giovedì 18 giugno 2015

ALCUNE CONSIDERAZIONI SU UN INCANTESIMO ANTIEMORRAGICO IN USO TRA I LONGOBARDI

Analizziamo in questa sede l'incantesimo antiemorragico, cod. 5359 margine f. 30v, di cui già abbiamo accennato in precedenza. Trattasi di un testo in latino che non presenta alcuna parola in lingua germanica, come invece potrebbe far credere l'opera di Giovanna Princi Braccini (Vecchi e nuovi indizi sui tempi della morte della lingua dei Longobardi Studi in memoria di Giulia Caterina Mastrelli Anzilotti Firenze, Istituto di studi per l'Alto Adige 2001).

Giungo a questa conclusione: sospetto che la formula sia stata utilizzata impropriamente dalla stessa Princi Braccini come prova nel suo articolo per situare l'estinzione della lingua nel corso dell'VIII secolo, evidentemente a mo' di terminus ante quem. Nel riassunto dell'opera in questione si menziona il testo (che risale al IX-X secolo) in modo ambiguo:

"Sulla base dell'esame delle testimonianze e delle sopravvivenze linguistiche nell'Historia Langobardorum di Paolo Diacono, nel Chronicon Novaliciense, nell'incantesimo antiemorragico riportato a margine del f. 30v del ms. Vat. lat. 5359, nel Chronicon Salernitanum, nell'Elementarium di Papia e nell'Expositio ad Librum Papiensem, l'A. colloca la possibile data dell'estinzione della lingua longobarda tra i primi decenni e la fine dell'VIII secolo. (Roberto Gamberini)"

A questo punto riporto senza indugio il testo dell'incantesimo, finalmente ritrovato dopo una non facile ricerca nel Web:

Christus et sanctus Johannes ambelans ad flumen Jordane, dixit Christus ad sancto Johanne “restans flumen Jordane”. Commode restans flumen Jordane: sic res te venast* in homine it**. In nomine patris et filii et spiritus sancti. amen.

*Da leggersi vena ista
**Da leggersi in homine isto

Traduzione: 

Cristo e San Giovanni vanno al fiume Giordano, disse Cristo a San Giovanni: “fermati fiume Giordano”. Così come il fiume Giordano si fermò, così fermati vena. In questo uomo. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

Il punto è che questo incantesimo di per sé non prova assolutamente nulla. Si vede che non ha molto senso il suo uso ad opera della Princi Braccini nel suo articolo (tuttora irreperibile): formule interamente in latino come questa sono note in Germania e usate accanto a formule in antico alto tedesco o miste. Un testo in latino non ci dice nulla sulle reali condizioni della lingua longobarda all'epoca in cui fu scritto. Non è molto corretto affermare che esso contenga "testimonianze e sopravvivenze linguistiche", come menzionato nel famoso riassunto.

Inoltre si noteranno due cose di grande importanza:

1) Il latino nei secoli VIII-IX non era la lingua nativa di nessuno. Non è quindi possibile che i Longobardi lo avessero adottato come lingua parlata, come nel mondo scolastico è inveterata credenza;

2) Il latino era ritenuto una lingua prestigiosa. Era diffusa opinione tra i Germani cristiani che fosse la lingua di Dio: ad esempio Carlo Magno era molto preoccupato che una cattiva pronuncia delle preghiere potesse riuscire sgradita a Dio. Naturale quindi che tra i Longobardi una formula in latino fosse ritenuta dotata di grande potere magico.  

Riporto una mia traduzione dell'incantesimo nella lingua longobarda ricostruita:

CHRIST ANDI THER AILAGO IOHANNES GENGUN ZO IORDANE FLUTZE. QUAD CHRIST THEMO AILAGON IOHANNE: "IN STADI STAND IORDANIS FLUZ". SUASO IORDANIS FLUZ IN STADI STOD, SUA GUECT THIR THIU ADRA IN THISEMO MANNISCON. IN NAMON FADER ANDI SUNIES ANDI AILACHES CAISTES. AMEN.

Trascrizione fonemica (semplificata):

/'krist andi θer 'ailago jo:'annes 'ge:ngun tso: jor'da:ne 'fluttse 'khwad 'krist θɛmo 'ailagon jo:'anne - in 'stadi 'stand jor'da:nis 'fluts - 'swaso jor'da:nis 'fluts in 'stadi 'sto:d swa: 'gwɛkt θir θiu 'a:dra in 'θisemo 'manniskon in 'namon 'fader andi 'sunjes andi 'ailaxes 'kaistes 'amen/

Questo è un preciso parallelo, un testo alemanno del IX secolo: 

Ad fluxum sanguinis narium
Christ unde Iohan giengon zuo der Iordan. do sprach Christ:
“stant, Iordan, biz ih unde Iohan uber dih gegan”. also Iordan do stuont, so stant du .N. illivs bluot. hoc dicatur ter et singulis uicibus fiat nodus in crine hominis.

Traduzione:

Per il flusso del sangue dal naso. Cristo e Giovanni andarono al Giordano. Allora disse Cristo: “Fermati, Giordano, finché io e Giovanni ti avremo attraversato”. Come il Giordano si fermò, così fermati tu sangue di (Nome). Questo si dica per tre volte e ogni volta si faccia un nodo nei capelli della persona.

Sembra innegabile il rapporto della formula alemannica contro l'epistassi con l'incantesimo antiemorragico cod. 5359 margine f. 30v. Mi sembra il caso di far notare che l'uso pervasivo del latino negli incantesimi nell'antica Germania non esclude affatto il rigoglioso uso della lingua nativa, tanto che nelle stesse aree si parla tuttora una lingua germanica.

domenica 14 giugno 2015


SHOGUN MAYEDA

Titolo originale: Shogun Mayeda
aka: Shogun Warrior; Journey of Honor 
Lingua originale: giapponese e inglese
Paese di produzione: Giappone, Stati Uniti
  d'America
Anno: 1991
Durata: 107 min
Colore: colore
Audio: sonoro
Rapporto: 2,35 : 1
Genere: azione, avventura, drammatico
Regia: Gordon Hessler
Soggetto: Shô Kosugi, Nelson Gidding
Sceneggiatura: Nelson Gidding
Produttore: Ken Fujiyama, Benni Korzen,
  Shô Kosugi
Casa di produzione: Mayeda Productions, Sanyo
  Finance, Sho Kosugi Corporation, Sho Productions
Fotografia:
John J. Connor
Montaggio: Bill Butler
Musiche: John Scott
Scenografi: Vlastimir Gavrik
Interpreti e personaggi:
  Shô Kosugi: Daigoro Mayeda
  David Essex: Don Pedro
  Kane Kosugi: Yorimune
  Christopher Lee: King Philip
  Norman Lloyd: padre Vasco
  Ronald Pickup: capitano Crawford
  John Rhys-Davies: El Zaidan
  Polly Walker: Cecilia
  Dylan Kussman: Smitty
  Miwa Takada: Yadogimi
  Nijiko Kiyokawa: Counselor
  Toshirô Mifune: Lord Ieyasu
  Yuki Sugimura: Chiyo Mayeda
  Ken Sekiguchi: Ishikawa
  Naoto Shigemizu: Nakamura 

Trama (tradotta da IMDb):

Il Giappone del XVII secolo è diviso tra due forze: L'Esercito Orientale guidato da Tokugawa Ieyasu e l'Esercito Occidentale che lotta per il clan Toyotomi. Pur avendo vinto una recente battaglia, le cose vanno male all'Esercito Orientale. L'esercito di Toyotomi ha forniture di armi da fuoco, che possono rivesciare le sorti della guerra. Tokugawa Ieyasu manda il suo fidato samurai Mayeda e suo figlio Yorimune in Spagna per comperare 5000 moschetti. E' tuttavia un viaggio pericoloso, e ci sono molti che complottano contro di loro. Quando arrivano iin Spagna, nulla va come si aspettavano.  

