato non esiste più, ne permangono le conseguenze e le attestazioni, in alcuni casi i ricordi: a queste cose concrete facciamo riferimento ogni santo giorno quando pensiamo, parliamo e apprendiamo. Il futuro non esiste ancora, eppure è possibile azzardare previsioni a breve termine a partire da un algoritmo di proiezione degli eventi passati e presenti. Queste proiezioni, seppur spesso siano fallaci, ci guidano, ci aiutano e ci evitano di incappare in pericoli. Non è necessario attribuire un'ontologia a eventi passati e/o futuri per poterne parlare o per poter fare riferimento ad essi, dal momento che siamo in possesso di un linguaggio simbolico, oltre che della facoltà di ricordare e di azzardare previsioni. Queste cose sembrano sfuggire agli ontologi temporali, che a quanto pare vivono le loro esistenze in un mondo di astrazioni inapplicabili. Nessuno di loro sembra comprendere che dire "passato/presente/futuro" oppure dire "prima/ora/poi" è la stessa cosa ontologicamente parlando: non si tratta di buone etichette verbali per rendere conto di differenze metafisiche tra tensionalità e atensionalità, fondate sulla diversa concezione dello status ontologico del passato e del futuro rispetto al presente. Solo grammaticalmente cambia qualcosa usando i due set di parole. Per gli anglosassoni la questione è rilevante perché essi parlano una lingua che distingue tra time e tense. In altre lingue questa distinzione non è espressa dall'uso di diverse parole e non viene dunque intesa. Giova far notare che se si parlasse una lingua che non distingue i tempi grammaticali nella flessione dei verbi, la realtà delle cose non cambierebbe. Trovo che sia della massima importanza trovare un nuovo linguaggio per esprimere i concetti della filosofia del tempo evitando queste ambiguità fuorvianti e grossolane.

Non potendo razionalizzare lo scorrere del tempo, le teorie eterniste moltiplicano all'infinito il qui-ora generando collezioni di universi passati e/o futuri la cui ontologia presenta formidabili difficoltà di spiegazione. Di fatto ogni forma di eternismo concepibile da mente umana, che sia esso A-teorico o B-teorico, moltiplica l'universo all'infinito senza offrire alcun punto di appiglio: corrisponde a una dichiarazione di resa nei confronti dell'Ignoto, portandoci all'enunciato definitivo di una specie senziente terminale: ignoramus et ignorabimus. Andando aventi per questa strada ci si può soltanto illudere e riempire la testa di fumisterie, senza riuscire a trovare in alcun modo una spiegazione dell'esistenza. Soprattutto non si comprenderà mai un dato di fatto ineluttabile che gli ontologi temporali tendono a trascurare: la freccia temporale.

NOTE SUL LAVORO DI INGTHORSSON

Rögnvaldur D. Ingthorsson (Università di Lund, Svezia) è l'autore dell'articolo Challenging the Grounding Objection to Presentism, ossia "Sfidando l'obiezione fondante al presentismo", revisionato, accettato e apparso su Academia.edu nel 2017. Il lavoro può essere consultato e scaricato liberamente al seguente link: 


L'autore critica la cosiddetta obiezione fondante al presentismo, che si basa su due premesse:

i) Ogni proposizione vera P ha un'entità T chiamata "fattore di verità" o "truthmaker" che la rende vera; 
ii) Alcune affermazioni sul passato e sul futuro sono ovviamente vere; se tuttavia il futuro e il passato non esistono, non ci possono essere fattori di verità per espressioni tensionali del futuro e del passato.

La conseguenza di queste premesse, è secondo gli eternisti atensionali, la falsità del presentismo. Dal canto loro, i presentisti tendono ad accettare tutto ciò passivamente, limitandosi a dire che il presente ha tutti i fattori di verità necessari per ogni proposizione vera. Questa è chiamata "strategia di riallocazione" (relocation strategy), perché i fattori di verità delle proposizioni vere passate e future vengono a trovarsi nel presente. Tra gli altri, la strategia di riallocazione è stata sostenuta dal filosofo e logico neozelandese Arthur Prior, nato nell'anno dell'inizio della Grande Guerra e morto nel quarto anno dell'Era di Satana. Ingthorsson, che non riesce a liberarsi dalle catene della teoria dei fattori di verità, parteggia chiaramente per i presentisti e afferma che essi dovrebbero sfidare le premesse i) e ii) dell'obiezione fondante anziché investire sulla riallocazione prioriana di cui sopra.

