sabato 2 giugno 2018

PERCHÉ IL NOSTRATICO NON FUNZIONA?

Il nostratico è un'ipotetica macrofamiglia (o superfamiglia) linguistica, che include molte famiglie di lingue endemiche dell'Eurasia. Il suo nome è stato costruito a partire dall'aggettivo latino nostras "della nostra terra" (confronta anche nostrates "i nostri compatrioti" e nostratim "secondo i nostri costumi", "a modo nostro"). Per i non addetti ai lavori, spiegherò in modo semplice il concetto, rimandando al Web per approfondimenti. A partire dalle lingue indoeuropee attestate, i linguisti sono stati capaci di ricostruire il loro ipotetico antenato. Il problema a questo punto era stabilire l'origine di questa protolingua indoeuropea e quali sarebbero i suoi rapporti con altre protolingue, ad esempio con quella ricostruita a partire dalle lingue uraliche. Così a qualcuno è venuto in mente di ricostruire un antenato comune per un certo numero di famiglie linguistiche. Ancora oggi, molti si oppongono a questo concetto per motivi politici e ideologici. C'è addirittura chi è andato in marasma e ha esclamato: "Sarebbe terribile se fosse vero!". Se non vado errato, questa perla si deve all'ineffabile Larry Trask. Non va nascosto che per molti antisemiti è inaccettabile pensare che la lingua delle antiche genti indoeuropee possa avere anche solo l'origine di una sillaba in comune con le lingue afroasiatiche, a cui appartiene la lingua ebraica. In questo ambiente si annoverano i più acerrimi nemici della linguistica nostratica: l'origine dell'indoeuropeo dalla Terra Cava e da Vril è ritenuta più accettabile.

L'idea di una parentela a lungo raggio tra l'indoeuropeo e altre famiglie linguistiche si ritrova già agli inizi del XX secolo negli studi del danese Holger Pedersen, che propose una macrofamiglia cui diede il nome di nostratico (danese nostratisk, tradotto in America come Nostratian, forma che non ebbe successo). Questo embrione di nostratico includeva l'indoeuropeo, l'uralico, l'altaico e l'afroasiatico. Così scriveva il Pedersen nel lontano 1903:

«Grønbech considera possibile (p. 69) che la parola turca per "oca" possa essere presa a prestito dall'Indo-Germanico (Osm. kaz, Yak. xās, Chuv. xur). A parer mio ci sono tre possibilità riguardo a questa parola: coincidenza, prestito e parentela. Si deve tenere in conto anche quest'ultima possibilità. Moltissimi ceppi linguistici in Asia sono senza dubbio imparentati con quello Indo-Germanico; questo forse vale per tutte quelle lingue che sono state caratterizzate come Uralo-Altaiche. Sarebbe come unire tutti i ceppi linguistici imparentati con l'Indo-Germanico sotto il nome di "lingue Nostratiche". Le lingue Nostratiche occupano non solo un'area molto vasta in Europa e in Asia, ma si estendono anche fino all'interno dell'Africa; perché le lingue Semito-Camitiche sono secondo me senza dubbio Nostratiche. Riguardo alla prova della parentela delle lingue Nostratiche, non solo si deve tenere lontano tutte le etimologie delle radici e in generale tutte le frivolezze etimologiche, ma in generale non ci si deve preoccupare di accumulare una massa di materiale. Ci si dovrebbe piuttosto limitare alla considerazione razionale di una serie di pronomi, negazioni, in parte anche numerali che possono essere tracciati attraverso molti ceppi linguistici (in Turco sono reminiscenti dell'Indo-Germanico la negazione -ma, -mä e la particella interrogativa iniziale di parola m, il pronome interrogativo kim, il pronome di prima persona män, la terminazione verbale della 1. sing. -m, 1. plur. -myz, -miz e l'uscita -jin della 1. sing. dell'"ottativo," che ricorda molto il congiuntivo dell'Indo-Germanico [con gli affissi ottativi -a-, -ä-], il pronome di 2. sing. sän [cfr. l'uscita verbale IdG. -s], la formazione causativa con -tur- [cfr. IdG. -tōr nomen agentis; il causativo Indo-Germanico sembra anche come se fosse derivato da un nome d'agente del tipo φορός], i nomina actionis come Orkh. käd-im "che veste," diversi numerali numerals: Orkh. jiti "7," jitm-iš "70," [con j = IdG. s come in Proto-Turco *jib- "avvicinare"; Osm. jyldyz "stella": la parola Indo-Germanica per "sole"; jat- "giacere": la parola IdG. per "sedere"]; Proto-Turco bǟš "5" [con š = IdG. -que; cfr. Osm. piš- "essere cotto," IdG. *pequeti "cuoce"] etc., etc.). Resisto alla tentazione di entrare nella questione più in dettaglio.» 

Per motivi ideologici e politici, questa idea di Pedersen fu attaccata vigorosamente e cadde presto nell'oblio. Riemerse soltanto nei primi anni '60 in Unione Sovietica, quando il semitologo Aharon Dolgopolskij e lo slavista Vladimir Illič-Svityč la ripresero indipendentemente (si conobbero soltanto nel 1964). Il loro lavoro fu senz'altro titanico: raccolsero tutto ciò che era stato pubblicato in Europa occidentale sui tentativi di ricostruire una macrofamiglia che rendesse conto delle origini dell'indoeuropeo, a partire dai lavori di Alfredo Trombetti sulla monogenesi delle lingue umane. Non fu di certo facile dare forma sistematica a tante ricostruzioni di diversi autori. Tra le ipotesi considerate si possono citare la macrofamiglia indo-uralica di Björn Collinder e Holger Pedersen, la macrofamigia uralo-altaica di Martti Räsänen, la macrofamiglia indo-semitica di Holger Pedersen, Piero Meriggi e Luigi Heilmann. Dolgopolsky e Illyč-Svityč, lavorando separatamente, conclusero che esistevano indizi fondati per la ricostruizione di una macrofamiglia, a cui fu dato il nome di nostratico già usato da Pedersen. Le lingue incluse nel nostratico dai due autori sono le seguenti: 

1) Lingue indoeuropee
2) Lingue uraliche
3) Lingue altaiche
4) Lingue kartveliche (caucasiche meridionali)
5) Lingue camito-semitiche (oggi denominate afro-asiatiche)

In seguito Illyč-Svityč fece un'aggiunta:

6) Lingue dravidiche 

A quanto mi pare di intendere, gli studi dei due sovietici si svolsero in condizioni catacombali di completa assenza di comunicazioni col mondo esterno, forse per terrore che qualche commissario politico potesse giudicarli contrari all'ortodossia. Fatto sta che il linguista Vladimir Dybo riuscì comunque a venirne a conoscenza. Osservò il lavoro dei nostratisti e per qualche anno evitò di interferire, sembra per "conservare la purezza dell'esperimento". Poi, nel 1964, fece sì che Dolgopolsky e Illyč-Svityč finalmente si incontrassero. Ebbe così inizio una collaborazione che durò fino al 1967 - anno della morte di Illyč-Svityč. Da allora sono successe molte cose. Dolgopolsky è migrato in Israele e nuovi accademici si sono aggiunti al progetto, che ha preso il nome di Nostratic Workshop. Da allora le conoscenze sono progredite notevolmente.

Riporto il link a una pagina dell'Università di Cambridge che permette di consultare e scaricare il Nostratic Dictionary di Aharon Dolgopolsky (Terza edizione) : 


Mi rendo ben conto che non è affatto curato nella forma. Si presenta come magma vulcanico non fruibile, senza cura alcuna per le necessità del lettore. Un groviglio di sigle, simboli non convenzionali, tutto fuorché agevoli. Migliaia di vocaboli sono buttati assieme in giganteschi crogioli, senza alcuna esposizione sistematica.

