lunedì 18 febbraio 2019


LA CORONA DI FERRO

Titolo originale: La corona di ferro
Paese di produzione: Italia
Anno: 1941
Lingua: Italiano
Durata: 97 min
Dati tecnici: B/N
Rapporto: 1.37:1
Genere: epico, fantastico, avventura
Regia: Alessandro Blasetti
Soggetto: Alessandro Blasetti, Renato Castellani
Sceneggiatura: Corrado Pavolini, Guglielmo Zorzi, Giuseppe
      Zucca, Alessandro Blasetti, Renato Castellani
Casa di produzione: E.N.I.C.
Distribuzione in italiano: E.N.I.C.
Fotografia: Václav Vích, Mario Craveri
Montaggio: Mario Serandrei
Musiche: Alessandro Cicognini (direzione orchestrale di
      Pietro Sassoli)
Scenografia: Virgilio Marchi
Costumi: Gino Carlo Sensani
Interpreti e personaggi
    Gino Cervi: Re Sedemondo di Kindaor, padre di Elsa
    Massimo Girotti: Arminio / Licinio, padre di Arminio
    Elisa Cegani: Elsa / madre di Elsa, regina di Kindaor
    Luisa Ferida: Tundra / Kavaora, madre di Tundra
    Rina Morelli: la vecchia del fuso
    Osvaldo Valenti: Eriberto
    Paolo Stoppa: Trifilli
    Primo Carnera: Klasa, il servo di Tundra
    Umberto Silvestri: Farkas
    Stelio Carnabuci: Re Artace
    Amedeo Trilli: un re al torneo
    Renato Navarrini: ministro del re della Rosa
    Giorgio Gentile: il re della Rosa
    Ugo Sasso: Artalo
    Piero Pastore: Sestio
    Vittoria Carpi: sposa di Artalo
    Satia Benni: la vedova
    Dina Perbellini: nutrice
    Maurizio Romitelli: Arminio da piccolo
    Rossana Rocchi: Elsa da piccola
    Pietro Germi: Cavaliere
    Mario Ersanilli
    Antonio Marietti
    Umberto Sacripante
    Ada Colangeli
    Jolanda Fantini
    Giovanni Stupin
    Adele Garavaglia
    Gemma D'Ambri
    Perla Martinelli
    Adriano Micantoni
    Alda Perosino
    Mario Mazza
    Giovanni Stupin
    Piero Carnabuci
    Renato Karninski
    Lino Bears
Doppiatori originali
    Augusto Marcacci: Licinio
    Gualtiero De Angelis: Arminio
    Lauro Gazzolo: Eriberto
    Giovanna Scotto: nutrice
Titoli tradotti:
    Inglese: The Iron Crown
    Francese: La Couronne de Fer
    Spagnolo: La Corona de Hierro
    Portoghese: A Coroa de Ferro
    Russo: Железная корона
    Norvegese: Sagnet om jernkorset
    Ungherese: Vaskorona
Premi: 
   Coppa Mussolini al miglior film italiamo (alla Mostra
   internazionale d'arte cinematografica di Venezia, 1941)

Trama:
Siamo in un'epoca di grande decadenza, in cui le tenebre avvolgono la terra dopo il crollo del potere imperiale di Roma. Volendo propizare la pace nell'Occidente devastato da incessanti conflitti, l'Imperatore di Bisanzio invia al Papa la Corona di Ferro, forgiata con un chiodo della crocefissione di Gesù. La spedizione giunge in Italia, nel regno di Kindaor, dove si è appena conclusa una terribile guerra che ha visto Licinio trionfare su Artace. Il vincitore vuole offrire allo sconfitto una pace onorevole, ma ecco che il proprio fratello Sedemondo, pieno d'odio e avido di potere, gli trafigge il cuore con un giavellotto, usurpandone prontamente il regno. Il popolo di Artace è condannato alla schiavitù. Non contento di questi crimini, Sedemondo intercetta la spedizione con la Corona di Ferro alle gole di Natersa, un luogo insidioso in cui l'arciere Farkas stermina la scorta bizantina. La reliquia però sprofonda nel terriccio e il sovrano non riesce a recuperarla. A questo punto Sedemondo, che attraversa una foresta, viene ammonito da una misteriosa vecchia filatrice, che gli profetizza la rovina a causa degli atti sacrileghi di cui si è macchiato. Così descrive la nemesi dell'usurpatore fratricida: gli sarebbe nata una figlia, che avrebbe amato alla follia il figlio maschio del fratello ucciso, fino a morirne. Nel frattempo la moglie di Sedemondo ha dato alla luce una femmina, Elsa, che viene scambiata con Arminio, il figlio della moglie del defunto Licinio. I due vengono cresciuti come fratello e sorella. Tutto fila liscio per un po', ma alla fine il re di Kindaor scopre l'inganno. Così Sedemondo colpisce con la sua vendetta: fa rapire Arminio da un servo, che ha l'ordine di abbandonare il bambino nella Valle dei Leoni, per poi passare dalle gole di Natersa. Tornato nel bosco dalla vecchia filatrice, il sovrano la sfida, millantando di aver vinto il Fato. La Norna gli cancella la memoria ed egli è incapace di ricordare cos'è accaduto ad Arminio. Per scongiurare ogni pericolo di inveramento della profezia dell'incesto, decide di condannare Elsa ad essere segregata nella reggia, che fa chiudere al mondo esterno con tre cancelli concentrici. Vent'anni dopo, Sedemondo bandisce un grande torneo, a cui parteciperanno principi di tutte le nazioni, il cui vincitore sposerà Elsa. A questo punto un terremoto apre un passaggio nell'isolata Valle dei Leoni. Arminio, che è cresciuto con le fiere, esce dal suo microcosmo durante l'inseguimento di un cervo. Ritrovatosi all'esterno, per la prima volta in vita sua vede altri esseri umani. Si imbatte in Tundra, la figlia di Artace, trovandola molto attraente. Questa comprende l'ingenuità del giovane, così lo incita a partecipare al torneo e a darle sostegno nella ribellione del suo popolo contro il tirannico Sedemondo. Appena Arminio giunge nella capitale del regno, le cose si complicano. Incontra Elsa, che si fa passare per la propria serva. Com'è ovvio, se ne innamora subito, mettendosi così in una situazione insostenibile con Tundra. Dopo una girandola di colpi di scena e di intrighi, ecco che tutto precipita verso il drammatico finale. Elsa, giunta alle gole di Natersa, si frappone tra l'esercito di Sedemondo e quello degli insorti. Colpita da una freccia scoccata dall'arco di Farkas, viene inghiottita da una voragine prodigiosa che spacca la terra separando i contendenti, mentre la Corona di Ferro ritorna alla luce. Accade così che la pace viene restaurata. Arminio e Tundra si sposano e regnano su Kindaor, in cui al contempo trionfa il Cristianesimo. 



Recensione:
Il film di Blasetti è stato proiettato al Cineforum Fantafilm dell'amico Andrea "Jarok" Vaccaro il 18 dicembre 2006. Non ho potuto essere presente. Avevo visto questa pellicola quando ero un marmocchio e mi era rimasta impressa. Ho poi avuto occasione di rivederla a molti anni di distanza. Blasetti ha fuso in un immenso calderone ogni sorta di mitologema mediterraneo e nordico, aggiungendovi gli ingredienti più impensabili. Si trova proprio di tutto: Tarzan, Robin Hood, il Milione di Marco Polo, Edipo Re, le fiabe di Andersen e via discorrendo. Per impedire al racconto di andare alla deriva in un mondo di pura fantasia, sono stati fissati alcuni riferimenti storici: l'Imperatore di Bisanzio, il Papa, il Cristianesimo e per l'appunto la Corona di Ferro. Non si bada troppo all'anacronismo e all'inverosimiglianza, travalicando non di rado il confine del pacchiano e del grottesco. Il sovrano dei Tartari, con un tipico nome alto tedesco, Eriberto (Heribert), veste gli abiti più implausibili. I Burgundi sono presentati come nobiluomini della Francia medievale; per giunta il principe di tale nazione è un po' effeminato. Che dire poi della Valle dei Leoni? Si sa, sono ben celebri i leoni autoctoni nel Friuli e nel Trentino. Vero è che in epoca storica esistevano ancora leoni in Grecia e nei Balcani, ma l'idea di una colonia di grandi felini in Italia settentrionale mi sembra esilarante. Detto questo, La corona di ferro rimane un pilastro della filmografia fantasy del XX secolo. 



