sabato 23 giugno 2018

IL TRAMONTO DELL'INGLESE COME LINGUA INTERNAZIONALE

Le genti vivono immerse in una spessa coltre di illusioni. Il mito della caverna narrato da Platone spiega la miserabile esistenza degli umani, che scambiano vane ombre proiettate da sagome per la realtà delle cose. Così credono che la lingua inglese sia al suo apogeo e irradi la luce del massimo splendore sul globo terracqueo, imponendosi dovunque, lingua franca dell'intero genere umano, destinata a soppiantare ogni altro idioma. Il sistema scolastico ha molto contribuito, unitamente ai media, a forgiare questa narrazione fallace. In fondo le semplici menti degli esseri umani sono ben comprensibili. Innanzitutto credono che l'insegnamento di una lingua debba per forza di cose corrispondere alla concreta esistenza di questa lingua come fenomeno assoluto, univocamente determinato e conoscibile, che non può dare adito a incomprensioni e ad ambiguità di sorta. Milioni di persone apprendono dalla maestrina qualcosa che chiamano "inglese", così tutti sono convinti che ad ogni singola parola scritta debba corrispondere una pronuncia universalmente riconoscibile senza difficoltà alcuna. Non può esistere inganno peggiore di questo!  

La perdita di unità della lingua inglese   

Immaginate un convegno sul destino del pianeta Terra, tenutosi nella città di Belloveso. Un climatologo americano di fama internazionale esponeva la sua relazione dopo quella di una ricercatrice del Politecnico. La donna parlava in uno pseudoinglese legnoso, caratterizzato da una rotica trillata al punto da sembrare un ringhio emesso facendo vibrare l'ugola. Nelle sue intenzioni, WI ARRA doveva significare "noi siamo". Il professore venuto dagli States, un ometto paffuto e grottesco, scandiva i suoi discorsi in una lingua tanto distante da quella dell'italiana da sembrare un vulcaniano o un klingoniano. Egli non usava rotiche trillate. Nessuna rotica finale di sillaba era da lui pronunciata. In altri contesti realizzava costantemente le rotiche come approssimanti labiali, ossia come /w/. Non solo, egli pronunciava allo stesso modo la consonante /l/ come /w/ in diverse posizioni, ad esempio quando preceduta da un'occlusiva. Così la parola climate "clima", che nell'inglese della Regina suona /'klaɪmɪt/, era da lui pronunciata QUAMA /'kwama/ o QUAME /'kwame/. La locuzione climate change era pronunciata addirittura in forma ridotta che noi trascriveremmo nell'ortografia italiana come QUAN C'È /kwan'tʃɛ/, con una /ɛ/ tonica nettissima e senza traccia di consonanti finali. Allora mi chiedo, una volta di più: "Può una persona che dice WI ARRA intendersi con una persona che dice QUAN C'È anziché /'klaɪmɪt 'tʃeɪndʒ/?" Santo Dio, no! Diabole Domine! Schweinegott Hundegott! No! Non è possibile. Troppa è la distanza tra i rispettivi sistemi fonemici. Quindi la relatrice del Politecnico e il professore americano non si comprendevano affatto. La prima usava una varietà semiortografica di pseudoinglese, di chiara origine scolastica. Il secondo agiva ispirandosi a un pensiero molto comune nel mondo anglosassone: "La mia lingua la parlo come voglio, sono gli altri che devono impararla, non sono io a dovermi abbassare al loro livello." A maggior ragione, gli studenti presenti nell'aula, un branco di stoltissimi Millennial adusi a ogni genere di droga e alle gangbang spermatiche, di certo non comprendevano nemmeno l'eco di una sillaba. L'accaduto è rappresentativo di ogni incontro tra persone di diverse nazionalità. Ognuno usa il proprio pseudoinglese, fingendo di capire l'altro. Se ho imparato a comprendere diversi tipi di pseudoinglese usati da studiosi anglosassoni, non lo devo certo alla scuola: è stata soltanto una lunga e paziente pratica ad insegnarmi. Se anche un giorno dovessi tenere in pubblico un discorso in inglese, userei di certo l'inglese della Regina, che in America si studia a scuola come una lingua morta. Tanto ci sarebbe la certezza che nessuno mi capirebbe e che le parole di qualsiasi interlocutore in fondo sono prive di qualsiasi importanza. "Il convegno è finito, andiamo su Youporn", questo pensa il branco degli studenti quando l'ultimo relatore ha esposto la sua presentazione. 

Una lingua incapace di unire

Se una lingua si frammenta in una miriade di varietà mutuamente inintelligibili o quasi, come può assolvere la funzione di lingua globale? La risposta è una sola: non può. Manca un'autorità centrale in grado di normare i fonemi e persino gli allofoni, di imporre una varietà prestigiosa che possa essere davvero comune a tutti. Lo stesso inglese della Regina ha un sistema fonetico di una grande complessità, le sue parole sono brevi e sfuggenti. Non è però un idioma condiviso, da milioni di persone è visto come preistoria, come se fosse una lingua morta del Neolitico. Comunque la si metta, non esiste una sola varietà di inglese che possa imporsi sulle altre. Non solo: non esiste una sola varietà di inglese che sia semplice. I problemi non si risolvono, si moltiplicano. Se una lingua ha fonemi che la maggior parte della popolazione non anglosassone sparsa per il globo terracqueo reputa ostici e fatica molto a distinguere, come può assolvere la funzione di lingua globale? Ancora una volta la risposta è una sola: non può.

Fraintendimenti

Posso trarre dalla mia memoria un gran numero di aneddoti in grado di illustrare ai lettori quanto sostengo. Ne riporto alcuni in questa sede. Un attempato giapponese faceva la fila all'autostazione e balbettava richieste di informazioni. La ragazza che distribuiva i biglietti lo ha indirizzato verso un pullman rosso, chiamandolo red bus. Peccato che il nipponico abbia capito bread bus, ossia "pullman del pane" o "pullman (fatto) di pane". Nonostante tutti i tentativi di spiegarsi, l'uomo insisteva, così la ragazza ha afferrato un oggetto di plastica rossa che aveva a portata di mano, scandendo con pazienza di Giobbe: "RED". A questo punto è stata compresa. Non mi è chiaro cosa possa aver ingenerato l'equivoco. Forse la rotica un po' uvulare della ragazza è stata analizzata come un nesso /br/. Se la lingua globale fosse lo spagnolo, termini come colorado o rojo non potrebbero essere fraintesi da nessuno: il loro suono sarebbe chiaro dall'Africa equatoriale alla Cina, anche tra genti che hanno rotiche diverse. Non sarebbe meglio per tutti? L'accaduto mi ha scosso: ancora adesso faccio fatica a capire come un giapponese possa trovare più logico pensare a un pullman che trasporta pane o a un pullman fatto di pane piuttosto che a un banalissimo pullman rosso. Anni fa il fraterno amico P. mi raccontò un singolare episodio che risaliva ai tempi in cui andava in vacanza negli States. Siccome tali vacanze comportavano l'obbligo di frequentazione scolastica, era facile incontrare in classe persone di mezzo mondo. Così P. era rimasto colpito da un giapponese che non riusciva ad articolare le parole più semplici, perché tentava disperatamente di ridurle ai suoni della propria lingua. Il ragazzo dell'Arcipelago aveva destato esilarazione pronunciando her house "la sua casa (di lei)" come whore house "bordello, postribolo". Non potendo pronunciare la vocale rotica di her /hə:ɹ/, la realizzava come una /ɔ:/ aperta e nettissima, collocando sulla sillaba un forte accento. Così se ne usciva con un /'hɔ:'haʊsu/ che per l'orecchio di un nativo era la casa delle puttane. Anche se house da quelle parti suonava /hɛɔs/ e non /haʊs/ come insegnato dai manuali, questa differenza non creava davvero problemi. La pietra dello scandalo era una sillaba che da pronome si trasformava in una fallofora. Sempre durante la stessa vacanza, l'insegnante, una giovane donna, rivolse una strana domanda alla scolaresca. Chiese a ciascuno cosa facesse venire in mente il termine Puritans. Quando fu il suo turno, un indostano scattò sull'attenti, esclamando: "PISS AND MORALITY!" L'insegnante rimase raggelata. Naturalmente il giovane hindu non intendeva dire che i Puritani si riunivano per fare sessioni di pissing. La parola da lui pronunciata /pɪs/ con una /ɪ/ breve e aperta, doveva invece essere /pi:s/ con una /i:/ lunga e chiusa, ossia peace "pace"