The Tower of Babel (An International Etymological Database Project) è un progetto altamente meritorio che si prefigge di ricercare parentele a lungo raggio tra le famiglie linguistiche del mondo intero. Il suo fondatore è stato Sergei Starostin, attivo nel Web fin dalla metà degli anni '90. Tra i suoi collaboratori possiamo citare suo figlio George e quello stesso Vladimir Dybo che tanta parte ha avuto nel progresso degli studi nostratici. Il lavoro di questi studiosi ha dato vita a un database liberamente accessibile che contiene le protoforme ricostruite di numerose famiglie linguistiche, con migliaia di radici e di etimologie (per quanto ve ne siano di discutibili). Lo studioso è defunto nel 2005, ma la Scuola di Mosca continua la sua opera. Questi sono gli atenei che partecipano all'impresa:

The Russian State University of the Humanities (Center of Comparative Linguistics)
The Moscow Jewish University
The Russian Academy of Sciences (Dept. of History and Philology)
The Santa Fe Institute (New Mexico, USA)
The City University of Hong Kong
The Leiden University

Questo è il link dell'homepage del progetto: 


Queste sono le lingue incluse nella macrofamiglia nostratica da Sergei Starostin e dai suoi collaboratori: 

1) Lingue indoeuropee
2) Lingue uraliche
3) Lingue altaiche
4) Lingue kartveliche (caucasiche meridionali)
5) Lingue dravidiche
6) Lingue eschimo-aleutine
7) Lingue paleoartiche (
Čukotko-Kamčatke) 

Questo è il link al database delle lingue nostratiche:


Questo è il link alla pagina che comprende tutti i database (anche relativi a macrofamiglie non nostratiche): 


La macrofamiglia nostratica è chiamata anche eurasiatica da questi autori. Le lingue afroasiatiche sono considerate una macrofamiglia sorella del nostratico, anziché un suo ramo derivato. L'ipotetica protolingua da cui sarebbero derivate le lingue nostratiche (o eurasiatiche) e le lingue afroasiatiche è denominata boreano. La sua ricostruzione è considerata approssimativa.

L'ipotesi nostratica ha sostenitori anche al di fuori della Russia. Il linguista americano Allan R. Bomhard, nato a New York nel 1943, è senza dubbio uno dei massimi nostratisti oggi viventi. Le sue opere sono consultabili e scaricabili liberamente nel suo account su Academia.edu. Tra queste c'è il suo fondamentale e imprescindibile A Comprehensive Introduction to Comparative Nostratic Linguistics, disponibile sia in quattro volumi separati che in un file unico. L'aggiornamento è costante: l'autore carica spesso nuove versioni. La terza edizione è apparsa nel 2018.


Rispetto a Starostin, Allan Bomhard utilizza una diversa nomenclatura. Chiama lingue eurasiatiche quelle che gli autori russi chiamano nostratiche, mentre chiama nostratico l'antenato comune delle lingue eurasiatiche e di quelle afroasiatiche. Inotre include nel novero delle lingue nostratiche anche la lingua sumerica e la lingua etrusca: una scelta a dir poco controversa che avremo modo di discutere diffusamente in un'altra occasione. Sergei Starostin, per contro, non considera il sumerico e l'etrusco, preferendo collegare quest'ultimo con le lingue nord-caucasiche, ipotesi che reputo condivisibile. Va però detto che gli autori della Scuola di Mosca hanno conoscenze abbastanza scarne sulla lingua etrusca.

Critiche

Come mai ci sono tante divergenze nella collocazione di diverse famiglie all'interno del nostratico? Molto semplice: è ignota la distanza tra i vari rami della macrofamiglia postulata, proprio come sono ignoti i processi di glottogenesi.

Non sono state ricostruite singole protolingue, ad esempio il proto-indouralico a partire dal proto-indoeuropeo e dal proto-uralico, allo scopo di risalire poi da queste fino a una protolingua comune. Nonostante Dolgopolsky e Illič-Svityč si siano avvalsi di lavori in cui si postulavano protolingue come l'indo-uralico e l'indo-semitico, si hanno forti dubbi sul fatto che queste opere includessero ricostruzioni sistematiche. Si veda l'estratto dell'opera di Pedersen da me riportato in questa sede per comprendere il tenore di questi tentativi, per il vero piuttosto rudimentali. L'ideologia comune a tutti i nostratisti sembra essere questa: ritenere tutti i rami della macrofamiglia nostratica (o eurasiatica) come se fossero equidistanti e prodotti da una semplice scissione di una protolingua, così come le lingue romanze si sono formate a partire dal latino volgare. Inutile dire che le cose sono ben più complesse. 

Si ha l'impressione che la metodologia usata dai nostratisti sia sempre top-down anziché bottom-up. Quando la ricostruzione di una protolingua è top-down, l'artefice postula che varie lingue abbiano un'origine comune, tenta di costruire le protoforme a partire dal proprio intuito prendendo un certo numero di radici assonanti e di affissi delle lingue attestate, quindi cerca delle corrispondenze fonetiche regolari. Quando la ricostruzione di una protolingua è bottom-up, l'artefice parte dalle lingue attestate e da queste risale a singole protoforme. Se riesce a trovarne in gran numero, se le corrispondenze fonetiche sono regolari e se l'eliminazione dei prestiti non presenta gravi difficoltà, è riuscito nel suo intento di trovare l'origine comune delle lingue studiate.

La metodologia bottom-up dovrebbe sempre essere usata in qualsiasi ricostruizione di una protolingua. Ogni tentativo di ricostruzione top-down è viziato dall'ideologia e votato al fallimento. 

Si noterà che anche la distanza tra le lingue nostratiche più vicine è eccessiva. Per questo motivo, tale è l'abisso che separa le singole lingue derivate, che il nostratico ricostruito non ha molto senso: è come se fosse "appiattito".

C'è però qualcosa di ancora più importante. Le ricostruzioni disponibili della protolingua nostratica non possono essere utilizzate per riconoscere la natura di lingue di dubbia affiliazione e per comprendere i dettagli del loro sviluppo. 

Prendiamo il caso dell'etrusco. Se fosse una lingua indoeuropea, come molti ancora si ostinano a pretendere, l'avremmo già pienamente compresa da molto tempo. Avremmo afferrato da un pezzo le corrispondenze fonologiche e potremmo comprendere vocaboli problematici senza far ricorso al metodo combinatorio. Potremmo persino prevedere un certo numero di parole del lessico di base a partire dalle protoforme indoeuropee e dalle leggi fonetiche dedotte: ci azzarderemmo a ricostruire il nome della ruota, del giogo, del maiale, del bue, etc. Questo non avviene affatto. Quando comprendiamo un vocabolo finora oscuro, ad esempio dal contesto combinatorio o da evidenze esterne, ci salta subito all'occhio che non saremmo mai riusciti a indovinarlo, a prevederlo. Quando, con ottimi argomenti, Giulio Facchetti giunge alla conclusione che marza (attestato sulla Tegola di Capua) significa "piccolo maiale" (secondo me semplicemente "maiale"), il risultato spiazza ogni indoeuropeista. C'è ancora un problema di non poco conto. Anche il nostratico di Bomhard ci serve a poco. Il suo potere di illuminare il lessico etrusco è ben scarso! 

Nei lavori dei nostratisti non è analizzato per origine il lessico delle singole protolingue comparate, non sono eliminati i prestiti, non è considerato minimamente il sostrato. Per Dolgopolsky come per Starostin e per Bomhard, è indoeuropeo tutto ciò che è attestato anche come hapax in ogni singola lingua indoeuropea. Tutti prendono queste forme e le proiettano nel passato all'infinito, senza tener conto della loro possibile origine da lingue parlate prima dell'imporsi delle lingue indoeuropee. 

Per fare un esempio, ho visto il proto-uralico *śilmV- "occhio" confrontato con il greco στιλπνός (stilpnós) "splendente", che in realtà è un vocabolo pre-greco. Così l'isoglossa, se anche fosse valida, sarebbe tra proto-uralico e pre-greco (non IE), non tra proto-uralico e proto-indoeuropeo! Questo fatto complica non poco le cose. C'è troppa distanza persino tra il proto-indoeuropeo e il suo supposto parente più prossimo, il proto-uralico. Non è chiaro se le isoglosse siano prestiti o se siano termini ereditati da una protolingua.

Ci sono conflitti anche dove non dovrebbero essercene da tempo. Lo stesso indohittita, antenato delle lingue indoeuropee proprie e delle lingue anatoliche, non è stato ricostruito bene, o in ogni caso materiale non è facilmente reperibile. Non solo. Si rimarcano alcune divergenze significative tra diversi rami dell'indoeuropeo, che rendono difficile la ricostruzione di una protoforma comune. Non si riesce a ricostruire una protoforma compatibile che possa spiegare tutti gli esiti. Prendiamo le seguenti coppie di protoforme, la prima tipica delle lingue IE occidentali, la seconda delle lingue indiane (sanscrito, pracriti e derivati):

*eg'o:(m) / *eg'hom "io" (pron. I pers. sing.) 
*dak'ru- / *ak'ru- "lacrima"
*k'erd- / *g'hṛd- "cuore"

A complicare le cose, le lingue iraniche (antico persiano, avestico e derivati) hanno forme che potrebbero anche risalire a *eg'om "io" e a *g'ṛd- "cuore" (senza aspirazione), dal momento che le consonanti *g' e *g'h sono entrambe diventate *zCome rendere coerenti questi dati? Come si spiegano simili divergenze? Come comprendere quali erano i fonemi d'origine, se gli output storici sono tanto disomogenei?