La furia di Goebbels 

Questo si tramanda, che Joseph Goebbels poté assistere alla proiezione del film mentre si trovava a Venezia nel 1941. Durante lo spettacolo il gerarca perse le staffe e tuonò contro il regista: "Con simili idee, in Germania sarebbe finito immediatamente al muro!" (devo recuperare l'originale in tedesco dell'invettiva). Tale fu l'influenza del giudizio del nazionalbolscevico di Rheydt, anche nella Germania postbellica, che il titolo del film di Blasetti non fu mai tradotto in tedesco!
Ora siamo costretti a porci un inquietante interrogativo. Cosa aveva davvero turbato il Diavolo Zoppo al punto di fargli perdere le staffe, facendo fare una ben misera figura al Reich Millenario? Era davvero un'astratta idea pacifista, a malapena percettibile nell'opera di Blasetti, a farlo imbestialire? Oppure la colpa è da attribuirsi a qualche personaggio ritratto in modo impietoso e lontanissimo dagli stereotipi fisici e morali dell'eroe germanico? Qualcosa che contrastava con le caratteristiche del perfetto membro della NSDAP? Forse non sapremo mai a quale minuto della proiezione scattarono le ire del Ministro della Propaganda. La mia supposizione - spero che non sia considerata una chiacchiera da enoteca - è questa: egli fu turbato dall'accostamento di un eroe di nome Arminio a Tarzan e a tutto l'immaginario scimmiesco che il nome burroughsiano si portava dietro. L'epopea germanica contaminata da suggestioni africane, negroidi! Blasetti mostrava le bizzarrie più impensabili e nemmeno un Sigfrido biondo. Però, se così fosse stato, l'uomo che arringava le folle a Norimberga avrebbe dovuto guardare se stesso, per prima cosa. Riporterò a questo punto un paio di versi composti dall'impavido Ernst Röhm, che non temeva nulla e che fu sempre franco con tutti. 


Lieber Gott mach mich blind, 
dass ich Goebbels arisch find! 

Mio Dio, rendimi cieco,
affinché possa credere che Goebbels sia ariano!
 


Peccato che nelle scuole italiane di queste cose alquanto interessanti non si faccia la benché minima menzione. 


Eriberto o la germanizzazione dei Tartari  

Eppure sono convinto che qualcosa di positivo Herr Goebbels nel film di Blasetti lo avrebbe facilmente trovato, se soltanto fosse stato più collaborativo. Forse gli rodeva ancora il fatto di essere stato costretto a lasciare l'amante. Fatto sta che il sovrano dei Tartari, come già accennato, porta un nome germanico. Il regno di Kindaor, chiaramente germanico, è menzionato come la più potente nazione dell'intero globo terracqueo. Ai tempi dei cosiddetti regni romano-barbarici l'etnonimo dei Tartari (in realtà Tatari) non era conosciuto nei territori che furono dell'Impero Romano d'Occidente: si sarebbe parlato semplicemente di Unni. Se il regista avesse etichettato Eriberto come Re degli Unni, la sua opera avrebbe avuto un punto di contatto in più con la realtà storica - per quanto labile. In fondo anche il glorioso nome di Attila proviene dalla lingua dei Goti e significa "Piccolo Padre". Proprio come il soprannome di Stalin.

Etimologia di Kindaor 

Il toponimo Kindaor non ha origini germaniche. Sembra invece derivare da una lingua celtica. La protoforma è ricostruibile come *Kuno-tauros, ossia "Montagna dei Cani", essendo *tauros un elemento del sostrato ligure che emerge ad esempio nel nome dei Taurini e della loro antica capitale, Taurasia. Si presuppone un'evoluzione tipica delle lingue celtiche della Britannia: *Kuno-tauros > *Kyn-dawr > Kindaor. In antico irlandese, nel linguaggio poetico, "cane" (gen. con; pl. coin) significa anche "lupo" e "guerriero". La stessa semantica la troviamo nell'antica Iberia, nel nome dei Conetes, che compare anche nel toponimo Conimbriga (oggi Coimbra).  Ho a questo punto una domanda. Poteva il regista del film spingersi a una simile comprensione del nome da lui inventato? Ho i miei dubbi. Tuttavia mi piace trovare un senso profondo anche nelle figure confuse delle piastrelle del bagno e del marmo dei pavimenti. Distillo conoscenza dalla pareidolia. Il bello è che ne escono spesso cose verosimili, compatibili con quanto possiamo dedurre dei tempi antichi.

Etimologia di Sedemondo 

Questo antroponimo maschile è schiettamente germanico. Deriva da una protoforma *Siðu-munduz e significa "Difensore del Costume". Si confronti ad esempio il norreno siðr "costume, tradizione", che ha la stessa radice. Nelle fonti in latino, se fosse documentato, il nome del Re di Kindaor sarebbe stato reso come Sidimundus o Sidimund. La forma Sedemondo presenta indizi di sviluppi romanzi, cosa che non deve stupire. Blasetti fu ispirato, non ci sono dubbi! Anche se la lingua di Wulfila era per lui un libro chiuso, creò come se la conoscesse.    

Etimologia di Tundra 

Questo antroponimo femminile ha una perfetta corrispondenza in norreno: Thóra. Deriva chiaramente dal teonimo protogermanico *Þunraz "Thor, Dio del Tuono", con l'applicazione di un suffisso femminile della declinazione debole:  *Þunro:n. Il significato soggiacente dovrebbe essere "Simile a Thor" o "Figlia di Thor". Il bello è che l'aspetto fonetico di Tundra è compatibile proprio con un tardo sviluppo della lingua dei Goti. Naturalmente il regista non avrà conosciuto la lingua di Wulfila o il norreno, non avrà avuto nozione alcuna di filologia germanica: a lui interessava più che altro suggerire l'immagine di una donna fredda e crudele, evocata dal nome dato alla steppa siberiana (di tutt'altra etimologia, è ovvio). 

Etimologia di Artace e di Artalo

Sappiamo che Artace è il nome di un eroe del popolo dei Dolioni. Viene menzionato soltanto nelle Argonautiche di Apollonio Rodio. L'etimologia non è poi così chiara, indizio a parer mio sufficiente ad attribuire l'antroponimo al sostrato pre-ellenico. Questo nome è stato utilizzato da Michael Ende nel suo capolavoro La Storia Infinita: tutti conoscono Artax, il cavallo del prode Atreyu. Nel contesto del film di Biasetti, Artace avrà invece un'origine diversa. Trovo suggestivo far derivare il nome del sovrano sconfitto da Licinio dalla radice protoceltica *arto- "orso" (gallico Arto-, antico irlandese art, gallese arth). Allo stesso modo anche Artalo avrà la stessa etimologia, che poi è la stessa del mitico Artù: cambiano soltanto i suffissi.  

Etimologia di Klasa 

Il servo di Tundra, interpretato dal possente Primo Carnera, ha un nome di chiara etimologia germanica, compatibile con la lingua dei Goti: Klasa. Significa "Splendente". La radice protogermanica è *glasan "ambra; vetro". La stessa che ha dato l'inglese glass e il tedesco Glas "vetro". La terminazione maschile in -a, tipica della declinazione debole, caratterizza questo antroponimo come gotico, senza possibilità di errore. Per quanto riguarda la consonante sorda iniziale di Klasa, non è poi un gran problema. Nel gotico di Crimea abbiamo attestato criten "piangere", che corrisponde al gotico di Wulfila gretan "piangere". La possibilità di un'incipiente rotazione consonantica è da considerarsi.

Etimologia di Kavaora 

Questo nome deriva da una elaborata kenning, a cui non è stato facile risalire. Nella lingua di Kindaor, il termine poetico kavaor deve significare "sangue", alla lettera "mare dei corvi". In un'iscrizione runica scandinava leggiamo nā-seu "mare dei cadaveri", ossia "sangue". Esiste anche hrafn-vín "vino dei corvi", ossia "sangue", formato sempre a partire dallo stesso concetto antichissimo. La voce protogermanica *kawo:, *kajo: indica un uccello augurale (antico inglese cēo "gracchio corallino"; antico alto tedesco kaha, kāa, "cornacchia"; medio olandese cauwe "taccola"), mentre *auraz significa "palude; mare" (antico inglese ēar "mare, oceano"; islandese aur "palude"). Ecco spiegato il kindaoriano kavaor, necessario presupposto di Kavaora "Sanguinaria".

Etimologia di Natersa 

Il fatale toponimo Natersa è soltanto in apparenza impenetrabile. In realtà ha un'etimologia chiarissima. Significa "Deserto dei Cadaveri". In gotico abbiamo naus "cadavere" e nawis "morto" (agg.). In norreno l'equivalente è nár "cadavere" (< *nawiz). La seconda parte del toponimo è chiaramente connessa col gotico þaursus "secco" (pron. /θɔrsus/) e col norreno þerra "seccare, essiccare" (< *þers-). La radice è di chiara origine indoeuropea e la troviamo anche nelle parole italiane terra, torrido e torrone. Resta però il fatto che questo composto mirabile non collima alla perfezione con quanto conosciamo delle lingue germaniche. Con ogni probabilità Natersa è un toponimo indeuropeo di sostrato, ma in ogni caso pregermanico, preromano e preceltico. 

Etimologia di Farkas 

L'antroponimo mi ha tormentato per giorni, dato che non riuscivo in alcun modo a trovare un'etimologia soddisfacente. In realtà la spiegazione è quasi lapalissiana. Non è altro che il gotico wulfiliano *farhs "porcello", dal protogermanico *farxaz. Da questa stessa radice abbiamo il tedesco Ferkel "maialino" e l'inglese farrow "cucciolata di maialini". Si tratta evidentemente di un soprannome infantile, poi conservato dal soggetto in età adulta. Secondo il mio parere, l'uscita -as del nome dell'arciere blasettiano è data dalla vocalizzazione di una vocale indistinta (Schwa) che doveva servire a rendere pronunciabili certi gruppi consonantici complessi. Possiamo immaginare che nel gotico di Kindaor -as sia l'esito del gotico Wulfiliano -s preceduto da consonante.  Per quanto riguarda la consonante -k-, è l'esito dell'indurimento della più antica aspirata -x-, dovuto alla rotica precedente (confronta la forma tedesca).

