giovedì 21 aprile 2016

LA SCOMPARSA DELLE LINGUE DELLA PATAGONIA: I PRESTITI INGLESI IN YAMANA

Il processo di assimilazione linguistica

Vista in generale, la scomparsa delle lingue patagoniche fu una conseguenza diretta della dispersione e dell'estinzione delle loro comunità di parlanti. Tuttavia nel breve lasso di tempo di questa tragedia, dal primo stanziamento permanente degli occidentali nella regione fino alla scomparsa delle società indigene, le lingue hanno avuto il tempo per soffrire un brutale processo di distruzione semantica e funzionale, correlativo linguistico della liquidazione delle forme di vita autoctone. Gli studi sul campo compiuti dai linguisti nel XX secolo raccolgono le lingue in questo stato terminale, non solo per quanto riguarda la loro vitalità in numero di parlanti, ma anche riguardo alle loro caratteristiche strutturali. Molte delle distinzioni semantiche autoctone si erano già perdute, e solo un minuzioso studio etimologico ci permette di ricostruirle oggi a partire dai dati conservati. Il nuovo mondo occidentale era penetrato in tutte le sfere della vita, incluse quelle simbolico-comunicative. Non senza motivo i missionari avevano considerato il lavoro linguistico come una parte sostanziale dell'attività evangelica: non solo per poter comunicare con i nativi, ma anche e soprattutto per introdurre nelle loro lingue (ossia nel loro mondo) i fondamenti della visione cosmologica occidentale della realtà, ciò che Bartolomeu Melià, in un altro contesto sudamericano, ha denominato creazione di lingue cristiane indigene.
Il processo di assimilazione linguistica è il primo passo verso la scomparsa delle lingue in quanto tali. In una prima fase, il parlante indigeno interiorizza nella sua lingua - mediante metafora, calco semantico o prestito diretto - le strutture cognitive della lingua dominante. In una seconda fase, il parlante abbandona progressivamente la sua lingua in favore della lingua che esprime tutto in un modo più coerente e semplice, la lingua dominante, che è anche un importante segno di prestigio del nuovo ordine sociale.
La sua lingua comincia a diventare inutile ai suoi stessi occhi, perché alla fine viene ad esprimere le stesse cose della lingua dominante, però con gravi carenze (le distinzioni non interiorizzate) e con inutili remore (i resti nella grammatica e nel lessico delle antiche distinzioni, che hanno cessato di essere operanti), senza dimenticare le connotazioni sociali che va acquisendo il suo uso preferenziale.
Lo studio di questo fenomeno nel caso delle lingue patagoniche è lungi dall'essere concluso. Per portarlo a termine disponiamo soprattutto, come già detto, di materiale raccolto proprio durante il processo di distruzione culturale e linguistica.
Segnaleremo giusto alcuni aspetti di ciò. In yahgan o yamana, la lingua dei canoisti che soffrirono gli esperimenti missionari degli angliscani nel XIX secolo, il numero di prestiti dall'inglese finì con l'essere molto importante. Sia Guerra (1995) che Poblete y Salas (1997), che fecero indagini linguistiche tra i suoi ultimi parlanti, registrarono un buon numero di termini inglesi incrostati nella lingua, termini che si conservavano anche nell'ambiente ispanofono in cui questi ultimi informatori si muovevano da decenni. Risulta significativa la distribuzione di questi termini inglesi per campo lessicale.
Un certo numero di questi pare inevitabilmente vincolato alle nuove realtà introdotte dagli inglesi: glas ‘vetro’, naif ‘coltello’, nísel ‘ago (di acciaio)’, sit ‘seme’, ti ‘tè’, túra ‘porta’, bred ‘pane’, plánket ‘coperta (di fabbrica)’, powt ‘barca’, kuk ‘cucina’. In questo gruppo sono inclusi i nuovi animali e le loro nuove parti: kiáta ‘gatto’, sip ‘pecora’, xorn ‘corno’. Allo stesso modo le nuove realtà umane derivate dal contatto con gli europei: lam-a ‘ubriaco’ sembra procedere dall'inglese rum, che sarebbe anche la base del gününa küne lam ‘vino’ e del tehuelche lama ‘essere ubriaco’ e laam ‘bevanda alcolica’.
Tuttavia in altri casi l'adozione di elementi inglesi parrebbe superflua, visto che sarebbe logico aspettarsi l'esistenza di termini autoctoni: rótna ‘marcio’, fáta ‘grasso’, mílik ‘latte’, fláwers ‘fiore’, rut ‘cammino’, péipi ‘bebè’. La spiegazione per l'incorporazione di questi elementi può fondarsi solo nel fatto che designavano nuovi usi culturali di queste realtà, ad esempio un nuovo ruolo sociale dei bambini piccoli a partire dal concetto europeo di infanzia, un nuovo uso alimentare del latte e del grasso (a partire dallo sfruttamento del bestiame), etc.
Di particolare interesse è il termine raccolto da Guerra (1995) usato dagli stessi indigeni per designarsi: intjan (dall'inglese Indian), termine integrato con elementi autoctoni in vari vocaboli derivati: intjan-kuta ‘la lingua yahgan’, wata-intjan ‘gli antichi yahgan’. Gli indigeni hanno adottato il termine che gli europei usavano per designarli perché essi stessi già cominciavano a vedersi attraverso nuovi occhi, accettando così in qualche modo il ruolo che era stato loro assegnato nella nuova società bianca.