Recensione:

Visto nella versione con i dialoghi in giapponese e in spagnolo. Film bello e piacevole, nonostante qualche riserva. Non poche scene mi appaiano un po' troppo rocambolesche e inverosimili. I poteri dei Samurai, come spesso accade, travalicano i confini con il soprannaturale. Dubito in ogni caso che far scaturire fiamme dalla lama di una spada nella Spagna dell'Inquisizione fosse uno sport molto salutare. Segnalo l'interpretazione di Toshiro Mifune nella parte di Tokugawa Ieyasu e di Christopher Lee nella parte del Re Filippo di Spagna - pur non essendo questi eccellenti attori centrali nel film. Notevole la scena di coprofagia, in cui il rampollo Yorimune, prigioniero in Marocco, è spinto dalla fame a mangiare del cibo contaminato dallo sterco e dall'orina di un asino. Eccessiva la dimestichezza con l'acqua di una dama spagnola dalle chiome bionde, concupita da Mayeda. Notevole il valore attribuito dal Sultano del Marocco alla parola data: penso che d'ora in poi non crederò a quanto promesso da un maomettano se non gli vedo una copia del Corano in mano. Che dire poi dell'arrogante Don Pedro? Insopportabile fin dalla sua comparsa, il nobile spagnolo finirà tagliato in due dalla katana del valoroso Mayeda o, come direbbe Dante, aperto dal mento in fin dove si trulla. Il voltagabbana Padre Vasco, che passa con disinvoltura dall'abito nero dei Gesuiti a quello bruno dei Francescani, è un personaggio tipico di un'epoca in cui i più virtuosi ecclesiastici erano assassini. La convulsa storia di quello che fu chiamato con qualche ragione il Secolo Cristiano del Giappone non è un soggetto facile, ma a volte si ha l'impressione che le cose siano state semplificate in modo eccessivo. Il finale mi sembra troppo precipitoso, non si assiste nemmeno al ritorno del samurai Mayeda e del figlio di Ieyasu in Giappone.

LA FRISLANDIA: UN'UTOPIA ONIROSTORIA

In occasione di un mio viaggio a Bergen, in Norvegia, acquistai la copia di una mappa del XVI secolo, che mi stupì non poco. Quella città anseatica è ricchissima di interessanti luoghi e di memorie, come ad esempio il lebbrosario, la cui parte pubblica è ora adibita a museo. Avremo modo di parlare delle meraviglie di Bergen in altra occasione. Tornando alla mappa, notai che riportava una grande isola chiamata Frisland, situata poco a sud dell'Islanda e di dimensioni ad essa confrontabili. La mappa era così dettagliata che si potevano scorgere i nomi dei porti e delle città di Frisland. Nella parte meridionale di quella terra misteriosa c'era ad esempio un centro abitato chiamato Sorando. La cosa stimolò la mia fantasia, e per anni mi sono chiesto quale fosse l'origine di quella bizzarria. Nella riproduzione di una mappa del secolo successivo al posto di Frisland erano riportati alcuni scogli, con la dizione Insula Frisland fabulosa vel submersa.  

Da dove nasce questo singolare mito? Converrete che è davvero strano che un'intera isola di tali dimensioni sia stata inventata dal nulla con tanto di dettagli geografici accurati e di toponomastica. Eppure è altrettanto incontrovertibile che Frisland non ha alcuna reale esistenza nel mondo in cui viviamo.

Nomi di centri abitati:

Andefort
Aqua
Banar (Bamar)

Bondendea portus (Bondendon) 
Cabaru (Caboru)
Campa
Doffais
Frislant
Godmec (Gramec)
Ocibar
Rane
Rouea (Rovea)
Sanestol
Sorando (Sorand) 
Venai
 

Nomi di promontori (C. sta per caput):

Aneses
C. Bouct (Bouet)  
C. Cunalar
C. Deria
C. Spagia (Spagnia)
 

Nomi di Golfi:

Golfa Norda
Sudero Golfo
 

Nomi di isole vicine a Frisland:

Duilo
Ibini (Ibim)
Ilofo (Ilofe)
Ledeuc (Ledovo)
Monaco
Portlanda (Porlanda, Podanda) 
Spirige
Streme
 

Come si può vedere, a prescindere da possibili corruzioni, questa toponomastica non è molto trasparente, anche se si possono ravvisare alcune radici germaniche come -stol, God-, -landa, -fort, Norda, Sudero, e persino un possibile prestito latino o romanzo, Port-, incorporato nel toponimo Portlanda. Il nome del centro abitato di Aqua ha l'aria di essere un falso amico. Il termine portus è latino, mentre golfo (con la variante golfa) viene dall'italiano: sono descrizioni che nulla hanno di nativo. Il resto non sembra avere alcuna somiglianza con il norreno. Ci sono stati tentativi di confrontare i toponimi frislandesi con nomi di città delle isole Fær Øer, ma i risultati della comparazione appaiono subito risibili: nella massima parte dei casi non sussiste nemmeno la parvenza di un'assonanza.

Nel tardo XVI secolo i cartografi davano per assodata la realtà della grande isola di Frisland (nota anche con le varianti Frislandia, Frislanda, Friesland, Frixland, Frischlant, etc.), e la cosa creò non poca confusione nei navigatori: in più occasioni gli esploratori scambiarono per Frisland le coste della Groenlandia e identificarono quest'ultima con l'isola di Baffin. Soltanto in seguito fu fatta chiarezza: nella seconda metà del XVII l'isola misteriosa scompare dalle mappe. Si può dire che siamo di fronte a un mito che ha creato gravi difficoltà e fraintendimenti.