Esiste una poesia famosa in nostratico ricostruito, composta da Vladimir Illič-Svityč:

K̥elHä wet̥ei ʕaK̥un kähla
k̥aλai palhA-k̥A na wetä
śa da ʔa-k̥A ʔeja ʔälä
ja-k̥o pele t̥uba wet̥e

La lingua è un guado nel fiume del tempo,
ci porta alla dimora dei nostri antenati;
ma non vi potrà mai giungere,
colui che ha paura delle acque profonde.

Vediamo che la parola per dire "acqua" è assai simile al proto-uralico *wete- (cfr. finlandese vesi "acqua", pl. vedet). Si capisce che la protoforma uralica ha avuto un ruolo importante nella ricostruzione, più di quella indoeuropea, che presenta suffissi ed è più complessa. Eppure secondo me ci sono indizi sul fatto che la forma proto-uralica sia un antico prestito. Il proto-uralico potrebbe benissimo essere un complesso creolo! 

Per concludere, non sono scettico sull'ipotesi nostratica. Ritengo tuttavia che le sue attuali formulazioni siano inadeguate e che si rendano necessari studi ben più approfonditi. Le lingue non sono blocchi monolitici da incastrare come mattoncini del Lego.

lunedì 28 maggio 2018

CLASSIFICAZIONE DELLE LINGUE COSTRUITE

La definizione di lingua costruita (ingl. conlang) o lingua artificiale potrebbe sembrare ovvia e priva di qualsiasi ambiguità. Questo riporta Wikipedia (2018): 

"Una lingua artificiale è una lingua creata dall'ingegno attribuibile ad una sola persona o ad un gruppo di lavoro, che ne sviluppa deliberatamente la fonologia, la grammatica e il vocabolario (nel caso delle lingue ausiliarie capita però che il vocabolario venga fatto derivare da quello delle più diffuse lingue naturali). La principale differenza rispetto alle lingue naturali risiede dunque nel fatto che originariamente quelle artificiali non si sono sviluppate ed affermate spontaneamente nelle culture umane." 

Ebbene, quanto affermato da Wikipedia non è del tutto vero, anche se riflette le opinioni correnti dei linguisti. Non è una spiegazione completa. Inoltre può essere considerata fuorviante, come avrò modo di dimostrare.  

La classificazione riportata si fonda più che altro sulle finalità di coloro che elaborano queste lingue o sull'origine del loro lessico e della loro grammatica. Questo è un riassunto:

Classificazione secondo gli scopi

1) Lingue ausiliarie
2) Lingue artistiche
3) Lingue logiche 

Le lingue ausiliarie hanno lo scopo di aiutare la comunicazione tra le nazioni (es. Esperanto, Völapuk, etc.).
Le lingue artistiche sono create nel contesto di opere letterarie o cinematografiche, per piacere personale e via discorrendo (es. Quenya, Sindarin, Eldarin, etc.).
Le lingue logiche (ingl. loglangs) comprendono le lingue filosofiche, le lingue matematiche e le lingue musicali. Si fondano in sostanza su esperimenti concettuali volti a trovare una forma di comunicazione perfetta, senza ambiguità, per quanto molto distante dalle lingue naturali. 

Classificazione secondo l'origine del lessico e della grammatica 

1) Lingue a priori
2) Lingue a posteriori
  2a) Lingue naturalistiche
  2b) Lingue non naturalistiche

Le lingue a priori hanno un lessico e una grammatica che il loro autore ha creato dal nulla in toto o in gran parte (per quanto ciò sia effettivamente possibile). 
Le lingue a posteriori hanno un lessico e una grammatica che il loro autore ha preso da una o più lingue naturali (in genere apportandovi modifiche e assimilandole).
Le lingue a posteriori a loro volta si suddividono in lingue naturalistiche, che imitano la struttura delle lingue naturali, e in lingue non naturalistiche (o schematiche), che sono dotate dai loro creatori di una struttura semplificata col fine di facilitarne di facilitarne l'apprendimento.

Tutto ciò non esaurisce affatto l'esistente.

Dobbiamo includere nelle categorie di lingue artificiali suddivise per scopo anche le seguenti:

4) Lingue ricostruite per fini scientifici (es. protolingue, etc.)
5) Lingue morte ricostruite o rivitalizzate per fini culturali, politici o religiosi (es. cornico moderno, ebraico di Israele)

Wikipedia (2018) riporta la seguente definizione di protolingua: 

"La protolingua o lingua ricostruita è la ricostruzione probabile della lingua originaria di un gruppo di lingue, un ramo o una famiglia linguistica, sulla base di corrispondenze e radici comuni a tale famiglia linguistica che non costituiscano innovazioni o prestiti."

Essendo le protolingue non attestate, si capisce che si tratta di lingue artificiali, seppur chiaramente a posteriori. Anche se si riuscisse a ricostruire una protolingua esattamente coincidente in massima parte con una lingua un tempo effettivamente parlata, non potremmo saperlo con esattezza. Sarebbe una lingua artificiale in ogni caso. Qualcuno potrebbe controbattere dicendo che il latino è la protolingua delle lingue romanze: questo sarebbe un esempio di protolingua attestata. In realtà si tratta di un'affermazione non corretta. Le lingue romanze derivano dal latino volgare (sermo vulgaris), non dal latino classico (sermo nobilis). La protolingua che potremmo ricostruire a partire dai soli dati delle lingue romanze, senza considerare le attestazioni del latino, sarebbe molto diversa da quella di Cicerone! 

In genere le protolingue consistono in elenchi di radici o di vocaboli, che gli accademici asteriscano in modo sistematico per distinguerli dalle forme realmente attestate - come se gli studenti e i lettori fossero così coglioni da aver bisogno di qualcuno che ogni volta dica loro: "Guardate che l'indoeuropeo è una lingua ricostruita". In qualche raro caso tuttavia si hanno esempi di testi in una protolingua. Ad esempio sono ben note diverse versioni della Favola della pecora e dei cavalli. Questo è il testo in italiano:

Una pecora tosata vide dei cavalli, uno dei quali tirava un pesante carro, un altro portava un grande carico e un altro trasportava un uomo. La pecora disse ai cavalli: "Mi piange il cuore vedendo come l'uomo tratta i cavalli". I cavalli le dissero: "Ascolta, pecora: per noi è penoso vedere che l'uomo, nostro signore, si fa un vestito con la lana delle pecore, mentre le pecore restano senza lana". Dopo aver sentito ciò, la pecora se ne fuggì nei campi.

Questa è la versione sanscritoide di August Schleicher (1868):

Avis, jasmin varnā na ā ast, dadarka akvams, tam, vāgham garum vaghantam, tam, bhāram magham, tam, manum āku bharantam. Avis akvabhjams ā vavakat: kard aghnutai mai vidanti manum akvams agantam. Akvāsas ā vavakant: krudhi avai, kard aghnutai vividvant-svas: manus patis varnām avisāms karnauti svabhjam gharmam vastram avibhjams ka varnā na asti. Tat kukruvants avis agram ā bhugat.

Questa è la versione di Hermann Hirt (1939):

Owis, jesmin wьlənā ne ēst, dedork'e ek'wons, tom, woghom gʷьrum weghontm̥, tom, bhorom megam, tom, gh'ьmonm̥ ōk'u bherontm̥. Owis ek'womos ewьwekʷet: k'ērd aghnutai moi widontei gh'ьmonm̥ ek'wons ag'ontm̥. Ek'wōses ewьwekʷont: kl'udhi, owei!, k'ērd aghnutai vidontmos: gh'ьmo, potis, wьlənām owjôm kʷr̥neuti sebhoi ghʷermom westrom; owimos-kʷe wьlənā ne esti. Tod k'ek'ruwos owis ag'rom ebhuget.