La piaga delle pronunce ortografiche

Molte forme di pseudoinglese italico sono caratterizzate da veri e propri fonemi intrusivi. Il fenomeno, di per sé disdicevole e ripugnante, nasce dal fatto che gli studenti apprendono la lingua scritta a scuola, pensando che la lingua parlata sia soltanto il risultato dell'applicazione di regoline, regolette, regolucce e regolacce. Questo risultato, chiamato "pronuncia", è visto come qualcosa di secondario rispetto alla lettera. Non è altro che l'output di un software mentale che macina lettere. L'idea che la lingua parlata sia venuta prima di quella scritta è lontanissima dalle menti di questi decerebrati, che si sottomettono ai dogmi delle maestrine. Peggio ancora, essi professano queste storture in modo fideistico. Complice l'ignoranza belluina del corpo docente, questi branchi di alunni trovano che nulla sia più naturale dell'attribuire un suono a lettere mute, dando origine a moltissimi obbrobri. Così knee "ginocchio", che suona /ni:/, lo realizzeranno come KNI o addirittura come KINÌ. Famoso poi è il caso di iron "ferro", che suona /'aɪən/ e che è pronunciato AIRON dalle scolaresche italiche - come se fosse scritto EYE RAWN. Se la pronuncia ortografica è spinta, ecco che I know "io so" può suonare addirittura AI KANÒV o AI KANOVA, col pronome ben staccato e accentato quanto il verbo. Appurato che il suono trascritto col dittongo ea è spesso /i:/, molti pronunciano /i:/ tutte le parole con un dittongo ea, anche quelle in cui la vocale è una /e/ breve. Così lead "piombo" è da loro pronunciato come se fosse *LEED, e persino heavy "pesante" è pronunciato come se fosse *EEVY. A volte questo fenomeno colpisce anche parole senza dittongo grafico: devil "diavolo" è spesso pronunciato come se fosse *DEEVEEL o *DEEVAWL. Si può ben capire che i parlanti di un simile pseudoinglese non riconosceranno le parole native; allo stesso modo le loro aberrazioni non saranno riconosciute dai parlanti anglosassoni. I docenti mostrano verso tutto ciò un'incredibile tolleranza. Alcuni di loro sono convinti che lo schifo appena esposto sia "inglese" a tutti gli effetti, tanto sono asini. Altri invece sono consapevoli degli errori degli alunni, ma non hanno determinazione sufficiente per correggerli, anche perché plasmare i giovani stolti a suon di sganassoni è diventato illegale.

Il mito dell'accento

Cosa accade quando uno studente si reca in Inghilterra o in America e constata l'assoluta incomunicabilità? Semplice: dà la colpa a un mostro fantomatico che chiama "accento". La situazione classica è quella del giovane che sbandiera titoli, esami e quant'altro, ma dice di avere un "accento italianissimo" e di trovare difficile l'inglese parlato. In realtà l'accento qui non c'entra proprio nulla, dato che siamo di fronte a un problema di riconoscimento dei fonemi. Se in un dialetto del Regno Unito abbiamo una vocale /ɔ/ aperta nella parola stop, mentre in un dialetto americano abbiamo /a:/ e la pronuncia è /sta:p/, l'intonazione delle frasi non è nemmeno chiamata in causa, dal momento che la difficoltà è che nelle due parlate alcune parole sono realizzate usando due fonemi tra loro dissimili. Se io conosco la pronuncia /stɔp/ e mi trovo ad ascoltare un parlante che usa /sta:p/, può mancarmi la possibilità di identificare la parola nei suoi discorsi. Me la immaginerei addirittura scritta *STARP e non ne capirei la natura. C'è tuttavia di peggio. Su Quora in inglese, l'utente brasiliano Ygor Coelho ha scritto quanto segue (la traduzione è mia): «Non solo l'inglese è parlato molto velocemente dalla maggior parte dei parlanti, ma è anche una lingua con un uso molto intenso del sanddhi (connessioni di suoni tra le parole), che spesso cambia o porta via qualcosa dalla sillaba immediatamente precedente. Il risultato è che l'inglese parlato, della strada, è spesso estremamente difficile da distinguere parola per parola. Diventa tutto un unico, molto lungo borbottio, molte sillabe connesse l'una all'altra, e tui spesso non hai abbastanza tempo per pensare "vediamo, questa parola finisce qui, quest'altra inizia là", in modo tale da decodificare le frasi. Oltre a questo, le variazioni dialettali, specialmente nella pronuncia delle vocali, possono essere molto vaste in inglese, accrescendo ulteriormente la difficoltà di decodificare parola per parola una lunga sequenza di parole.» 

L'ascesa dello spagnolo

L'utente Alfonso Garcia, sempre su Quora, ricorda che lo spagnolo è usato dal 15% dei cittadini dell'Unione Europea, per un totale di circa 75 milioni di persone. Inoltre cita altri dati molto interessanti: 

1) Lo spagnolo è parlato da 55 milioni di persone negli USA; 
2) Lo spagnolo è obbligatorio in alcune scuole cinesi. Il Governo studia di renderlo obbligatorio in tutte le scuole. Lo stesso accade nelle Filippine; 
3) Lo spagnolo è la lingua straniera più importante nel futuro del Regno Unito, come sostenuto da un nuovo studio del British Council;
4) La popolarità dello spagnolo sta crescendo in Africa. È parlato da circa 10 milioni di persone in tale continente (Marocco, Sahara, Isole Canarie, Guinea Equatoriale, etc.);
5) Lo spagnolo è la seconda lingua in Antartide, dopo l'inglese. Ci sono stazioni di ricerca di Argentina, Cile, Spagna, Perù, Uruguay, etc.
6) È parlato da circa mezzo milione di persone in Oceania (minoranze in Australia, Nuova Zelanda, Isola di Pasqua, Hawaii, Guam, etc.);
7) È parlato da 575 milioni di persone in tutto il mondo. Inoltre, il portogese è parlato da 250 milioni di persone, e l'italiano da 75 milioni di persone. Così tu puoi capire, con diversi gradi di comprensione, circa 900 milioni di persone; 
8) In Duolingo, lo spagnolo è studiato da 145 milioni di persone. Molto più del francese, del tedesco o del cinese;
9) Infine è la seconda lingua più usata su Facebook e su Twitter. 