Sbaglieremmo tuttavia se pensassimo che il fascino della Frislandia sia scomparso. Ancora oggi c'è chi fantastica su quella terra, ritenendola reale e sprofondata. In fondo il mito di Atlantide costituisce un modello ragionevole a cui ispirarsi. Ricordo nitidamente l'esistenza di un sito web ispirato a Frisland, i cui autori avevano costituito una specie di micronazione e si proclamavano gli eredi del popolo dell'isola scomparsa. Il loro assunto era semplice: Frisland si trovava a nord ovest dell'Irlanda, dove oggi si trovano fondali bassi molto estesi, che in effetti disegnano una sagoma assai simile a quella riportata sulle antiche mappe. Il fenomeno della subsidenza, unitamente a una serie di spaventosi maremoti avrebbero portato alla sommersione di quel regno un tempo florido, lasciando come uniche vestigia lo scoglio che al giorno d'oggi è chiamato Rockall. La casa regnante di Frisland sarebbe riuscita a fuggire e a rifugiarsi in Inghilterra, e i suoi eredi sarebbero proprio gli autori del sito web, che a quanto pare ha fatto la stessa fine della patria dei loro antenati. Questa è la descrizione in inglese, salvata da un backup e rimasta soltanto in alcuni siti come menzione:

FRISLAND. Kingdom of FRISLAND.

Rockall Island, United Kingdom. The Kingdom of Frisland, with a long and illustrious history stretching back many centuries, suffered severe flooding in the later Middle Ages until only a small area remained above water - the island of Rockall. This was unilaterally annexed by the United Kingdom on 10th February 1972, in defiance of international law. Exactly thirty years later the Senate and People of Frisland repudiated this annexation and declared independence from the UK. Sovereignty projects and governments-in-exile.

Il sito originale era molto più ampio e conteneva notizie pseudostoriche sul Regno di Frisland, descritto come pagano e parlante una lingua inclassificabile. All'epoca, interessato a questa creazione, avevo salvato una pagina con le genealogie dei suoi re, che deve essere sepolta nelle budella rugginose del mio vecchio computer e che non sono riuscito a recuperare. Ricordo che molti nomi erano formati a partire dalla radice PHOSI-. Invece ho ritrovato una lista delle Sacerdotesse della Terra e un elenco di nomi geografici.     

L'utopia di Frislandia si fonda in realtà sui viaggi realmente avvenuti di due navigatori veneziani, i fratelli Nicolò e Antonio Zeno, vissuti nel XIV secolo. Nicolò è nato nel 1340, di Antonio si ignora la data di nascita; entrambi sono morti nei primi anni del XV secolo. Nel 1558 Nicolò Zeno, un discendente del primo Nicolò, ha pubblicato una mappa assieme a diverse lettere a sua detta scritte dal suo avo, e tutto ciò che si è scritto su Frisland si fonda su questi documenti. Questo è ciò che è riportato sulla Wikipedia in inglese alla pagina sui Fratelli Zeno, che propongo qui tradotto in italiano:

Le lettere 

Le lettere sono divise in due parti. La prima serie contiene lettere da Nicolò al fratello Antonio. La seconda contiene lettere da Antonio al loro fratello Carlo.
Le prime lettere (da Nicolò ad Antonio) affermano che Nicolò nel 1380 si mise in viaggio da Venezia all'Inghilterra e alle Fiandre. Esistono prove che tale viaggio ebbe luogo, e che Nicolò ritornò a Venezia intorno al 1385.
In queste lettere, Nicolò sostiene di essere stato spiaggiato su di un'isola tra la Gran Bretagna e l'Islanda, chiamata Frislanda, che egli descrive di dimensioni maggiori dell'Irlanda.
Per fortuna Nicolò fu soccorso da Zichmni, che è descritto come il principe che possedeva alcune isole chiamate Porlanda al largo della costa meridionale di Frislanda, e che governava il Ducato di Sorant, o Sorand, nel sud est dell'isola.

Nicolò invitò Antonio a raggiungerlo in Frislanda, cosa che fece, e vi rimase per quattordici anni. Sotto la guida di Zichmni, Antonio attaccò l'Estlanda, che è probabilmente da identificarsi con le Isole Shetland, coe indicato dalla somiglianza tra i nomi di luogo menzionati nelle lettere.
Zichmni poi tentò di attaccare l'Islanda. Dopo averla trovata troppo ben difesa, attaccò sette isole lungo il suo lato orientale: Bres, Talas, Broas, Iscant, Trans, Mimant e Damberc. Tutte queste isole sono fittizie.
Zichmni quindi costruì un forte su Bres e lasciò Nicolò a presidiarlo. Nicolò fece un viaggio in Groenlandia e vi trovò un monastero provvisto di riscaldamento centralizzato. Egli tornò quindi in Frislanda, dove morì, essendo stato a settentrione per quattro o cinque anni.
Poco dopo la morte di Nicolò, Zichmni ebbe notizia che un gruppo di pescatori frislandesi dispersi aveva fatto ritorno dopo un viaggio di più di venticinque anni. Questi pescatori sostennero di essere approdati nell'estremo occidente, nei paesi sconosciuti chiamati Estotiland e Drogeo. Dissero anche di aver incontrato strani animali e cannibali, da cui erano scappati soltanto dopo aver insegnato loro come pescare.
Ispirato dai racconti dei pescatori, Zichmni intraprese un viaggio a occidente con Antonio a guida della sua flotta. A ovest della Frislanda, come si vede sulla mappa di Zeno, essi incontrarono una grande isola chiamata Icaria, che non esiste.

Secondo le lettere, gli abitanti di Icaria li salutarono prima che approdassero. Soltanto una persona tra le genti di Icaria era in grado di parlare una lingua che Zichmni comprendeva. Gli abitanti affermarono che i visitatori non erano i benvenuti nell'isola, e che l'avrebbero difesa combattendo fino all'ultimo uomo, se necessario.
Zichmni veleggiò lungo l'isola cercando per un posto dove approdate, ma gli abitanti lo inseguirono, e Zichmni rinunciò ai suoi sforzi.
Navigando a occidente, approdarono a un promontorio chiamato Trin, all'estremità meridionale di Engrouenlanda. A Zichmni piacevano il clima e il suolo, ma il suo equipaggio trovava quella terra inospitale. I marinai tornarono a casa con Antonio, mentre Zichmni rimase ad esplorare l'area e a costruire una città.

L'originale inglese del testo è molto diffuso in vari network; non sono però ancora riuscito a identificare l'autore di tale riassunto. Il testo delle lettere non sono finora stato in grado di reperirlo, ci sono soltanto alcuni studi che riportano di certo informazioni di estremo interesse, anche se per certi versi mi sembrano alquanto farraginosi e inconcludenti, come ogni tentativo di far quadrare con la realtà un'opera di fantasia.  


domenica 7 giugno 2015

PESTE MEMETICA: CRONACA DI UN'EPIDEMIA DI DEMENZA

Come tutti dovrebbero sapere, le lingue cambiano. I mutamenti sono di diversa natura: fonetici, lessicali, grammaticali. In genere sono accomunati da una caratteristica sorprendente: i parlanti non si accorgono del processo in atto se non quando è troppo tardi. Esistono anche cambiamenti difficilmente classificabili, la cui natura in genere non è compresa e studiata dai filologi. Questi processi implicano la comparsa di nuovi elementi a partire da realtà già presenti nella lingua, assemblate in modi inediti. 

Prima è arrivato l'intercalare "sì no". Sono passati quasi vent'anni dalla sua comparsa. Ad un certo punto ogni affermazione iniziava col cappello introduttivo "sì no"

Poi è arrivato l'intercalare "virgolette", accompagnato da gesti grotteschi con le dita per mimare il segno di punteggiatura e la contrattura dei muscoli facciali in un'espressione da ebete.