Questa è la versione di Winfred Philip Lehmann e di Ladislav Zgusta (1979):

Gʷərēi owis, kʷesjo wl̥hnā ne ēst, eḱwōns espeḱet, oinom ghe gʷr̥um woǵhom weǵhontm̥, oinomkʷe meǵam bhorom, oinomkʷe ǵhm̥enm̥ ōḱu bherontm̥. Owis nu eḱwobh(j)os (eḱwomos) ewewkʷet: "Ḱēr aghnutoi moi eḱwōns aǵontm̥ nerm̥ widn̥tei". Eḱwōs tu ewewkʷont: "Ḱludhi, owei, ḱēr ghe aghnutoi n̥smei widn̥tbh(j)os (widn̥tmos): nēr, potis, owiōm r̥ wl̥hnām sebhi gʷhermom westrom kʷrn̥euti. Neǵhi owiōm wl̥hnā esti". Tod ḱeḱluwōs owis aǵrom ebhuget.

Questa è la versione laringalista di Douglas Quentin Adams (1997):

[Gʷr̥hxḗi] h2óu̯is, kʷési̯o u̯lh2néh4 ne (h1é) est, h1ék̂u̯ons spék̂et, h1oinom ghe gʷr̥hxúm u̯óĝhom u̯éĝhontm̥ h1oinom-kʷe ĝ méĝham bhórom, h1oinom-kʷe ĝhménm̥ hxṓk̂u bhérontm̥. h2óu̯is tu h1ek̂u̯oibh(i̯)os u̯eukʷét: 'k̂ḗr haeghnutór moi h1ék̂u̯ons haéĝontm̥ hanérm̥ u̯idn̥téi. h1ék̂u̯ōs tu u̯eukʷónt: 'k̂ludhí, h2óu̯ei, k̂ḗr ghe haeghnutór n̥sméi u̯idn̥tbh(i̯)ós. hanḗr, pótis, h2éu̯i̯om r̥ u̯l̥h2néham sebhi kʷr̥néuti nu gʷhérmom u̯éstrom néĝhi h2éu̯i̯om u̯l̥h2néha h1ésti.' Tód k̂ek̂luu̯ṓs h2óu̯is haéĝrom bhugét.

Questa è la versione di Frederik Kortlandt (2007):

ʕʷeuis iosmi ʕuelʔn neʔst ʔekuns ʔe 'dērkt, tom 'gʷrʕeum uogom ugentm, tom m'geʕm borom, tom dgmenm ʔoʔku brentm. ʔe uēukʷt ʕʷeuis ʔkumus: kʷntske ʔmoi kērt ʕnerm ui'denti ʔekuns ʕ'gentm. ʔe ueukʷnt ʔkeus: kludi ʕʷuei, kʷntske nsmi kērt ui'dntsu: ʕnēr potis ʕʷuiom ʕulʔenm subi gʷormom uestrom kʷrneuti, ʕʷuimus kʷe ʕuelʔn neʔsti. To'd kekluus ʕʷeuis ʕe'grom ʔe bēu'gd.

Si noterà che gli asterischi in casi simili spariscono magicamente! :)

Vediamo che la prima protolingua indoeuropea ricostruita è una rozza forma di protosanscrito non privo di anacronismi, mentre le ultime versioni sono quasi impronunciabili. Tale è la distanza che si ravvisa tra i testi dei diversi autori, che siamo costretti a dire qualcosa di molto scomodo: si tratta di lingue artificiali tra loro distinte e molto distanti! 

Una lingua morta, di cui esistono attestazioni più o meno estese, può essere ricostruita nelle sue parti mancanti con un lavoro scientifico ineccepibile e accurato, tanto da restaurarla in una forma assai simile a quella effettivamente in uso. Si otterrà una lingua ricostruita (ingl. reconlang) che non è una protolingua. Tale prodotto deve essere in ogni caso considerato una lingua artificiale, perché non è più trasmesso nemmeno da una singola madre ai suoi figli. Così se si ricostruisce la lingua gotica usata da Wulfila colmandone le lacune, si avrà una lingua nuova in ogni caso, anche se il lavoro fosse assolutamente perfetto. Anche se il Vescovo della Chiesa Ariana potesse capire ogni sillaba. Se poi una lingua di questo tipo si intende farla rivivere per motivi politici, religiosi o culturali, sarà una lingua rivitalizzata (ingl. revlang). Se un progetto di rivitalizzazione o resurrezione linguistica non è sostenuto da ingenti capitali e dal potere della politica, sarà quasi di certo votato al fallimento, in quanto poche forze sono irresistibili come l'accidia del genere umano.   

Si capisce facilmente che le lingue ufficiali delle nazioni sono in massima parte lingue costruite. La lingua italiana è una lingua costruita. Cosa sono i famosi panni sciacquati in Arno dal Manzoni, se non un'opera di glottopoiesi? La lingua ebraica dello Stato d'Israele non è affatto la lingua della Torah e nemmeno quella portata avanti nei secoli dai rabbini: è a tutti gli effetti una lingua costruita, una conlang neoebraica. Non a caso, gli zeloti ne rifiutano l'uso.

giovedì 24 maggio 2018

DIALETTO: UNA PAROLA CONTROVERSA

Non esiste una definizione scientifica e rigorosa di cosa si debba intendere per "dialetto". Poche parole sono più problematiche e ambigue di questa. La confusione che la circonda è davvero troppa, considerato quanto è capillare il suo uso. Questi sono i significati più comuni:

1) Varietà di una lingua;
2) Una lingua in contrapposizione a un'altra, in genere a
lla lingua ufficiale di una nazione;
3) Una lingua parlata in una singola località o comunque in un contesto territoriale ristretto, in rapporto a una lingua parlata in un'area più estesa;
4) Una lingua non scritta, soprattutto se parlata da popolazioni considerate "primitive", "selvagge", "non civilizzate"
5) Qualsiasi lingua di cui un topo di biblioteca chiamato "grammatico" non abbia fissato la struttura in un tomo chiamato "grammatica".

Più preciso è il Vocabolario Treccani, che combina le prime tre definizioni sopra riportate integrandole: oltre a definire il dialetto come realtà il cui contesto culturale e geografico è limitato, insiste molto sull'assenza del prestigio tipico di una lingua nazionale, o sul fatto che questo prestigio, un tempo esistente, è andato perduto dopo una fase di declino. Inoltre, cosa non meno importante, perché un sistema linguistico possa essere definito come "dialetto" è necessaria l'appartenenza a un gruppo di sistemi linguistici di origine comune, che condividono un certo numero di innovazioni. Per chi volesse approfondire l'interessante argomento, rimando senz'altro al sito web Treccani.it, astenendomi da riportarne in questa sede i testi coperti dal diritto d'autore.



Si converrà che tale trattazione possa risultare di difficile comprensione per le persone meno istruite. Il pregiudizio volgare, plasmato da decenni di propaganda scolastica e di bombardamento televisivo, interpreta tuttora la parola "dialetto" in modo fortemente spregiativo. Così, per ovviare a questo problema, è stato proposto l'uso di locuzioni come "lingua locale" o "lingua regionale". Una bella strategia, non c'è che dire: per fare un paragone, proviamo a immaginarci un dittatore come Pinochet, ma reso buonista e rimbambito dalla demenza senile, che intenda restituire la dignità a prigionieri politici che ha fatto immergere in vasche di feci e a cui ha fatto strappare le unghie. Ecco le lacrime del coccodrillo! Prima fare di tutto per annientare, poi, di fronte ai perseguitati distrutti, innalzarli su un trono di cartapesta. Questo è il teatrino massonico. 