Elementi di gotico kindaoriano 

Così possiamo azzardarci a ricostruire alcune voci del gotico di Kindaor: 

alkas "tempio pagano"
markas "stallone"
ulfas "lupo"
urmas "serpente" 


Le forme accusative singolari saranno prive di uscita sigmatica: 

alk "tempio pagano"
mark "stallone"
ulf "lupo" 

urm "serpente"

L'uscita in -us nel gotico di Wulfila, in gotico di Kindaor è realizzata come -os:

medos "idromele"
sedos "costume, tradizione"


La forma accusativa perde il sigmatismo:

medo "idromele"
sedo "costume, tradizione"

Con un po' di buona volontà e di tempo, potremmo fornire la traduzione di numerosi testi. 



La Vecchia del Fuso 

Non possono sussistere dubbi. La Vecchia del Fuso, che annuncia al re Sedemondo di Kindaor la rovina, è senza dubbio una delle Norne. Anzi, sintetizza i caratteri di tutte e tre le Norne, che in norreno sono chiamate Urðr, Verðandi e Skuld. Infatti conosce le cose del passato e quelle del presente, oltre a predire il futuro. Una notevole figura del paganesimo nordico in un contesto come quello di Kindaor, in cui le antiche credenze si mescolano di continuo con la nuova religione di Cristo. Segnalo a questo punto un fatto assai curioso. Lessi su un sito nel Web, ora a quanto parre scomparso, che il nome della norna Verðandi sarebbe stato adattato in tedesco come Urgand, in modo tale da evitare la cacofonica forma *Urdand. La cosa mi pare ora assai strana. Nondimeno mi beai in questo errore, che pure attribuivo a una creazione artificiosa e romantica a partire dalla forma norrena: ero consapevole che non si trattasse di una genuina eredità del protogermanico. Arrivai al punto di attribuire a questo teonimo Urgand il nome degli Urgandisti, descritti da alcuni come una setta satanica, mentre altri li reputano un gruppo razzista legato a una tifoseria calcistica. Compreso che si trattava di un errore, faccio notare che il nome degli Urgandisti (che forse sono soltanto fantomatici) permane di origine ignota.  


Kindaor e il Cristianesimo 

Ambiguo e strano è il rapporto dei personaggi del film con il Cristianesimo. Arminio, che cresce tra i leoni senza mai aver contatto con altre persone per tutta la sua gioventù, ricorda il segno della croce dalla sua infanzia e lo fa ogni mattina al sorgere del sole. Non è consapevole del vero significato del gesto, che reputa una forma di saluto all'astro diurno al suo levarsi sui monti. Un significato pagano. Eppure Arminio ricorda dalla sua infanzia che tutti si segnano, perché evidentemente questo avveniva alla corte di Sedemondo già un ventennio prima. Tundra invece è puramente pagana, non battezzata e ignara della stessa esistenza del segno della croce, che ha visto compiere ad Arminio per la prima volta. Ne prova subito un certo disagio e una sorta di paura subliminale. Eppure alla fine, per diventare regina di Kindaor e sposarsi con Arminio, accetterà il battesimo.

Sadismo estremo

La cosa che più lasciò in me il segno quando vidi per la prima volta il film fu la ferocia inumana di Sedemondo, che istigava il fanciullo Arminio a bucare con uno spillo gli occhi degli uccellini per farli cantare. All'epoca non capivo nulla di incesto, profezie fosche e corna, così pensai che Sedemondo rinnegasse il bambino e lo condannasse alla Valle dei Leoni perché non aveva voluto torturare i volatili di nido. Pensai che quella fosse una sorta di mostruosa "prova di virilità", un rito di iniziazione, il cui fallimento condannava l'iniziando ad essere espulso dalla società. Poi appresi che l'aberrante costumanza di bucare gli occhi agli uccellini è tuttora molto diffusa in Veneto e altrove.  



Altre recensioni e reazioni nel Web 

Riporto nel seguito un interessante e notevole intervento, apparso sul sito Filmtv.it

Strullata fantasy di Blasetti, che continua ad essere sopravvalutata fino ai giorni nostri. Con una trama insulsa e quasi irraccontabile, Blasetti sembra voler fondare una mitologia pagana-italica-fascista, sulla scorta del film "I Nibelunghi" di Fritz Lang, che tanto era piaciuto a Hitler e Goebbels. La reazione del ministro tedesco per la propaganda si concretizzò nel dichiarare che se un regista tedesco avesse realizzato un'opera simile sarebbe stato messo al muro. Il film, cavallo di battaglia di intere generazioni di cinema parrocchiali, si regge sulle interpretazioni di bravi attori quali Gino Cervi, Luisa Ferida (bellissima), Elisa Cegani (allora legata al regista), e un Massimo Girotti atletico, che recita una parte a metà strada tra Sigfrido e Tarzan. Ma anche gli attori, tra i quali si notano il povero Osvaldo Valenti e il campione di pugilato Primo Carnera, possono fare ben poco per salvare un film citrullo come questo. È da notare, ancora una volta, che il regista ha la libertà di mostrare un personaggio femminile a seni nudi, possibilità che, nel dopoguerra cattocomunista, il cinema italiano si scorderà per almeno vent'anni.  
(sasso67) 

Il buon sasso67 non lo specifica, ma non è difficile immaginarlo: Blasetti ebbe notevole libertà nel mostrare seppur di sfuggita un bellissimo paio di morbide tette, che nel dopoguerra furono orrendamente censurate dai bacchettoni pinzocheri cattocomunisti. Tra i fautori della censura c'erano quegli stessi baciapile che pure continuarono a proporre La corona di ferro nei cinema delle parrocchie. Quelle ghiandole mammarie sublimi, tagliate come i seni di Santa Rosalia in ogni oratorio, per molti anni, con crudele lama di carnefice! Mentre questo avveniva, i preti abusavano senza freno alcuno di bambini e bambine, facendosi passare i giovanissimi sotto l'abito talare e convincendoli con turpe plagio che gli atti fellatori fossero una forma di eucarestia. Queste cose non devono essere dimenticate mai, fino al Giudizio. 

venerdì 15 febbraio 2019


MATTATOIO 5

Titolo originale: Slaughterhouse-Five
Paese di produzione: Stati Uniti d'America
Anno: 1972
Durata: 104 min
Genere: Fantascienza, drammatico, tragicommedia 
Sottogenere: Autobiografico, guerra

Regia: George Roy Hill
Soggetto: Kurt Vonnegut Jr. (dal romanzo Mattatoio n° 5 o
      La Crociata dei Bambini
)

Sceneggiatura: Stephen Geller
Fotografia: Miroslav Ondříček
Montaggio: Dede Allen
Musiche: Glenn Gould
Scenografia: Henry Bumstead, Alexander Golitzen, John
      McCarthy Jr. e George C. Webb
Interpreti e personaggi
    Michael Sacks: Billy Pilgrim
    Ron Leibman: Paul Lazzaro
    Eugene Roche: Edgar Derby
    Sharon Gans: Valencia Merble Pilgrim
    Valerie Perrine: Montana Wildhack
    Holly Near: Barbara Pilgrim
    Perry King: Robert Pilgrim
    Friedrich von Ledebur: ufficiale tedesco
    Ekkehardt Belle: giovane guardia tedesca
    Sorrell Booke: Lionel Merble
    Roberts Blossom: Wild Bob Cody
    John Dehner: professor Rumfoord
    Gary Waynesmith: Stanley
    Richard Schaal: Howard W. Campbell Jr.
    Gilmer McCormick: Lily Rumfoord
    Stan Gottlied: vagabondo
    Karl-Otto Alberty: guardia tedesca (Gruppo 2)
    Henry Bumstead: Eliot Rosewater
    Lucille Benson: madre di Billy Pilgrim
    John Wood: ufficiale inglese

Premi
    Festival di Cannes 1972: Premio della giuria
    Saturn Award per il miglior film di fantascienza 1972

Trama:
Non esiste un vero filo conduttore, perché il protagonista, Billy Pilgrim, vive al di fuori del tempo. Per lui non ha un vero significato la successione degli eventi. Innanzitutto è un soldato americano poco più che adolescente, prigioniero a Dresda durante la seconda guerra mondiale. La sua dimora è chiamata Schlachthof Fünf, ossia Mattatoio 5, proprio perché ricavata da un edificio che era stato un macello. La sua vita in cattività è a dir poco grama: c'è un diabolico italoamericano, Paul Lazzaro, che gli dà il tormento, senza requie. Billy è però anche un uomo maturo, socio dell'azienda di famiglia, destinato ad imbarcarsi su un aereo pur sapendo che precipiterà, facendolo ritornare nella Dresda bombardata, attraverso un cunicolo nella realtà: a un certo punto si vedrà la sua faccia assiderata e paonazza, piena di frammenti di ghiaccio, sporgere dal suolo nevoso, la bocca tremula che borbotta qualche fonema indistinto, cercando di articolare proprio le parole
"Schlachthof Fünf". Mentre queste cose accadono - posto che l'avverbio "mentre" abbia qualche significato in questo contesto - vediamo lo stesso Billy Pilgrim sequestrato sul pianeta alieno Tralfamadore, in una specie di cupola. Infatti la ricca atmosfera di quel mondo ameno è composta da acido cianidrico. Insieme a Billy c'è la discinta Montana Wildhack, una pornodiva californiana che per lavoro prende i falli in bocca e si fa cospargere di genetico. Ecco che i Tralfamadoriani, che sono guardoni e oltremodo morbosi, cercano di spingere la coppia a copulare e a concepire un figlio. Billy si sente in imbarazzo, vuole che sia spenta la luce. Ecco che il protagonista si ritrova anziano nelle vesti di un guru New Age, un predicatore pacifista che invita il genere umano a rinunciare ad ogni guerra. Mentre parla al pubblico nel corso di un convegno, sorge dalla massa un esagitato Paul Lazzaro, che lo abbatte a colpi di arma da fuoco. La morte è soltanto un'illusione per un uomo che vive come le genti di Tralfamadore, in uno stato estraneo ad ogni parvenza di flusso temporale. Infatti si ritrova a Dresda, ancora una volta giovanissimo, nell'atto di osservare le rovine della città devastata dallo spaventoso bombardamento genocidario del febbraio del '45.