Queste sono le conclusioni che trae l'accademico islandese: 

a) Cercare nel presente fattori di verità per ogni proposizione vera risulta nella postulazione di entità "implausibili" o "eteree";
b) Nessuna conseguenza assurda deriva dalla mancanza di valori di verità per espressioni tensionali;
c) L'obiezione fondante richiede non soltanto che ogni proposizione vera abbia un fattore di verità, ma anche che a ogni fattore di verità corrisponda una proposizione vera. Si può negare la seconda affermazione senza intaccare la prima: non necessariamente un fattore di verità implica l'esistenza di una proposizione vera.

Per quanto mi riguarda, sono ancor più radicale. Non mi limito a trovare un modo per aggirare l'obiezione fondante al presentismo: la rigetto interamente. Con buona pace di molti ontologi temporali, l'intera discussione è di lana caprina e può essere portata a termine col metodo usato da Alessandro il Grande per sciogliere il nodo di Gordio. Non si sente nessun bisogno di una fantomatica entità chiamata "fattore di verità" o "truthmaker" per garantire la verità di una proposizione o di un evento. Emerge con la massima chiarezza l'irrealtà del Puffo Truthmaker, creazione di gran lunga più artificiosa e antieconomica degli universali di cui si disquisiva nel Medioevo. Non ha alcuna esistenza fisica sperimentabile e misurabile. È un ente fittizio creato per far tornare i fallaci conti della paranoia. Perché diamine dovrebbe esistere da qualche parte una cosa simile e tanto vana? Gli adepti dell'eternismo atensionale dovrebbero innanzitutto fornire spiegazioni su questa pretesa necessità, ma non ci riescono in alcun modo. La loro logica sembra al livello di quella di un mio compagno di classe del liceo, che di fronte a una saliera in pizzeria affermava: "Non capisco perché lo chiamano sale se scende!". Metafisici di questo livello forse farebbero meglio a tornare all'asilo infantile, che sembra essere il posto più adatto a loro.

A un certo punto Ingthorsson arriva a fare alcune considerazioni oltremodo interessanti. L'astrazione del fattore di verità, che acquisisce un'esistenza autonoma e totalmente scorrelata dalle proposizioni vere, diventa come l'Iperuranio di Platone. I realisti immanenti che ne hanno postulato l'esistenza sono in realtà diventati filosofi neoplatonici, nella maggior parte dei casi senza nemmeno accorgersene. Tra questi si può menzionare l'australiano David Malet Armstrong, che faceva di tutti i fattori di verità concepibili da mente umana autentiche ipostasi emanate gerarchicamente dall'Uno, portando Plotino direttamente nel XX secolo.

Eliminata l'obiezione fondante al presentismo, possiamo tornare al problema dell'eternismo. Ammettiamo ora che valga l'eternismo atensionale (B-eternismo). Dunque quando la proprietà di "presente" era in un preciso momento dei primordi del pianeta Terra, la nostra esistenza attuale sarebbe stata già definita. Anche se non accessibile a un paramecio del Paleozoico, in qualche recesso dello spaziotempo sarebbe già esistito un futuro remotissimo, poniamo Giulio Cesare che attraversa il Rubicone. Orbene, il paramecio in questione non avrebbe potuto in nessun modo trovare un fattore di verità per Giulio Cesare che attraversa il Rubicone. Eppure, l'eternismo non tensionale dovrebbe ammettere la reale esistenza di questo fattore di verità, visto che dichiara illusorio il flusso temporale e attribuisce eguale dignità ontologica a passato, presente e futuro. In contrasto con questo, vediamo che nessun B-eternista si scandalizza se gli diciamo che gli eventi futuri non possono avere alcun fattore di verità a noi sondabile, dato che sono sconosciuti. Eppure gli stessi B-eternisti fanno il diavolo a quattro per quanto riguarda gli eventi del passato, riempiendo pagine e pagine di simboli logici. Cosa distingue dunque il fattore di verità di un evento passato dal fattore di verità di un evento futuro? Nulla, visto che entrambi appartengono allo stesso reame delle chimere e dei centauri!