Vita, agonia e morte dei dialetti italiani  

Realizzata l'unità nazionale, le politiche dei Savoia per imporre l'italiano del Manzoni come unica lingua furono molto aggressive, anche se poco efficaci nel breve e nel medio termine. Il fine era quello di eradicare fino all'estinzione completa ogni parlata popolare. Questo processo di italianizzazione linguistica forzata era chiamato in sintesi "fare gli Italiani". Ricordo un interessante articolo, purtroppo perduto, in cui si descriveva con grande efficacia il processo di diffusione di una lingua italiana sostanzialmente artificiale. All'epoca dell'Unità d'Italia, l'italiano era la lingua parlata di una percentuale molto piccola della popolazione. I maestri erano costretti ad insegnarlo nelle scuole del Regno come una lingua straniera. Il giornalista diceva che sua madre e sua suocera, una modenese e l'altra toscana, ignorando entrambe l'italiano, per comunicare avevano bisogno dell'interprete. La terribile suocera, trasferita a Modena, quando andava a messa restava sconvolta dalla pronuncia usata dal prete e dai fedeli, sbottando di continuo in un "Ché, ché, ché! Questi 'un son cristiani!": le formule latine, storpiate dai modenesi in un modo diverso da quello usato dai toscani, le sembravano un modo volgare e blasfemo di rivolgersi a Dio. La Grande Guerra, si diceva nell'articolo, mescolò sangue, pidocchi e dialetti di tutt'Italia, portando a un lieve miglioramento nelle comunicazioni. Tuttavia, per molti, l'italiano rimase a lungo soltanto la lingua dei telegrammi ("mamma indisposta rientrare subito") e delle autorità. Il regime fascista fece di tutto per imporre l'italiano come unica lingua, ma a vincere la battaglia contro i dialetti fu la televisione. Il ruolo di Mike Bongiorno e di Lascia o raddoppia? fu determinante. Altrettando fondamentale fu l'opera di Totò, che con i suoi film insegnava l'italiano agli Italiani, mettendoli in guardia da errori di ogni genere, travestendo l'istruzione in forma di battute esilaranti. La scuola aveva fatto di tutto, era ricorsa ad ogni mezzo repressivo per estinguere i dialetti, fallendo la sua battaglia contro gli "asini", gli alunni recalcitranti che reagivano all'indottrinamento rifiutandosi di imparare la lingua imposta. La televisione, mostro sacro, fece piazza pulita di tutto. Il giornalista modenese riportava il caso di un'anziana maestra. Quando aveva iniziato il suo magistero scolastico, la donna aveva dovuto combattere contro l'italiano dialettizzato dei suoi studenti, che infarcivano i loro temi con parole come pita "tacchino" e via discorrendo. Avvicinandosi alla pensione, la maestra si era resa conto che qualcosa era cambiato nei bambini: tutti si esprimevano nell'italiano piatto e disadorno della televisione! Certo esistono ancora numerosi parlanti dei dialetti della Penisola, tuttavia mescolano l'idioma avito con l'italiano (code mixing e code switching), nativizzano parole italiane - ma soprattutto la Dea della Gioventù non mette alcuna ghirlanda di fiori sul loro capo.

Un reperto della massima importanza

Tempo fa recuperai un libro di storia ad uso delle scuole medie, consunto e mezzo mangiato dai pesciolini d'argento, che era appartenuto a mio padre (RIP). Era molto sintetico, ma non per questo privo d'interesse. Quello che più mi colpì fu la descrizione di un mito pseudognostico risorgimentale sull'origine del dialetti, descritti come invenzioni di un genio malefico per far sì che gli Italiani non si intendessero gli uni con gli altri e obliassero le proprie origini. L'idea fondante era la seguente: essendo l'Italia erede dell'Impero Romano, le sue popolazioni dovevano continuare l'eredità dell'Urbe antica - ovviamente in contrapposizione ai "barbari" - solo che nel corso dei secoli avevano perso ogni consapevolezza del proprio passato comune. Così si affermava che l'antica lingua italiana era cambiata per degenerazione e imbastardimento, dando origine al complesso panorama delle parlate definite "dialetti". Le origini massoniche di questo mito sono lampanti.

Propaganda risorgimentale massonica

Non si creda che la religione civica massonica che ispirò il Risorgimento sia del tutto estinta: ne perdurano ancor oggi vestigia. Ricordo ancora quando in un ufficio in cui mi è toccato recarmi per lavoro, i miei occhi sono stati colpiti da un manifesto totalitario. Sotto le sagome di alcuni figuri, in verità piuttosto loschi, seduti davanti a un bar, campeggiava la scritta propagandistica "Itali siam tutti". Per un cimbro dell'altopiano di Asiago, per un greco del Salento o per un albanese di Calabria non c'è posto: non essendo "itali", secondo questa visione politica dovrebbero sparire, in quanto la loro stessa esistenza dà fastidio ai ministri del culto risorgimentale. Manzoni, che fu un gran malfattore, considerò sempre sua fonte d'ispirazione il concetto di "Italia una di sangue, di lingua e d'altar" (o "una d'arme", ci sono diverse varianti). Quindi, per chi propugnò queste idee deleterie, in Italia non ci sarebbe posto nemmeno per un valdese. Quale ipocrisia, le parole sull'unità di altare pronunciate da un giansenista che si finse un cattolico-belva per convenienza personale!

Il razzismo di un antirazzista

Posso fornire la testimonianza delle conseguenze luttuose della politica applicata alle lingue galloitaliche, più note alle masse come "dialetti del Nord Italia". La Lega Lombarda di Umberto Bossi, poi divenuta Lega Nord (quindi soltanto Lega per decisione di Matteo Salvini), cercò di rilanciare le lingue galloitaliche, pur fallendo su tutta la linea. Un risultato concreto ottenuto dal partito völkisch è stato quello di fomentare l'avversione verso le parlate da promuovere. Infatti nella mitologia di una sinistra ormai lontana anni luce da Marx, i leghisti sono bollati come "razzisti" e "fascisti", più per tradizione polemica che per oggettivi riscontri nella realtà. Così, se anche una persona ritenuta "razzista" e "fascista" sostenesse qualcosa di utile, la sua proposta sarà per necessità considerata un male da combattere. Anni fa mi capitò di discutere dei dialetti con un informatico che era venuto in ufficio per sistemarmi il computer. Questo individuo sosteneva, per avversione politica, che ogni dialetto lombardo fosse soltanto una degradazione dell'italiano. Così, per fare un esempio, definiva la frase "schiscia ul butùn" come forma degradata dell'italiano "schiaccia il bottone". La "degradazione" sarebbe derivata a suo dire dall'errata imitazione dell'italiano da parte di persone illetterate. Per colmo del paradosso, questo ragazzo, che si professava "antirazzista", applicava categorie tipiche del razzismo biologico nel descrivere il locutori delle lingue galloitaliche, ritenuti da lui "subumani". Ho cercato di spiegargli l'origine delle lingue romanze a partire dall'evoluzione del latino volgare, ma non sono riuscito nemmeno a farmi capire. La Scienza non può nulla contro le storture dell'ideologia!

Il giusto uso della parola "dialetto" 

Qual è il vero senso della parola "dialetto"? A parer mio, per spiegare una parola di origine greca, bisogna rifarsi alla lingua degli antichi Elleni. Il termine διάλεκτος (dialektos) ha i seguenti significati: 

1) discorso, conversazione; discussione, dibattito, argomento
2) lingua comune, parlata; linguaggio articolato, lingua
3) la lingua di un paese; varietà della lingua greca (es. attico, ionico, dorico)
4) parola o espressione locale
5) modo di parlare; accento
6) stile, dizione poetica
7) qualità, "idioma" (detto di strumenti musicali)

A quanto si può vedere, la parola "dialetto" non può avere in sé un significato spregiativo. Non c'è nulla nella sua etimologia (da διά "attraverso", λέγω "io dico, parlo") che possa far pensare a qualcosa di indegno. L'origine è la stessa della parola "dialogo". Non può e non potrà mai significare "sottolingua" o "lingua degenere": questi falsi significati le sono stati annessi dai massoni risorgimentali e dalle maligne istituzioni scolastiche. Così professo di non avere colpa alcuna parlo di "dialetti italiani", usando una denominazione geografica, o se uso locuzioni come "dialetti lombardi", "dialetti piemontesi", "dialetti siciliani" e via discorrendo. Non posso tuttavia dire di aver superato le difficoltà descritte: enormi sono le possibilità di essere fraintesi, qualunque discorso si faccia. 

Un problema non di poco conto

Come visto consultando l'Enciclopedia Treccani online, è chiaro che un dialetto in genere appartiene a un gruppo di parlate simili, ossia a un continuum. Così si può dire che il milanese, il pavese, il bergamasco e il bresciano sono dialetti della lingua lombarda, oppure che la lingua lombarda è parlata in diverse varietà, tra cui il milanese, il pavese, il bergamasco, il bresciano, etc. Non esiste tuttavia una lingua lombarda ufficiale, codificata, di riferimento. Se si cercasse di prendere il milanese di Carlo Porta e di farne una lingua standard, ci sarebbero sollevazioni popolari. Sarebbero rivolte senili, ma non per questo meno accese: già la Brianza, in cui si parlano dialetti molto affini al milanese, è abitata da gente campanilista che impedisce qualsiasi operazione volta a definire una lingua lombarda di riferimento. Questi sentimenti bellicosi sono tra le cause del declino di tutte queste parlate, che non vengono trasmesse alle giovani generazioni e che si estingueranno in breve volgere di tempo. Mentre parlo, a Seregno muoiono tre o quattro persone ogni santo giorno che passa, e nella massima parte dei casi si tratta di anziani dialettofoni. Azrael sta falciando innumerevoli uomini e donne dagli ottant'anni in su. Ognuno di questi defunti è un parlante lombardo in meno, che non sarà mai sostituito. Ade non ha mai restituito nessuno.

