sabato 15 novembre 2014

 

FANTASCIENZA OTTIMISTA?
NO GRAZIE!  

Non soltanto la fantascienza è ritenuta pornografia da una parte consistente della popolazione, ma addirittura c'è chi le attribuisce tutti i mali del mondo. Nel III Reich era diffuso un meme: "Qualcosa va male? È colpa degli ebrei!" Adesso invece si dice: "Qualcosa va male? È colpa della fantascienza!" La fantascienza è considerata non di rado come un capro espiatorio, un agente demoniaco a cui gettare addosso miliardi di croci, una per ogni abitante del pianeta. 

A cosa si deve questa reazione furibonda delle masse acefale? In particolare ad essere oggetto di scandalo sono le visioni distopiche tipiche del genere letterario in questione. Una diffusa superstizione vuole che si debba essere sempre allegri e giulivi, perché ogni atteggiamento "negativo" avrebbe il potere di far precipitare gli eventi. In altre parole, gli autori di fantascienza distopica sono ritenuti iettatori. 

Esiste lo Stato Islamico che compie massacri e decapita ostaggi? Ecco che i farisei urlano: "È colpa della fantascienza, è colpa della distopia!" Descrivendo il Male, la Science Fiction ha acquisito il potere di renderlo reale. Si direbbe che il contagio del virus Ebola si sia materializzato a causa di qualche incauto scrittore pessimista. Sarebbe un grave errore sottovalutare questi malumori: oggi la gente borbotta, domani potrebbe scatenare pogrom. Ogni Pollyanna è un demonio travestito da agnellino, che sotto un tenero musetto nasconde una dentatura ferina e una insaziabile brama di sangue.   

L'amico Marco Passarello aka Vanamonde ha scritto un interessante articolo su Repubblica sull'argomento: "La nuova fantascienza ora vede un futuro migliore". Questo articolo non è facile a reperirsi nel Web, ma nel blog Variabili futuribili esiste modo di scaricarlo in forma sintetica: 


Se ne parla anche nel blog del carissimo Giovanni De Matteo aka X, che è tra i fondatori del Connettivismo, in un post del suo blog Holonomikon intitolato "Geroglifici sul futuro"


Nel suo articolo Passarello espone tra le altre cose le idee dello scrittore pollyannaista Neal Stephenson: 

"Secondo l'autore di Cryptonomicon, Anathem, Gioco Mortale, la svolta distopica della fantascienza è in parte responsabile del declino dei programmi spaziali e dell'assenza di una visione ispiratrice per il futuro." 

Un altro futile pollyannaista, Robert Sawyer, aggiunge addirittura: 

"Mi sforzo di ritrarre un mondo migliore del nostro, e plaudo a chi fa la stessa cosa. Per tradizione la fantascienza è un ammonimento verso il futuro, ma questo aspetto una volta era temperato dal desiderio di scegliere un domani più luminoso, non più oscuro. L'idea di un inevitabile crollo della società, in mancanza di un ideale positivo per cui lottare, diventa una profezia che si autoavvera." 

Come se il futuro fosse qualcosa che si può scegliere. Dio ci scampi dagli ideali positivi, che producono più danni della peste polmonare e del cancro! L'ottimismo tecnologico si fonda sulla ridicola idea di una tecnologia capace di migliorare la natura umana. Come confutazione basta un esempio. Il dottor Mengele poteva disporre di una tecnologia più avanzata di quella del Neolitico, cosa che non gli ha impedito di coltivare indicibili perversioni sadiche. 

Il britannico Richard Morgan, autore di fantascienza distopica, esprime opinioni che condivido appieno: 

"Il direttore del progetto, Ed Finn, dice che "se vogliamo un futuro migliore, dobbiamo avere sogni migliori", ma dove sono le prove? Anche se la fantascienza distopica esiste almeno dagli anni Settanta, il progresso scientifico non sembra aver rallentato, anzi, progredisce a velocità quasi esponenziale. Ciò che mi irrita di più in Hieroglyph", prosegue Morgan, "è il presupposto fallace che esista un legame tra buona tecnologia e buona società. Non è così. Abbiamo già la tecnologia per eliminare la fame nel mondo, ma non lo abbiamo fatto. Non è la mancanza di tecnologia a tenerci lontani da un futuro migliore, ma la psiche umana. Vedo l'economia neoliberale distruggere la sanità pubblica, abbassare i salari, finanziare guerre illegali, e dovrei sentire il bisogno di scrivere storie allegre su come la tecnologia del futuro ci salverà? Non credo proprio!"" 

Vale quanto detto dal filosofo Immanuel Kant: "Da un legno così storto come quello di cui è fatto l'uomo, non si può costruire nulla di perfettamente dritto". 