Che dire? Se davvero la Cina dovesse rendere obbligatorio lo studio dello spagnolo in tutte le sue scuole, l'ispanofonia diverrebbe una marea inarrestabile, un vero e proprio tsunami. Anche perché i cinesi le lingue le imparano davvero.

lunedì 18 giugno 2018

LA LINGUA SEGRETA DEGLI INCAS

Quando si parla della lingua segreta degli Incas, in genere si pensa al complesso sistema di scrittura tramite cordicelle che in Quechua sono chiamate khipu (scritto anche quipu, quipo). Non è di questo che intendo trattare nel presente contributo. Alludo invece a una lingua parlata, diversa dal Quechua, che era usata unicamente dall'Inca, dalla sua famiglia e dai suoi cortigiani. Non sono mancati studiosi che hanno ritenuto una leggenda l'esistenza di questo misterioso e sconosciuto idioma. Eppure esistono testimonianze che non lasciano adito a dubbi. Procedo a passarle in rassegna. 

In uno scritto datato 1586, Rodrigo de Cantos de Andrada riporta quanto segue:

"In questo regno c'è molta differenza tra le lingue tra gli indigeni; tuttavia in tutto il regno i capi e i notabili dei distretti hanno l'obbligo di conoscere la lingua generale che chiamano Quichua, per sapere e per capire ciò che veniva loro comandato dall'Inca, e perché, andando alla sua corte, comprendessero senza interprete; e tra loro lo stesso Inca, la sua famiglia e gli Orecchioni ne parlavano un'altra, e di questa lingua nessun capo né alcuna persona del regno avevano il permesso di apprendere nemmeno un vocabolo."

Si ricorda che i nobili erano chiamati Orecchioni per via delle orecchie deformate da grandi gioielli, non per loro inclinazioni sessuali (tra l'altro l'omosessualità era aborrita dagli Incas). Questo è il testo originale in spagnolo:

"En este reino hay mucha diferencia en los naturales de lenguas; pero en todo él los caciques y principales de los repartimientos tenían obligación de saber la lengua general que llaman quíchua, para saber y entender lo que se les mandaba de parte del inga, y para que, yendo a su corte, la entendiesen sin intérprete; y entre el mismo inga y su linaje y orejones hablaban otra, y ésta ningún cacique ni demás personas de su reino tenían licencia para aprendella ni vocablo de ella." 

In uno scritto datato 1609, Garcilaso de la Vega ci rende noto "che gli Incas avevano un'altra lingua particolare che parlavano tra loro, che non era compresa dagli Indiani, né era loro lecito apprenderla, come [se fosse] un linguaggio divino" ("que los Incas tuvieron otra lengua particular que hablavan entre ellos, que no la entendían los demás indios ni les era lícito aprenderla, como lenguaje divino"). Aggiunge anche che questa lingua segreta "si era completamente perduta, perché, come perì la particolare repubblica degli Incas, perì anche il loro linguaggio" ("ha[bía] perdido totalmente, porque, como pereció la república particular de los Incas, pereció también el lenguaje dellos").

In uno scritto datato 1653, lo storico e gesuita Bernabé Cobo riporta la stessa notiza e afferma che gli Incas conoscevano, oltre al Quechua, "un'altra [lingua] distinta, che usavano soltanto quando trattavano o conversavano con quelli della loro stirpe" ("otra distinta, de que usaban solamente entre sí cuando trataban y conversaban con los de su linaje"). Sostiene anche che l'esistenza di questa lingua segreta era stata certificata da don Alonso Topa Atau, nipote di Huayna Capac, il quale gli avrebbe assicurato che era "la stessa che parlavano gli Indiani della valle del Tambo" ("la misma que hablaban los indios del valle de Tampu"). In tale valle si trovava la mitica grotta di Pacaritambo ove, stando alle saghe della fondazone di Cuzco, sarebbero nati per generazione spontanea i fratelli Ayar. Infine, lo stesso Cobo sostiene che "col cambiamento che hanno subìto le cose di questo regno con il comando degli Spagnoli, [tale lingua] la hanno già dimenticata i discendenti degli Incas" ("que con la mudanza que han tenido las cosas deste reino con el nuevo mando de los españoles, [dicha lengua] la han ya olvidado los descendientes de los Incas").

Il materiale lessicale che Garcilaso de la Vega attribuisce, a volte implicitamente, alla lingua segreta degli Incas è costituito per la maggior parte da antroponimi e toponimi, il cui significato, non estraibile a partire dal Quechua, sfuggiva alla competenza linguistica dell'illustre meticcio. Nei suoi Commentari (Comentarios) segnala un certo numero di questi nomi, dichiarando di non conoscerne il significato e attribuendoli così alla lingua segreta. Tra questi riportiamo Ayar, Manco, Roca, l'elemento collcam- (in Collcampata), Chima, Rauraua, Hahuanina, Maita, Usca, Uicaquirai, Ailli, Çocço. Un caso notevole è quello del nome della capitale incaica, Cozco (Cuzco), "che nella lingua particolare degli Incas significa Ombelico della Terra" ("que en la lengua particular de los Incas quiere dezir ombligo de la tierra").

Per ulteriori informazioni, rimando al lavoro di Rodolfo Cerrón-Palomino (Pontificia Universidad Católica del Perú), La lengua secreta de los Incas, consultabile al seguente url:


Certamente è suggestiva l'idea che la lingua segreta della famiglia dell'Inca possa aver fornito una spiegazione a molti antroponimi e toponimi non trasparenti. Vediamo tuttavia che è facile impantanarsi e non venire a capo di nulla. In almeno un caso abbiamo un nome interpretabile senza problemi. Si tratta di Manco, trascrizione di Manqu. Sappiamo che in Quechua la parola manqu ha due significati: 1) "fondamento", "base"; 2) "furetto". Trovo verosimile che il primo sovrano incaico abbia tratto il suo nome dal significato di "fondamento", "base". Cerrón-Palomino non riporta questi dati e si lascia andare a voli pindarici. Ritiene l'antroponimo in questione una variante dell'Aymará *mallqu "signore". Tuttavia, a quanto mi consta, il vocabolo Aymará che indica il signore dei vassalli è invece mallku, con una semplice occlusiva velare /k/ e non con un'occlusiva uvulare /q/.

Natura della lingua segreta

Il mondo accademico è sempre stato diviso. Alcuni studiosi, completamente ignari del significato delle parole più elementari, si sono mostrati inclini a ritenere che la lingua segreta degli Incas fosse il Quechua (Hervás y Panduro, Markham, Riva Aguero) o l'Aymará (D'Orbigny, Forbes): non hanno inteso le testimonianze degli antichi o non le hanno tenute nel benché minimo conto. Su coloro che ancor oggi propugnano idee simili possiamo invocare la caduta del fulmine, dato che un cranio incendiato è meno dannoso di un cervello che produce con malizia sproloqui e falsità manifeste. 

Convinto che la linguistica debba essere ridotta agli schemi di una scienza esatta, riporterò alcune dimostrazioni che spero potranno essere di qualche utilità, chiedendo fin d'ora venia per il loro carattere ripetitivo, seppur necessario. 

1) La lingua segreta degli Incas non era una varietà di Quechua.

Dimostrazione
Questi sono i dati di fatto:
i) Le fonti ci dicono con la massima chiarezza che la lingua segreta degli Incas era diversa da quella comune, ossia dal Quechua.
ii) Le fonti precisano anche che a nessun suddito era permesso imparare anche soltanto una parola della lingua segreta.