Miguel Peyró García (Università di Siviglia), La desaparición de las lenguas de la Patagonia, 2005.
Traduzione del sottoscritto, 2016.

lunedì 18 aprile 2016

ALCUNE NOTE SUL CULTO DEL PORCO TRA GLI ANTICHI CELTI

Un antico zoonimo usato dai Celti e dai Liguri è tuttora vivo nelle lingue celtiche superstiti. Si tratta della radice *mokko- "maiale, porco". Non si trovano paralleli credibili in altre lingue indoeuropee, così è molto probabile che si tratti di una voce indigena, presa da un sostrato neolitico estinto da epoca preistorica. Il significato più antico dovrebbe essere "cinghiale". Queste sono le attestazioni degli esiti di *mokko- nelle lingue britanniche e nel gaelico:

Gallese moch "maiale" 
Bretone moc'h "porcello" 
Cornico mogh "maiali" 
Gaelico muc "maiale" (f., gen. muice),
  da una variante femminile *mokku:-,
  gen. *mokkja:s.

Se l'epiteto "porco" conferito alla divinità suona oggi come bestemmia, all'epoca dei Celti era invece un segno di fecondità, di robustezza e addirittura di regalità. Si deve notare che a quei tempi il maiale era ancora poco distinto dal suino selvatico, il cinghiale. Più che la sua sporcizia, erano la sua aggressività e la sua natura fiera a colpire l'immaginazione. Infatti nella Gallia Transalpina ci è ben noto un MERCURIUS MOCCUS, attestato al dativo come MERCVR(IO) MOCCO in un'iscrizione (CIL XIII : 5676, Civitas Lingonum, più anticamente Andematunnum, attuale Langres). Non dobbiamo dimenticarci che Mercurio è un'interpretazione romana di Lugus, che aveva come attributo proprio un cinghiale. Nel territorio dei Leponzi, nell'attuale Crevoladossola, è stata trovata un'iscrizione dedicata a TINCUS MOCCUS. Anche nell'onomastica celtica dell'epoca romana questa radice era ben diffusa: abbiamo attestati antroponimi sia maschili che femminili come ad esempio Moccus, Mocius, Mocca, Mocia, Mocceius, Moccia, Mocco, Mocus. L'onomastica dei Liguri mostra Mocco o Moco, che sopravvive nell'odierno toponimo Mocònesi.

Al giorno d'oggi la venerazione del maiale è stata ripresa in forma degenerata e travisata da alcune conventicole settarie della Wicca, che hanno dato origine a obbrobriose tregende in cui donne e uomini si accoppiano con i porci. In Inghilterra è tale la tolleranza per queste malsane attività di bestialismo erotico che The Telegraph ha dedicato un articolo all'argomento, mostrando l'immagine di una coppia in rivoltante promiscuità con un suino in visibile stato di eccitazione. Questo schifo abietto è stato etichettato con la scritta "So romantic". Non ci credete? Seguite questo link: 

domenica 17 aprile 2016

LE ORIGINI DI DESIO

La città oggi nota come Desio era un borgo chiamato Deussio nel X secolo. In seguito sono comparse le varianti Deuxio e Dexio, dove -x- è meramente grafica per -ss-, -s-. Il suo nome non deriva la sua origine dal vocabolo latino Deus o dal greco Zeus, come pure è stato proposto da etimologi incompetenti. Tali derivazioni sono impossibili per motivi morfologici e fonetici. Qualsiasi persona con conoscenze anche esigue di latino e di greco capirebbe che in Deus e in Zeus la finale -s non fa parte della radice (basti considerare le forme declinate) e quindi non è possibile derivarne formazioni come *Deusius e *Zeusius, anche senza menzionare la presenza della consonante doppia nel toponimo antico. Un'etimologia popolare è senza dubbio anche quella che rimanda a Deusdedit, ossia "Dio diede". C'è tuttavia anche di peggio: per molto tempo è stata in auge una paretimologia delirante che riconduceva Desio al latino ad decimum, perché situato "a dieci miglia da Milano verso Como".

L'autentica etimologia del toponimo in questione è da una radice celtica che indica lo spirito immondo, documentata da Agostino d'Ippona come dusius "demone". Questa è la citazione (De Civitate Dei contra Paganos):

"Et quoniam creberrima fama est multique se expertos uel ab eis, qui experti essent, de quorum fide dubitandum non esset, audisse confirmant, Siluanos et Panes, quos uulgo incubos uocant, inprobos saepe extitisse mulieribus et earum appetisse ac peregisse concubitum; et quosdam daemones, quos Dusios Galli nuncupant, adsidue hanc inmunditiam et temptare et efficere, plures talesque adseuerant, ut hoc negare inpudentiae uideatu." 

Anche Isidoro di Siviglia ne parla (Originum sive Etymologiarum): 

"Pilosi, qui Graece Panitae, Latine Incubi appellantur, sive Inui ab ineundo passim cum animalibus. Unde et Incubi dicuntur ab incumbendo, hoc est stuprando. Saepe enim inprobi existunt etiam mulieribus, et earum peragunt concubitum: quos daemones Galli Dusios vocant, quia adsidue hanc peragunt immunditiam."