Infine è arrivato l'ennesimo intercalare "nel senso". Non si può più dire nulla senza aprire parentesi introdotte dalle fatidiche parole "nel senso", seguite da una breve pausa prima di riprendere il discorso. 

Nella massima parte dei casi la gente non si accorge di questi atteggiamenti stereotipi, che si trasmettono come frammenti di memi, residui di pacchetti di informazioni degeneri ormai svuotati di qualsiasi contenuto. Sono gli equivalenti concettuali dei prioni. Il loro uso è un'infezione contagiosa: senza che uno se ne renda conto si mette a parlare in modo ridicolo.  

"Sì no, penso che sia una buona strategia valorizzare questi grafici - nel senso... dare importanza al lavoro fatto per ottimizzare il risultato, virgolette..."  

Nemmeno le basi del lessico ereditato sono risparmiate da subdoli processi di sostituzione, la cui natura non di rado è ideologica. Parole di ottima tradizione come "padre" e "madre", le cui radici erano già usate prima della divisione delle genti indoeuropee, sono state rimpiazzate da balbettamenti stupidissimi come "papà" e "mamma" persino nei documenti ufficiali. Questo perché per i buonisti l'uso di "padre" e di "madre" rimanda a concetti severi come l'educazione, oppure al patriarcato di cui cianciano senza sosta le femministe. Prendere una parola antica e renderla inoffensiva, masticandola, digerendola ed espellendone un conglomerato fecale in cui non sia più riconoscibile il concetto originale. Prendere le lallazioni senza senso dei marmocchi e attribuirle ad ogni contesto: quale manipolazione! Ecco così che si viene a sapere dai quotidiani che è morto un grande fisico, il "papà" del ciclotrone.  

Che dire poi del condizionale di cortesia? La sua ontologia è quella di un nuovo modo verbale: "ci sarebbe da fare" anziché "c'è da fare", o "bisognerebbe" anziché "bisogna", e via discorrendo. In quest'epoca farisaica l'uso di un presente indicativo è ritenuto troppo traumatico, troppo invasivo, simile all'intrusione di un fallo eretto in un minuscolo orifizio mentale - oltre che contrario alle tiranniche consuetudini del buonismo. Si pensa così di edulcorare il contenuto delle frasi con un falso condizionale. È del tutto ovvio che se un datore di lavoro dice "ci sarebbe da fare" non esiste per il dipendente un grande spazio di discussione e di opposizione: il significato reale della frase è senza dubbio "c'è da fare". Perché dunque consumare le corde vocali con tante inutili sillabe in più?

LE PAROLE MACEDONIA: SEGNALI DI DEGENERAZIONE COGNITIVA DEI POPOLI

Tutti sono stati esposti nel corso della loro vita agli orrori delle parole macedonia. Uno dei canali di diffusione di queste abominazioni è la pubblicità, che ne produce ogni anno in gran copia. Innocui giochi di parole o aberrazioni mediatiche? Sono dell'idea che si tratti di pericolosi memi, pacchetti compatti di informazioni degradate.

Andiamo con ordine. Elenco alcuni esempi di parole macedonia pubblicitarie che di certo non suoneranno estranei alla maggior parte dei lettori:

arredottori
carcioghiotti
competecnici
digestimola
gengidentifricio
morbistenza 
 

La formazione di questi borborigmi rimanda direttamente alla neolingua orwelliana di 1984. Si può così sintetizzare la loro origine: 

dottori in arredamento > arredottori
carciofi ghiotti > carcioghiotti
tecnici competenti > competecnici
digestivo che stimola > digestimola
dentifricio per gengive > gengidentifricio
morbidezza e resistenza > morbistenza 
 

Il punto è che non esiste in italiano, e nemmeno nel latino dei dotti che tante parole ha dato alla nostra lingua, alcun prefisso come ad esempio *gengi- "gengiva", *compe- "competente" o *arre- "arredare". Non c'è nulla che autorizzi a estrarre simili sillabe e a usarle per formare neologismi.

Una simile procedura oscura l'etimologia e contribuisce ad aumentare la dissociatività della lingua.

Il verbo competere ha come radice compet-, non *compe-, e in latino era un verbo composto, formato a partire da petere "dirigersi, andare verso; assalire, etc.". Formando un prefisso *compe- si crea un frammento geroglifico, una specie di prione linguistico che sfugge a ogni ulteriore analisi.

Le parole macedonia sono molto insidiose e se ne trovano diverse di origine non pubblicitaria, ormai entrate nella lingua comune:

cantautore
cartolibreria
furgonoleggio
musicassetta
videofonino 

In un'avventura di Paperino, Zio Paperone si imbatteva in un fantomatico personaggio detto Pirapoeta, perché era un pirata che si dilettava di poesia e aveva composto versi enigmatici che una volta decrittati avrebbero condotto a un tesoro sepolto. 
Il Potleta - questo il commento dell'amico Totz - non era né un poeta né un atleta. Siccome però si vantava di essere entrambe le cose, si era guadagnato questo nomignolo.

Altre parole aberranti provengono dal mondo scientifico, es. i termini che indicano ibridi tra animali. La lingua italiana ha preso questa costumanza sconcia dall'inglese, dove il processo di corruzione linguistica è più avanzato:

pizzly o orso grolare: ibrido tra grizzly e orso polare

ligre: ibrido con padre leone e madre tigre
tigone: ibrido con padre tigre e madre leone

Potrebbe salvarsi invece lo scimpanzuomo, il cui nome italiano potrebbe essere semplicemente il risultato di una contrazione di un precedente *scimpanzé-uomo, senza alcun collage delle radici da cui il singolare vocabolo è stato formato.

La politica ha dato Eurasia < Europa + Asia, e più recentemente Eurabia < Europa + Arabia, da cui è  persino derivato euràbo < europeo + arabo (che tuttavia non si pronuncia *aràbo).

Il linguaggio colloquiale ha preso italiano e idiota, formando italiota, parola mostruosa che insulta Pitagora, tra le altre cose.

Alcune creazioni infami sono pertinenti al mondo trendy e alle infinite mode di questo secolo. Si distinguono per la loro demenza, perché spesso non hanno senso alcuno. Esempi giungono dal campo dell'alimentazione:

dieta pescetariana
reducetariano
< ingl. reducetarian
< reduce + vegetarian 

Se possiamo capire che pescetariano sta per *pesce-vegetariano, il termine reducetariano è assolutamente incoerente, è stato formato tramite regole che non vengono più capite. Il significato sarebbe infatti quello di ridurre-carne + semi-vegetariano, ossia un semi-vegetariano che riduce la carne. Troppi passaggi logici sono stati saltati per arrivare a un ridicolo reducetariano.