Non trovo condivisibile l'idea che un'utopia sia necessariamente nascosta in nuce nella distopia, espressa in queste righe dell'articolo completo (riportato da X su Holonomikon): 

"Non dimentichiamo che William Gibson iniziò a presentarci [il cyberspazio] in storie oppresse da una pesante cappa di pessimismo. Eppure la tecnologia e l’uso che ne faceva la strada venivano presentate come risorse nelle mani dei preteriti, degli ultimi, dei reietti relegati ai margini della società, sottolineandone in tal modo la natura di arma a doppio taglio. È come se ogni distopia racchiudesse in sé, opportunamente camuffato, il seme di un’utopia." 

L'idea che uno scrittore debba dimostrare qualcosa di socialmente impegnato o lottare per migliorare il mondo è un grave pregiudizio che vizia ogni ragionamento. Ci si domanda in base a quale moralismo questo dovrebbe accadere, e perché non possano esistere autori il cui fine sia invece quello di destrutturare e annientare il mondo stesso. Senza tener conto che a volte le opere di un autore diventano indipendenti da lui e dalle sue intenzioni, come se fossero dettate da uno spiritello e prendessero corpo sotto la spinta di qualcosa di incomprensibile. 

A parer mio non si può parlare di una "svolta distopica". Un certo grado di pessimismo è connaturato alla fantascienza degna di questo nome. Senza che ci sia almeno il prospettarsi di una catastrofe, non si costruisce nulla di sensato. Lo stesso Isaac Asimov si è divertito a costruire un Impero Galattico per poi contemplarne il lento sfacelo sul modello della decadenza dell'Impero Romano. Nella letteratura fantascientifica sono riflessi i tempi in cui gli scrittori operano. Si può così capire perché in un'epoca tanto degradata da essere peggiore dell'Impero di Gallieno, appaiano in gran numero autori la cui visione del mondo è cupissima. Invece i pollyannaisti scrivono in preda alle allucinazioni. Se qualcuno crede che l'universo sia fatto di marzapane e che sia il paradiso dei Teletubbies, non ha alcun diritto di voler imporre le sue percezioni distorte a coloro che proiettano nel futuro la mostruosità del presente. 

domenica 9 novembre 2014

LA FANTAFISICA O L'ILLUSIONE DEL DEPURATORE MAGICO

Appurato che qualcuno diffonde notizie realistiche quanto allarmanti sulla situazione dell'impianto nucleare collassato di Fukushima - tratte dal benemerito sito ENENews.com - il Regime è stato colto dalla paura che la gente potesse allarmarsi. In pratica si stanno cagando in mano. Visto che nemmeno una lunga teoria di culi e di tette potrebbe bastare a narcotizzare le masse acefale, è stato concepito un articolo, pubblicato sul Corriere e riproposto a più riprese in numerosi siti del Web. Il titolo trionfale è "Con Wow anche l’acqua radioattiva torna pura: una scoperta italiana"

Eccone alcuni estratti particolarmente significativi: 

"A vederla da vicino nessuno direbbe che questa è l’invenzione del secolo. Sembra un grosso scaldabagno circondato da tubi di acciaio, e invece è la prima macchina al mondo capace di trasformare liquami radioattivi e rifiuti di ogni tipo in acqua purissima, senza utilizzare nessun filtro e con una bassissima produzione di scorie."  

"Adesso qui a Saluggia, nell’area in cui si trova il supersorvegliato deposito di scorie nucleari Avogadro, è in corso l’ultima fase della sperimentazione. Wow ,che tecnicamente è un separatore di molecole, è stato costruito in versione più grande e dal 23 settembre sta trasformando in acqua purissima 45 mila litri di liquidi radioattivi conservati in due cisterne. Quando, il 5 dicembre, avrà completato il suo lavoro, di tutto quel liquido contaminato resteranno solo dieci litri di concentrato insoluto. Sarà questa la prova più tangibile delle enormi possibilità della macchina, in moltissimi campi, a partire proprio dal nucleare. "

"«In laboratorio», dice Marin, «è stata simulata una contaminazione 6 mila volte più grande di quella dell’acqua usata per raffreddare i reattori dopo l’incidente di Fukushima e il risultato è stato anche qui strabiliante, con un abbattimento della concentrazione di cesio nei liquidi trattati di 7.500 volte». Non per niente l’ingegnere padovano è stato chiamato a Tokyo per illustrare il funzionamento della sua macchina. A Fukushima il trattamento delle acque radioattive produce ogni mese una quantità di fanghi che occupa l’area di un campo di calcio. «Con Wow», spiega Marin, «tale volume potrebbe essere ridotto a quello di una lavatrice». Ma le possibili applicazioni sono infinite: l’acqua delle fogne diventerebbe purissima, così come gli scarichi industriali e agricoli, una centrale nucleare potrebbe essere interamente smantellata con stoccaggi (e costi) infinitamente ridotti, migliaia di siti inquinati potrebbero essere bonificati. E il sogno di un pianeta più pulito potrebbe finalmente realizzarsi."  