Nel celtico locale dell'Insubria doveva suonare *Deuđđios, dove -đđ- esprime un suono interdentale simile a quello dell'inglese thin, ma forte. Il termine è dalla radice indoeuropea *dhwes- "spirito". Il dusius di Agostino può rappresentare un diverso grado apofonico (se sta per /'dusius/ o /'du:sius/) o una forma tarda (se sta per /'du:ssius/. Il toponimo lombardo è ben compatibile con la forma cornica dus "diavolo" e con quella bretone teus "folletto", che conservando una sibilante devono derivare da una forma gallica con -đđ- (< *-st-). La vocale cornica u e il dittongo spurio bretone eu trascrivono entrambi il suono /y/, e questo deve derivare da un precedente dittongo: *douđđios. Si tenga conto che -eu- è nella lingua gallica un arcaismo, presto sostituito da -ou-, quindi anche da -o- /o:/ e da -u- /u:/, come dimostrato dall'attestazione di centinaia di antroponimi di epoca romana. Nel toponimo Deussio si è invece avuta la riduzione del dittongo -eu- in -e-, come è accaduto anche in un altro nome di luogo di chiara origine indoeuropea: Leucum, che è diventato Lecco.

Stessa etimologia ha l'inglese Deuce "Diavolo", che non è realmente dall'antico francese deus "due" (moderno deux) inteso come il punteggio dei dadi. Questa è soltanto una paretimologia o etimologia popolare, un tentativo del volgo e di studiosi ingenui di spiegare Omero con Omero. A riprova di questa origine celtica, si cita la presenza della forma ducius, evidentemente per dusius, che glossa alcuni vocaboli per indicare i demoni nel Promptorium parvulorum sive clericorum (anno 1440):

Bugge, or buglarde. Maurus, Ducius.
Thyrce, wykkyd spyryte. Ducius.

Ebbene, questo ducius è la fonte diretta di Deuce nell'accezione di Diavolo. Si noti che la grafia con la lettera c per /s/ si trova anche nella parola thyrce, che è direttamente dal protogermanico *þurisaz "demone": norreno þurs "gigante", gotico *þauris /'θɔris/, che si trova nell'antroponimo Thorismodus, ossia *Þaurismoþs "Ira del Demone"

Il termine celtico all'origine del nome di Desio si ritrova non solo in varietà dialettali del francese, ma anche nel romancio (dischöl "folletto" < *dusiolus), nel tedesco della Westfalia (dus "diavolo") e persino nel basco (tusuri "bestia").

venerdì 15 aprile 2016

L'ETIMOLOGIA ARABA DEL ROMANESCO COATTO SCIALLO 'TRANQUILLO'

Di origine abbastanza recente, la parola gergale sciallo "tranquillo", deriva chiaramente dall'arabo inshallah /in'ʃa:lla/, alla lettera "se Dio vuole", "Deo volente". Il termine arabo è denso di significati teologici, indicando la totale sottomissione dell'uomo a Dio e l'assoluta mancanza di controllo dell'essere umano sul proprio futuro. Aliene a simili sottigliezze, le genti hanno usato questa espressione per tradurre un concetto simile a "così sia". Questa voce deve essere passata dall'arabo al gergo dei coatti romani tramite mediazione carceraria. A un certo punto, i detenuti avevano appreso ad usare la voce "scialla" come intercalare neutro nel senso di "va bene" e quindi di "stai tranquillo". Da questo uso deve essere presto nato un aggettivo nuovo, assimilato alla morfologia italiana: sciallo. Questo articolo, comparso su Repubblica nel 2005, menziona esplicitamente il coattismo in questione: 


È difficile stabilire quando esattamente è avvenuta la formazione dell'aggettivo. Dal romanesco coatto il termine si è diffuso in tutta Italia subendo molteplici slittamenti semantici anni prima della pubblicazione dell'articolo sopra menzionato. Già negli anni '90 dello scorso secolo, ho sentito usare scallo in piena Brianza col significato di "bello" o come equivalente di "figo". Così la frase "è sciallo" valeva semplicemente "è bello", segno che la parola si era già adattata da tempo alla realtà locale: in romanesco coatto il verbo richiesto dalla parola è invece stare"sto sciallo" significa "sono tranquillo". In particolare ho udito molto spesso questa parola in bocca a torme di giovinastri decerebrati in quel calderone di ladri e di malfattori d'ogni genere che è diventata la città di Achille Ratti.

La parola scialla era già penetrata in suolo italico in un'altra occasione, ai tempi dei contatti tra Genovesi e Saraceni, dando origine all'esclamazione scialla! "evviva!" Alcuni la fanno risalire a wa shallah /wa'ʃa:lla/ "e Dio volendo", sinonimo di inshallah, anche se distinguere tra le due forme non sembra molto facile, visto che la sillaba iniziale è caduta. Riporto infine il link a un articolo dell'Accademia della Crusca che fa menzione dell'esclamazione ligure, anche se nutro forti dubbi sulla proposta di collegare a questa voce l'italiano scialare e alcuni suoi paralleli dialettali, tutte voci che più probabilmente derivano dal latino exhalare.

giovedì 14 aprile 2016

ROMANESCO COATTO MECCA 'PROSTITUTA'; FRANCESE MEC 'INDIVIDUO'

Nel romanesco coatto esiste il vocabolo mecca, tradotto in genere con "prostituta", ma talvolta anche con "ragazza". L'origine di questo coattismo è presto individuata: si tratta della voce colloquiale francese mec, che significa "individuo", "tizio", "tipo", "uomo", "ragazzo". Non soltanto: presenta tutta una gamma di significati che vanno da "marito" a "cicisbeo", da "uomo energico" a "pappone". A prima vista il suo campo semantico sembra essere affine a quello dell'inglese guy "individuo, tizio", ma mostra una tale varietà di slittamenti semantici da stupire non poco.