La radice di questi orrori è ovviamente la lingua inglese, dove si trovano nomi di bevande che sono spacciati per italiani, anche se in Italia non si sono mai sentiti:

latté < latte + caffè
frappuccino < frappé + cappuccino  

Tanto avanti è andato il processo, che la parola latté, che indica una specie di caffellatte, ma talvolta un latte macchiato con espresso, ha assunto negli USA la pronuncia ortografica /'læri/ e spesso si scrive senza accento, come l'italiano latte.

Che dire del famosissimo prequel? Meglio sarebbe stato dire *pre-sequel, ma evidentemente gli americani sono convinti di poter scorporare nella parola sequel un fantomatico prefisso *se-, che pur senza avere un preciso significato, può essere sostituito impunemente da pre- (estratto da altre parole).

Il costume non è necessariamente recentissimo. Già nel tardo XIX secolo troviamo alcune parole macedonia in inglese:

brunch < break(fast) + lunch (attestato nel 1896)

L'origine ultima di questa pratica potrebbe trovarsi nel libro Alice nel Paese delle Meraviglie (1871), di Lewis Carroll. In quel volume, l'uovo semovente Humpty Dumpty spiega ad Alice il conio di parole inusuali in Jabberwocky, dove "slithy" è formato da "lithe and slimy" e "mimsy" è da "flimsy and miserable". Humpty Dumpty spiega così ad Alice la tecnica di combinare le parole:

"Vedi che è come un portmanteau — ci sono due significati impacchettati in una singola parola."  

Nella sua introduzione a The Hunting of the Snark, Carroll usa la parola "portmanteau" quando discute delle scelte lessicali:

Humpty Dumpty's theory, of two meanings packed into one word like a portmanteau, seems to me the right explanation for all. For instance, take the two words "fuming" and "furious." Make up your mind that you will say both words, but leave it unsettled which you will say first ... if you have the rarest of gifts, a perfectly balanced mind, you will say "frumious." 

Nell'inglese dell'epoca, il vocabolo portmanteau indicava una valigia che si apriva in due sezioni eguali. L'etimologia della parola è il francese portemanteau, da porter e manteau (dal francese antico mantel, a sua volta dal latino mantellum). Nel francese moderno, un porte-manteau è un appendiabiti o un simile accessorio per appendere giacche, cappelli, ombrelli e via discorrendo.

Parole macedonia divertenti si trovano nei fumetti di Jacovitti:

GIRAFFA + BUE = GIRABUE
NAPOLI + LEONE = NAPOLEONE
 
OROLOGIO + VECCHIO = ORECCHIO 
SPADA + ALVARO = SPARO 

Ricordo ancora le figure grottesche e comiche che riportavano queste didascalie: l'Orecchio era un orologio a cucù da cui sporgeva una faccia grinzosa e barbuta, con gambe e un braccino che reggeva un bastone nodoso. Lo scopo di Jacovitti era quello di allietare gli animi, non di riformare il linguaggio quotidiano. 

Per finire questo trattatello, va fatto notare che le preposizioni articolate e altre simili forme frutto di contrazione non sono parole macedonia. ma risultati naturali dell'usura fonetica. Non si può quindi affermare, come fanno i Wikipediani, che in italiano la preposizione al sia una parola macedonia di a + il: si tratta del risultato di un processo naturale, del tutto inassimilabile ad orrori come gengidentifricio

sabato 6 giugno 2015


S.O.S. I MOSTRI UCCIDONO ANCORA

Titolo originale: Island of Terror
Paese di produzione: Gran Bretagna
Anno: 1966
Durata: 89 min
Colore: colore
Audio: sonoro
Genere: orrore
Regia: Terence Fisher
Sceneggiatura: Edward Mann e Al Ramsen
Fotografia: Reginald H. Wyer
Montaggio: Thelma Connell
Musiche: Malcolm Lockyer
Interpreti e personaggi:
  Peter Cushing: Dr. Brian
  Stanley Edward Judd: Dr. David West
  Carole Gray: Toni Merrill
  Eddie Byrne: Dr. Reginald Landers
  Sam Kydd: Constable John Harris
  Niall MacGinnis: Roger Campbell
  James Caffrey: Peter Argyle
  Liam Gaffney: Ian Bellows
  Roger Heathcote: Dunley
  Keith Bell: Halsey
  Shay Gorman: Morton
  Joyce Hemson: Sig.ra Bellows
  Peter Forbes-Robertson: Dr. Lawrence Phillips
Doppiatori italiani:
  Adriano Micantoni: Dr. Brian Stanley
  Gigi Pirarba: Dr. David West
  Anna Teresa Eugeni: Toni Merrill
  Mimmo Palmara: Dr. Reginald Landers
  Luca Ernesto Mellina: Constable John Harris
  Gino Donato: Roger Campbell
  Cristina Grado: Sig.ra Bellows
  Elio Zamuto: Dr. Lawrence Phillips
  Natalino Libralesso : assistente Dr.Phillips

Trama e recensione (da Mymovies.it):

In una tranquilla isola irlandese, uno scienziato si dedica a rivoluzionari esperimenti biologici con l'obiettivo di debellare le più gravi malattie che affliggono l'umanità. Accidentalmente, però, invece di raggiungere la meta prefissata, crea spaventosi esseri tentacolati che si nutrono del calcio contenuto nelle ossa del corpo umano e si riproducono in maniera incontrollabile. I malcapitati che si imbattono nei mostri vanno incontro a morte orribile e sicura: letteralmente consumati nello scheletro sono ridotti ad informi ammassi di carne. La strage avrà termine grazie all'intervento di altri due scienziati. Ma il finale è aperto: sembra, infatti, che anche in un laboratorio giapponese le mostruose creature abbiano fatto la loro apparizione. Peter Chushing, nei panni del dottor Stanley, si aggira nel film a caccia dei mostri come un moderno Van Helsing. Ghermito dal tentacolo di una delle rivoltanti creature, non esita a farsi amputare un braccio a colpi di accetta prima che l'infezione mortale si diffonda a tutto il corpo. Un Terence Fisher - a detta di alcuni - minore, esperto nelle situazioni da horror, ma poco sicuro e poco convincente nella fantascienza.

Aggiungo alcune mie riflessioni: 