Le informazioni diffuse nel Web sull'argomento sono dettate da necessità ideologiche. In altre parole, esse sono il parto del Tradimento dei Chierici e di una tirannia orwelliana, visto che sono meno scientifiche degli insegnamenti di Paracelso. Sono state costruite ad hoc per convincere persone che non hanno la benché minima idea della natura dei radionuclidi e della contaminazione radioattiva. 

Andiamo con ordine. Si afferma che "si tratta di una macchina capace di trasformare liquami radioattivi e rifiuti di tutti i tipi in acqua purissima"

Se si intende questa frase come "la macchina trasforma gli atomi degli elementi radioattivi e le molecole contaminanti operando la loro trasformazione in acqua (H2O)", questo contenuto è palesemente falso in quanto contrario alle leggi della fisica. 

Solo per fare un esempio, non è possibile trasformare un radionuclide come il Cesio-137 o il Plutonio-239 in acqua purissima tramite una macchinetta per il semplice fatto che la Natura non funziona così: l'unico modo di farlo sarebbe la magia di Harry Potter. Peccato che si tratti di una ridicola favola per bambini priva di attinenza con la dura realtà dei fatti.  

Immaginiamo invece che la frase non debba intendersi alla lettera, e che debba leggersi come "la macchina separa l'acqua da ogni contaminante, radioattivo o meno, e la rende pura a un livello mai visto prima"

Siccome i contaminanti non possono scomparire nel nulla, si deve intendere che il prodigioso marchingegno dopo averli separati in qualche modo dall'acqua li convogli da qualche altra parte, ottenendone così scorie concentratissime. 

Tuttavia si parla di "costo ambientale contenuto", aggiungendo che "la produzione di scorie durante il processo è bassissima". Non è possibile avere un sistema che concentra ogni contaminante depurando l'acqua e al contempo avere una bassissima produzione di scorie. Probabilmente i giornalisti equivocano sul significato della parola "bassissimo" e non capiscono che un kg di paglia pesa come un kg di piombo. Così sono contenti come fanciullini nel sentire parlare di volumi limitati di scorie prodotte.   

Vediamo di chiarire meglio il concetto. Se Fukushima produce ogni mese "una quantità di fanghi che occupa l’area di un campo di calcio", ecco che la macchina prodigiosa ridurrebbe tale volume, che potrebbe diventare "quello di una lavatrice". Il punto è che in questo volume di lavatrice si troverebbero ineluttabilmente tutti i radionuclidi che erano presenti nell'area di un campo di calcio. Così si potrebbero soltanto ottenere fusti di scorie pericolosissime e di una concentrazione mai vista, tanto che si avrebbe paura anche solo a guardarli. Così in dieci litri di concentrato insoluto devono per necessità essere presenti tutti i radionuclidi contenuti nei 45.000 litri di reflui trattati. Questo nella pietosa assunzione che il "sistema miracoloso" funzioni davvero.  

Resta poi un dettaglio non trascurabile. L'impianto di Fukushima non è una scatola di cemento armato con una fessurina che perde, nella quale potrebbe essere impiantato un rubinetto collegato al depuratore. I noccioli di diversi reattori hanno subito meltdown, la falda freatica è stata raggiunta, ingenti flussi di acqua contaminata scorrono nel sottosuolo riversandosi nell'oceano. Questo stillicidio non conosce un solo istante di sosta. Giova ricordare che non si tratta dello sversamento di caffè: i radionuclidi si concentrano negli organismi marini, dando origine a una contaminazione su scala mai vista. Cosa intendono fare con la macchinetta magica? Passare tutta l'acqua del Pacifico nel colino? Buona fortuna. 

Questa è la realtà dei fatti, nuda e cruda, quale consegue dallo studio della fisica. Tutto il resto è solo una stoltissima favola, come quella della fusione fredda.  

ALCUNE NOTE SULLA PRONUNCIA DI COLERIDGE

Come deve essere pronunciato il cognome del celebre poeta Samuel Taylor Coleridge? In Italia si sente una pronuncia trisillabica Co-le-ridge, come se fosse scritto *Collar-ridge, con la vocale tonica -o- breve ed aperta (/ɔ/). Alcuni sostengono che questa pronuncia sia errata e che si debba pronunciare come un bisillabo Cole-ridge, come se fosse scritto *Coal-ridge, con dittongo sfuggente -ou- (/əŭ/). Io stesso pronunciavo il cognome come un trisillabo, e l'ho poi corretto in bisillabo. Con mio grande stupore sono poi venuto a sapere che gli stessi anglosassoni hanno la medesima confusione, e che anche tra loro vige una grande incertezza. Vi sono addirittura due pronunce trisillabiche, *Coaler-ridge e *Collar-ridge, e una bisillabica, *Coal-ridge. Le forme trisillabiche sono utilizzate persino da professori universitari. Qual è la pronuncia corretta? 