Qual è il significato originario della parola? Quale ne è l'origine? Quando siamo di fronte a simili termini gergali, dobbiamo innanzitutto delimitare il valore semantico da cui tutto ha avuto inizio. La cosa non sempre è ovvia. Ad esempio pochi italiani sanno che il sopracitato termine inglese guy in origine significava "fantoccio" e che è derivato dal nome di Guy Fawkes. La parola in questione è diventata tanto comune da affiancarsi a man "uomo" e da fargli concorrenza, ponendo seri problemi a eventuali futuri studiosi di archeolinguistica, posto che l'umanità potrà davvero sopravvivere abbastanza a lungo.

Con il francese mec i problemi non sono irrilevanti. Il termine ha cominiato ad apparire in questa forma nel XIX secolo, e per spiegarlo sono state elaborate le più fantasiose paretimologie. Eccone un elenco:  

1) La parola sarebbe un acronimo di mis en cause, ossia "chiamato in causa": si sarebbe formata dalle sue iniziali. Questa proposta è talmente ridicola da meritare soltanto compatimento, come le più stravaganti etimologie popolari scaturite dalla natura belluina del volgo ignorante.
2) La parola sarebbe derivata da quel bizzarro Meg usato da Balzac per indicare Dio. Sarebbe un'abbreviazione di mégot, termine gergale che significava "fumatore". A parte il fatto che non è facile trovare attributi condivisi tra Dio e i fumatori, mi si dovrebbe spiegare quale singolare catena di slittamenti semantici avrebbe portato all'attuale gamma di significati del termine mec. Senza contare che il passaggio da /g/ finale a /k/ sarebbe esso stesso anomalo.
3) La parola sarebbe derivata dall'uso gergale di maquereau "sgombro". Secondo questa proposta etimologica, il termine mec sarebbe una variante del pur comune mac, che però ha un campo semantico più limitato: significa soltanto "prosseneta", "pappone". Lo sgombro è un pesce aggressivo e vorace, donde lo slittamento semantico a "lenone" sarebbe stato un naturale sviluppo. La variante mec /mɛk/ sarebbe stata retroformata da una pronuncia dialettale /mɛ'kRo/ per /ma'kRo/.

In realtà gli sgombri non c'entrano nulla. Il termine maquereau "sgombro" - che alcuni etimologi fanno goffamente risalire a un composto delle parole latine macula e radiata, con l'aggiunta di un suffisso diminutivo - ha infatti già da secoli un omofono col senso di "protettore, lenone", che ha però tutt'altra etimologia: si tratta di una somiglianza casuale. Nella lingua d'oïl medievale esisteva infatti maquerel "intermediario", a sua volta dal francone (cfr. olandese makelaar "intermediario"). È questo il significato primitivo della parola, che è di origine germanica e deriva dal verbo protogermanico *mako:nan "fare": antico alto tedesco mahhôn, antico sassone makôn, makoian, antico inglese macian /'makjan/, norreno maka. Nell'attuale tedesco abbiamo machen "fare" e in inglese to make "fare": quest'ultimo vocabolo è a tutti ben noto. In francese esiste poi un altro parente di maquereau, derivato dalla stessa radice germanica: è il verbo maquiller, che attualmente significa "truccarsi" (donde maquillage), ma che in epoca più antica significava "lavorare a qualcosa, fare" (antico piccardo maquier "fare").  

Adesso possiamo tornare all'Urbe. La parola francese mec è passata in romanesco in epoca recente in una forma femminile mecca, che in origine significava "tizia, tipa", quindi "ragazza" (fine XIX secolo). Infine per ulteriore slittamento semantico è giunta a significare "prostituta", e in questa accezione è documentata nella narrativa del XX secolo (Pasolini, 1955; 1959). Nel gergo della malavita romana (fine XIX secolo) la semantica era diversa: mecca significava "signora, padrona" ed esisteva anche il maschile mecco "signore, padrone". Allego alcuni link: 


sabato 9 aprile 2016

ROMANESCO COATTO MARANGA, MARANCA 'TEPPISTELLO'

A Roma la parola maranga (variante maranca) indica un bullo che, a differenza del coatto, ha la sua ragion d'essere nella vigliacca persecuzione delle persone più deboli e su queste infierisce senza pietà. Alcuni la traducono semplicemente con "teppistello". La sua origine è ritenuta oscurissima: l'unico tentativo etimologico che ho trovato non risulta davvero convincente. Circola infatti nel Web l'idea che il vocabolo abbia un'origine onomatopeica: "termine d'etimologia incerta, probabilmente con accostamento bestiale scimmiesco". Veniamo così ad apprendere, con grande stupore, che le scimmie urlando articolano i seguenti suoni: "Marang! Marang!" Peccato che tutto ciò sia incredibilmente stupido. Occorre cercare qualcosa che sia più sensato di queste proposte farlocche, che sono come sterpi ed erbacce.

In realtà l'origine ultima di maranga, maranca "teppistello" (< "individuo brutale") è l'omonimo vocabolo che indicava la scure. Lo slittamento semantico diretto da "scure" a "individuo brutale" sarebbe ben comprensibile, ma l'attestazione di maranga "arruffone, che lavora alla carlona" (Lurati / Pinana, 1983, 276) implica una complessa catena di passaggi, che vediamo di analizzare.

La parola marra "zappa, ascia, scure", documentata già in latino, è di origine preromana. Non esiste alcuna connessione indoeuropea credibile, mentre si trovano paralleli interessanti nell'ambito dell'antico egiziano e dell'accadico: 

antico egiziano (dall'Antico Regno):
mr "zappa", da pronunciarsi /mar/ 

accadico:
marrum "vanga, pala" Si trattava di una lama triangolare che poteva essere usata come zappa o come ventilabro.

siriaco (aramaico):
mar "zappa" < accadico

ebraico mishnaico:
mar "zappa" < accadico

L'origine ultima di questi vocaboli culturali è il sumerico ngar (variante mar) "vanga, pala; ventilabro". Il quella lingua il fonema ng /ŋ/ alterna molto spesso con m (vedi Halloran, Sumerian Lexicon).  