Reductio ad absurdum:
Se la lingua segreta fosse stata un gergo formato a partire da parole della lingua Quechua, ogni sua parola sarebbe stata anche una parola Quechua, il che contraddice il punto ii).
Q.E.D.

2) La lingua segreta degli Incas non era una varietà di Aymará.

Dimostrazione
Questi sono i dati di fatto:
i) Le fonti ci dicono con la massima chiarezza che la lingua segreta degli Incas era diversa dalle due lingue generali del Regno, ossia dal Quechua e dall'Aymar
á.
ii) Le fonti precisano anche che a nessun suddito era permesso imparare anche soltanto una parola della lingua segreta.
Reductio ad absurdum:
Se la lingua segreta fosse stata una varietà della lingua Aymará, sarebbe stata compresa da tutti quei sudditi che usavano tale idioma come lingua franca. Questi sudditi parlanti della lingua Aymará erano molto numerosi e l'assunzione contraddice il punto ii).
Q.E.D.

Corollario: 
Qualsiasi parlante Aymará si sarebbe potuto infiltrare come spia alla corte dell'Inca, tra gli Orecchioni, capendo ogni conversazione. La lingua segreta degli Incas non sarebbe stata affatto tale e avrebbe avuto qualche somiglianza col famoso segreto di Pulcinella

Esiste un peculiare documento, una canzone conosciuta come canto dell'Inca Yupanqui, che non è in Quechua e che molti accademici tendono a considerare una prezionsa testimonianza della lingua segreta. Esso è riportato da Juan Díez de Betanzos (1510-1576) in un capitolo perduto e recentemente recuperato della sua opera Suma y narración de los Incas. La canzone glorifica l'Inca, vincitore del popolo dei Sora. Questo è il testo con la traduzione in castigliano riportata dallo stesso Betanzos:

YNGA YUPANGUE YNDIN YOCAFOLA YMALCA CHINBOLEIFOLA YMALCA AXCOLEY HAGUAYA GUAYA HAGUA YAGUAYA. Que quiere decir: "Ynga Yupangue hijo del Sol vencio los Soras e puso de borlas con el sonsonete postrero de Hayaguaya que es come la tanarara que nos decimos", ossia "Inca Yupanqui figlio del Sole vinse i Sora e mise le nappe con la cantilena finale di Hayaguaya, che è come la 'tanarara' che noi diciamo"
 
La presenza di F nel testo è a prima vista ostica: la lettera rappresenta un suono alieno al Quechua e all'Aymará, ma presente in Mochica, in Mapudungun e in Kakán. Si può dimostrare che nel canto dell'Inca Yupanqui questo F è una cattiva lettura di una S allungata. Così abbiamo un testo normalizzato: 

1 Ynga Yupangue      Ynga Yupangue
2 Yndi-n Yoca            hijo del sol
3 Sola-y malca           los Soras
4 chinbo-lei                puso borlas
5 Sola-y malca           los Soras
6 axco-ley                  venció
7 haguaya guaya        tanarara
8 haguaya guaya        tanarara

Cerrón-Palomino dimostra facilmente che si tratta di un testo in una varietà di Aymará. Oso trarre le debite conclusioni. Non è assolutamente questa la lingua segreta degli Incas!  

Cerrón-Palomino identifica la lingua segreta degli Incas con il Puquina (Pukina), una lingua isolata e molto peculiare, un tempo parlata un tempo in una vasta area del Perù meridionale e in Bolivia, da tempo estinta. La sua area di origine è con ogni probabilità la regione del lago Titicaca, come provato anche dalla toponomastica (vedi Cerrón-Palomino 2016). A quanto pare gli ultimi parlanti vissero in un'epoca di poco precedente all'indipendenza del Perù dalla Spagna. Questa narrazione del Puquina come lingua segreta degli Incas è stata accettata da numerosi accademici, al punto che in non poche opere specialistiche è data come un fatto assodato. Permane il mio duro scetticismo, che posso sintetizzare in una dimostrazione.

3) La lingua segreta degli Incas non era il Puquina.

Dimostrazione
Questi sono i dati di fatto:
i) Le fonti ci dicono con la massima chiarezza che la lingua segreta degli Incas era diversa dalle due lingue generali del Regno.

ii) Gli autori più antichi ci dicono che il Puquina era una lingua generale del regno.
   a) Il Viceré Toledo nell'ordinanza datata 10 settembre 1575 in Arequipa, scrisse: "...las lenguas quichua, puquina y aimará, son las que generalmente se hablan por los indios en estos Reinos u Provincias del Perú ...", ossia "le lingue Quechua, Puquina e Aymar
á sono quelle parlate abitualmente dagli Indani in questi regni o province del Perù."
    b) In una Carta Annua del 1594, il padre Alonso de Barzana ci tramanda che "todos los pueblos puquinas, que son más de cuarenta o cincuenta, tanto en el Collao, como en Arequipa, y sobre todo en la costa de la mar hacia Arica y aun hacia otras costas, no ha tenido jamás predicador puquina que les enseñe la palabra de Jesucristo", ossia "tutti i popoli Puquina, che sono più di quaranta o cinquanta, sia in Collao che in Arequipa, e soprattutto lungo la riva del mare fino ad Arica e fino ad altre rive, non hanno mai avuto un predicatore puquina che insegnasse loro la parola di Gesù Cristo."
     c) Nel 1599, Antonio de la Raya, vescovo di Cuzco, incaricò i Gesuiti di sostenere l'esame di sufficienza della padronanza della lingua, oltre al Quechua e all'Aymar
á, "porque asi mismo es necesario que la dicha lengua aymará y puquina se lean en esta Ciudad, por hablarse en muchas partes deste Obispado", ossia "perché è anche necessario che le lingue Aymará e Puquina siano lette in questa città, essendo parlate in molte parti di questo vescovato."
    d) Sul portale di accesso al battistero della chiesa di San Pedro de Andahuaylillas - a 45 km da Cuzco - costruita agli inizi del XVII secolo, c'è la scritta di orazione battesimale "Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo" in latino, spagnolo, Quechua, Aymar
á e Puquina.
iii) Le fonti precisano anche che a nessun suddito era permesso imparare anche soltanto una parola della lingua segreta.
Reductio ad absurdum:

Se la lingua segreta fosse stata una varietà della lingua Puquina, sarebbe stata compresa da tutti quei sudditi che usavano tale idioma come lingua franca. Questi sudditi parlanti della lingua Puquina erano molto numerosi e l'assunzione contraddice i punti i) e ii).
Q.E.D.

Corollario:
Qualsiasi parlante Puquina si sarebbe potuto infiltrare come spia alla corte dell'Inca, tra gli Orecchioni, capendo ogni conversazione. La lingua segreta degli Incas non sarebbe stata affatto tale e avrebbe avuto qualche somiglianza col famoso segreto di Pulcinella

Possiamo estendere il teorema della lingua segreta degli Incas.

4) La lingua segreta degli Incas non era una lingua naturale di alcuna popolazione india suddita del Tawantinsuyu. 

Dimostrazione
Quale che fosse la lingua nativa di una popolazione dell'Impero detto Tawantinsuyu in Quechua, la sua lingua non poteva coincidere con la lingua segreta degli Incas. Un popolo che avesse parlato tale lingua avrebbe potuto infiltrare qualcuno come spia alla corte dell'Inca, tra gli Orecchioni, capendo ogni conversazione. La lingua segreta degli Incas non sarebbe stata affatto tale e avrebbe avuto qualche somiglianza col famoso segreto di Pulcinella.
Q.E.D.