Dallo stesso Coleridge abbiamo queste evidenze contraddittorie: 

1) Parry seeks the Polar Ridge,
Rhymes seek S. T. Coleridge.
(Written in an Album)

2) Could you stand upon Skiddaw, you would not from its whole ridge
See a man who so loves you as your fond S. T. Coleridge.
(Metrical Feet. Lesson for a Boy)

3) Elsewhere in College, knowledge, wit and scholarage
To friends and public known, as S. T. Coleridge.
(Notes on Field on the Church)

Sembra così che egli pronunciasse *Coal-ridge, *Coaler-ridge o *Collar-ridge a seconda delle necessità metriche, in due casi con il dittongo sfuggente -ou- come in polar e in whole, e in uno con la vocale breve e aperta -o- come in scholarage

Tutto ciò ha davvero dell'incredibile. Eppure esisteranno ancora oggi famiglie inglesi con questo cognome. Resta il fatto che nei paesi anglosassoni ogni famiglia ha un suo modo di pronunciare il proprio cognome: non è impossibile che cognomi che si scrivono allo stesso modo siano pronunciati in modo dissimile da famiglie diverse. Una gran confusione. Possibile che non si riesca a venirne a capo? 

Per risolvere la spinosa questione, mi appoggio a una nota presente nel libro Notes & Queries di William White (pagg. 136-137), consultabile in Google Books. La riporto qui per intero:  

PRONUNCIATION OF COLERIDGE (2nd S. xi. 69) - J.H. asks, "What is the correct pronunciation of the name Coleridge?" and, after showing that S.T. Coleridge made his name to rhyme with "scholarage," says, - "Here we have the highest authority for a trisyllabic pronunciation." But with this reasoning I cannot quite agree. "Coleridge" is a word which does not exactly rhyme with any other; and in the passage above cited, S. T. C. was exerting his ingenuity to make something like a rhyme to his name. There is another couplet by him, which might have been quoted as authority for a slightly modified trisyllabic pronunciatione; but here, in like manner, the writer was only trying, by stretching a point, to make a forced rhyme, which perhaps he had been defied to produce.   

"Parry seeks the polar ridge,
Rhymes seeks S.T. Coleridge."  
 

What J. H. wishes to know, I presume, is this: If S. T. C. had been asked his name, what would he have said? Cole-ridge, Cŏl-er-idge (scholarage) or Cō-ler-idge (polar ridge)? A gentleman, who was perhaps more intimate with S. T. Coleridge than any one now living, informs me that, in ordinary conversation, the poet would certainly have called himself Cōle-ridge, and would so have pronounced the word, if he had been officially asked to give his name. My informant never heard the word pronounced as a trisyllable, either by Coleridge himself or by his friends.
JAYDEE  
 

If the evidence of a Bristolian may be considered of any weight, I can attest that the poet's name has always been pronounced by those who knew him intimately at Bristol, Cōleridge (Coalridge.) I can speak from a knowledge extending back to upwards of threescore years. My father was his intimate friend, and received from him a copy of his first published poems. I was perfectly familiar whit all about him, and never heard him called otherwise than above stated.
F. C. H. 

sabato 8 novembre 2014

IL MISTERO DEL PIPPOLOGIO

Nella città di Seregno alcuni pasticcieri producono in occasione dell'Epifania un pane dolce di forma fallica, che dal volgo è chiamato pippologio. Non ho trovato alcuna documentazione in rete di questa usanza, e sono incerto sull'etimologia dello strano nome - che non va confuso con neologismi come pippologo e pippologico, riferiti a masturbazioni mentali (da pippa). 

Il nome del dolciume è chiaramente un composto di pippo, termine colloquiale deonomastico che indica il membro virile e quindi una persona idiota. La seconda parte è invece oscura. Forse si tratta di una creazione arbitraria per far sembrare il nome una forma dotta (calcata su orologio?). 

Le alternative non sono numerose. Mi è venuto in mente che potrebbe essere un'abbreviazione di un ipotetico "pippo logico", ossia "membro virile dotato di parola", pronunciato *pippologi(h)o da un altrettanto ipotetico pasticciere toscano migrato in Brianza. In tal caso, sarebbe un prestito da una forma affetta da gorgia - anche se non mi risulta che una locuzione di questo genere sia usata in Toscana. L'unico altro suggerimento mi è stato dato dall'amico Watt, che ipotizzava una contrazione da un originario *pippo-elogio, ossia "elogio del pippo". Resto però dubbioso: non mi risultano formazioni analoghe, contrarie al modo di creare composti in italiano.  

La parola mi è stata riferita da più fonti. In un'occasione mi è stato precisato che si tratta di un termine dialettale, che sarebbe stato quindi italianizzato nella forma. Non sono tuttavia riuscito a capire da quale vocabolo lombardo il termine pippologio sia stato ricavato per adattamento. Infatti dalla fonetica sembra appartenere a un dialetto lombardo così come pizza sembra un termine anglosassone.  