Recensione:
A mio avviso il film di Roy Hill è una pizza colossale, anche se la critica ne dice mirabilia. La sua visione è particolarmente consigliata a chi ha problemi d'insonnia. Nonostante l'imperante esagitazione, ci si sente tanto disorientati dai continui cambiamenti di scena da provare presto apatia e torpore. Sono portato a credere che ciò sia dovuto soprattutto all'incapacità del regista: l'autore del romanzo mi sembra molto interessante. La pellicola è stata proiettata il 5 giugno 2006 al Cineforum Fantafilm dell'amico Andrea "Jarok" Vaccaro, a Milano. Purtroppo non ho potuto assistere alla proiezione. Sarebbe stato molto interessante partecipare al dibattito.


Pronunce distorte!

Catturati dai militari del Reich, i soldati anglosassoni balbettano in preda al terrore. Quando il paonazzo comandante tedesco cerca di insegnare a prigionieri il nome della loro nuova dimora, i risultati sono a dir poco deprimenti. Il militare teutonico tuona con voce stentorea un virile e ben scandito Schlachthof Fünf, ossia Mattatoio 5, e i figli della Terra dei Coraggiosi biascicano un ridicolo SHUTTO FEE, che in italiano trascriveremmo come SCIATTOFÌ. Persino la ripetizione delle singole componenti di Schlachthof risulta difettosa: Schlacht diventa SHAH e Hof diventa O! Che dire? La propaganda antitedesca si nutre anche di queste cose. :) In realtà è solo una piccola parte di qualcosa di molto più vasto. Lo sappiamo fin troppo bene. Per tradizione inveterata, gli anglosassoni sono in massima parte arroganti e privi di qualsiasi rispetto per tutte le lingue del genere umano diverse dalla loro. 

Vonnegut e la distruzione di Dresda  

Il romanzo vonnegutiano da cui il film in analisi è stato tratto, Mattatoio n°5, o La Crociata del Bambini (Slaughterhouse-Five; or, The Children's Crusade: A Duty-Dance With Death), è soltanto in parte fantascientifico. Contiene elementi autobiografici degni della massima nota. L'autore fu realmente prigioniero in Germania durante la guerra. Ci testimonia quanto è accaduto a Dresda, e questo dovrebbe bastare a mettere a tacere i negazionisti che vorrebbero ridurre i criminali bombardamenti a lanci di miccette. Accade questo, che i miliziani americani della peste politically correct hanno criticato Mattatoio n° 5 dando vita ad indecorose polemiche. Questo è l'impianto delle loro tesi invereconde: Kurt Vonnegut avrebbe preso la stima di oltre 130.000 morti causati dai bombardamenti di Dresda da un'opera del controverso David Irving, Apocalisse a Dresda (1963). Siccome David Irving è negazionista dell'Olocausto e vicino a ideologie neonaziste, ecco che lo stesso Vonnegut è stato colpito dal discredito. Ma, Diabole Domine, Vonnegut là a Dresda ci è stato davvero, sotto le bombe! La sua testimonianza varra ben di più delle baggianate di qualche democratico rincoglionito!

Definizioni incongrue

A quanto ho potuto appurare, il pianeta Tralfamadore è stato introdotto per la prima volta nell'opera di Vonnegut dieci anni prima della pubblicazione di Mattatoio n°5, per la precisione nel romanzo Le Sirene di Titano (The Sirens of Titan, 1959). Compare poi qualche anno dopo in un altro romanzo, Dio la benedica, signor Rosewater (God Bless You, Mr. Rosewater, 1965). Mattatoio n° 5 non è l'ultima opera dello scrittore di Indianapolis a fare menzione dei Tralfamadoriani. A distanza di anni, nel 1990, li vediamo in Hocus Pocus. Nel 1997 compaiono infine in Cronosisma (Timequake). Non sembrano esserci riferimenti a scritti più recenti. L'autore è defunto nel 2007: stando al metodo logico-deduttivo di Sherlock Holmes, molto difficilmente può aver scritto qualcosa dopo l'exitus. In realtà i Tralfamadoriani sono descritti in modo assai diverso nei vari testi in cui compaiono, tanto che non possiamo sostenere la natura coerente dell'ispirazione.

Riporto un brano altamente significativo tratto proprio da Le Sirene di Titano

Non c'era nulla di offensivo in questo amore. Vale a dire, non era omosessuale. Non poteva esserlo, poiché Salo non aveva sesso.
Era una macchina, come tutti i tralfamadoriani.
Era tenuto insieme da biette, morse, dadi, bulloni e magneti.
La pelle color mandarino di Salo, che era così espressiva quando lui era turbato emotivamente, poteva essere messa o tolta come una giacca a vento terrestre.


Come vediamo, stando a questa descrizione i Tralfamadoriani sarebbero macchine. Una specie di robot senzienti. Invece in Dio la benedica, signor Rosewater, Tralfamadore è soltanto un pianeta della mente, un Gedanken inventato nel corso di una discussione filosofica. In netta contrapposizione a quanto visto ne Le Sirene di Titano, i Tralfamadoriani di Mattatoio n° 5 o La Crociata dei Bambini sono creature organiche, seppur peculiarissime. Ecco un estratto vonnegutiano che ce li descrive come simili a utensili per sgorgare i cessi:

Passò un altro mese senza incidenti, e poi Billy scrisse una lettera al 'News Leader' di Ilium, e il giornale gliela pubblicò. In essa descriveva gli esseri di Tralfamadore.
La lettera diceva che erano alti sessanta centimetri, erano verdi, e avevano una strana forma. Le loro ventose d'aspirazione erano a terra, e i loro gambi, estremamente flessibili, puntavano di solito verso il cielo. In cima a ogni gambo c'era una piccola mano con un occhio verde nel palmo. Questi esseri erano amichevoli, e erano in grado di vedere in quattro dimensioni. Sentivano pietà dei terrestri che avevano esclusivamente una capacità visiva tridimensionale. 


I loro poteri hanno dell'incredibile: la loro definizione è in pratica un oggetto spaziotemporale, così esistono al contempo in ogni singolo istante dall'inizio alla fine dell'Universo. George Roy Hill nella sua trasposizione cinematografica ha mantenuto alcuni elementi, sopprimendone altri. Nessun riferimento alle occhiute ventose delle latrine. Alcuni affermano che i Tralfamadoriani di Hill sarebbero soltanto voci narranti, prive di corporeità, eppure in almeno una scena del film ho visto uno di questi alieni e aveva un corpo fisico: somigliava a una specie di sciatore gobbo e intabarrato in vesti sgargianti, con una maschera senza lineamenti sul volto.
In Hocus Pocus, i Tralfamadoriani sono i protagonisti di un racconto dello scrittore fallito Kilgore Trout, pubblicato a puntate su una rivista pornografica. Il titolo di questo racconto è evocativo: I Protocolli degli Savi di Tralfamadore. La natura di questi alieni è multidimensionale; essi hanno il controllo di ogni aspetto della vita del genere umano, un po' come i Rettiliani inventati da David Icke.
In Cronosisma vediamo forse l'immagine più suggestiva delle genti di Tralfamadore, descritti addirittura come elementi chimici antropomorfizzati! Questa è fantascienza che travalica i confini della psichedelia profonda.


Elementi di grammatica tralfamadoriana

Possediamo in sostanza soltanto due glosse dell'idioma degli alieni respiratori di acido cianidrico. Sappiamo, perché è lo stesso Vonnegut a dircelo, che il nome del pianeta Tralfamadore nella lingua degli sturalavandini animati e verdastri ha un duplice significato. Si traduce al contempo come "cinquecentoquarantuno" e come "tutti noi". Un caso abbastanza eclatante di polisemia. Vero è che queste traduzioni sono riportate ne Le Sirene di Titano, ma riteniamo ragionevole che valgano anche per i Tralfamadoriani di Mattatoio n°5, pur così dissimili. Da queste poche informazioni sfuggite a Vonnegut, possiamo tuttavia ricostruire qualcosa di interessante.