Visto per la prima ed unica volta quando frequentavo le medie, eppure non l'ho mai dimenticato. Era un pomeriggio assolato, all'epoca gli alunni frequentavano la scuola soltanto al mattino. Un compagno di classe, Benedetto Z., mi ha parlato del film, che aveva già visto, dicendomi che l'avrebbero trasmesso proprio quel giorno. "È pieno di mostri", mi assicurava, "sono come delle tartarughe ossivore". La cosa mi incuriosiva, e non sospettavo minimamente cosa l'amico intendesse. Le sequenze del film mi hanno subito catturato, raggelandomi. Quelli non erano i mostri a cui ero abituato. Non avevano a che fare con alcun phylum animale noto, la loro forma non era paragonabile a nulla. La stessa approssimazione creativa usata da Benedetto Z., "tartarughe ossivore", non aveva in realtà il benché minimo senso: si capiva subito che non si trattava di vertebrati, ma di masse ameboidi ricoperte da un esoscheletro informe, come fatto di cemento molle o di vomito grigio e pastoso, sommamente ripugnante. Da tale corpo inclassificabile si protendeva un tentacolo che serviva al mostro per nutrirsi. Questi "silicati" - così erano chiamati nel film - erano sprovvisti di arti e si trascinavano come immonde limacce, seminando il terrore. Erano infatti molto insidiosi, tendevano agguati, comparendo nei luoghi più impensabili. Chi veniva colto dal fatale tentacolo incorreva in una morte atroce: le sue ossa venivano ridotte a una specie di gelatina e assorbite, mentre le carni erano abbandonate come un fagotto esangue e rattrappito. Ucciderli era molto difficile, sui loro corpi le armi da fuoco non avevano effetto, ed era necessario colpirli con pesanti scuri per poter fendere il loro guscio. Dopo innumerevoli sequenze rocambolesche ed angoscianti, in cui morivano quasi tutti i protagonisti, finalmente si trovava un'arma efficace che uccideva i mostri: la radioattività. Così sono stati contaminati numerosi bovini, posti in un recinto come esche. I "silicati", accorsi in gran numero, hanno in tal modo assorbito dosi massicce di radiazioni, morendo uno dopo l'altro. Il senso di sollievo nell'assistere a questo epilogo era evidente: tutto alla fine sembrava essere rientrato nell'ordine delle cose. Ricordo ancora la beata sensazione che ho provato, come quando ci si desta da un incubo particolarmente orribile, rendendosi conto che era qualcosa di irreale, che si ha davanti a sé una vita tranquilla che nulla può turbare. Mi ingannavo. All'improvviso ecco che in un laboratorio uno scienziato varcava una soglia e l'inconfondibile tentacolo di un "silicato" lo colpiva al collo. Sono rimasto sconvolto e in me è penetrata, tagliente e fredda come ossidiana, la consapevolezza del Male ineliminabile, che agisce come un cancro. Quando si crede di averlo eradicato, ecco che compare altrove, pronto a rinnovare il suo attacco. Emissari di un universo di tenebra assoluta e di mistero, simili mostri rappresentano qualcosa di irriducibile alla ragione, contro cui ogni tentativo di lotta appare vano fin dal principio. Vincono proprio in virtù della loro alienità, la loro diffusione è ineluttabile proprio perché sfugge ad ogni categoria umana. 

giovedì 4 giugno 2015


PIANETA TERRA: ANNO ZERO

Titolo originale: 日本沈没, Nihon chinbotsu
Titoli americani: The Submersion of Japan;
  Tidal Wave
Lingua originale: giapponese
Paese di produzione: Giappone
Anno: 1973
Durata: 140 min
Colore: colore
Audio: sonoro
Genere: fantascienza
Regia: Shirō Moritani
Soggetto: Sakyō Komatsu (romanzo)
Sceneggiatura: Shinobu Hashimoto
Effetti speciali: Teroyoshi Nakano
Casa di produzione: Toho Company
Musiche: Masaru Satō
Interpreti e personaggi:
  Hiroshi Fujioka: Onodera Toshio 
  Ayumi Ishida: Abe Reiko  
  Keiju Kobayashi: Professor Tadokoro 
  Tetsuro Tanba: Primo Ministro Yamamoto
  Rhonda Leigh Hopkins: Fran
  Lorne Greene: Ambasciatore Warren Richards 
  Shogo Shimada: Watari
  John Fujioka: Narita
  Andrew Hughes: Primo Ministro australiano
  Nobuo Nakamura: Ambascatore del Giappone
  Haruo Nakajima: Autista del Primo Ministro
  Hideaki Nitani: Dottor Nakata
  Hitsao Natsuyagi: Yuki
  Yusuke Takita: Professore assistente Yukinaga

Trama e recensione (da Fantafilm.net):

A bordo di un sottomarino alcuni scienziati, studiando il comportamento di una immensa faglia sui fondali delle isole giapponesi, si rendono conto che è imminente uno sconvolgimento sismico di portata colossale. Nessuno crede alle loro voci allarmate e quando cominciano a verificarsi terremoti di intensità inaudita è ormai troppo tardi per effettuare l'evacuazione del paese. Una formidabile serie di eruzioni sprofonda il Giappone negli abissi marini.

Pur appartenendo propriamente al filone catastrofico, il film è spesso considerato una drammatica metafora fantapolitica dei difficili rapporti tra il Giappone e l'Occidente. Non a caso nel corso della vicenda il Giappone si ritrova da solo ad affrontare l'emergenza, un po' per la superficialità dei suoi governanti, ma anche per il rifiuto del mondo occidentale ad accogliere l'ipotesi di ospitare una straripante massa di profughi. L'incubo della catastrofe che da sempre accompagna la produzione cinematografica giapponese, stavolta, è interpretato in chiave più tragica poichè non risolto con la finzione dei vari Godzilla, ma proiettato in uno scenario apocalittico nel quale l'identità culturale isolazionistica orgogliosamente e fedelmente ribadita si frantuma senza speranza. Distribuito in America, il film fu ampiamente sforbiciato fino a durare 90 dei 140 minuti originari e - secondo una prassi non nuova - integrato con sequenze interpretate da Lorne Greene e filmate dal regista Andrew Meyer.

Aggiungo alcune mie riflessioni: 

Uno dei primi film di fantascienza che ho visto, all'epoca ero ancora uno scolaretto. Mi ha lasciato profondamente turbato, perché in pochi attimi ha squarciato il guscio di quotidiana tranquillità in cui ero rinchiuso nella mia esistenza larvale. In particolare qualcosa è cambiato in me quando alla fine del film - e non posso evitare lo spoiler - si annunciava una notizia che all'epoca ho ritenuto spaventosa: il catastrofico processo tettonico che aveva annientato il Giappone si sarebbe esteso all'intero pianeta, trasformandolo in una distesa di acqua senza alcuna terra emersa. Questo ha innescato in me una consapevolezza nettissima dell'incombente distruzione del mondo da me conosciuto e dell'intero genere umano. Un percorso senza ritorno: si capisce che non si può dar nulla per scontato e che l'ordine cosmico in cui tutti viviamo è posticcio, può venir meno da un istante all'altro, in modo irreversibile, come una maschera che si stacca da un fantoccio, come un fuscello spazzato via da uno tsunami. A distanza di tanti anni, la natura profetica di questo film è sotto gli occhi di tutti. 

Suicidio etnico  

Riguardando il film in tempi recenti, dopo molti cicli solari dall'epoca in cui frequentavo la scuola media, sono rimasto colpito da un particolare che era stato cancellato dai mei banchi di memoria stagnante. Credo che questa rimozione chirurgica sia stata provocata dell'orrore eccessivo che le informazioni ricevute avevano causato in me, anche se ero solo un moccioso. Passo a descrivere le sequenze in questione. Il Giappone è condannato, sta rovinando e presto sarà inghiottito dalle acque. Le città bruciano e la popolazione è in via di evacuazione, ma resta un anziano nella sua casa simile a un tempio shintoista, in un distretto montuoso e difficilmente accessibile. Il saggio si rifiuta di abbandonare la sua terra natia, ben consapevole della sua prossima fine. Questo è il dialogo che ha con il protagonista, il professor Tadokoro, e con i suoi compagni: 

Maestro:
- Così dovremo dare un addio ai laghi e alle dolci montagne del Giappone. Che cosa abbiamo fatto per meritare questo castigo? Dimmi, Tadokoro, perché una così grave sciagura si deve abbattere sul nostro Paese? 