Il pippologio è fatto di pasta brioche e ha la forma di un pene eretto con testicoli ben formati. La glassa posta sulla sua sommità rappresenta lo sperma con crudo realismo. Dall'asta si protende un braccino che regge un piccolo cestello con dentro alcune caramelle. La cosa è molto inconsueta, essendo la Brianza legata a forme di rancido clericalismo e poco amante di qualsiasi menzione di cose ritenute sconvenienti. Del resto, messe di fronte alla natura fallica del dolce, non poche persone hanno negato ogni accostamento sessuale, dicendo che rappresenterebbe un semplice pupazzo. 

Non sono riuscito a sapere se si tratta di una tradizione inveterata o di un'usanza recente, e neppure se sia diffusa in altri paesi lombardi o di altre parti d'Italia. Posso soltanto dire che alcuni miei amici che abitano ad Albiate, a poca distanza da Seregno, non hanno mai saputo nulla di questo dolciume e si sono sorpresi non poco quando lo hanno visto per la prima volta. La domanda è aperta a tutti. C'è qualcuno che ha un'idea sulla sua origine? 

PRECISAZIONI E DUBBI SULL'ETIMOLOGIA DI MONZA

Questo ha scritto l'amico Watt sul suo blog Etymos, purtroppo scomparso assieme a Splinder:

Monza - La tradizione vuole che sia stata fondata da Teodolinda, la quale, avuta a Pavia la visione di una colomba che le comandò di fabbricare una chiesa nel luogo che essa le avrebbe indicato, in tre successivi luoghi, fra cui Milano e Sesto, si vide apparire la colomba che la indusse a proseguire, dicendole tre volte "etiam!" 'ancora!'. Giunta nel luogo ove poi sorse Monza, la colomba disse "modo", cioè 'ora sì'. La leggenda, illustrata nei dipinti della cappella di Teodolinda a Monza, offre anche un'interpretazione del toponimo che, tra le forme storiche, presenta anche la variante "Modoctia"*. Non è questa l'unica congettura proposta in passato dagli eruditi. Si può ricordare anche un accostamento a monte, al latino modica (curtis), e in particolare al toponimo tedesco Magonza, l'antica Maguntia; di ritorno da questo luogo, i legionari romani, al seguito di Druso, avrebbero fondato Monza sul sito di Modicia (una delle forme medievali di Monza), centro che sarebbe appartenuto ai Galli. Il nome della città è documentato dall'anno 768, poi 892 ecc. come Modicia, Moedicia, Moeditia, Moicia. Verosimilmente, la forma base dev'essere Modicia, con l'accento sulla prima sillaba, poi *Mo(d)cia, con successiva epentesi di n, mentre Modoetia, Modoecia sono rifacimenti eruditi. Quanto a Modicia, si tratta, molto probabilmente, di un personale latino Modicia. D'accordo per la vera etimologia; ma quanto è più bella, la leggenda! Tornerò presto, insieme al porco semilanuto!

* Verosimilmente un refuso per Modoetia.

Partendo da un mio stringato intervento dell'epoca, faccio qualche precisazione sull'origine di Monza. Le varianti Modicia, Moedicia, Moeditia, Modoetia sono tali da suggerire che l'etimo della parola non sia da un nome personale latino. Questo escamotage così caro agli studiosi di toponomastica va di certo ridimensionato. Anche la posizione dell'accento sulla prima sillaba confuta l'origine latina.

Ci è nota un'iscrizione frammentaria di epoca romana che fornisce una prova dell'antichità del toponimo, attestando che gli abitanti di Modicia erano chiamati Modiciates. Il testo è HERCVLI MODICIATES IOVENII, chiaramente una dedica ad Ercole da parte di membri della gioventù di Monza, scritta in un latino grossolano (notare Iovenii per Iuvenes). La formazione in -ates è tipica di molti nomi etnici celtici e preceltici: il suffisso si trova documentato in etnonimi dei Liguri (Genuates, Deciates, Ilvates), dei popoli alpini (Focunates, Nantuates, Catenates, Rucinates), di popoli italici (Arpinates, Capenates) e degli Etruschi (Felsinates, etc.). Modiciates elimina chiaramente l'ipotesi della Modica Curtis, così come l'accostamento a Maguntia. Chi ha prodotto tali proposte etimologice ignorava evidentemente non soltanto le testimonianze dell'epigrafia, ma anche l'opera dello storico longobardo Paolo Diacono, che cita espressamente Monza come Modicia