Si noterà che don Alonso Topa Atau, parlando della Valle del Tambo e identificando la lingua dei suoi nativi con la lingua segreta, fa riferimento a un contesto mitologico. L'alternativa è supporre che la lingua in questione fosse sì parlata in quella valle, ma soltanto dalla nobiltà, che faceva parte della compagine incaica. Credo che ci vorranno ulteriori ricerche per appurare la verità.

La lingua segreta dei Callahuaya

Secondo lo studioso boliviano Oblitas Poblete (1968), la lingua segreta degli Incas sarebbe da identificarsi con la lingua segreta dei Callahuaya (Kallawaya), curanderos itineranti delle Ande, originari di Charazani, nella provincia di Bautista Saavedra, in Bolivia. La lingua Callahuaya, che purtroppo è ormai moribonda, ha preso la grammatica dal Quechua; parte del lessico mostra somiglianze col Puquina, per il resto è di origine sconosciuta. Uno dei suoi nomi è Pohena, che rimanda subito a Puquina. Questo è un breve elenco di corrispondenze lessicali (l'ortografia è molto variabile): 

Callahuaya: atasi "donna"
Puquina: atago "donna"

Callahuaya: kampro "sangue"; "rosso"
Puquina: cami "sangue"

Callahuaya: laja "uomo", "maschio"
Puquina: raago "uomo", "marito"

Callahuaya: mini "uomo"
Puquina: mana, meñ, miñ "uomo"

Callahuaya: pimpi "suolo"
Puquina: pampa "terra, suolo"*

*Cfr. Quechua pampa "pianura"; non è chiaro il vocalismo della forma Callahuaya.

Callahuaya: qaman, kkaman "giorno"
Puquina: kamen, qamen, gamen "giorno"

Callahuaya: qena "argento"
Puquina: scana "argento"

Callahuaya: qeri, kheri "ventre"
Puquina: karu, caru "stomaco"

Callahuaya: sau "cuore", "petto"
Puquina: see "cuore"

Callahuaya: suu "due"
Puquina: so "due"

Callahuaya: kapi "tre"
Puquina: kapak, capa "tre"

Callahuaya: pill, pilli "quattro"
Puquina: sper "quattro"

Il Callahuaya possiede vocaboli propri per indicare concetti espressi in Quechua e in Aymará con prestiti dallo spagnolo. Così ad esempio lajma "cavallo", chamatu "asino", ch'uru "vacca", k'apka (thapka) "maiale", walun "calzoni". In alcuni casi si ha una corrispondenza se si riesce a comprendere lo slittamento semantico: Callahuaya reqa "gatto" corrisponde al Puquina reega "strega". Un falso parente desta grande ilarità: raka in Callahuaya significa "lavoro", mentre in Quechua significa "vagina". Molte parole Callahuaya non hanno rispondenza alcuna col Puquina o l'hanno assai incerta, e tra questi vi sono diversi numerali. Vale anche l'inverso: di numerosi vocaboli Puquina non si hanno tracce in Callahuaya.

Callahuaya: jaa, hah "fiume"
Puquina: chaqa "fiume"

Callahuaya: llalle "buono"
Puquina: huani "buono"

Callahuaya: maru "figlio"
Puquina: chuscu "figlio";
               haya "figlio"

Callahuaya: sui "mano"
Puquina: mohana, mokna "mano"

Callahuaya: uksi, ujsi "uno"
Puquina: pesk, pesq, pesce "uno"

Callahuaya: chisma "cinque"
Puquina: takpa, tajpa "cinque"

Callahuaya: tajwa, tahma "sei"
Puquina: chichun, chichu "sei"

Callahuaya: qajsi "sette"*
Puquina: stu "sette"

*Soria Lens (1951) riporta la forma tutin "sette", che potrebbe essere imparentata col numerale Puquina.

Callahuaya: wasa "otto"
Puquina: kino, quina "otto"

Callahuaya: nuki "nove"
Puquina: cheqa "nove"

Callahuaya: qhocha "dieci"*
Puquina: sqata, scata "dieci"

*Soria Lens (1951) riporta la forma khatu "dieci", sicuramente impartentato con il numerale Puquina.

Osservando bene i lemmi delle due lingue, si nota una certa somiglianza tra alcuni numerali con valori discordanti. Così il Callahuaya chisma "cinque" somiglia al Puquina chichu(n) "sei"; il Callahuaya tajwa "sei" somiglia al Puquina tajpa "cinque". Potrebbe trattarsi di alterazioni semantiche introdotte per rendere ancor più criptica la lingua? Non so dire se l'idea possa funzionare. In Callahuaya abbiamo il numerale tikun "cento", che è assai peculiare e non ha alcun rapporto con l'Aymará pataka "cento" (imparentato col Quechua pachak), vocabolo che è stato preso a prestito da molte lingue, giungendo fino in Mapudungun e in Tehuelche. Non sono riuscito a trovare la corrispondente forma in Puquina. 

La tesi di Oblitas Poblete è stata criticata anche per via dell'oscurità del processo di formazione della lingua segreta dei guaritori boliviani, che potrebbe non essere remoto. L'opinione diffusa vuole che la genesi del Callahuaya sia iniziata nel XVIII secolo, continuando ancora in epoca recente, fino al primo ventennio del XX secolo. Non è chiaro se possa esistere un rapporto tra la lingua segreta degli Incas e certo materiale lessicale enigmatico presente nel Callahuaya, che del resto deve ben aver attinto a qualche fonte più antica. Tuttavia i due idiomi in questione potrebbero benissimo non avere alcunché in comune. Come è ben noto, in America del Sud esistono moltissime lingue isolate, chiamate così perché prive di sufficienti somiglianze esterne. Non si può assumere che due lingue debbano essere per necessità imparentate soltanto perché entrambe segrete. Per poter dire qualcosa di più abbiamo bisogno di dati che purtroppo sembrano non essere più disponibili. Temo che gli Incas si siano portati nella tomba un mistero che non troverà mai soluzione! 

venerdì 15 giugno 2018

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ORIGINI DEL SANDWICH

Domanda posta su Quora:
Qual è la storia del sandwich? 

Perla Berger ha risposto: 

Il celebre panino deve il suo nome all'uomo politico britannico del XVIII secolo Lord Sandwich (John Montagu, IV conte di Sandwich) il quale, secondo la tradizione, durante le partite a carte o le gare di golf, si faceva servire al tavolo da gioco o sul campo dei panini per poter mangiare pur continuando a giocare.

Questo è il mio contributo: 

La storia del tramezzino è ben più antica di Lord Sandwich, a cui si deve soltanto il nome. Si trova una testimonianza molto interessante negli atti del processo a Guilhem Belibasta, l’ultimo Perfetto Cataro noto della Linguadoca, bruciato sul rogo nel 1321. Dovendo nascondere ad alcuni contadini il fatto che non mangiava carne, metteva del pesce fritto in mezzo a un panino e mangiava quello. Siccome i contadini in questione mangiavano in modo simile la carne, si può pensare che fosse un costume diffuso. Per maggiori informazioni sul contesto rimando a “Il caso Belibasta”, di Lidia Flöss. 