TRALFAMADORE = 541

Questi sono gli elementi estraibili dalla glossa e relativi al sistema numerale tralfamadoriano: 

ore = 1
ma = 4
tra = 5
ad = 10
adore = 11
adma = 14
attra = 15
mad = 40
madore = 41
madma = 44
mattra = 45
trad = 50
tradore = 51
tradma = 54
trattra = 55
alfa = 100
alfaore = 101
alfama = 104
alfatra = 105
alfad = 110
aldadore = 111
alfadma = 114
alfattra = 115
alfamad = 140
alfamadore = 141
alfamadma = 144
alfamattra = 145
alfatrad = 150
alfatradore = 151
alfatradma = 154
alfatrattra = 155
malfa = 400
malfaore = 401
malfama = 404
malfatra = 405
malfad = 410
malfadore = 411
malfadma = 414
malfattra = 415
malfamad = 440
malfamadore = 441
malfamadma = 444
malfamattra = 445
malfatrad = 450
malfatradore = 451
malfatradma = 454
malfatrattra = 455
tralfa = 500
tralfaore = 501
tralfama = 504
tralfatra = 505
tralfad = 510
tralfadore = 511
tralfadma = 514
tralfattra = 515
tralfamad = 540
tralfamadore = 541
tralfamadma = 544
tralfamattra = 545 


Abbiamo poi il prezioso pronome personale collettivo ed inclusivo: 

TRALFAMADORE = TUTTI NOI 

Questa è l'analisi: 

tral = tutto, tutti  
fa = io
fa-ma = noi (forma inclusiva)
d-ore = in uno, insieme  

Si capisce subito che il prefisso d- è quindi una specie di locativo. La possibilità concreta è che la lingua di Tralfamadore sia nata negli abissi della mente di Vonnegut e che abbia un significato filosofico profondo, per quanto a noi inconoscibile. In tale idioma gli parlavano le Voci. Si avverte nei suoi scritti l'angoscia che lo pervadeva, l'onnipresente tentativo di immaginare che forma avessero davvero coloro che gli trasmettevano questi strani suoni. 

Eternismo atensionale estremo  

Nell'ontologia temporale di Kurt Vonnegut non sono necessari passaggi che connettono tra loro regioni distanti dello spaziotempo, come ad esempio le singolarità nude e i wormholes: siamo di fronte a un quadro immobile, con un numero immenso di dimensioni e troppo complesso per essere descritto. I Tralfamadoriani in realtà non si spostano, non sperimentano il succedersi di diverse configurazioni come fanno i comuni mortali. Percepiscono nello stesso identico istante eterno ogni cosa! Siamo di fronte alla più estrema forma di eternismo atensionale finora concepita da mente umana. Nemmeno Einstein era arrivato a tanto. Si pone dunque un problema molto grave. Come possono gli alieni di Tralfamadore rapportarsi agli esseri umani? Come possono interagire con qualcuno che vive in una dimensione a loro ignota? Nel romanzo non mancano spunti umoristici e satirici: l'Universo finisce per un errore in un test di volo compiuto da un pilota di Tralfamadore. Questo dettaglio è stato ignorato da Roy Hill, che forse lo riteneva imbarazzante.

Altre recensioni e reazioni nel Web

Riporto alcuni interventi critici che mi paiono utili. Questi sono tratti da Filmtv.it

Un film a metà strada tra il sogno e l'incubo della prigionia in Germania durante il bombardamento di Dresda. Una delle cose più assurde che notai fu il personaggio di un nazista americano vestito come il generale Patton che incitava dei prigionieri di guerra angloamericani ad arruolarsi nelle SS. Roba da fantastoria. Più realistica la scena di un prigioniero fucilato perché sorpreso con un soprammobile trovato fra le macerie.
(Mr Rossi)


Diciamo che,"sotto suggerimento" mi sono accinto a vedere questo strano embrione di film semi fantascientifico-bellico e anche abbastanza sperimentale,anzi,molto sperimentale per certi versi.
Forse e' proprio questa eccessiva sperimentazione di mondi paralleli-onirici ,visionari,(dreamers) e ancora chi piu' ne ha piu' ne metta,rende la visione alquanto stranita e abbastanza incapace di far capire il senso della storia,gia' in se' insipida e poco attraente (nonostante riferimenti personali molto accattivanti tipo la storia della guerra,le parti semi-fantascientifiche e qualcosa di psicologico,anche se in forma ridotta rispetto a quello appena menzionato).
Purtroppo,tutto questo calderone di belle speranze e buoni propositi basati su un libro probabilmente di nicchia (ma forse neanche tanto...),personalmente mi e' sembrato grottesco e poco sublime nel doverlo ricordare:infatti si rimane con poco o nulla nel palmo della mano da dover rimembrare ai posteri,se non una visione di una pellicola difficile,anche abbastanza angosciante (forse anche per la voglia di capirdi qualcosa (!) e che alla lunga non soddisfa il palato degli spettatori di film di facile consumo (forse un po' come me) e convince molto di piu' a certi fruitori di Cinema piu' difficile o attratti da vette sublimi e pero' non facili da trovare.voto.5.

(Chribio1)


Film decisamente palloso, da alcuni additato come immenso capolavoro, da altri come immane cagata. Nel mezzo, io.
(alfatocoferolo)

martedì 12 febbraio 2019


PHILPADELPHIA EXPERIMENT

Titolo originale: The Philadelphia Experiment
Paese di produzione: Stati Uniti d'America
Anno: 1984
Lingua: Inglese
Durata: 102 min
Genere: Fantascienza
Regia: Stewart Raffill
Soggetto: Wallace C. Bennett, Charles Berlitz, Don Jakoby,
     William I. Moore
Sceneggiatura: William Gray, Michael Janover
Produttore: Douglas Curtis, Joel B. Michaels, Pegi Brotman
Produttore esecutivo: John Carpenter
Casa di produzione: New World Pictures
Distribuzione in italiano: Life International
Fotografia: Dick Bush
Montaggio: Neil Travis
Effetti speciali: Max W. Anderson, Lawrence J. Cavanaugh
Musiche: Kenneth Wannberg
Interpreti e personaggi
    Michael Paré: David Herdeg
    Nancy Allen: Allison Hayes
    Eric Christmas: Dottor James Longstreet
    Bobby Di Cicco: Jim Parker
    Louise Latham: Pamela
    Kene Holliday: Maggiore Clark
    Joe Dorsey: Sceriffo Bates
    Michael Currie: Magnussen
    Stephen Tobolowsky: Barney
    Gary Brockette: Assistente / Andrews
    Debra Troyer: Pamela da giovane
    Miles McNamara: Longstreet da giovane
    Ralph Manza: Jim da vecchio
    Patrick DeSantis: Jim da giovane
    James Edgcomb: Ufficiale Boyer
    Glenn Morshower: Meccanico
    Rodney Saulsberry: Dottore
    Stephany Faulkner: Giornalista televisivo n° 1
    Michael Villani: Giornalista televisivo n° 2
    Vivian Brown: Mamma Willis
    Ed Bakey: Papà Willis
    Vaughn Armstrong: Cowboy
    Lawrence Lott: Tecnico
    Bill Smillie: Predicatore evangelico
    Stephan O'Reilly: Punk rocker
    Clay Wilcox: Travestito
    Pamela Brull: Doris
    Pamela Doucette: Infermiera
    Deborah E. Dixon: Infermiera
    Charles Hall: Comandante
    Michael Ruud: Camionista
    Mary Lois Grantham: Signora Waite
    Rick Shrand: Mandell
    Robin Krieger: Tecnico dei raggi X
    Anthony R. Nuzzo: Tecnico del generatore
    Raymond Kowalski: Tecnico radio
    Jay Bernard: Ingegnere
    Steve Sachs: Primo marinaio
    Harry Beer: Secondo marinaio
    Andrew Bracken: Marinaio obnubilato
    Brent S. Laing: Tecnico radar
Doppiatori italiani
    Saverio Moriones: David Herdeg
Premi
    Fantafestival 1985 - Best Film
Titoli tradotti: 

    Tedesco: Das Philadelphia Experiment
    Polacco: Experyment Philadelphia
    Russo: Филадельфийский эксперимент
    Finlandese: Tuhon kuilu (lett. "Abisso di distruzione")