Per tornare a noi, è alquanto probabile che il termine marra avesse una grande diffusione tra le lingue preromane della penisola. Infatti da questa radice deriva *marranca, con un suffisso molto produttivo, -anc-, che è caratteristico dell'antica lingua dei Liguri - anche se in realtà era vitale in un'area ben più estesa.

Tramite il suffisso latino -o (gen. -onis) sono stati formati due discendenti di questo *marranca, che sono ben documentati in territori tra loro molto lontani. Si tratta di marangone "palombaro" e di marangone "falegname".

È chiaro che la denominazione del falegname tragga la sua diretta origine da quella della scure, suo abituale strumento di lavoro. La denominazione del palombaro è un calco del nome del pellicano e di altri uccelli marini. Il latino pelecanus viene dal greco πελεκάν (variante πελεκανός "folaga"), a sua volta da πέλεκυς "ascia", per la forma del suo becco. Così marangone è stato coniato col senso originario di "pellicano" da *marranca, traduzione della parola greca per "ascia". Da "pellicano" (poi "cormorano", "smergo") il vocabolo è giunto a indicare il palombaro a causa degli usi dell'uccello marino, che si immerge tra i flutti per procacciarsi il cibo. Questi slittamenti semantici di certo potranno sembrare poco comprensibili al lettore, ma alla luce della documentazione sembrano indubitabili. Questo perché si tende a valutare lo slittamento a partire dalla forma iniziale e dai risultati finali come se il passaggio fosse avvenuto in un lasso di tempo ristrettissimo, mentre in realtà ci sono voluti molti secoli, il processo essendo avvenuto tramite piccoli passi impercettibili. 

A questo punto si vede come si sia potuto formare maranga "lavoratore grossolano". Da questo significato si è giunti a "individuo rozzo", quindi a "individuo bruto, violento e manesco", che ha dato il lemma coatto. In certi gerghi giovanili la parola è giunta a significare "nordafricano" e ad essere usata come sinonimo delle voci maruego e magrebba, che provengono chiaramente dal nome del Marocco (Maghreb).  

Rimando a questo punto a un articolo bellissimo e completo di Christian Schmitt (Università di Bonn) sull'etimologia di marangone "palombaro" e marangone "falegname", che invito tutti a leggere: 

UNA PROPOSTA ETIMOLOGICA PER IL ROMANESCO BURINO

Ben nota è la parola romanesca burino "contadino, campagnolo", quindi passata ad indicare una persona volgare e ignorante, dai modi rozzi. Le false etimologie non mancano, come spesso accade per le voci più tipiche del dialetto di Roma. Le riassumo in questa sede, fornendole di confutazione dove necessario:

1) I burini sarebbero stati in origine pastori che venivano nell'Urbe per vendere il burro. In romanesco è risaputo che alla consonante forte /rr/ dell'italiano corrisponde /r/ in modo sistematico: si ha guèra per guerra; tèra per terra; fèro per ferro; bìra per birra, e così bùro per burro. I burini dunque sarebbero stati in origine dei *burrini. Decisamente un'etimologia ingenua.
Non mi risulta che la formazione abbia alcun parallelo noto nell'intera Romània.  

2) Essendo in latino buris /'bu:ris/ il manico dell'aratro, i contadini ne avrebbero preso il nome. Secondo la spiegazione più diffusa, all'epoca dello Stato Pontificio, sarebbero avvenuti flussi migratori stagionali di braccianti romagnoli nell'Agro Pontino. La cosa pare poco probabile, dato che l'Agro Pontino era una terra paludosa di miseria e di morte, infestata dalla malaria e ben poco adatta a coltivazioni stagionali: fu il sempre vituperato Mussolini che la bonificò, eradicando le piaghe che la affliggevano da secoli. Certo, il burino è un contadino nel senso letterale della parola (è un abitante del contado), ma è più un pastore che un agricoltore. Data l'aria mefitica dei paesi fuori Roma e le febbri ricorrenti, non si può credere al burino aratore, capace di sgobbare dal mattino alla sera impugnando la bure. In effetti i burini erano più che altro pendolari, che giungevano a Roma il lunedì mattina per vendere prodotti della pastorizia, vi restavano l'intera settimana tornandosene a casa il sabato sera. Non mi risulta che la formazione abbia alcun parallelo noto nell'intera Romània.  

In alcune lingue romanze il latino bu:ri(m) ha lasciato discendenti:

piemontese bü "manico dell'aratro"
sardo sa buri "il manico dell'aratro"

Tuttavia non mi risulta che la parola sia mai stata vitale nell'Italia centrale. Nello stesso italiano, il lemma tecnico bure ha l'aria di essere stato reintrodotto dai letterati. Chi ritiene fondata la derivazione di burino da bure, dovrebbe fornire prove che bure fosse parola viva nelle varietà dialettali di Roma e del Lazio.

Sull'origine ultima della parola latina buris, prova del fatto che si trattava di un vocabolo importato sono le sue peculiarità morfologiche: accusativo sing. in -im (burim) e ablativo sing. in -i (buri). Può essere accostata al greco γύης "legno curvo dell'aratro" e risalire a una protoforma *gwu:sa:- con regolare rotacismo. Tale radice sembra indoeuropea come mandolino sembra inglese. La costumanza tipica dei romanisti di spulciare vocabolari di latino per cercare etimologie senza analizzare l'origine dei lemmi dovrebbe finire una volta per tutte.