La genesi di una leggenda antropologica 

Il racconto di Lord Sandwich presenta molte delle caratteristiche di una leggenda antropologica: ha tutta l'aria di essere una narrazione posticcia, fabbricata a bella posta sul finire del XVIII secolo per spiegare qualcosa che già allora era avvolta nell'oscurità. Questo è riportato nel dizionario etimologico Etymonline.com:

sandwich (n.)

«1762, said to be a reference to John Montagu (1718-1792), Fourth Earl Sandwich, who was said to be an inveterate gambler who ate slices of cold meat between bread at the gaming table during marathon sessions rather than get up for a proper meal (this account dates to 1770). It was in his honor that Cook named the Hawaiian islands (1778) when Montagu was first lord of the Admiralty. The family name is from the place in Kent, Old English Sandwicæ, literally "sandy harbor (or trading center)." For pronunciation, see cabbage. Sandwich board, one carried before and one behind, is from 1864.»

Si noti la ricorrenza della locuzione "said to be". Non si opera affatto nel campo delle certezze, come invece molti sono propensi a credere. Probabilmente non sapremo mai i dettagli della formazione di questa mitologia del panino imbottito, che ha coinvolto chissà come un politico inglese. Perché non supporre, come sarebbe più semplice, che il sandwich sia stato chiamato così perché tipico in origine della cittadina di Sandwich, nel Kent, citato da Etymonline.com? Sarebbe una spiegazione più sobria, che coinvolgerebbe un minor numero di passaggi logici e soddisferebbe persino i fanatici del Rasoio di Occam. Purtroppo non siamo più nelle condizioni di poter determinare la cosa. Tutto ciò che riguarda Lord Sandwich è filtrato da una tradizione quasi ieratica: faremmo molta fatica a rintracciare notizie attendibili in qualche fonte dell'epoca. Non riusciremmo neppure a investigare le tradizioni culinarie del borgo di Sandwich per capire se vi esistesse realmente nel XVIII secolo l'usanza di imbottire il panini con carne e formaggio. Quello che è certo, è che questa preparazione culinaria era già presente nella tradizione inglese, ma era chiamata in modo molto più logico bread with meat o bread with cheese, a seconda dei casi. 

Le vere origini 

Il nome artòcreas (dal greco ἄρτος "pane", κρέας "carne") indica una torta in cui la carne o il pesce venivano cotti nella pasta di pane. Era molto usata nel Medioevo ed era un modo molto ingegnoso per conservare cibi deperibili, avendo la crosta di pane un effetto protettivo che ritarda la decomposizione. A giovarsi dell'artocreas furono in particolare i Catari, che cucinavano così il pesce. La carne di mammiferi e di uccelli era vietata ai Buoni Uomini, mentre erano permessi pesci, crostacei e molluschi, alimenti che si guastano con estrema facilità. L'artocreas, in pratica un pasticcio di pesce e di pane, era considerato una leccornia. Va però detto che la sua preparazione era abbastanza laboriosa: bisognava plasmare la pasta e cuocere il tutto, in un'epoca in cui non c'erano forni elettrici. Così fu escogitato un sistema più rapido, che poteva essere utile in caso di viaggi o in condizioni di emergenza. Si nascondeva il pesce, precedentemente cotto, all'interno di un gran pezzo di pane. In questo modo nacque il panino imbottito, per finalità ben più nobili di quelle di un Lord Sandwich schiavo del demone del gioco! I semplici credenti, che non avendo ricevuto il Sacramento potevano cibarsi di carne, di uova e di formaggio, di certo avranno messo nel proprio pane anche cibi che i Buoni Uomini non potevano consumare. L'usanza dovette quindi diffondersi tra i cattolici.

I nomi catalani del sandwich

In Catalogna, dove Guilhem Belibasta visse a lungo assieme a numerosi esuli dalla Linguadoca, per indicare il sandwich esistono ai nostri tempi numerose denominazioni native. È chiamato entrepà, rua, badall, panet, cantó de pa o anche soltanto cantó. Abbondano i nomi locali. A Camp de Morvedre è chiamato cantell, a La Marina è chiamato llesca, nella Vall d'Uixó è chamato berena. Nella Comunità Valenziana si incontrano è conosciuto come mescla, pa i mescla o mescla entre pa. A Minorca troviamo invece il bizzarro cóc, oltre a forme più ovvie come pa amb carn rostida, diffuse anche nelle altre isole dell'arcipelago. Una tale varietà mostra non soltanto l'importanza della tradizione di farcire i panini, ma anche il suo radicamento. Va però precisato che il termine più comune, entrepà, è stato coniato da Pere Quart in epoca recente, nel 1959. È riportato che durante un suo viaggio nelle terre di Valencia, lo scrittore chiese un panino imbottito alla commessa di un bar, che gli avrebbe domandato: "Aixina, què hi voldran entre pans?", ossia "Allora, cosa vorrebbe in mezzo al pane?" (lett. "tra i pani"). Dalla contrazione di "entre pans" derivò facilmente "entrepà"

Una creazione autarchica

La parola tramezzino fu coniata da Gabriele D'Annunzio nel gennaio dell'anno 1926, a Torino, mentre faceva uno spuntino allo storico Caffè Mulassano. Alcuni sono convinti che corresse invece l'anno 1925: questa datazione è riportata in un articolo apparso sul quotidiano La Stampa.  In ogni caso un'epoca di autarchia linguistica e il termine inglese sandwich doveva a tutti i costi essere sostituito da una genuina parola italiana. La gente del capoluogo piemontese, a quanto si legge, chiamava i sandwich "paninetti". Cosa spinse il Sommo Vate a una creazione linguistica che avrebbe lasciato il segno? Non c'è accordo, neanche su un fatto in apparenza così scontato e tutto sommato vicino a noi. Wikipedia (2018) riporta quanto la seguente etimologia

"Il termine tramezzino fu coniato da Gabriele D'Annunzio, che lo creò per sostituire la parola inglese sandwich. Si tratta del diminutivo di tramezzo, inteso come momento a metà strada tra la colazione e il pranzo, nel quale consumare uno spuntino o merenda  quale il tramezzino."

Un'opinione diversa è riportata su Dagospia.com, che a quanto pare ha attinto a un contributo apparso su La Stampa:

"A battezzarlo così fu un poeta, Gabriele D'Annunzio, che osservando la forma di pane a cassetta da cui si ricavava il sandwich imbottito pensò alla «tramezze» della sua casa di campagna."

Sarò anche ingenuo, ma ritengo più probabile che la creazione lessicale derivasse semplicemente dal fatto che in mezzo a due fette di pan carré viene messo il ripieno. A parer mio, D'Annunzio non alludeva né a un intervallo di tempo né a un elemento edilizio: ebbe invece un'ispirazione simile a quella del catalano Pere Quart. Il nostro tramezzino non è poi così diverso semanticamente dall'entrepà

Esiti di sandwich nella Romània

Che sia derivato da un Lord inglese o dalla località di origine della sua famiglia, il nome del sandwich è stato nativizzato in diverse aree della penisola iberica e dell'Italia settentrionale. Se in Catalogna sono stati preferiti termini locali, in Castiglia è emersa la forma popolare sángüis. Nell'area galloitalica si trova la stessa identica forma, senza dubbio per convergenza e non per prestito dallo spagnolo. A Milano il sandwich è chiamato sanguis, come a Torino. In piemontese esiste anche la variante ortografica sanguiss

lunedì 11 giugno 2018

ETIMOLOGIA DI CARAMPANA: UN PROBLEMA RISOLTO

Checché se ne dica, l'etimologia della parola carampana è problematica, nonostante la storica associazione con la Ca' Rampani (Casa Rampani) di Venezia, riportata da tutti i dizionari. Definito dal Vocabolario Treccani come "donna volgare, sguaiata, oppure brutta o vecchia", questo termine è in pratica un sinonimo popolare di "vecchia puttana". Il servizio di Google "Traduzioni, origine delle parole e altre definizioni" non fa riferimento diretto al meretricio, ma specifica che, per estensione, che la carampana è una "donna attempata dall'aspetto inopportunamente vistoso". Più diretto il Wikizionario, che riporta la seguente definizione:

1. (regionale) anziana meretrice, per derivazione donna dal brutto aspetto, volgare e trasandata.