Trama:
Anno del Signore 1943. I marinai David Herdeg e Jim Parker della Marina degli Stati Uniti, sono assegnati al cacciatorpediniere USS Eldridge, mentre fervono i preparativi di un esperimento con campi elettromagnetici intensissimi, che dovrebbe rendere l'imbarcazione bellica invisibile ai radar. La nave è ormeggiata nel porto di Filadelfia ed è carica di equipaggiamento usato dalla squadra scientifica guidata dal dottor James Longstreet. Quando l'esperimento ha inizio, la USS Eldridge non scompare soltanto sui radar, ma diventa invisibile agli occhi degli spettatori. Sulla nave le apparecchiature impazziscono; i marinai Herdeg e Parker cercano di bloccare il generatore per interrompere l'esperimento, ma ricevono spaventose scosse elettriche e sono eiettati fuoribordo, nel vuoto. Non si vengono a trovare nel porto di Filadelfia durante il giorno, come si sarebbero aspettati, ma in uno sconosciuto deserto notturno. Un elicottero militare perlustra la zona con un fascio di luce, dando la caccia agli intrusi. Presto i due giovani si rendono conto di essere stati catapultati nel 1986, ben 43 anni nel futuro rispetto alla loro scomparsa. Qualcosa non va nell'aria, misteriose tenebre diurne offuscano  la luce solare e dovunque spira un vento che porta desolazione. Gli eventi prendono una china frenetica e sempre più angosciante. Jim Parker, che è rimasto saturato di radiazioni, emette lampi e scariche blu da un braccio, provando dolore e arrecando danni a tutto ciò che tocca.
In seguito alla distruzione di un punto di ristoro, andato a fuoco proprio a causa dei fenomeni elettrici descritti, David Herdeg prende in ostaggio la bella Allison, sequestrando la sua auto. La polizia riesce a catturarli. La sofferenza di Jim peggiora: viene portato in ospedale, dove sprofonda in una distorsione spaziotemporale e finisce risucchiato nel passato. David e Allison riescono quindi ad evadere dalla custodia degli agenti, dietro cui si nasconde la longa manus del maligno dottor Longstreet. Non soddisfatto del suo pernicioso esperimento del '43, lo scienziato pazzo lo ha replicato, dando vita a una spaventosa singolarità spaziotemporale senza orizzonte degli eventi, che minaccia di divorare l'intero pianeta. Visto che tutto sta per collassare, sarà proprio il marinaio David Herdeg, catturato dalla polizia militare, a offrirsi volontario per una missione disperata nel perfetto stile degli Yankee: ritornare indietro nel tempo fino all'origine degli eventi luttuosi, catapultandosi proprio sulla USS Eldridge per interrompere l'alimentazione del generatore e rimuovere la singolarità. Com'è naturale, nemmeno questa radicale manipolazione della realtà è in grado di cancellare l'amore tra David e Allison, che si ritrovano e si amano. Il finale puffesco è garantito!

Recensione: 
Se devo essere franco, questa pellicola non mi è piaciuta granché. L'ho subito trovata abbastanza pacchiana e ingenua, a tratti irritante come un paio di mutande piene di larve di processionaria. Gli effetti speciali mi paiono approssimativi e di scarso valore, molto al di sotto delle possibilità dell'epoca in cui il regista ha confezionato il suo prodotto. La trama è tutto sommato futile, i personaggi sono privi di spessore, persino infantili. Con lo stesso materiale si sarebbe potuto fare di meglio, anche senza possedere doti particolari di genialità. Anche se duole ammetterlo, il contributo del mitico Carpenter quasi non lo si riesce a distinguere nell'amorfa massa di trovate scontate. Un film brutto. Brutto come un gelato al gusto Gianni Morandi - o Veronica Moser, se preferite.  

Il mito memetico dell'esperimento di Filadelfia 

È molto in auge tra le genti la favola superstiziosa dell'esperimento di Filadelfia, detto anche Project Rainbow, che sarebbe avvenuto nel corso della seconda guerra mondiale e che avrebbe avuto inquietanti finalità militari. Esiste persino una data precisa per questo supposto esperimento scientifico: il 28 ottobre 1943. A dirigerlo sarebbe stato un individuo noto come Franklin Reno, anche noto come dottor Rinehart e di sospetta natura fantomatica. Com'è ovvio, dietro questo Rinehart ci sarebbe stato nientepopodimeno che Albert Einstein, coinvolto in ogni genere di porcheria. Sarebbe stata proprio la cosiddetta teoria del "campo unificato" a fornire le basi teorice del Project Rainbow. Gli eventi si sarebbero svolti nel seguente modo: alle ore 17:15 del 28 ottobre 1943, il cacciatorpediniere USS Eldridge (D-173), che era ormeggiato nel porto di Filadelfia, è svanito nel nulla, facendo la sua spettrale apparizione a Norfolk, in Virginia. Nel giro di alcuni minuti la nave sarebbe scomparsa da Norfolk per fare ritorno alla sua originaria sede, presso un molo del porto di Filadelfia. I corpi dei marinai ritrovati sarebbero stati trovati compenetrati con le strutture metalliche della nave. Se fosse vero ci sarebbe da cagarsi in mano dal terrore, perché nessuno di noi sarebbe al sicuro. Una distorsione nel tessuto della realtà potrebbe ghermire chiunque in qualunque momento. Il punto è che tutto ciò non è vero: si tratta di una leggenda metropolitana. Per usare un linguaggio più al passo coi tempi, diciamo che è una bufala, una fake news del XX secolo. In sostanza è una pataccata invereconda. La diffusione di questo mitologema obbedisce alle leggi della memetica. Il corredo memetico della bufala non è poi tanto complesso. Basta prendere Einstein e ogni barlume di razionalità si perde: allo scienziato di Ulm sono attribuiti dal volgo poteri al limite del sovrumano. Dal momento che egli incarnava la natura stessa del genio, nulla gli era davvero impossibile. Si noterà che oggi si parla spesso di teletrasporto quantistico, cosa che può trarre in inganno gli sprovveduti. Consiste infatti nel teletrasportare particelle subatomiche, non imbarcazioni!    

Uno spaziotempo labirintico 

Non si può dire che lo spaziotempo immaginato dall'artefice di questa pellicola sia simile a una forma di groviera, dato che i buchi di quel formaggio non sono tra loro comunicanti (nascono da bolle di gas di fermentazione dei batteri). Qui abbiamo invece a che fare con una topologia complessa e contorta, in cui i cunicoli uniscono passati e futuri molteplici, ramificandosi all'infinito. Sembra più di avere a che fare con un immenso termitaio, la cui mappa non è a disposizione di nessun essere umano. Ogni individuo trova dopo una lunga ricerca le radici del proprio presente in un lontano futuro in cui vede se stesso ormai anziano. Non si tiene conto delle difficoltà che una simile impostazione genera senza fine. A quanto pare lo spettatore medio non prova irritazione di fronte a paradossi e a tarli logici di ogni specie. Registi, sceneggiatori e produttori non sono in grado di gestire un simile caos filosofico. A dire il vero, sembra proprio che non si pongano nemmeno il problema.

Il postulato del tempo statico 

Non c'è niente da fare: le genti degli States sono affascinate, quasi ipnotizzate, dalla teoria del tempo statico. Credono fin nel più profondo del midollo che il flusso temporale e il succedersi degli eventi siano soltanto illusioni senza significato. Non vogliono sentire ragioni. Persino gli accademici di quel paese ostacolano con ogni mezzo qualsiasi teoria sulla natura del tempo che affondi le sue radici in un'ontologia tensionale e presentista, mentre stravedono per tutto ciò che è atensionale ed eternista. Questo esasperante B-eternismo ha poi ripercussioni spaventose nella produzione letteraria e cinematografica. Sono consapevole dell'inesistenza del tempo newtoniano ed assoluto. Non ignoro la relatività di Einstein. Tuttavia affermo che una teoria sulla natura del tempo deve rendere conto della realtà che osserviamo. Le discontinuità spaziotemporali devono essere compatibili con la successione ordinata degli eventi per ogni osservatore del cosmo fisico. Se invece il tempo è statico e ogni istante esiste ab aeterno proprio come esiste lo spazio, diventa possibile prendere scorciatoie che permettono di bypassare la natura irreversibile dei singoli eventi, facendosi delle belle passeggiate nel passato e nel futuro. Diventa possibile seminare assurdità come un fallo eretto semina spermatozoi. Questa macchina di produzione di paradossi, che tanto sollecita la fantasia degli Yankee, a me genera emicrania, sintomi di intossicazione e disgusto. 

Una toponomastica enigmatica 

Surreale è l'ingresso dei due marinai, David Herdeg e Jim Parker, in un punto di ristoro che sorge nel Nulla in mezzo al Niente, in un deserto che nemmeno Dio ha mai concepito nei suoi più oscuri periodi di down cocainico. Spaesati, i due militari si avvicinano al bancone, al cospetto di una grannie bisbetica, come di consueto con capelli canuti tinti di biondiccio, il volto contratto in smorfie sgradevoli. Se non fosse certo che è una donna del Midwest, aspra come il vomito più pastoso, si potrebbe persino pensare che sia giunta dall'Ucraina. Ecco uno dei due giovani bellimbusti ordinare la colazione, ovviamente a base di uova. La gerente chiede come gli ospiti vogliono queste benedette uova. Strapazzate, è la timida risposta. Poi accade che i marinai piovuti dalla distorsione spaziotamporale vogliono capire dove sono. Così si informano sulla toponomastica. "Come si chiama questo posto?", chiede uno dei due, non si riesce a distinguerli, visto che portano abiti identici e hanno fisionomie confondibili. La risposta della donna è raggelante, per quanto apparentemente normale: "Scotty John's Show. Non lo trovate su nessuna carta, questo è sicuro." Beh, ho trascritto il toponimo come Scotty John's Show perché mi sono trovato disorientato. Senza dubbio sarà un nome amerindiano, che nulla ha a che fare con l'anglosassone. Qualcosa che suona algonchino. Forse sarebbe meglio usare un'ortografia diversa, come Scottiejawnshaw. Tutte le ricerche su Google si sono dimostrate fallimentari, come spesso accade. 