Riporto il link a un articolo dell'Archivio Storico del Corriere della Sera, che insiste con la falsa etimologia appena confutata:


3) Una possibile etimologia germanica è stata segnalata da altri romanisti. Si rifà a una forma longobarda, ricostruita come *gaburo "garzone", corrispondente in tutto all'antico alto tedesco gibûro "garzone". Nella lingua longobarda da noi ricostruita (conlang neolongobarda), che utilizza la nobile tradizione di /p/ per l'antico /b/, si ha CAPURO /ka'pu:ro/. In ultima istanza la sua radice corrisponde al tedesco odierno Bauer "contadino". Il problema è che una forma germanica di questo tipo non avrebbe mai sostituito la sua terminazione con un suffisso diminutivo romanzo. Avremmo, in altre parole, *buro o *burone, non burino. Per inciso, la forma buros usata nel gergo dei Paninari di Roma (anni '80 del XX secolo) è soltanto una retroformazione.

4) Mi è stata segnalata da un navigatore l'assonanza tra il romanesco burino e l'olandese boerin "contadina" /'bu:rin/. Secondo lui, la parola romanesca sarebbe discesa naturalmente dall'olandese. Tuttavia vediamo come proprio il suffisso femminile -in sia un ostacolo. Bisognerebbe assumere che la forma originale fosse un femminile burina "contadina", da cui burino sarebbe stato retroformato. Di queste manipolazioni tuttavia non si trova traccia alcuna e non si riesce bene a capire come dall'Olanda la parola possa essere arrivata a diventare popolare a Roma. In realtà l'olandese non è una lingua così eccezionale come alcuni ritengono: è semplicemente parte di una varietà di basso tedesco denominata lingua francone, e la radice di boer /bu:r/ "contadino" è naturalmente condivisa da tutte le forme continentali di germanico occidentale anteriori alla dittongazione di /u:/ in /au/ così tipica del tedesco moderno. Si rimanda così al punto 3).   

Un'audace proposta

Per quel che mi riguarda, la più probabile etimologia di burino è quella già proposta nel Ventennio da Carlo Bornate in un suo manuale scolastico di storia romana a uso dei ginnasi superiori. In un memorabile brano sugli antichi Aborigeni, considerati i primi abitatori non indoeuropei del Lazio, l'autore suggeriva che discendenti di quelle genti fossero proprio i burini, ossia i pastori dell'Agro Pontino e delle montagne che ancora ai suoi tempi si vedevano calare a Roma. La parola latina classica è Abori:gine:s, gen. Abori:ginum (priva di singolare), ma si ha il sospetto che la forma originale sia stata adattata per ricalcare l'etimologia popolare dalla locuzione ab ori:gine, ossia "dall'origine". Tale paretimologia è da rifiutarsi, anche perché esiste la testimonianza di una forma greca Βορειγονοι (Licofrone).
Non è impossibile che *Bori:goni: e *Bori:geni: fossero le forme di partenza. Il passaggio da *Bori:geni: a Burini non è impossibile:

/*bo'ri:geni:/ > /*bo'ri:jeni:/ > romanesco /bu'ri:ni/.

Il mutamento sarebbe ben simile a quello che ha portato da /'digitu-/ a /'di:to/.

Questa parola potrebbe aver sviluppato la sua attuale fonetica nell'epoca oscura che seguì il crollo dell'Impero d'Occidente, quando la popolazione romana si era inselvatichita e tra le rovine dell'Urbe sparuti gruppi di pastori vivevano in condizioni peggiori di quelle vigenti nel Neolitico. Erano i tempi in cui hanno avuto origine i Frangipani (o Frangipane), da *Frangipagani, così chiamati per le loro guerre contro i pagani dei Monti della Tolfa. Anche qui in caso di dileguo di -g- intervocalica, addirittura tra vocali centrali.

domenica 3 aprile 2016

LA SPAVENTOSA DECADENZA DELLE UNIVERSITÀ


Grande è stata la mia indignazione quando mi sono imbattuto in un articolo pseudoscientifico intitolato "La civiltà dell'Isola di Pasqua non fu distrutta dalle guerre". In sintesi, per i ricercatori della Binghamton University di New York guidati da Carl Lipo, Rapa Nui sarebbe stata un paradiso di ecosostenibilità fino all'arrivo degli Europei e non avrebbe conosciuto alcuna crisi ambientale. La prova di ciò? Semplice: le punte di ossidiana, chiamate mata'a nella lingua pascuense, sarebbero state in realtà "utensili domestici", perché questo indicherebbero fantomatiche "analisi morfometriche". A cosa sarebbero serviti questi "utensili domestici"? Per l'agricoltura e per fare i tatuaggi, ci assicura Lipo. Sì, e magari anche per fare la birra.

Non userò mezzi termini. La Binghamton University di New York è costituita essenzialmente da idioti. Sono fin troppe le università che pullulano di chierici traditori la cui unica occupazione è farsi pulire con la lingua il solco balano-prepuziale dalle studentesse. Snervati da interminabili sessioni di fellatio, questi accademici sono in grado soltanto di produrre deliri e baggianate: sembra proprio che ad ogni eiaculazione un po' di materia grigia venga drenata dal cranio e finisca espulsa dal membro.

Revisionismo e negazionismo la fanno da padroni ogni qual volta occorre pronunciarsi su una qualsiasi questione storica o archeologica. Le tradizioni della popolazione nativa oggetto di qualsiasi studio vengono dismesse come irrilevanti. Altrettanto insignificanti sono considerate le testimonianze dei navigatori europei, che hanno visto con i loro occhi le cose di cui hanno scritto. 