martedì 12 dicembre 2017

NOTE SUL LAVORO DI LOBO-CRAWFORD

Francisco Lobo e Paulo Crawford (Universidade de Lisboa, Portogallo) sono gli autori dell'articolo Time, closed timelike curves and causality, ossia Tempo, curve "timelike" chiuse e causalità, risalente al 2002 e revisionato per l'ultima volta l'anno successivo. Il lavoro può essere consultato e scaricato liberamente al seguente link: 


Dopo un'introduzione in cui gli autori riassumono l'evoluzione del concetto di tempo dall'antichità a Newton e quindi ad Einstein, giungono finalmente al punto. Il problema è quello delle curve temporali chiuse (CTC), annosa crux filosofica. La teoria della relatività generale fornisce un'analisi approfondita del flusso temporale in presenza campi gravitazionali, siano essi di debole o di forte intensità. Com'è risaputo, tale teoria contiene geometrie non banali che implicano curve temporali chiuse. Accade così che un osservatore, seguendo una traiettoria lungo una curva di questo tipo, ritorni a un evento che coincide con la sua partenza. Per l'osservatore in questione, la freccia del tempo misurata localmente punta in avanti, tuttavia globalmente egli procede verso eventi che si trovano nel suo passato. Ciò viola la causalità e porta ai cosiddetti paradossi temporali, giustamente paragonati dagli autori al vaso di Pandora. I paradossi si possono classificare in due diversi tipi:

1) Paradossi di consistenza;
2) Anello causale (anello temporale). 

Il classico paradosso di consistenza è quello dell'uomo che torna nel passato e uccide il proprio nonno, minando così la propria esistenza.

Negli anelli causali, informazioni od oggetti sono intrappolati nello spaziotempo in un circuito di retrocausalità. Lobo e Crawford fanno l'esempio di un uomo che viaggia nel passato con una macchina del tempo, raggiunge se stesso quando era giovane, dando a questo suo sé un manuale su come costruire la macchina del tempo. La costruzione del congegno crononautico è resa possibile proprio dalla consegna del manuale. Posso fare esempi ancora più chiari per illustrare questo paradosso:

i) In un racconto di Philip K. Dick, Il fattore letale (Meddler), si parla di una macchina che fotografa il futuro. Tramite questo marchingegno, vengono fatte fotografie da cui risulta che nel giro di un secolo non si trova più traccia alcuna del genere umano. Viene così usata una macchina del tempo per inviare un crononauta nel futuro per capire la causa della catastrofe. L'uomo parte e al suo arrivo trova la Terra disabitata: il genere umano si è estinto. Esplora una città fatiscente, abbandonata da molto tempo. Recupera libri e giornali da una biblioteca, quindi si accinge a fare ritorno alla macchina del tempo. A questo punto scopre che a sterminare l'umanità sono stati sciami di strane farfalle, a cui riesce a sfuggere per il rotto della cuffia. Quando ritorna nel suo tempo, porta con sé alcuni bozzoli di queste farfalle, innescando così il processo che porterà l'umanità all'annientamento. Domanda: qual è l'origine di questa specie di lepidottero mortifero?

ii) In un racconto di Anne Lear, L'avventura del viaggiatore integrale (The Adventure of the Global Traveler), Sherlock Holmes trova una lettera scritta dal suo mortale arcinemico, James Moriarty, il Napoleone del Crimine. Il punto è che la lettera è datata 1640. Il geniale furfante ha inventato la macchina del tempo ed è precipitato sul palcoscenico di Shakespeare mentre veniva rappresentato il Macbeth. In origine nella tragedia dovevano esserci soltanto due sicari, ma ecco che Moriarty, trovatosi nel ben mezzo della scena, improvvisa, recitando la parte del Terzo Assassino, da lui conosciuta a memoria. La sua interpretazione piace a Shakespeare, che la include nella sua opera. Moriarty, che è rimasto intrappolato nel passato, scrive l'accaduto nella lettera sperando che un giorno Holmes la troverà. Lettera che si conclude così:
“La prima volta che le battute del Terzo Assassino furono mai pronunciate, erano solo il frutto della mia buona memoria.
“Dunque, di grazia, signor Holmes, chi le ha scritte?
 