Anche l'italiano è un dialetto

Tecnicamente parlando, ogni lingua ufficiale è uno specifico dialetto che ha avuto più fortuna di altri, riuscendo ad imporsi per mezzo della politica. Va inoltre ricordato che una lingua dotta, usata per fini politici, culturali e scientifici, è in buona sostanza una creazione artificiale. L'italiano che parliamo non sfugge a queste regole. Consiste infatti di una base formata da parole passate per la genuina usura popolare, che ne costituiscono l'ossatura (es. cane, gatto, albero, pietra, muro, mare, occhio, orecchio, fiorefiume, riva, miele, etc.), su cui si sono stratificati innumerevoli vocaboli presi dal latino letterario (es. applauso, auscultare, floreale, plumbeo, aureo, lene, mensile, mestruo, clausura, sessuale, etc.) e dal greco (es. problema, filosofo, poema, fantasia, fantasma, ecclesiastico, pederasta, coprofagia, etc. - oltre a formazioni come clorofilla, elicottero, brontosauro, triceratopo, pterodattilo, etc.). Potremmo dire che la lingua italiana da noi parlata e scritta è viva solo grazie a massicce trasfusioni dalle lingue classiche.

Un bel paradosso! 

Spesso la lingua italiana è chiamata lingua di Dante. Anch'io uso di solito questa locuzione. Nonostante ciò, l'italiano che usiamo quotidianamente è più che altro la lingua elaborata da Manzoni. Si noterà infatti che I promessi sposi è un'opera di lettura assai scorrevole e lineare, per quanto deprimente, mentre l'italiano di Dante è difficile e richiede studi approfonditi. Se andassi in giro a parlare la sublime lingua in cui Dante scrisse la Commedia... non soltanto non sarei affatto capito, ma sarei considerato un folle!

venerdì 18 maggio 2018

LE ORIGINI DEL BUNGA BUNGA!


Tutti su questo pianeta conoscono la locuzione bunga bunga, con le sole eccezioni degli antropofagi dell'isola di Sentinel e forse di qualche tribù incontattata dell'Amazzonia. Forse. Infatti è possibile che anche tra le più isolate genti della foresta peruviana e brasiliana sia giunta qualche notizia sui festini orgiastici della villa di Hardcore, che tanto scalpore hanno suscitato tra le genti all'epoca del Governo Berlusconi IV. Una grande pubblicità per questo paese, non c'è che dire. Ricordo ancora il sorprendente caso di un connazionale che andò in Botswana, un paese remoto e ancora pagano dell'Africa: appena fece sapere la sua provenienza con un legnoso "Hello, I am from Italy", si sentì salutare così: "ITALIANO BUNGA BUNGA!". Persino in Afghanistan, i Talebani sapevano tutto e ne ridevano. Il colmo si ebbe quando in Argentina fu aperto un bordello intitolato Palacio Berlusconi, il cui proprietario intendeva replicare proprio il famoso rito, il bunga bunga! Quattro sillabe soltanto, che mimano il rumore prodotto dallo stantuffare di un fallo turgido nell'intestino retto, sono bastate a sconvolgere il mondo - anche se a quanto pare si trattava più che altro di lingue che scavavano a fondo negli orifizi femminili. 


Primi tentativi di spiegazione

Sorge a questo punto una domanda. Quali sono le origini del bunga bunga? A quanto è possibile ricostruiere dalla testimonianza dei mass media, la grottesca locuzione cominciò a diffondersi nel 2010. Era a quei tempi opinione comune che Berlusconi avesse appreso il costume del bunga bunga da Muammar Gheddafi, che avrebbe chiamato in quel modo una sessione orgiastica fondata sul sesso anale con prostitute (il condizionale è d'obbligo). L'immaginario italiano trovò naturale far entrare il bunga bunga nel proprio vocabolario, dato che il suono africanoide evocava qualcosa di esotico, sfrenato e primitivo. Oggi queste vocalizzazioni sarebbero definite "razziste", ma soltanto pochi anni fa non ci badava nessuno. Quando venni a conoscenza di questa attribuzione a Gheddafi di una simile onomatopea, rimasi subito molto perplesso e dichiarai il mio scetticismo. Non può avere nulla di arabo, compresi all'istante. Già, perché non è una pretesa così assurda: dal momento che Gheddafi si esprimeva in arabo libico, ci saremmo aspettati un vocabolo tratto da tale lingua, magari adattato in modo grossolano all'italica fonotassi. Non ci pensai troppo a lungo, avendo ben altri problemi - tra l'altro Berlusconi profondeva un impegno indefesso nella causa della censura e dell'annientamento dei blog.


La beffa della Dreadnought

Indagando negli antri del Web, sono riuscito a risalire a una notizia davvero singolare. Nel 1910, esattamente un secolo prima dell'emergere del bunga bunga berlusconiano, un gruppo di rampolli della buona società inglese organizzò una tremenda bravata goliardica. L'ideatore della burla fu il poeta irlandese Horace de Vere Cole, conosciuto per il suo carattere burlone, non dissimile da quello del Marchese del Grillo. Accadde così che lui e cinque suoi amici si travestirono annerendosi il volto, mettendosi barbe posticce, indossando lunghi abiti bianchi e coprendosi il capo con voluminosi turbanti. L'identità di questi buontemponi non è un mistero. Ecco i nominativi: Virginia Stephen, che in seguito sarebbe diventata famosa come Virginia Woolf; suo fratello Adrian Stephen; lo scrittore e  militare Anthony Buxton; l'avvocato dell'Alta Corte Cecil Guy Ridley e il pittore Duncan Grant. Cole intendeva spacciarsi per l'Imperatore dell'Abissinia e presentare gli altri come suoi dignitari, allo scopo di visitare la corazzata britannica Dreadnought (ossia "Intrepida", da to dread "temere" e nought "niente"). Così fu fatto e tutto andò alla perfezione. L'Imperatore fittizio d'Abissinia e i principi fasulli ispezionarono la nave da guerra mostrando grande interesse. Ogni volta che veniva loro mostrata qualche meraviglia della tecnologia dell'epoca, esprimevano un'immensa ammirazione esclamando: "BUNGA BUNGA!". Questi aristocratici rentiers, che non lavoravano o lo facevano per hobby, simulavano conversazioni abissine alterando versi dell'Eneide, appresi nel corso dei loro studi nelle più esclusive università. Virginia Stephen, che in seguito avrebbe incantato le lesbiche di mezzo mondo, si presentò addirittura come Principe Mendex, parola chiaramente derivata dal latino mendax "bugiardo, menzognero". Sembra evidente che l'educazione dei militari britannici non includesse grandi nozioni di lingue classiche, visto che all'Impero servivano soldati con le palle di granito fumante e non filologi classici. Così il comandante della nave, Sir William May, non ebbe la possibilità di accorgersi che lo stavano tirando per il culo. Tutto si concluse per il meglio, nonostante piccoli incidenti (uno scroscio di pioggia minacciò di sciogliere il trucco degli impostori). Invitati a pranzare a bordo della Dreadnought, i finti abissini rifiutarono con una scusa speciosa: non era loro possibile accettare l'invito per via delle complesse norme alimentari a cui erano soggetti i membri della casa imperiale. La beffa non rimase senza conseguenze: lo stesso Cole fece in modo che divenisse di pubblico dominio. In breve, su tutti i principali quotidiani comparve una foto del gruppo assieme al resoconto dell'impresa. La Royal Navy, coperta di ridicolo e oggetto di satira, chiese subito l'arresto dei burloni. Dato l'immenso potere massonico delle università, il gruppo non conobbe il processo e la prigionia. La punzione fu soltanto simbolica. Ai soli uomini fu assestata una bastonata rituale sulle natiche, che aveva più che altro l'effetto di sottoporre i colpevoli a un'umiliazione. Alla pena scampò Virginia Stephen, il cui delicato deretano fu ritenuto degno di rimanere inviolato. Cinque anni dopo, nel 1915, quando la Dreadnought affondò un sommergibile tedesco, un telegramma di congratulazioni riportava soltanto due parole: "BUNGA BUNGA!". Anche il CICAP ha sentito la necessità di occuparsi dell'argomento, per quanto non veda in esso neppure una traccia di paranormale. 