Discepolo:
- Non lo so, Maestro, ma so che la Scienza è impotente di fronte a cataclismi di questo genere. Non possiamo fare altro che restare a guardare, aspettare la fine del nostro popolo, aspettare la nostra ora.   

 
Discepolo:
- Maestro, è inutile farsi delle illusioni. Ora è il momento di agire. Dobbiamo pensare alla salvezza della nostra gente.

Maestro:
- E delle nostre tradizioni.

Discepolo:
- Già. 

 
Maestro:
- Solamente se la nostra gente non sarà dispersa. Solo se potremo concentrare il nostro popolo in un unico territorio potremo salvarle. La nostra poesia, la nostra filosofia, non devono morire in questo cataclisma. 

 
Discepolo:
- Purtroppo le cose non sono così semplici. Il nostro popolo supera i 100 milioni. Capisce? Nessun continente è in grado di ospitare tanta gente. Il governo è orientato a chiedere alle altre nazioni di ospitare la nostra gente a piccoli gruppi. 

 
Maestro:
- Se è così, è davvero la Fine, signori. 


L'anziano saggio ha ancora l'illusione di poter impedire che la cultura giapponese possa essere salvata, ma presto il procedere degli eventi calamitosi lo induce ad abbracciare l'Estinzione. All'inizio egli credeva che potesse esistere un nesso di causa-effetto tra il popolo del Giappone e la catastrofe, qualcosa di razionalmente comprensibile. Di fronte alla portata degli eventi, questa illusione si dilegua, sostituita dalla consapevolezza della colpa ontologica. Le tradizioni nipponiche, la lingua peculiare di quella nazione gloriosa, sono legate indissolubilmente all'esistenza fisica del Paese delle Montagne, Yamato, con i suoi kami, le sue divinità. Se Yamato sprofonda nelle acque, sbriciolato dai terremoti, allora la stessa identità della sua gente deve per necessità perire. Ecco un secondo dialogo - il testamento del Maestro - più breve della conversazone sopra riportata, ma ben più terribile:

Discepolo:
- Addio, Maestro! 

 
Maestro:
- Addio. Il nostro compito è finito. Il nostro popolo non esiste più. La prego, insegni ai giapponesi sparsi in tutto il mondo il rispetto per le leggi e i costumi dei popoli che li hanno ospitati e che si integrino. Bisogna evitare che formino dei gruppi etnici separati dagli altri: sarebbe una disgrazia più grande di quella che è loro capitata. 


La perdita di una lingua e di una cultura è una tragedia per ogni gruppo umano. L'idea stessa che un popolo possa ridursi a gruppuscoli di esuli simili a fantasmi, incapaci di ricordare la loro stessa essenza passata, mi riempie di sgomento e mi fa rabbrividire. Trovo che sarebbe preferibile di gran lunga il totale annientamento fisico a una simile sopravvivenza spettrale.

sabato 30 maggio 2015

POSSIBILI STRATIFICAZIONI LESSICALI NELLA LINGUA KLINGON

Premesso che non sono un trekker (non condivido il culto del futuro archeologico di quella setta), pongo l'attenzione su un'interessantissima questione sollevata in Facebook da Lukha Kremo Baroncinij sulla natura della lingua dei Klingon:

"L'idea stessa della lingua Klingon è ingenua, la lingua è il risultato fonetico di una cultura stratificata, che pure l'esperanto ha."

A parer mio le stratificazioni culturali si riflettono direttamente in stratificazioni lessicali. In una lingua le stratificazioni del vocabolario sono infatti dovute a molteplici influenze da parte di altre lingue, occorse in diversi periodi storici. Oltre alle parole ereditate per via diretta e ininterrotta fin dalle origini della lingua, esistono elementi di vario genere:

1) parole di sostrato, dovute a lingue preesistenti;  
2) parole di superstrato, dovute a lingue di popoli dominatori;
3) parole di adstrato, dovute a lingue di popoli vicini o comunque interagenti;
4) parole erranti (Wanderwörter), dovute a influenze culturali e commerciali a distanza, anche senza contatto diretto tra popoli;
5) dottismi, dovuti a lingue dotate di prestigio culturale e usate a scopi religiosi, letterari o scientifici.

Ad esempio, nella lingua italiana mettiamo in evidenza varie stratificazioni:

I - lessico ereditato dal latino volgare e dottismi reintrodotti:
a) vocaboli di origine latina presi dall'etrusco, volgari e dotti: mondo, persona, satellite, milite, etc.;
b) vocaboli di origine latina presi da lingue italiche: bue, lupo, scrofa, etc.;
c) vocaboli di origine latina presi da lingue celtiche: carro, camicia, allodola, salmone, cervogia, etc.;
d) vocaboli di origine latina presi dal greco, anche attraverso un intermediario etrusco: oliva, mandorla, cima, àncora, etc.;
e) elementi introdotti direttamente dal latino e dal greco nella lingua letteraria: floreale, diabolico, taurino, ecclestiastico, plumbeo, aureo, vigilia, quadrivio, bellico, puerile, poetico, nautico, filosofia, etc.;  f) altro.

II - prestiti da lingue diverse a partire dal latino tardo:
a) elementi di sostrato provenienti da lingue locali preromane, indoeuropee e non indoeuropee (lingue italiche, ligure, etrusco, etc.):
bifolco, debbio, lampone, faraglione, farfalla, gora, etc.;
b) elementi di superstrato gotico e longobardo: bega, tacca; zacchera, zaino, strozza, arraffare, trincare, strale, etc.;
c) elementi di adstrato arabo: algebra, tara, tariffa, cifra, zero, cotone, etc.;
d) elementi di adstrato francese, assimilati e non assimilati: comodino, beige, purè, abat-jour, garage, etc.;  
e) strati di vocabolario di origine inglese, soprattutto culturale e tecnico: film, manager, computer, mouse, etc.;
f) altro.

Allo stesso modo possiamo analizzare il lessico della lingua inglese:

I - lessico ereditato dal germanico comune o da un suo sottogruppo (germanico occidentale):
a) vocaboli antichi privi di etimologia indoeuropea e ascrivibili a un sostrato perduto: sea, soul, blood, threshold, sheep, to drink, to help, etc.
b) vocaboli antichi presi dal celtico: lead, leather, rich, etc.
c) vocaboli antichi presi dallo scitico: path, hamster, etc.
d) vocaboli presi dal latino di epoca imperiale: wine, copper, pound, inch, etc.