Spesso si sente accompagnare la parola all'aggettivo "vecchia" nella locuzione "vecchia carampana", in frasi del tipo: "Mi sono imbattuto in una vecchia carampana, era una fanatica della New Age", "Nonostante la sua età, A. va sempre in giro truccatissima e avvolta in una nuvola di profumo, è proprio una vecchia carampana", "G. è una vecchia carampana alla perenne ricerca di giovani nerboruti da scappellare", "Quella vecchia carampana di P. manda via email le foto della sua fica sfatta ai suoi contatti", etc.

La leggenda vuole che nel palazzo nobiliare veneziano noto come Ca' Rampani dimorassero anziane meretrici particolarmente brutte, i cui servigi a quanto sembra erano molto richiesti. Secondo altri, la stessa Ca' Rampani sarebbe stata invece il luogo dove vivevano le prostitute ritiratesi dall'attività. Forse chi propone questa interpretazione pensa che nessuno concupirebbe una donna anziana e cadente, ma sappiamo bene che le cose non stanno così. Il sesso senile, che al giorno d'oggi divampa, ha sempre avuto i suoi sostenitori. Tutti concordano nell'affermare che i Rampani erano una famiglia gentilizia che a un certo punto si estinse, lasciando le sue proprietà in stato d'incuria. Nonostante questi fatti, la storiella sulla Ca' Rampani ha tutta l'aria di essere una fabbricazione popolare, creata allo scopo di dare un'etimologia credibile alla parola carampana. Null'altro che un'ingombrante leggenda. La prima attestazione del termine sembra risalire al 1908 (vedi Dizionario Zanichelli alla voce carampana), non all'epoca della Serenissima. Questo tuttavia non significa affatto che la parola non fosse usata già secoli prima.

Soluzione del problema

La parola è derivata dal veneziano carampia, che è ben attestato. Nel XVIII secolo, ben prima che fosse registrato l'uso di carampana, vediamo carampia in un testo comico in veneto non esente da italianismi (forse soltanto grafici, es. occhi per oci; vecchia per vecia, l'uso delle consonanti doppie, etc.). Si tratta delle Fiabe teatrali, di Carlo Gozzi (1720-1806), di cui riportiamo un estratto

"La Regina Ninetta xe stada seppellia viva, za disdott'anni, sotto el buso della scaffa, per le persecuzion de sta vecchia carampia de Regina, e l'ho vista mi con sti occhi. Figurarse, se no la xe marcia, e in polvere? No xe persa la descendenza delle Naranze? L'è bella, ma no la se pol sorbir. Se me par, che sia ancora quel momento fatal, che la quondam povera Regina Ninetta, prima de esser sepolta viva sotto el buso della scaffa, ha partorio quei do Zemelli, puttello, e puttella, che gera un naroncolo, e una riosa de bellezza. A me i me xe stai consegnai da sta vecchia carampia de so nona, coll'ordene de scannarli, pena la mia vita, e, pena la mia vita, de taser; e me par de veder ancora l'azion negra de metter in tela cuna, in cambio dei do Zemelli, do cagnetti mufferle, che aveva partorido la Mascherina de corte; scrivendo po al Re quelle relazion, quelle accuse e quelle iniquità, che ha causà tanti ordeni tragici, i quali sarà contai sotto el camin, come fiabe." 

Basta fare qualche indagine per appurare che la parola carampia non è esclusivamente veneta e che è ben più antica delle opere del Gozzi. Cercando nel Web, sono riuscito a reperire un glossario molto interessante. Grazie a una citazione, ho scoperto che carampia compare già nel XIII secolo nell'opera di un poeta toscano, Francesco "Cecco" Angiolieri (1260-1313). Proprio lui, quello stesso che scrisse: "S'i' fosse foco, arderei 'l mondo". Riporto senz'altro il testo, tratto dalle Rime: è il sonetto XIV (Chi vol vantaggio aver).


XIV
   Chi vol vantaggio aver a l’altre genti
don’el su’ cor lialmente ad Amore,
e lassi dire amici né parenti,
s’e’ n’ha nessun di ciò reprenditore:
   che tanto faccia Dio tristi e dolenti
chi agli amanti fa altro ch’onore,
quant’elli ha fatto caràmpia, de denti,
che vintiquattro di bocca n’ha fuore.
    Chi serve questa è peggio, a mia parvenza;
e ben mi par di ciò dicer sì certo,
che volentier ne starei a sentenza:
    e chi perdesse, fosse sì deserto,
enmantinente, senza nulla entenza,
come fo ’l fiorentino a Monte Aperto.

A questo punto, la baggianata della Ca' Rampani deve necessariamente tramontare.

Domanda cogente: perché i romanisti e gli altri accademici continuano, con al massimo un lieve "forse", a spacciare per verosimile quella che si dimostra essere una favola? 

Come Wotan scaglia una lancia contro l'esercito nemico, così accuso di disonestà intellettuale l'intero corpo degli etimologi accademici e dei romanisti!  

Origine ultima della carampana e della caràmpia 

Qualcuno ha avuto la forza di contrastare l'iniquo potere dei romanisti, confrontando carampana e carampia con il termine austriaco Krampen "persona piena d'acciacchi". Si tratta di Lino Carpinteri, che ha scritto su Il Piccolo


Ovviamente, l'ipotesi che il passaggio sia stato dal tedesco d'Austria alla Serenissima è un'assurdità, dato che non spiega affatto l'attestazione nell'opera di Cecco Angiolieri. Si deve per forza trattare di un longobardismo! La forma originale doveva essere *CHRAMPHIA, il che spiegherebbe bene l'epentesi: /khr-/ > /kar-/. La radice rimanda alla protoforma germanica *krampo: "crampo; fermaglio". Questi sono gli slittamenti semantici: "persona piena di crampi" > "persona acciaccata" > "donna anziana""vecchiaccia", etc.

domenica 10 giugno 2018

ETIMOLOGIA DI ESCORT: UNA PROPOSTA INNOVATIVA

Come tutti ben sanno, il termine escort è stato introdotto in Italia sotto il regime pornocratico berlusconiano, la cui strategia ha reso possibile la puttanizzazione dell'Italia. Nelle fantasie popolari, la escort è una specie di dea dal corpo di una tale bellezza da togliere il respiro. Tale è la perfezione attribuita a simili creature, che si può ben pensare che non defechino volgarissima merda, bensì praline di cioccolato, canditi e petali di violetta profumata. A questo punto sorge una domanda: perché una prostituta d'alto bordo è chiamata escort?

Trovo che sia erroneo applicare a escort "prostituta d'alto bordo" l'etimologia riportata su Etymonline:

escort (n.)