Il caso dell'Isola di Pasqua è paradigmatico. Ogni proposizione di questi membri dell'Accademia di Lagado è dominato dalla fallacia logica detta "non sequitur". Il fatto che le punte in ossidiana siano da loro considerate utensili non significa che non ci sia stata un'esplosione di ostilità. Le loro conclusioni sulle mata'a sono infondate, ma anche se si rivelassero esatte, quali ne sarebbero le conseguenze? Non cambierebbe nulla. L'ha detto nessuno a quei babbioni decerebrati che esistono anche le armi improprie? In una società dominata da una tirannia, gli insorti usano ciò che hanno sotto mano. Lo ha mai insegnato nessuno ai ricercatori della Binghamton? 

Questo è quanto è riportato da Jared Diamond nel suo libro Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere:

"Furono già i primi coloni, approdati sull'isola attorno al 900, a iniziare ad abbattere gli alberi. La deforestazione era ormai completa nel 1722, anno in cui Roggeveen, sbarcando sull'isola, non vide nessuna specie vegetale più alta di 3 metri. Siamo in grado di determinare con esattezza quando l'isola perse il suo ultimo albero? Ci sono cinque tipi di indizi che ci aiutano a rispondere a questa domanda. Gli esami con il radiocarbonio effettuati sulle noci di palma indicano in genere una datazione anteriore al 1500, ed è quindi probabile che la palma diventò rara o si estinse dopo quella data. Sulla penisola di Poike, che possiede il suolo meno fertile dell'isola e che dunque fu la prima area a essere deforestata, le palme scomparvero prima del 1400 circa, mentre il carbone derivato dall'abbattimento degli alberi spari attorno al 1440. Tuttavia, alcune tracce di attività agricola risalenti a epoche posteriori attestano che gli esseri umani continuarono a vivere in quella zona ininterrottamente. I campioni che Orliac ha datato, prelevandoli dai forni e dai cumuli di rifiuti, mostrano che il carbone fu rimpiazzato da combustibile erbaceo dopo il 1640. Ciò avvenne anche presso le abitazioni dell'élite, che avrebbe potuto usufruire degli ultimi e preziosi alberi rimasti anche quando ai contadini e alla gente comune fosse stato vietato l'accesso a quella risorsa in via di estinzione." 

Dalla stessa fonte, sulla catastrofe ambientale: 

"La storia dell'isola di Pasqua è il caso più eclatante di deforestazione mai verificatosi nel Pacifico, se non nel mondo intero: tutti gli alberi sono stati abbattuti e tutte le specie arboree si sono estinte. Le conseguenze immediate per gli isolani furono la perdita di materie prime e di fonti alimentari spontanee, nonché una diminuzione della produzione agricola. Le materie prime che andarono perdute o che rimasero disponibili soltanto in quantità nettamente ridotte erano tutte derivate dagli alberi o dagli uccelli che vi nidificavano: il legno, le funi, la corteccia per fabbricare il tapa e le piume. Il venir meno dei grandi alberi e delle funi pose fine al trasporto e all'innalzamento delle statue, così come alla costruzione delle canoe per la navigazione in alto mare."

Ancora Diamond, sull'impoverimento della dieta degli isolani: 

"Una volta esaurite le risorse lignee dell'isola, gli abitanti non poterono più costruire le robuste canoe per la navigazione in mare aperto. A partire dal 1500, infatti, gli ossi di delfino, la carne più consumata dagli isolani durante i primi secoli, scomparvero dai depositi di rifiuti, così come il tonno e gli altri pesci d'alto mare. Diminuì il numero degli ami e delle lische di pesce nei depositi di rifiuti, e rimasero soltanto resti di specie che potevano essere pescate in acque basse o dalla riva. Gli uccelli terrestri scomparvero del tutto, mentre gli uccelli marini si estinsero per due terzi. Gli individui delle specie sopravvissute, numericamente scarsi, furono costretti, per riprodursi, a rifugiarsi su alcuni isolotti al largo della costa. Le noci di palma, le bacche del melo malese e tutti gli altri frutti selvatici cessarono di far parte della dieta degli isolani. Si cominciarono a consumare specie di crostacei sempre più piccole e gli individui pescati diminuirono sempre di più in numero e in dimensioni. I ratti rimasero l'unica specie selvatica da carne la cui disponibilità restò immutata."

Sempre Diamond, sul cannibalismo:

"Nel 1774 il capitano Cook descrisse gli isolani come «piccoli di corporatura, scarni, timidi e infelici». La zona abitata sui bassipiani costieri, dove quasi tutti vivevano, si ridusse del 70 per cento in trecento anni, dal 1400 al 1700, ed è probabile che la popolazione sia diminuita di pari passo. Al posto della carne degli animali estinti, gli isolani iniziarono a consumare quella di una specie ancora disponibile e fino ad allora inutilizzata: l'uomo. Le ossa umane diventarono comuni non soltanto presso i luoghi di sepoltura, ma anche nei depositi di rifiuti più recenti, in cui è evidente che sono state spaccate per estrarne il midollo. Il cannibalismo ricorre ossessivamente nella tradizione orale degli isolani. L'insulto più bruciante che poteva essere fatto a un nemico era: «Mi è rimasta tra i denti la carne di tua madre»."

Alla faccia dell'ecosostenibilità e della vita idilliaca! Gli universitari incompetenti negano la terribile crisi ecologica che ha portato Rapa Nui al collasso? Allora facciano saltare fuori le risorse sparite, come ad esempio maiali, cani e polli! Se per questi buonisti scervellati regnavano l'armonia e equilibrio con la Natura, dove sarebbero finiti gli alberi abbattuti? Dementi, li facciano saltare fuori! Se non ci riescono, sono tenuti al Seppuku. 