La peste dei sequel 

Disgraziatamente è stato prodotto un seguito: Philadelphia Experiment 2, di Stephen Cornwell (1993). La casa produttrice è la Trimark Pictures. Nel cast non è presente alcun attore del film di Stewart Raffill. La trama è fondata su una banalità che definire pornografia concettuale è ancor poco. I brutti-cattivi nazisti del Reich hanno vinto la guerra, facendo sprofondare gli Stati Uniti in un incubo distopico. La vittoria tedesca è stata il frutto dell'aereo futuribile Phoenix, che da solo è riuscito a distruggere Washington DC provocando ben 15 milioni di morti, finendo però esso stesso in cenere nelle esplosioni. Questo Phoenix era l'opera di uno scienziato pazzo, Friedrich Mahler (notare il cognome d'origine ebraica). L'artefice di tale macchina di morte cade in disgrazia presso il Führer per la sua incapacità di costruirne una nuova. In realtà è stato il figlio di Mahler, l'anglizzato William Maller, a rendere possibile la vittoria, teletrasportando il Phoenix sulla capitale americana. Spetterà a David Herdeg, celebre risolutore di nodi storici, ritornare in piena Germania nazista per uccidere l'ebreo antisemita Friedrich Mahler, facendo dissolvere suo figlio all'istante grazie al paradosso del nonno (e de li mortacci sua). Tutto torna a posto, il Phoenix non viene mai costruito e Hitler si avvia all'istante sulla traiettoria che ha come punto finale il bunker di Berlino. Direi che il macero è il posto più adatto per questo genere di escrementi di celluloide. 

La peste dei remake 

C'è anche un remake del 2012, The Philadelphia Experiment, di Paul Ziller. A quanto ho letto, tra gli attori c'è ancora Michael Paré, ma questa volta nella parte del cattivo. Non perderò nemmeno tempo a visionare tale opera, tanto le probabilità che si tratti di una porcheria immonda sono elevatissime. Sono nauseato da questi tentativi di cavare sangue dalle rape. Un piatto di densa zuppa di bruconi è infinitamente meglio.

Altre recensioni e reazioni nel Web 

Girando nella Rete alla ricerca di riscontri su Philadelphia Experiment, ho trovato soltanto commenti anodini e opinioni mancanti di vigore. Sembra fare eccezione il sito Filmscoop.it, in cui troviamo qualche giudizio caustico. Ecco alcune gemme: 

Fiacco e poco appassionante ma non del tutto malvagio, l'idea per esempio è piuttosto originale anche se sviluppata un pò così; probabilmente nelle mani di Carpenter in veste di regista (ebbe l'idea quando era studente alla USC) oltre alla suspense ne avrebbe guadagnato anche in quanto a curiosità e divertimento.
Ma non essendo così il tutto si riduce ad una trama campata per aria intrisa di inseguimenti monotoni e dialoghi scialbi. Anche il finale, frettoloso, non suscita la minima emozione. La recitazione dei protagonisti è imbarazzante, ma assieme fanno una bella coppia ed è davvero uno dei pochissimi fattori che tiene lo spettatore ai confini della sonnolenza.
(Angel Heart)

Fra "Ritorno al futuro" e "Tron", un film talmente povero e ingenuo da riuscire quasi ad intenerire. Effetti speciali simpaticamente al risparmio, sceneggiatura risibile ("Stai bene?-Benone!/L'importante e che tu stia bene-Si, non ho niente, andiamo!/Si. Sei sicuro di star bene?-Dobbiamo far presto!/ Si certo, andiamo. Come ti senti?), attori imbambolati. Un b-movie divertente, noiosetto, lontanissimo dagli obiettivi che si prefiggeva. (atticus)

Se questi sono attori ho una speranaza anche io di diventarlo!!!
veramente brutto!!!!
(Bouree) 

Mai voto fu più azzeccato per un'ottima idea, ma con attori cani.
Un vero peccato perchè gli ingredienti c'erano tutti, ma la maionese è impazzita.

(Franx) 

Troviamo poco di buono su Filmtv.it. In tutto vedo soltanto due recensioni classificate come negative. Ne riporto una, a pubblica edificazione, con tanto di spaziature anomale: 

In Italia fece una comparsata o poco più nelle sale,ed ebbe maggiori fortune nel mercato home video, dove conquistò consensi e simpatie,visto che c'era,ai tempi, chi lo paragonava a "Ritorno al futuro" addirittura ritenendolo forse meglio. Senza scomodare quella chicca di Zemeckis, c'è da dire che lo spunto di "Philadelphia Experiment" non è niente male, anche se il fatto del viaggio spazio-temporale con una nave militare di mezzo assomiglia non poco al di poco precedente "Countdown":solo che,a parte quello, nel film non c'è granchè di memorabile.Non gli interpreti, tra i quali un Michael Parè nella sua stagione decisiva, ma che dimostrò che un bel ragazzo non sempre diviene una star, nè una stinta Nancy Allen reduce dalle sue collaborazioni con l'allora partner Brian De Palma, nemmeno gli effetti speciali, già vecchiotti se paragonati a quelli dei coevi "Ghostbusters" e "Indiana Jones e il tempio maledetto".La regia del modesto Stewart Raffill, su un'idea alla quale si appassionò John Carpenter,che pare dovesse dirigere la pellicola, tanto da produrla, è manieristica, non costruisce tensione nè pathos,e non sfrutta a dovere le occasioni possibili di due giovani degli anni Quaranta catapultati nell'era post-Vietnam. Ne fu fatto,nove anni dopo,un sequel che è stato praticamente trasmesso solo in tv.
(Will Kane)  

venerdì 8 febbraio 2019


L'ULTIMO UOMO DELLA TERRA

Titolo originale: The Last Man on Earth
Paese di produzione: Italia, Stati Uniti d'America
Anno: 1964
Durata: 86 min
Dati tecnici: B/N
Genere: Orrore, fantascienza, drammatico
Sottogenere: Postapocalittico
Regia: Ubaldo Ragona / Sidney Salkow
Soggetto: Richard Matheson
     (dal romanzo Io sono leggenda)
Sceneggiatura: Furio M. Monetti / Richard Matheson
     (accreditato come Logan Swanson)
Produttore: Robert L. Lippert
Fotografia: Franco Delli Colli
Montaggio: Gene Ruggiero, Franca Silvi
Musiche: Paul Sawtell, Bert Shefter
Scenografia: Giorgio Giovannini
Costumi: Angelina Menichelli
Interpreti e personaggi
    Vincent Price: Dott. Robert Morgan
    Franca Bettoja: Ruth Collins
    Emma Danieli: Virginia Morgan
    Giacomo Rossi Stuart: Sam Cortman
    Umberto Raho: Dott. Mercer
    Christi Courtland: Kathy Morgan
    Antonio Corevi: Governatore
    Ettore Ribotta: Sergente polizia
    Franco Gasparri: Un giovane
Doppiatori originali
    Emilio Cigoli: Dott. Robert Morgan
    Rita Savagnone: Ruth Collins
    Fiorella Betti: Virginia Morgan
    Cesare Barbetti: Sam Cortman
    Bruno Persa: Dott. Mercer


Trama:
Siamo nell'Anno del Signore 1968. Il dottor Robert Morgan (magistralmente interpretato dal tenebroso Vincent Price) sopravvive imprigionato in un incubo da cui non riesce a liberarsi. Come l'uomo di cui parlava Friedrich Nietzsche, che ripete per l'eternità lo stesso giorno senza mai potersi liberare, Morgan passa le sue giornate a snidare e a eliminare vampiri intorpiditi negli anfratti della città, per poi bruciarli in un dirupo; calate le tenebre, passa le sue notti rinchiuso in casa a vegliare e a ubriacarsi, resistendo all'assalto dei vampiri che gli vorrebbero penetrare in casa. Alcuni feticci sono le sole barriere tra sé e l'assalto notturno del mondo delle Ombre: uno specchio, un crocifisso, una corona d'aglio. Mentre il film procede, il protagonista spiega gli antefatti a una situazione tanto orripilante. Tre anni prima, quando il dottor Morgan viveva felice con la moglie Virge e la figlia, una grande pestilenza ha sconvolto l'Europa, giungendo presto in America ed estendendosi su tutto i pianeta. Il morbo ha mietuto un immenso raccolto di morte, ma presto si è capito che qualcosa non quadrava. Le autorità proibivano la sepoltura dei cadaveri, raccogliendoli per cremarli in roghi indifferenziati. Il assistente del protagonista, Sam Cortman, ha sospettato che questa misura nascesse dalla necessità di impedire ai morti di ritornare in vita. Il dottor Morgan, pieno di alterigia e di dogmi illuministi, irrideva e scherniva le teorie di Cortman, ritenendole superstizioni. Presto si è dovuto ricredere. Morta la sua adorata moglie Virge, l'ha nascosta alle autorità per seppellirla: la donna si è destata dal sepolcro ritornando a casa, come tipico dei vampiri detti Vurdalak. Il flashback finisce a questo punto. Sembra l'ennesima giornata assolata e canicolare, ma avviene qualcosa di inatteso. Morgan si imbatte in un cagnolino e pensa che la povera bestiola potrà alleviargli la solitudine. Così conduce il nuovo amico a casa. Gli analizza il sangue e i risultati provano che è infettato dal patogeno del vampirismo. Così lo elimina impalandolo, quindi lo seppellisce. A questo punto si fa viva una donna. Sopporta la luce del sole, è agile e scattante: la prima cosa che viene in mente al dottore è che possa trattarsi di un'altra superstite alla pandemia, immune al morbo. Le sue speranze sono destinate ad infrangersi, come già nel caso del cagnolino. La donna, il cui nome è Ruth, è infetta dal patogeno vampirico, come le creature uccise quotidianamente da Morgan; tuttavia fa parte di una comunità che ha imparato a usare un vaccino per tenere sotto controllo gli effetti della terribile malattia. Molto meno tolleranti di Ruth, i suoi compagni si organizzano per tendere un'imboscata al cacciatore di vampiri, riuscendo infine a trafiggerlo con una lancia, proprio sull'altare di una chiesa in cui si era rifugiato. Col suo estremo respiro, il moribondo li chiama "mostri", affermando di essere l'ultimo uomo della Terra. Una morte altamente simbolica, come le parole che consacrano la trasformazione del defunto in qualcosa di eterno, di indistruttibile. Un uomo di carne e di ossa può essere ucciso, ma chi potrà mai nulla contro un'idea?