II - presiti successivi da lingue diverse:
a) elementi di adstrato latino, tecnici o legati alla cristianizzazione (la cui origine ultima è spesso greca): monk, nun, bishop, chalk, cheese, etc.; 
b) elementi di sostrato celtico britannico: hog, dog, doe, coomb, dun, etc.;
c) elementi di superstrato norreno: big, black, skipper, fellow, skirt, to get, to take, to cast, to call, etc.;
d) elementi di superstrato francese (antico): cauldron, river, heir, mountain, to push, to carry, marriage, voyage, flower, etc.; 
e) elementi introdotti direttamente dal latino e dal greco nella lingua letteraria: divinity, celestial, fraternal, university, problem, system, philosophy, mathematics, geometry, physics, etc.;  
f) altro.

Chi ha inventato la lingua dei Klingon ha pensato a tutto questo? Le possibilità sono varie:

1) L'inventore del Klingoniano credeva fermamente che i Klingon avessero un'unica lingua non analizzabile, la sola parlata fin dalla più lontana preistoria;
2) L'inventore del Klingoniano credeva che i Klingon parlassero in epoca preistorica molte lingue, come i terrestri, avendole poi perdute in favore di un'unica lingua internazionale - senza ricordare nulla di tale epoca; 
3) L'inventore del Klingoniano credeva che i Klingon parlassero ancora in epoca storica diverse lingue, come i terrestri, avendole poi perdute in favore di un'unica lingua internazionale - conservando conoscenza e documenti di tale epoca, non troppo antica;  
4) L'inventore del Klingoniano credeva che i Klingon parlassero lingue diverse ancora all'epoca dei fatti narrati da Star Trek, essendo il Klingoniano a noi noto soltanto la lingua internazionale, come lo è da noi l'inglese. 

Non ho conoscenze sufficienti per rispondere, anche se mi pare possibile che l'ipotesi 1) sia la più plausibile: in genere i creatori di conlang non costruiscono culture dotate di una storia tanto articolata da tener conto di prestiti da antiche lingue scomparse. L'idea più comune - soprattutto in ambienti anglosassoni - è infatti quella della natura monolitica di ogni cultura. Come cercare la presenza di eventuali stratificazioni in lingua Klingon? È un bel problema. Innanzitutto inserisco il link a una descrizione della conlang in questione:


La descrizione fonetica fa emergere un fatto singolare: alcuni Klingoniani realizzerebbero il fonema /d/ (ossia la prenasalizzata [nd]) come /n/ e il fonema /b/ (ossia la prenasalizzata [mb]) come /m/. Non si fa però riferimento alla collocazione geografica di questi parlanti. Potrebbe trattarsi della prova di un antico sostrato?
Per quanto riguarda il vocabolario, si vede che moltissime parole sono monosillabi, come in inglese e in cinese. Difficile poter scoprire qualcosa di utile. Si dovrebbe cercare se esistono radici con più sillabe e sprovviste di una convincente etimologia a partire da radici monosillabiche: questi vocaboli sarebbero sospetti e con ogni probabilità prestiti da qualche lingua sconosciuta. Tra le parole bisillabiche più bizzarre, che non sono riuscito ad analizzare, posso citare senz'altro i seguenti sostantivi: bIghHa' "prigione", bobcho' "modulo", bortaS "vendetta", chamwI' "tecnico", chovnatlh "esemplare"DuSaQ "scuola", ghopDap "asteroide", lalDan "religione", laSvargh "fabbrica", lInDab "spionaggio", QonoS "diario", Surchem "campo di forze", teblaw' "giurisdizione", wanI' "fenomeno, occorrenza", yIvbeH "tunica". In chamwI' "tecnico" scorgo un noto suffisso agentivo -wI', ma la radice cham- è sconosciuta. Molte di queste parole sembrano appartenere al lessico culturale e tecnico, che è notoriamente soggetto a prestiti. È tuttavia ben possibile che i vocaboli in questione mi appaiano strani e non analizzabili per via della mia mancanza di esperienza con questa conlang.

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA
FINE DELLA BLOGOSFERA

I blog sono sempre più in uno stato comatoso, hanno perso ogni vitalità e non sono capaci di apportare allo stato delle cose alcun mutamento significativo. Inutile sperare che da un blog giungano le parole di un nuovo Bodhisattva o del Messia. Non a caso Bruce Sterling nel 2007 ha preconizzato l'estinzione della blogosfera entro una decina di anni. Penso che le sue parole fossero profetiche: andando avanti di questo passo, nel 2017 nessuno si arrischierà più a pubblicare nel Web anche soltanto post sulla diarrea del proprio gatto. Le condizioni in cui languono i diari online è paragonabile a quella di un uomo agonizzante in preda ai rantoli e alla demenza terminale. E allora perché, per le budella di Satana, il mondo politico fa di tutto, dico di tutto, per annientarli?! Tutti i tentativi - che vengano dal fronte della diffamazione, della pubblicazione delle intercettazioni, del copyright o della privacy - equivalgono dal punto di vista etico all'usare sodomia a un vecchio sul letto di morte. Chiunque proponga inique regolamentazioni e minacci multe draconiane è moralmente assimilabile a un novello Jimmy Savile, che infierisce sui poveri sbudellandoli per assicurare ai potenti nuove notti di orge e di cocaina. È proprio così, ognuno di loro ha la stessa responsabilità di un piccolo Jimmy, di un predatore da obitorio, di un profanatore di tombe.

sabato 23 maggio 2015

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: CUPRESSUS E CYPRESSUS

Al greco κυπάρισσος "cipresso" corrisponde in latino la parola cupressus, che è da tutti pronunciata con il suono velare (ossia "duro"), anche dai sostenitori della pronuncia ecclesiastica. In italiano la parola "cipresso" ha invece un suono palatale (ossia "molle"), che contrasta in modo netto con latino cupressus.

Una variante cypressus comincia ad apparire soltanto nel latino tardo, ed è questo l'antenato della parola italiana, che ha evoluto un suono palatale a causa della vocale anteriore /i/, scritta con la lettera y.

Questo prova che la parola non può avere avuto un suono palatale da sempre - scontrandosi con la certezza di un suono velare in cupressus. Quindi il suono palatale si è sviluppato tardi a partire dalla variante con vocale anteriore, cypressus.

A proposito dell'etimologia della parola greca κυπάρισσος, si comprende che deve essere un prestito da un sostrato pre-greco. L'origine ultima di questo fitonimo è a mio parere semitica, basti confrontare questa radice con il vocabolo ebraico גפר gopher, che è usato per indicare l'albero dal cui legno Noè avrebbe costruito l'Arca. Anche in alcune lingue caucasiche nordorientali esiste un fitonimo dall'apparenza simile, che pure indica una specie del tutto diversa (Avaro ʁaráš, Lezghi q:ibriš "uva spina", etc.).

Sul fatto che la parola greca sia giunta in latino tramite l'etrusco, possiamo citare un nominativo che lo confermerebbe: Annia Cupressenia Herennia Etruscilla. Vediamo che Cupressenia è formato tramite un caratteristico suffisso aggettivale etrusco. Possiamo così ricostruire etrusco *cuprese (> cupressus), donde l'aggettivo *cupres-na (> Cupressenius).