La questione della pronuncia

Sul Western Daily Mercury comparve a caratteri cubitali il titolo "Bunga Bungle!", ossia "il pasticcio del bunga (bunga)", che giocava sull'assonanza. Questo pone un problema. Dal momento che la pronuncia di bungle è /ˈbʌŋɡl/, sorge il dubbio che bunga bunga potesse suonare /ˈbʌŋɡǝ ˈbʌŋɡǝ/ anziché /ˈbʊŋɡǝ ˈbʊŋɡǝ/, come sarebbe invece naturale. Questo anche perché la colorita espressione si è diffusa soprattutto a mezzo stampa, potendo dar quindi origine a pronunce ortografiche. Gli anglofoni posseggono un sistema molto ingegnoso quanto molesto per scrivere correttamente le parole e i nomi propri che sentono pronunciare: ne domandano lo spelling, ossia la ripetizione rituale e salmodiante dei nomi delle lettere dell'alfabeto che compongono la forma scritta. Così il Signor Beauchamp, il cui cognome suona /'bi:tʃǝm/, intonerà una cantilena irritante scandendo con cura maniacale: "bee, ee, a, u, cee, haitch, a, em, pee". Peccato che non sia mai stato elaborato il procedimento inverso, in grado di permettere di ricostruire la corretta pronuncia dalla forma scritta di una parola senza poterla ascoltare direttamente. Senza un simile espediente, un lettore si troverà incapace di articolare correttamente un nome sconosciuto e inventerà pronunce ortografiche. Aleister Crowley inventò un rimedio rudimentale, ma non riuscì a renderlo generale. Aveva composto alcuni versi inequivocabili per spiegare il giusto suono del suo cognome: The name is Crowley, it rhymes with holy. It isn't Crowley that rhymes with fouly. Con Noam Chomsky la cosa non ha funzionato: il cognome è pronunciato dai più con il suono iniziale di cheese, mentre la pronuncia corretta inizia con il suono aspirato di loch. La controversia sulla pronuncia anglofona di bunga bunga è presto risolta facendo un giro in Youtube: è sicuramente /ˈbʌŋɡǝ ˈbʌŋɡǝ/. Avrei dovuto arrivarci subito, data l'assonanza con bum "chiappe" e bumhole "buco del culo", a loro volta di origine onomatopeica. 



Ulteriori evoluzioni 

In seguito alla beffa della Dreadought, la locuzione bunga bunga finì pian piano con l'acquisire un nuovo significato. A un certo punto cominciò a circolare una storiella con tre esploratori come protagonisti. La riporto in estrema sintesi. Questi esploratori si addentrano in una terra impervia e selvaggia dell'Africa profonda, finendo catturati dai nativi. Il capo del villaggio impone ai prigionieri di scegliere due alternative: o la morte o il bunga bunga. Il primo a cui viene chiesto di scegliere opta per il bunga bunga. Viene sodomizzato brutalmente da tutta la tribù e poi bruciato vivo. Il secondo progioniero, temendo che il capo del villaggio abbia capito male la risposta, sceglie anche lui il bunga bunga. Fa la stessa misera fine dell'altro. Il terzo, visti gli orrori a cui i suo compagni sono stati sottoposti, chiede la morte. Il capo allora gli dice: "Hai chiesto la morte e l'avrai, ma prima divertiamoci con un po' di bunga bunga!". La scelta non era un aut aut, ma un et et. La barzelletta giunse in Italia, a quanto pare negli anni '80. Oltre a bunga bunga, si produce la variante bumba bumba. Alcuni pensano erroneamente che la forma bumba bumba sia quella originale, perché l'avrebbe usata Paolo Rossi nel 2001. A quanto pare costoro ignorano gli antefatti, così la loro tesi è da rifiutarsi. Quello che è certo è che Silvio Berlusconi ha riciclato proprio questo materiale, rilanciando la barzelletta. Secondo alcuni lo avrebbe fatto nell'aprile del 2009, un anno prima della diffusione pandemica di questo splendido ritrovato dell'ingegno umano. Associato allo scandalo Ruby e a voci insistenti su festini degni di Jabba the Hutt, il bunga bunga divenne la cifra di un'epoca.



Sabina Began e una falsa etimogia

I media si sono lasciati incantare da una fola meritevole di scherno. Sabina "Ape Regina" Began, nata Sabina Beganović, attrice tedesca di stirpe bosniaca, affermò in un'occasione che il termine bunga bunga sarebbe stato in realtà un suo soprannome. Sabina "Bunga Bunga" Began. Stando alle sue parole, che risalgono al 2011, la rudimentale onomatopea africanoide sarebbe derivata proprio dalla distorsione del suo cognome abbreviato. Un mai attestato Began Began, ripetuto in modo confuso, avrebbe portato proprio al famigerato bunga bunga. Si tratta chiaramente di un depistaggio. Tra l'altro, le affermazioni della Began non rendono in alcun modo conto dei fatti della corazzata Dreadnought e delle attestazioni inequivocabili della barzelletta dei tre esploratori ben prima del 2010. 



Falsi amici

Nel 1852 l'editore scozzese James Hogg aveva citato in una sua opera un toponimo australiano Bunga Bunga, senza peraltro riportare a questo proposito alcunché di eclatante. A parer mio non è stato questo il punto di partenza del bunga bunga di cui stiamo trattando, la cui origine onomatopeica e i cui connotati sessuali sono fuori discussione. La mentalità che ha portato alla beffa della Dreadnought era impregnata di darwinismo e di positivismo: intendeva ridicolizzare i suoni prodotti dalle genti africane, tutte confuse in un gran calderone, attribuendo loro caratteristiche "scimmiesche". A muovere Horace de Vere Cole, la futura Virginia Woolf e gli altri non fu certo un nome di luogo trovato in uno scritto di Hogg. Resta però una domanda. Qual è l'origine del Bunga Bunga australiano? In malese e in molte lingue indonesiane correlate, bunga significa "fiore". Il plurale è bunga-bunga "fiori", ottenuto regolarmente per reduplicazione. Nel XVIII secolo giunsero in Australia genti dall'Indonesia, prima del capitano James Cook. Questi navigatori ebbero contatti con gli aborigeni - in particolare con gli Yolngu - dando loro in prestito alcuni vocaboli. Un affascinante argomento che purtroppo non può essere sviluppato qui, ma prometto che sarà trattato in un'altra occasione.

martedì 15 maggio 2018

ETIMOLOGIA DI BOOMERANG

La parola boomerang proviene in ultima analisi dalla lingua Dharruk (Dharug). Secondo altri la lingua d'origine sarebbe invece il Dharawal (Tharawal, Turuwal, etc.), che è comunque imparentato col Dharruk e ritenuto un suo sottogruppo. Il termine Dharruk è buumarang, mentre in Dharawal troviamo diverse varianti, come wumarang, bumarang e bumarit, che indicano il boomerang usato in combattimento. Per designare un simile strumento usato per la caccia, si usano altre parole, come warrangan e kurra-bodu

Sussiste qualche dubbio sulle modalità di penetrazione del termine in inglese. Il dizionario Etymonline, che a quanto pare considera estinto il Dharruk, riporta che la prima attestazione della forma boomerang risale al 1827. Viene quindi citata un'altra variante, wo-mur-rang, nel 1798. Mentre Etymonline considera l'informazione abbastanza dubbia, in Wikipedia si riesce a risalire al glossatore, David Collins, e alla sua opera, An Account of the English Colony in New South Wales - Appendix XII (Language). Questo wo-mur-rang di Collins è proprio il Dharawal wumarang, fatto e finito. La forma Dharawal bumarit è riportata in un manoscritto anomino del 1970 con l'ortografia Boo-mer-rit e tradotta con "the Scimiter". Nel 1822 è attestato bou-mar-rang con l'esplicita attribuzione ai Dharawal stanziati nell'area di Port Jackson. Gli Eora, che parlavano una dialetto del Dharug, usavano woomera.    