Si hanno così oggetti, esseri e informazioni esistenti nello spaziotemo senza che nessuno sia responsabile della loro creazione. Un manuale che viene dal nulla. Una farfalla che viene dal nulla. Battute teatrali che vengono dal nulla.

Dopo aver introdotto e commentato brevemente i paradossi sopra citati, gli autori partono in quarta analizzando tutte le soluzioni delle equazioni di campo di Einstein che implicano curve temporali chiuse, fornendo al lettore un'immersione in un oceano di matematica superiore. Se un navigatore nutre per l'estetica matematica la stessa passione che Casanova nutriva per le donne, sarà sicuramente soddisfatto. Se devo essere sincero, le conclusioni di Lobo-Crawford mi lasciano esterrefatto. In sintesi, questa è la summa argomentativa dei due portoghesi: 

a) La teoria della relatività generale ha avuto un grandissimo successo, che ha una base sperimentale molto solida.
b) La teoria della relatività generale porta a soluzioni alle equazioni di campo che implicano curve temporali chiuse.
c) Si evince che se la teoria della relatività generale è valida, è necessario includere la possibilità di viaggio nel passato attraverso curve temporali chiuse.
d) Siccome l'accettazione del viaggio nel passato attraverso curve temporali chiuse implica paradossi, si evince che detti paradossi vanno accettati come possibilità non soltanto matematiche, bensì anche fisiche.
e) Stanti i punti precedenti, ne consegue che il paradosso dell'uccisione del nonno, così come gli anelli temporali, corrispondono a situazioni possibili e realistiche.

A questo punto fa magicamente la sua comparsa la ridicola baggianata papista del libero arbitrio. Così ragionano Lobo e Crawford: "È logicamente inconsistente che il crononauta uccida suo nonno. Ma per l'esattezza, ci si può chiedere, cosa gli ha impedito di compiere il suo atto omicida se egli ha avuto ampie opportunità e la libera volontà di fare così". Parlano sì del principio di autoconsistenza, formulato da vari autori per aggirare il problema, ma ora della fine sono autentici sostenitori della possibilità di viaggiare fisicamente nel passato.  

Il problema è che è inconsistente il fatto stesso che il crononauta possa raggiungere suo nonno al di fuori della catena causale che ha portato alla propria esistenza. Ricordo che H.G. Wells aveva a un certo punto introdotto un paradosso estremamente interessante nel suo romanzo La macchina del tempo (Time Machine). Il protagonista aveva costruito una macchina del tempo in miniatura, quindi aveva incaricato uno psicologo scettico di azionare una minuscola leva. A questo punto la macchinetta si era sfocata per scomparire. Un astante aveva sollevato l'obiezione, dicendo che, se quella minuscola macchina del tempo avesse viaggiato nel passato, l'avrebbero dovuta vedere nello stesso luogo anche appena entrati nella stanza, e anche il giovedì prima e quello prima ancora, e via discorrendo. Wells ha cercato di risolvere il paradosso con un cavillo, immaginando che la velocità della macchina fosse tale da impedirne la vista agli umani. In realtà il paradosso resta e sarà bene meditare sulle sue conseguenze.   

domenica 10 dicembre 2017

NOTE SUL LAVORO DI PELCZAR

Michael Pelczar (National University of Singapore) è l'autore dell'articolo Presentism, Eternalism, and phenomenal change, ossia "Presentismo, eternismo e cambiamento fenomenico", composto nel 2008 e pubblicato nel 2010 dopo un lungo iter. Il lavoro in questione può essere liberamente consultato e scaricato seguendo questo link al sito dell'autore: 


In modo oscurissimo, Pelczar pronuncia oracoli in un linguaggio più denso della materia che compone le stelle a neutroni: "Di norma, quando ci accorgiamo che sta avvenendo un cambiamento, la nostra esperienza cosciente ha una corrispondente qualità di cambiamento fenomenico. Qui si argomenta che la propria esperienza può avere questa qualità a o durante un tempo in cui non c'è cambiamento in cui le proprietà fenomeniche si possono rappresentare come istanza. Questo mina un numero di argomenti altrimenti cogenti contro le principali teorie metafisiche del cambiamento, ma richiede anche queste teorie per costruire il cambiamento come una qualità secondaria, simile al colore."