A proposito della leggenda di Teodolinda relativa alla fondazione di Monza, qualcuno ha tentato una manipolazione simile per Venezia, interpretata assurdamente come "veni etiam"! Racconti di questo genere sono risibili e sconcertanti, ma non bisogna stupirsi più di tanto, vista l'epoca in cui sono stati prodotti. La totale mancanza di nozioni linguistiche elementari e di metodo era la norma persino tra gli eruditi, che in non pochi casi piegavano l'evidenza all'ideologia. Sorvoliamo sul fatto la colomba avrebbe dovuto parlare in longobardo a Teodolinda - progenie di nobilissimi Letingi e di Bavari - e che non è detto che la sovrana avesse una qualche nozione della lingua latina. Se la storiella fosse vera, il nome sarebbe stato composto come un improbabile *Etiammodo, riportando la narrazione che prima la colomba avrebbe detto "etiam" per incitare la Regina dei Longobardi, e solo alla fine "modo" (un po' come un gioco infantile del tipo "acqua", "fuochino" e "fuoco"). Mi è capitato di leggere un'altra favola meritevole di irrisione e di scherno in un libro di racconti scritti in dialetto brianzolo: la fondazione di Monza era sempre attribuita a Teodolinda, ma non si faceva menzione della colomba. Nell'atto della consacrazione, il vescovo avrebbe detto "modo", e la Regina avrebbe risposto "etiam"

A questo punto non resta che cercare di capire da quale radice il toponimo Modicia e l'etnonimo Modiciates possano essere derivati. Il nome dello stanziamento potrebbe essere derivato da quello di una divinità femminile, a sua volta formato dall'indoeuropeo *med- / *mod- "misurare", che in ultima istanza si ritrova anche nel latino modus. Tuttavia non si può nascondere che gli esiti romanzi fanno piuttosto ricostruire una vocale lunga: la pronuncia originale sarà stata /'mo:dikia/. Anche le varianti col dittongo in prima sillaba (Moedicia, Moeditia) creano non pochi problemi. Pur con tutte le incertezze del caso, si potrebbe pensare al celtico *moudo- "nobile, buono", da cui deriva l'irlandese muadh

giovedì 6 novembre 2014

SEXUS E SECUS NON VENGONO DA SECARE

La più nota etimologia della parola latina sexus "sesso" (gen. sexus, IV decl.) è quella che la riconnette al verbo seco, secas, secavi, sectum, secare "tagliare, dividere", dalla radice indoeuropea *sek-. Questo perché il termine farebbe riferimento al genere, ossia alla differenza tra maschio e femmina. Così è postulato uno slittamento semantico da "taglio", "recisione" a "distinzione" e quindi a "genere, sesso". A mio avviso si tratta di un'etimologia popolare o falsa etimologia. 

Innanzitutto, la forma più antica della parola sexus è secus, che è indeclinabile. Un fatto abbastanza inconsueto. Si nota poi che da secare deriva il supino sectum, non *sexum. Tramite quale processo di derivazione sarebbe stata prodotta una forma con sibilante che non ha altre rispondenze? Appurate queste cose, sexus e secus sembrano prestiti da un'altra lingua, che dobbiamo identificare. Spiegare Omero servendosi di Omero non fa compiere un solo passo avanti in casi come questo.  

Quando una parola latina non ha connessioni attendibili con altre lingue indoeuropee, si può cercare un'origine nella lingua etrusca: i Rasna erano un popolo potente e stanziato in aree finitime a quelle dei Latini, e grande era in epoca antica la loro influenza su Roma. 

In etrusco esiste il gentilizio Secu (1), che potrebbe essere formato a partire dalla fonte del prestito. Questa radice etrusca *secu- potrebbe anche essere l'origine del problematico avverbio latino secussecius, sequius "male, non bene", che tra i suoi significati annovera anche quello di "altrimenti, diversamente, al contrario"

(1) Attestato ad es. in CIE 317 e CIE 318. Genitivo Secu-ś (CIE 319); femm. Secu-i (CIE 320). Sono noti anche derivati come Secu-n-ia (CIE 2916) e Secu-ne (CIE 1479)

In latino esiste una forma secius /se:kius/ con vocale lunga, sempre col senso di "altrimenti, diversamente". Ora, non mi pare plausibile ricondurre una simile alternanza tra vocale breve e lunga a una formazione ereditata. L'alternanza tra /sek(i)us/ e /se:kius/ deve avere la sua origine nella lingua da cui queste parole sono state prese a prestito. Generalmente si crede che la terminazione -ius in questi avverbi fosse in origine un comparativo, ma questo non è affatto provato. 

Altra forma con vocale lunga è setius /se:tius/. Questa variante non può essere semplicemente derivata da secius /se:kius/ quando le occlusive t e c seguite da -i- semiconsonante si sono confuse, perché è usata già da Virgilio. Ci viene in aiuto Plauto, che oltre a setius e a secius usa anche sectius. Evidentemente la forma di partenza è proprio sectius /se:ktius/. Anche questa fluttuazione appartiene alla lingua d'origine del prestito. 

Si è molto discusso sulla presenza in etrusco di una quantità vocalica contrastiva in posizione tonica. Quello che è certo è che vocali lunghe possono derivare da contrazione di dittonghi: una /e:/ lunga e chiusa, virante a /i:/ si è prodotta dal dittongo /ei/, a sua volta da /ai/. Non poche parole etrusche sono passate in latino con una vocale tonica lunga: ho il sospetto che i Romani tendessero a udire una vocale tonica etrusca come lunga e come tale la adattassero in numerose occasioni. Così /sek(w)ius//se:ktius/ sono stati formati dalla stessa radice, mutuata in occasioni diverse. 