 

Recensione: 
Una notevole bizzarria di questo film è che non si riesce bene a determinare l'identità del suo regista. Con ogni probabilità è corretta l'attribuzione a Ubaldo Ragona; tuttavia non si può nascondere che nella versione americana si specifica che il regista sarebbe invece Sidney Salkow. A quanto pare il regista cambia a seconda delle fonti, fermo restando che Ragona e Salkow sono due persone esistenti e tra loro diverse: non si tratta di un problema di pseudonimi. Pur districandomi assai a fatica nell'immensa supergalassia dei registi, direi, così a pelle, che il film sia da attribuirsi a Ragona: l'idea che sia di Salkow mi ispira un'istintiva ripugnanza. Eppure sono in molti a incarognirsi e ad attribuire il film a Salkow. Vedremo se in futuro saremo in grado di trovare prove che permettano di dirimere la questione una volta per tutte. In ogni caso, chiunque sia il regista, è sicuramente un genio. Le sequenze in bianco e nero trasmettono allo spettatore la più spettrale desolazione di un pianeta che ha subìto morte ontologica. La città un tempo brulicante di vita, ora è ridotta a un ammasso di blocchi di cemento bruciati dal sole che irradia una luce sinistra e mortifera. Le strade polverose, in mezzo alle macerie, sono costellate di corpi senza vita. La disperazione è diventata una proprietà materica, qualcosa che trasuda da ogni singolo atomo. Tutto ciò è sublime. Peccato che il pubblico all'epoca non abbia apprezzato tutto ciò. 

Punti di vista

Il perno attorno a cui ruota l'intera narrazione è ereditato dal romanzo di Matheson da cui il film in analisi è stato tratto: il famoso Io sono leggenda (I Am Legend, 1954). Fin dal Dracula di Bram Stoker e dal Nosferatu di Murnau tutto sembrava lineare, col vampiro che per necessità è un mostro, una deleteria anomalia nata dalla perturbazione delle leggi di Natura. In quanto aberrazione biologica e metafisica, il vampiro è per necessità solo, o comunque parte di una minoranza assolutamente esigua. Non si tiene in alcun conto la legge di propagazione del vampirismo, che - date le modalità di trasmissione del contagio - porterebbe presto il genere umano alla catastrofe: in genere il non-spirato viene neutralizzato, in modo molto conveniente, per la tranquillità di tutti, così non gli è lecito diffondere il contagio del suo peculiare modo di essere.  Persino nel mondo dell'umorismo da animule leggerelle, questa è la norma. Seguono questo canovaccio anche commedie come Amore al primo morso (Stan Dragoti, 1979) - in cui Dracula viene a trovarsi a New York e sposa una splendida modella. Prendiamo poi Un lupo mannaro americano a Londra (John Landis, 1981), ritenuto horror, ma a parer mio più che altro grottesco: l'ontologia in fin dei conti è la stessa. Licantropo o succhiatore di sangue, non c'è differenza. È un mostro immerso nella folla. Il romanzo di Matheson nega alla radice questa inveterata tradizione, cercando di innestare nella Noosfera un nuovo paradigma vampirico. Cambia il concetto stesso di teratogenesi. Come sarebbe visto un essere umano se fosse il solo superstite in un mondo di vampiri simili a zombie? Semplice: sarebbe lui il mostro. 

Un ecosistema vampirico 

La voce del dottor Morgan chiarisce subito, all'inizio della narrazione, un punto cruciale. In un mondo di vampiri, come avviene l'alimentazione? Tradizione vuole che il vampiro, non-morto per eccellenza, si nutra col sangue dei vivi, vampirizzandoli al contempo tramite un meccanismo simile all'infezione. Se vogliamo tagliare con la formulazione canonica del mito vampiresco, facendo del non-morto la normalità e dell'umano l'aberrazione, siamo costretti a ridefinire l'intero ciclo biologico! Se i vampiri non trovano esseri umani a cui succhiare il sangue, deperiscono fino alla morte. Pochi sanno che il vampiro, in caso di necessità, è in grado di sostentarsi anche con altri fluidi corporei, come lo sperma, ma il problema così non si risolve. Ecco le parole del dottor Morgan, intento a compiere la sua usuale perlustrazione mattutina dei dintorni di casa:

"Già. Sono padrone del mondo. Un mondo vuoto e silenzioso. E ancora tanti da bruciare... Ogni giorno di più. Si nutrono col sangue dei più deboli, e lasciano a me i loro corpi per il rogo."

Quindi si è instaurata una catena alimentare in cui vampiro mangia vampiro. Il motore del meccanismo di sopravvivenza è puramente darwinista: chi è meno adatto viene predato e soccombe. Chi perisce in questo modo, è morto per sempre, non resuscita più, proprio come coloro che sono infilzati dai paletti. Un'idea senza dubbio rivoluzionaria. Il dottor Morgan è rimasto indenne alla pandemia di vampirismo per un caso fortuito, forse perché da giovane era stato morso da un pipistrello ematofago a Panama, ricevendo così l'immunità. Essendo la sua condizione assolutamente unica, egli ha un solo destino possibile: l'Estinzione. Non può trasmettere il proprio genoma a un nascituro. Il genere umano non è comunque interamente destinato alla zombificazione: come abbiamo visto, alcuni hanno trovato il modo, tramite un vaccino, di evitare le caratteristiche meno desiderabili della condizione di non-spirati, mantenendo l'intelligenza e l'agilità. Possedendo un'organizzazione sociale, questi mezzi-vampiri possono aspirare a diventare la nuova specie dominante del pianeta. Il solo ostacolo sul loro cammino è proprio Morgan, che infatti viene abbattuto. Queste sono le inquietanti parole che Matheson attribuisce al Superstite della specie umana:

"Il cerchio si chiude. Un nuovo terrore nasce nella morte, una nuova superstizione penetra nell'inespugnabile fortezza dell'eternità. Io sono leggenda".

Il film e il romanzo

Non esistono film che traspongono alla perfezione la fonte scritta da cui sono stati tratti. Non se ne può trovare nemmeno uno in tutta la storia della Settima Arte. Su questo non posso nutrire il benché minimo dubbio. In genere, le pellicole tratte dai romanzi destano le più grandi perplessità da parte degli autori di questi ultimi. È proprio il caso di Matheson, che rimase soltanto in parte soddisfatto dell'opera di Ragona/Salkow. Così scelse, avendo poco fegato e non volendo esporsi, di essere accreditato con uno pseudonimo cui fa difetto ogni originalità: Logan Swanson. Tanto non ha senso nascondersi dietro un dito: se ancora fa discutere chi abbia diretto il film, l'identità di Swanson è certa e riportata ovunque nel Web. Sussistono differenze tra il romanzo e il film, seppur di lieve entità. Il protagonista di I Am Legend si chiama Robert Neville, non Morgan; non è uno scienziato ma un semplice autodidatta con grandi competenze soprattutto nell'etilismo. La pandemia descritta da Matheson è causata da un fantomatico vibrione denominato "vampiris", per cui non si trova cura alcuna: non è presente il pur imperfetto vaccino introdotto a un certo punto nel film. I vampiri nel romanzo sono agili e capaci di arrampicarsi, non hanno alcuna somiglianza con gli zombie. Il finale sembra divergere: Matheson fa morire Neville con una pastiglia letale datagli da Ruth, mentre Morgan viene premiato con una morte che gli merita l'ingresso nel Valhalla. A sentire Valerio Evangelisti (quello dell'orrido Eymerich), The Last Man on Earth sarebbe comunque il film tratto da I Am Legend più vicino alla fonte scritta. Non ho ragione di dubitarne, in ogni caso mi riserverò di approfondire l'argomento quando avrò letto e recensito l'opera di Matheson. 

L'Urbe desolata! 

Il film fu girato a Roma, in particolare nel quartiere EUR. In qualche modo si è trattato di un segno portentoso, funesto e profetico, che non sarebbe sfuggito agli Aruspici dell'Etruria: sono convinto che i politicanti abbiano fatto e facciano tuttora moltissimo per ridurre Roma come la città fantasma in cui Morgan si aggira a impalare corpi di vampiri!