Come si può vedere dall'opera di Dixon e Blake (Handbook of Australian Languages), nelle lingue Margany e Gunya del Queensland il termine per indicare il boomerang è waŋal. Notiamo però che il giavellotto è chiamato wamada, wamadu o biwiny in Margany e wamaṛa in Gunya. Evidentemente la parola imparentata con boomerang è proprio qualla che indica il giavellotto: si capisce subito che wamaṛa / wamada e boomerang sono derivati dalla stessa protoforma. Non è tuttavia facile capire gli slittamenti semantici che hanno portato alla situazione descritta. Il Margany biwiny deve essere derivato da una radice diversa. Un bastone da getto più piccolo, diverso dal boomerang, è chiamato muru in entrambe le lingue in questione, che sono di ceppo Pama-Nyungan.

Wikipedia riporta un'interessante mappa di diffusione dell'uso del boomerang, opera di SuperJew e basata sui dati di Martyman da Canberra, che linko in questa sede con l'apposito codice (è coperta da Copyleft):  

Australia Boomerang Distribution

Le aree in marrone scuro erano abitate da tribù che ignoravano l'uso del boomerang ("Boomerangs not made"). Le aree in giallo erano abitate da tribù che conoscevano soltanto l'uso del boomerang non ritornante ("Only Non-returning Boomerangs made"). Le aree in marrone chiaro erano abitate da tribù che conoscevano l'uso di entrambi i tipi di boomerang, quelli ritornanti e quelli non ritornanti ("Returning & Non-returning Boomerangs made"). 

Possiamo fare alcune riflessioni a partire dalla situazione storica mostrata dalla mappa. Il boomerang era sconosciuto praticamente nell'intera area in cui sono documentate o tuttora parlate lingue non appartenenti alla famiglia Pama-Nyungan. Per rendersene conto, basta osservare una mappa di distribuzione delle lingue australiane. Riporto da Wikipedia la mappa prodotta da Kwamikagami, che ne detiene i diritti di Copyright ma ne concede gentilmente l'uso: 


Le aree color zabaione sono le sedi di tribù di lingua Pama-Nyungan. Le aree di colori diversi (arancione, grigio e verde pistacchio), nel Nord del continente, sono le sedi di tribù di lingua non Pama-Nyungan. 

L'area corrispondente al Queensland è di lingua Pama-Nyungan ma senza uso del boomerang. Posso immaginare che in origine in quella zona fossero parlate lingue non Pama-Nyungan, poi assorbite dai nuovi arrivati, lasciando eventualmente elementi di sostrato. Sarebbe interessante compiere investigazioni. Anche nel Sud del continente c'è un'area in cui il boomerang non era prodotto. Senza dubbio in passato la situazione linguistica era molto più complessa.

A questo punto salta fuori un grave problema. L'archeologia ci dice che il boomerang è antichissimo e che esistono sue raffigurazioni rupestri risalenti ai primi tempi del popolamento dell'Australia, 50.000 anni fa. La linguistica ci porterebbe a credere a un'invenzione molto più recente, corrispondente al diffondersi delle lingue di tipo Pama-Nyungan (resta aperta la questione se si tratti di una famiglia linguistica valida o di una Sprachbund). Come mettere d'accordo queste evidenze discordanti? La realtà deve essere ben più complessa di quanto immaginiamo. Venirne a capo richiederà molto studio. 

I Tasmaniani, il cui livello tecnologico era talmente basso che ignoravano persino sistemi per accendere il fuoco, ignoravano l'uso del boomerang. Non è però chiaro se sia sempre stato così. Jared Diamond ha scritto delle genti di tale isola, dicendo che vi importarono una tecnologia comune alle genti dell'Australia, per poi perderla. Secondo lo studioso, ritrovamenti archeologici dimostrerebbero che in epoche remote era conosciuto in Tasmania l'ago d'osso, di cui non fu trovata traccia alcuna nell'epoca storica. Per spiegare questi singolari fatti, Diamond ipotizzava che nell'isola visse uno sciamano fanatico, una sorta di ayatollah preistorico, che aveva colpito con l'interdetto diversi ritrovati tecnologici che si sono conservati in Australia. Forse un tempo il boomerang era noto ai Tasmaniani, che ne hanno poi abbandonato l'uso? Forse gli aborigeni australiani di lingua non Pama-Nyungan hanno in gran parte subìto un'involuzione tecnologica di questo tipo? Sarebbe bello poter iniziare un serio dibattito.

ETIMOLOGIA DI VOMBATO

La parola vombato, giunta in italiano dall'inglese wombat, deriva dalla lingua Dharruk, la stessa che ha dato anche i nomi del dingo e del koala. La forma d'origine del nome del goffo marsupiale è wambad, con le varianti wambaj e wambag. La trascrizione di queste forme nell'ortografia inglese ha dato anche womback e wombar, come testimoniato dal database Etymonline. A quanto pare è documentata anche una forma womat, con semplificazione del gruppo consonantico -mb-. Queste oscillazioni si spiegano con ogni probabilità ammettendo che la consonante finale avesse un suono che non veniva interpretato correttamente dagli ascoltatori anglofoni, oppure che una protoforma complessa abbia dato origine a esiti diversi. 

Dai documenti rimasti ai nostri giorni, sembra che la parola sia entrata in inglese nel tardo XVIII secolo con la grafia whom-batt, e che la sua introduzione sia opera di un ex galeotto che viveva con gli aborigeni sulle montagne ad ovest di Sidney. Nel 1798, il whom-batt fu descritto al governatore dello stanziamento di Cove, nei pressi di Sidney, come un grosso animale tra l'orso e il tasso ("a large animal between a bear and a badger").

Nella lingua Wiradjuri, parlata nella regione centrale del Nuovo Galles del Sud, la parola per indicare il vombato è wambad, in pratica la stessa usata in Dharruk. Riuscire a ricostruire una lista di nomi del marsupiale in questione in altre lingue non sembra facile: anche siti che hanno permesso di mettere insieme non pochi nomi del dingo, si dimostrano avari in modo sorprendente. La causa sarà da ricercarsi nell'areale del vombato, che non è poi così esteso: se un popolo vive in un'area in cui non ci sono questi animali, non avrà un nome nativo per indicarli.


A questo punto riporto un caso curioso, che ben si spiega guardando gli areali riportati nel sito. Nella lingua Yukulta (Ganggalida), un tempo parlata nel Queensland, il nome del vombato era wampita. Secondo Dixon e Blake (Handbook of Australian Languages), wampita è un prestito dall'inglese wombat. La cosa può sembrare controintuitiva, ma se nel territorio degli Yukulta non c'erano vombati, la spiegazione è immediata.

Nelle lingue dei Tasmaniani, che erano molto dissimili dalle lingue australiane, il vombato era chiamato raoomta, rowoomata, rowitta, drogermutter (l'ultima forma è glossata "badger", ossia "tasso"). L'attribuzione concreta di queste parole ai vari gruppi che vivevano nell'isola si presenta difficile. Tuttavia trovo innegabile che le parole riportate derivino tutte da un'unica protoforma, forse qualcosa che suonava *dragwomatta. La consonante -r finale di una sillaba chiusa è meramente grafica: ad esempio si ha Parlevar per Palawa, nome che si davano questi aborigeni. Non essendo un esperto nella materia, la ricostruzione potrebbe anche esserre fallace. Non so se la cosa sia legittima, ma noto che se potessimo segmentare questa protoforma e considerarla un antico composto, otterremmo *drag-womatta, con il secondo membro -womatta che ricorda in modo sorprendente le forme attestate in Australia. Se questa mia ipotesi potesse essere confermata da qualche specialista, avrei trovato un'isoglossa tra le lingue della Tasmania e dell'Australia Orientale. Il risultato sarebbe di per sé notevole, anche se credo che nessuno ci farà caso, essendo questo portale condannato alla maledizione dell'invisibilità.

Abbiamo ancora un po' di spazio per una curiosità scatologica. I vombati depongono feci cubiche. Molti nel Web si chiedono perché: una domanda tipica è "why do wombats do cube shaped poo?". La risposta a un simile interrogativo non è poi così difficile. I vombati non hanno un ano quadrato. Hanno semplicemente un intestino molto lungo e processi digestivi molto laboriosi, che portano alla produzione di masse compatte di feci con scarso contenuto di acqua. Questi escrementi secchi e densissimi sono plasmati da creste contenute nel colon. L'intestino retto è per sua natura corto e non è quindi in grado di conferire ai blocchi escrementizi la tipica forma cilindrica tipica dei prodotti degli umani e di molti altri animali.