Queste sono le forme etrusche ricostruite: 

*secu-
*secu-s-
*secu-ie-
*sec-ie-
*sec-t-ie-
*seχ-t-ie-
*seh-t-ie- 

Il significato originario di etrusco *secu- sarebbe quello di "altro, opposto, distinto", donde sarebbe derivato il gentilizio Secu, e quindi questa radice sarebbe passata in latino dando origine a secus "male; altrimenti" (e varianti), a secus "sesso, genere" e a sexus "sesso, genere". La semantica è abbastanza cristallina: "diverso" > "avverso" > "non buono" 

sabato 1 novembre 2014

UNO SPROPOSITO DI RINO CAMMILLERI SULL'ORIGINE DEI ROM

Rino Cammilleri ha scritto un'enormità: "Ma i bizantini chiamavano se stessi romàioi, cioè "romani", e rum (ancora "romani") gli islamici chiamavano gli occidentali (tracce ne troviamo anche oggi nella "Romania" e negli zingari rom)." 

Questa frase è stata reperita in rete: 


Quando l'ho letta non volevo crederci, tanto marchiano è un simile errore. A quanto pare Cammilleri non è a conoscenza di qualcosa che la Scienza ha appurato dalla fine del XVIII secolo, ossia l'origine indiana dei popoli conosciuti come "Zingari"

Il termine rom /rrom/, che significa "uomo" o "marito" (riferito solo a individui della stirpe), non deriva affatto dal nome della città di Roma come Cammilleri pretende, ma è un'estrema evoluzione dell'antico nome ḍumba che in India indicava un uomo della la classe dei musici. L'origine ultima di questo vocabolo non è conosciuta e sono state fatte diverse ipotesi, che non sembrano soddisfacenti. Secondo alcuni avrebbe un'origine onomatopeica richiamante il suono degli strumenti dei musicanti (sanscrito ḍamara-, ḍamaru- "tamburo"). In ultima analisi questa radice apparterrebbe a un sostrato del ceppo Dravida o di quello Munda, che doveva costituire la favella originaria di quelle genti nella loro patria ancestrale, prima dell'adozione di un idioma chiaramente indoario, dello stesso ceppo del sanscrito. Ancora oggi in India esistono intoccabili chiamati Ḍum, Ḍom o Ḍombari, e in diversi dialetti di popolazioni indoarie itineranti del Medio Oriente anziché rom si dice lom o dom, a riprova dell'etimologia riportata. 

La rotica presente nella radice /rrom-/ è forte in molte varietà della lingua, in altre è invece retroflessa o addirittura uvulare. Le parole con questa consonante hanno un suono retroflesso in sanscrito. Alcuni vorrebbero che questa consonante fosse trascritta sempre con rr e che si scrivesse così rrom anziché rom.  Il sig. Saimir Mile fa notare questo, riportando tra l'altro l'esempio di rani "signora" (la parola si usa tuttora in India col senso di "regina") che contrasta con rrani "ramo" (1). Il fatto che la rotica /r/ corrisponda in sanscrito a /r/ e che rom abbia invece /rr/ confuta quindi l'idea di coloro che cercano di connettere i Rom con il dio indiano Rama


(1) Essendo questo suono estraneo alla lingua italiana in posizione iniziale (e problematico in molte altre lingue), per semplicità non lo trascriverò con la consonante doppia, e ritengo eccessivo pretendere che lo si debba pronunciare tale quando la parola rom è usata in italiano. I prestiti vengono infatti adattati. Inoltre non in tutte le lingue di questo ceppo è pronunciano tale, ed esistono anche varianti che non distinguono le due rotiche.  

Il plurale di rom è romá (roma), il femminile è romní. L'aggettivo derivato è romanó (m.), romaní (f.), da cui deriva anche il nome della lingua, romani čhib. L'avverbio è romanes. La frase "džanes romanes?" significa "parli la lingua romaní?" (alla lettera "parli alla maniera romaní?"). L'aggettivo romaní indica tutte le genti del gruppo, e deve essere distinto dall'etnonimo da noi trascritto Rom (in altri paesi Roma), che indica una ben precisa etnia all'interno di questo raggruppamento. Il concetto è semplice: si chiamano Rom (Roma) quelli che usano la semplice radice in questione come endoetnico, mentre altri gruppi la usano come nome comune avendo però endoetnici diversi: Sinti, Kalé, Manush, Romanichal, Romanisæl. Tutti i gruppi sono consapevoli di parlare dialetti della stessa lingua, che chiamano romani čhib indipendentemente dall'endoetnico. 