Lo studioso si occupa del problema della durata degli eventi nell'ambito dell'esperienza del cambiamento. Mi preme far notare che il problema potrebbe essere fittizio, proprio come la classica questione di lana caprina. La natura continua dell'esperienza degli esseri senzienti può essere dovuta non tanto alla reale estensione temporale degli eventi, ma ai tempi di reazione degli organi di senso, per loro natura lenti e fallaci. Non si deve dimenticare che un film è composto da un certo numero di fotogrammi e che pure è in grado di simulare la realtà che sperimentiamo, soltanto perché gli stessi fotogrammi sono messi in moto a una velocità tale da farci perdere la possibilità di distinguerli. Se i nostri sensi sono ingannati da un rudimentale manufatto umano come una pellicola in movimento, a maggior ragione non è necessario postulare un'estensione del presente oltre i confini dell'istante, definito come entità singolare e indivisibile. 

Questa è la summa argomentativa dell'autore, da lui utilizzata per sostenere posizioni eterniste: 

B1 Il presentismo implica che ogni esperienza è un'esperienza "presentacea" (mi si perdoni l'orrido aggettivo), dato che le sole esperienze esistenti, secondo i presentisti, sono quelle che esistono nel tempo presente.
B2 Tuttavia, un'esperienza come quella del cambiamento comprende essenzialmente multiple sotto-esperienze, che esistono tutte allo stesso modo, nonostante esistano in tempi differenti (e non, quindi, nello stesso tempo presente).
B3
Quindi il presentismo implica, erroneamente, che non ci sono esperienze come quelle del cambiamento.

Nella sostanza, sono argomentazioni estremamente primitive, proprio come il famoso paradosso di Zenone, tuttora usato dai settari wahabiti dell'Arabia Saudita per dimostrare che la Terra è piatta. Negare la natura oggettiva del flusso temporale serve a poco: può essere soggettiva la sensazione del tempo che scorre, ma il passaggio da un istante all'altro è reale. Cosa poi ci sia dietro a tutto questo, credo che la sua comprensione esuli dalle capacità dell'intelletto umano.

Risale al 2016 la bozza di un altro articolo di Pelczar sulla metafisica del tempo e dello spazio: What is Time? ossia "Cos'è il tempo?", consultabile e scaricabile al seguente link: 


L'autore giustamente critica l'eliminativismo che prevale nel mondo accademico, ossia la posizione di coloro che semplicemente rimuovono il tempo e la coscienza, giudicando inesistenti tali fenomeni. Fatto questo, egli cerca di dimostrare la possibilità di un'analisi del concetto di tempo, riducendo i fatti fisici a fatti relativi all'esperienza cosciente. Resta il fatto che non riesce a spiegare davvero cosa sia l'esperienza cosciente: l'unico risultato è addentrarsi nelle sabbie mobili di un iperformalismo ai confini con la paranoia, affondando in modo inesorabile. In buona sostanza, non si arriva da nessuna parte.

NOTE SUL LAVORO DI ROMERO-PÉREZ

Gustavo E. Romero (Universidad Naccional de La Plata, Buenos Aires) e Daniela Pérez (Instituto Argentino de Radioastronomía, Buenos Aires) sono gli autori del lavoro Presentism meets black holes, ossia "Il presentismo incontra i buchi neri", pubblicato nel 2014. Può essere consultato e scaricato liberamente a questo indirizzo url:  


Un articolo denso di matematica superiore, che intende calare il lettore addirittura all'interno di un buco nero, oltre l'orizzonte degli eventi, oltre quello che può essere soltanto l'annientamento di ogni struttura concepibile da mente umana. Le equazioni e i ragionamenti sono molto interessanti, ma le perplessità restano. Il punto è che nei buchi neri - e anche solo in loro prossimità - la fisica a cui siamo abituati cessa di valere. Quindi disquisire sui buchi neri nel tentativo di acclarare la natura ontologica del tempo può non essere una cosa molto furba.