«1570s, in military sense, from Middle French escorte (16c.), from Italian scorta, literally "a guiding," from scorgere "to guide," from Vulgar Latin *excorrigere, from ex- "out" (see ex-) + Latin corrigere "set right" (see correct (v.)). The sense of "person accompanying another to a social occasion" is 1936.» 

Cercando in Google "escort etymology", compare persino uno schemino, assemblato dal servizio "Traduzioni, origine della parola e altre definizioni":


Se uno clicca sulla freccetta sotto lo schemino, compaiono i vari significati: 

escort
noun
noun: escort; plural noun: escorts
/ˈɛskɔːt/

  1. a person, vehicle, or group accompanying another for protection or as a mark of rank.
    "a police escort"
     sinonimi: guard, bodyguard, protector, safeguard, defender, minder, custodian; attendant, guide, chaperone, retainer, aide, assistant, personal assistant, right-hand man, right-hand woman, lady in waiting, duenna, equerry, squire; entourage, retinue, suite, train, cortège, attendant company, caravan; protection, defence, convoy
    "they were given a police escort" 
  •   a man who accompanies a woman to a particular social event.
        "Louise and her escort were given the best table"
        sinonimi: companion, partner, beau, attendant; informal date
            "she didn't like going to clubs by herself and Graham was a great escort"

  •  a person who may be hired to accompany someone to a social event.
     "an escort agency"
        sinonimi: paid companion, hostess; male escort, gigolo; geisha (girl); sing-song girl; archaic courtesan
     "we offer a wide selection of young, good-looking, fun escorts"

  •  euphemistic
          a prostitute.

Come si vede, la vulgata corrente vuole che nel mondo anglosassone il senso di "prostituta" sia stato attribuito alla parola escort per eufemismo. L'evoluzione semantica si sarebbe prodotta a partire dal significato di "persona noleggiata per un evento sociale", donde anche "gigolò", "geisha", "sciantosa"... e "cortigiana". Non mi si dica che la geisha è una donna casta: è ben risaputo che tra le sue mansioni c'è anche quella di leccare avidamente l'ano dell'uomo a cui si accompagna.

Propongo una diversa etimologia, molto più diretta, che evita tutti i complessi slittamenti semantici di cui sopra. Il termine in questione è chiaramente derivato dal latino scortum "prostituta", di cui la variante scorta è ben nota e documentata. Questo è un link al Dizionario Latino Olivetti:  


Questi sono i significati riportati per scortum, scorti (sostantivo neutro II declinazione): 

1. pelle, cuoio
2. prostituta, meretrice
3. uomo che si prostituisce

Evidentemente la forma femminile scorta "prostituta" dovette sopravvivere in italiano in qualche contesto, probabilmente volgare e umile, quindi fu importato dalla soldataglia in Francia e da qui in Inghilterra. Mi schiero contro l'opinione dei romanisti: oso affermare che si tratta soltanto di un omofono del termine scorta in senso militare. In realtà l'attestazione del vocabolo col senso di "prostituta" non è poi così recente come gli accademici sostengono. Il significato arcaico di "cortigiana" (ingl. courtesan), menzionato dal programma di traduzione di Google, è una chiara prova del fatto che la parola era equivoca già secoli fa. Sono convinto che quanto sostengo sia vero e che un giorno sarà provato da ulteriori ricerche. Si potrebbe dire che la reintroduzione in Italia di escort "prostituta d'alto bordo" ad opera di Silvio Berluscconi e dei suoi seguaci sia un tipico esempio di effetto boomerang. La parola deve essere sopravvissuta per secoli come un fiume carsico ben nascosto per poi riemergere all'improvviso. Se alcuni suoi rami non sono più stati nutriti dalla fonte e sono morti, un altro ha avuto vita prospera ed è ricomparso dove uno meno se lo aspettava. Fenomeni simili non sono rari quando si tratta di termini pertinenti alla sfera sessuale, data la grande ipocrisia del genere umano.

mercoledì 6 giugno 2018

GLI ORRORI DELLE PAROLE MACEDONIA: INFLUENCER + USER = INFLUSER

La Guerra Civile non è stata la peggior catastrofe nella storia degli Stati Uniti. Neanche l'11 settembre 2001, se è per questo. Quella nazione infelice, devastata dall'uso massiccio di oppiacei potentissimi come l'ossicodone e il fentanyl, non cessa di sfornare ripugnanti parole macedonia o di ispirarne la formazione. Anche se l'orribile INFLUSER a quanto pare è nato in Italia, non ci sono dubbi sul suo americanismo concettuale. Cosa significerà mai questo balbettamento pseudolinguistico? La sua genesi è molto chiara: è stato fatto un bizzarro collage:

INFLUENCER + USER = INFLUSER 

Sono numerosi gli articoli che trattano l'improponibile neologismo, che è tipico dell'Italia e non pare essersi diffuso in ambienti di lingua anglosassone. Riporto un link a titolo di esempio: 


Quindi l'influser dovrebbe essere un influencer non consapevole di esserlo, che quindi è anche e soprattutto un utente. Se quanto ho capito è corretto, le aziende sarebbero disposte a far di tutto pur di accaparrarsi qualche influser, anche a leccarlo nelle parti intime. Ad ogni leccata, l'influser apporterebbe grande prosperità ai suoi datori di lavoro.

Ormai siamo asfissiati dalle mefitiche opere degli influencer consapevoli. Li percepiamo come parassiti che si arricchiscono scrivendo cazzate invereconde, o più probabilmente facendole scrivere da qualche programma. Sono automi del marketing: con i loro portali pieni zeppi di specchietti per allodole, attirano numerosissime visite di meccanismi robotici che generano entrate interagendo coi banner

Più mite la definizione fornita da Wikipedia (2018): 

"Il marketing di influenza, o influencer marketing, è un tipo di marketing in cui la concentrazione è posta sulle persone influenti (influencer) più che sul mercato di riferimento nel suo complesso. È una forma di marketing basata su persone con influenza sui potenziali clienti. I contenuti degli influenzatori possono essere ricompresi nella pubblicità con testimonial dove gli influenzatori giocano il ruolo di potenziali consumatori oppure agiscono come fossero soggetti terzi rispetto agli altri soggetti in campo, ossia consumatori e produttori. L'industria del marketing di influenza è cresciuta molto velocemente negli ultimi anni e adesso il suo valore stimato a livello mondiale è 1.07 miliardi di dollari." 

Per inciso, ogni tanto si vede emergere la forma italianizzata influenzatore. Non si è ancora arrivati ad adattare l'ibrido influser in un altrettanto chimerico influtente. Già il suono di queste parole è ripugnante, in qualunue modo le si possa adattare. Ancor più molesta è la natura sfuggente dei concetti coinvolti. Se avessimo una "draga temporale" e potessimo portare qui Johann Wolfgang von Goethe, una delle massime intelligenze dell'intera storia del genere umano, non credo che potrebbe capirci qualcosa. Forse perché non c'è nulla da capire in questo marasma. In tanto brulicare di neologismi innaturali non c'è nulla di sondabile dalla mente dell'uomo: siamo nel campo dell'Idiozia Artificiale e di tutti i suoi nocivi prodotti. Resta un fatto incontrovertibile. Se ai tempi di Adam Smith l'origine della ricchezza era chiara e poteva essere compresa, in quest'epoca degenerata e calamitosa il funzionamento dell'economia non può certo dirsi limpido come cristallo di rocca.  

In buona sostanza, cos'è un influser? Semplice. È un inculator.