Di fronte a queste evidenze, si capisce che la somiglianza fonetica tra l'etnonimo Rom e il toponimo Roma, è soltanto una mera coincidenza. Allo stesso modo non c'è relazione tra la parola rom e la Romania, per quanto nella loro deplorevole ignoranza i giornalisti abbiano ormai abituato l'opinione pubblica a considerare Rom sinonimo di Rumeni. Il fatto che in Romania i Rom siano numerosissimi non significa nulla: non sequitur

UN COMMENTO SULLA VITA DI SAN SENOCH

La breve Vita Sancti Senoch Abbatis di San Gregorio di Tours è una lettura deludente, avarissima di informazioni. Vi si tramanda il solo nome di Senoch e non si parla di nessun suo compagno della stessa etnia, né dei suoi genitori. Insomma, non è una fonte adatta allo studio dell'onomastica dei Taifali stanziati nel Poitou all'epoca dei Merovingi. Sapere qualcosa di più sul contesto d'origine di Senoch sarebbe a mio avviso infinitamente più importante dell'inutile descrizione delle sue quaresime e del rigore dei suoi costumi. Peccato che Gregorio di Tours avesse un punto di vista del tutto diverso da quello di un moderno studioso e che non si interessasse di questioni filologiche. 

L'assenza di una genealogia che aiuti a comprendere meglio il contesto è di certo deplorevole, ma dobbiamo trarne un'amara lezione: le fonti storiche non sono sufficienti ad assicurare un'approfondita conoscenza su molti argomenti. A differenza dei fossili, che mostrano la struttura mineralizzata di organismi da lungo tempo scomparsi, i documenti non ci tramandano le parlate vernacolari, non ci trasmettono un quadro vivo e palpitante della vita dell'epoca in cui sono stati scritti. Trovo necessario rivolgere un particolare biasimo a coloro che cadono nella fallacia logica, arrivando a credere che l'assenza di prove sia la prova dell'assenza. Costoro arrivano a ritenere che il latino ecclesiastico sia la sola lingua degna di considerazione, non pensano che i nomi delle persone debbano avere un'origine e non si pongono nemmeno la domanda più importante: "Come parlava la gente?" 

NON È COMPLOTTISMO, MA DURA REALTÀ

Ragionando sulle mie condizioni di salute, non posso fare a meno di giungere a conclusioni a dir poco inquietanti. Ebbene, secondo le nuove disposizioni, i diabetici non insulino-dipendenti ricevono le forniture di strisce e di aghi soltanto un mese sì e un mese no. Sono anch'io compreso nel novero. Il mio medico ha detto di non sapere il motivo di questo mutato stato di cose. Risulta da uno studio che in Italia sette diabetici su dieci non badano troppo alla dieta e ingeriscono spesso cibi e bevande in grado di arrecare danno alla salute. Sono anch'io affetto da una simile tendenza, e come me moltissimi altri. Alla luce di questi risultati, si capisce allora che le diminuite forniture di strisce hanno uno scopo ben preciso: spingere le persone affette da diabete II a curarsi sempre peggio, facendo loro sviluppare complicanze e infine causandone la morte. Il fine ultimo è questo: eliminare le persone che gravano sui servizi sanitari. Hanno iniziato con le persone affette da diabete II perché non sono tali dalla nascita (il genere la malattia compare verso i 40 anni). Così le ritengono responsabili della loro malattia a causa di "stili di vita non sostenibili". Il colmo dell'ironia è che tutto ciò sta avvenendo in una nazione che definisce il III Reich come "Incarnazione del Male" e che afferma di nutrire una profonda avversione per la parola "razzismo". Essendo il diabete II una malattia causata dai geni, si evince che queste politiche possono essere ritenute razziste in quanto volte allo sradicamento di quella parte della popolazione che ha una determinata caratteristica genetica. 

ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL CONCETTO DI MERITOCRAZIA

Un esempio di vero sistema meritocratico: la società degli Aztechi. Anche il figlio di un servo poteva arrivare a diventare Imperatore. Se il figlio di un Imperatore non si distingueva, scendeva nella scala sociale. Però si tenga conto che essere immolati a Huitzilopochtli per estirpazione del cuore era considerato un privilegio. Il motore di tutto era la convinzione che il moto del sole fosse causato dal sangue dei sacrifici umani. Le responsabilità erano onerose tanto più si saliva nella scala sociale: lo schiavo ubriaco veniva decalvato e messo alla gogna, il nobile ubriaco veniva ucciso usando una garrota dissimulata in una corona di fiori. Nelle scuole, chiamate calmecac e gestite dalla classe sacerdotale, il sistema educativo più diffuso consisteva nel torturare gli studenti negligenti con spine d'agave, schegge di ossidiana e peperoncino. Vorrei proprio sapere se qualche moderno teorico della meritocrazia vorrebbe vivere in una simile società, oppure se in giro per la rete si sentono soltanto chiacchiere. Le genti del mondo sembrano come scimmie: se si dice loro che una cosa si chiama "meritocrazia" la acclamano, se invece si chiama la stessa cosa "darwinismo sociale" si mettono ad inveire.