Lo stratagemma è sempre quello prediletto dai B-eternisti: affermare che la simultaneità di due eventi A e B in un sistema di riferimento xyzt implica l'eternismo soltanto perché gli stessi eventi A e B non sono simultanei se visti da un altro osservatore che ha un sistema di riferimento diverso, x'y'z't'. Il problema è che Romero costruisce il primo sistema di riferimento xyzt in condizioni tanto estreme da non essere esperibili, mentre il secondo sistema di riferimento x'y'z't' è situato lontano dalla singolarità spaziotemporale, in condizioni a noi familiari. Queste macchinazioni non possono dirci nulla di quantificabile sull'ipotetico osservatore immerso nel buco nero, sottoposto a spaventose distorsioni dello spaziotempo: non sappiamo come potrebbe essere definito - ammesso e non concesso che la sua definizione sia possibile - e soprattutto ignoriamo come si potrebbe vedere la realtà esterna da tale prospettiva.

Si può soltanto affermare come sacrosanto quello che già vale nello spaziotempo di Minkowski. Al di fuori del cono di luce di un evento, non si può dire assolutamente alcunché di sensato: è una zona d'ombra fatta di fantasmi e di Nulla. Non è lecito trarre conoscenza dagli spettri che vi regnano e che non possono comunicare in alcun modo con l'ente a cui il cono di luce appartiene, istante per istante. Come Romero fa notare, man mano che ci si avvicina a un buco nero, il proprio cono di luce si appiattisce sempre più, tanto che una volta giunti all'orizzonte degli eventi si avrà un cono di luce che coincide con un piano in cui passato, presente e futuro collassano. Se ci si viene a trovare in una situazione simile, non si potrà dedurre da essa alcunché di utile a definire lo statuto ontologico del tempo passato e del tempo futuro di osservatori il cui cono di luce non è appiattito. 

Pur ammirandone il rigore di quest'opera, non trovo alcun modo di risolvere quello che considero un problema definitorio.

Lo stesso Romero nel 2014 ha pubblicato un altro articolo a qualche mese di distanza da quello sopra trattato: si tratta di Philosophical Issues of Black Holes, ossia "Problemi filosofici dei buchi neri", consultabile al seguente url: 


La trattazione matematica è molto approfondita. No, per capirci qualcosa non bastano le famose "insalate di matematica" mangiate da Goldrake: occorrono anni di paziente studio. I problemi filosofici affrontati sono notevoli. Si parla del determinismo, degli orizzonti di Cauchy e del secondo principio della termodinamica. Si ammette che il mondo non è un oggetto matematico, che soltanto alcune nostre descrizioni del mondo sono matematiche. Si ammette che se le equazioni che rappresentano le leggi della fisica ammettono certe soluzioni, queste non hanno per necessità esistenza fisica. Quindi si giunge a trattare il problema del presentismo e dell'eternismo. Romero ribadisce la propria posizione: egli reputa l'esistenza stessa di buchi neri nel nostro universo come incompatibile col presentismo. Questa è la summa argomentativa romeriana: 

Argomento A1:
P1: Ci sono buchi neri nel nostro universo.
P2: I buchi neri sono descritti correttamente dalla relatività generale.
P3: I buchi neri hanno superfici nulle chiuse (orizzonti).
Quindi ci sono superfici nulle chiuse nell'universo. 

Argomento A2:
P4: Tutti gli eventi su una superficie nulla chiusa sono simultanei con ogni evento sulla stessa superficie.
P4i: Tutti gli eventi su una superficie nulla chiusa sono simultanei con la nascita del buco nero.
P5: Alcuni eventi lontani sono simultanei con la nascita del buco nero, ma non con altri eventi correlati al buco nero.
Quindi ci sono eventi che sono simultanei in un sistema di riferimento e non in un altro.

L'indebita conclusione è la seguente: "La simultaneità dipende dal sistema di riferimento. Siccome ciò che esiste non può dipendere dal sistema di riferimento che usiamo per descriverlo, concludiamo che ci sono eventi non simultanei. Quindi il presentismo è falso." 

Il punto è che il tempo nel buco nero non ha relazone con il tempo definito nel normale spaziotempo di Minkowski e ogni correlazione tra l'orizzonte degli eventi e ciò che si trova al suo esterno è da rigettarsi.