Di certo gli sproloqui di questi accademici drogati non avranno fine con l'inverecondo articolo diffuso da Repubblica. È infatti in attesa una nuova pubblicazione della Binghamton University: "La civiltà dell'Isola di Pasqua fu distrutta dai Puffi!"

venerdì 1 aprile 2016


CONTRACTED 

Titolo originale: Contracted
Lingua originale: inglese
Paese di produzione: Stati Uniti
Anno: 2013
Durata: 78 min
Colore: colore
Audio: sonoro
Genere: orrore
Regia: Eric England
Sceneggiatura: Eric England 

Interpreti e personaggi:

    Najarra Townsend: Samantha
    Caroline Williams: la madre di Sam
    Alice Macdonald: Alice
    Katie Stegeman: Nikki
    Matt Mercer: Riley
    Charley Koontz: Zain
    Simon Barrett: BJ
    Ruben Pla: Dottore
    Dave Holmes: Terapista

Trama:
Il film descrive gli ultimi tre giorni di vita di una ragazza, Samantha, che ha contratto un orrendo morbo venereo in seguito a un singolo rapporto carnale con uno sconosciuto incontrato a una festa. Un atto sconsiderato a cui è stata spinta da una pericolosa miscela di alcol e droga, si rivela un punto di rottura. Dal momento del contagio, nel suo corpo inizia uno spaventoso processo di autolisi e la sua vita si trasforma in un incubo peggiore di mille morti.

Recensione:
Quest'opera è sommamente meritoria perché tratta con estremo coraggio un argomento colpito dalla censura dei media, tanto da essere diventato il grande tabù del XXI secolo: le malattie trasmesse per via sessuale. Viviamo sotto un regime molto insidioso. Il messaggio che viene imposto dall'alto è quello dell'assoluta innocuità di ogni forma di sesso. Ogni evidenza in grado di provocare anche soltanto un vago dubbio è rimossa in modo sistematico. Basta farci caso per rendersene conto. La scuola, che tanto ha contribuito a formare generazioni di decerebrati, tace sul contagio. Non soltanto non ci sono campagne di educazione efficaci, ma è incoraggiata la stessa negazione dell'esistenza di tali patologie. L'ignoranza diffusa tra le masse giovanili è tanto densa che si riesce quasi a vederla con gli occhi: sembra caligine. Eric England può essere considerato un guerriero che combatte contro questo stato di cose.

Una società terminale

L'America è una civiltà in stato agonico, che consuma i suoi ultimi giorni in preda alle febbri dell'insania. Come un gigante demente scosso dalle convulsioni, non potrebbe dar vita a nulla di sensato. Tutto sembra essere mosso da un deleterio motto: "Se ti fa sentire bene, fallo!" A questo stato di cose due fenomeni hanno contribuito in massimo grado: il primo è la follia New Age, con la sua idea del pensiero in grado di mutare il mondo, con le sue baggianate del "tutto è energia"; il secondo è l'edonismo egoista della Setta di LaVey, che si è diffuso in modo capillare cambiando il modo di pensare e di sentire in ogni strato sociale. Tossicosi e delirio di onnipotenza. Peccato che per gli agenti patogeni i corpi umani siano semplicemente immensi e ghiotti banchetti. 

Attacchi trollosi

Anche soltanto menzionare i morbi venerei suscita l'immediata ostilità dei fornicatori dediti alle crapule orgiastiche e affetti da Sindrome di Samo, che vedono come fumo negli occhi anche soltanto l'idea di un rapporto sessuale protetto. Costoro non si rendono conto di non essere tanto diversi dalla ragazza del film, che diviene lo strumento fisico del Principio del Morbo, agendo col fine di trasmettere l'infezione. Così il film è stato definito "cinema del sesso sicuro" e il suo regista è stato schernito duramente, esposto alla gogna del Web per aver osato trasmettere un concetto che dovrebbe essere di per sé evidente e semplicissimo: il sesso senza protezione uccide

Futili accuse di inverosimiglianza

Non pochi fanno notare come l'intera vicenda appaia piuttosto irreale. Com'è possibile che una ragazza che sta marcendo riesca a convincere un suo spasimante a congiungersi a lei? Com'è possibile che questi la baci in bocca, visto che un herpes mostruoso la sfigura? Com'è possibile inserire il proprio fallo eretto in una vulva brulicante di vermi e andare avanti a stantuffare, senza allarmarsi per il pizzicore causato dalle fauci delle larve che cercano di rodere il glande? Evidentemente non è poi così impossibile come potrebbe sembrare a prima vista. Mai sottovalutare il funesto potere della Natura. 

Sviluppi della lingua neoamericana

Avendo visto il film in lingua originale, ho notato che la lesbica Nikki parla un inglese in cui la vocale aperta tonica /ɔ/ non si è mutata in /a:/ nei monosillabi. Quando dice di non aver voluto toccare il membro (cock) a un ragazzo che la pressava, pronuncia chiaramente /kɔk/ e non /kha:(g)/. Per contro, la sguaiata Alice parla un dialetto diverso e pienamente americano, in cui il mutamento si è compiuto, così sulla sua bocca la parola vodka suona nitidamente VACCA.

TESIS

Titolo originale: Tesis
Paese di produzione: Spagna
Anno: 1996
Durata: 125 min
Colore: colore
Audio: sonoro
Genere: thriller, orrore
Regia: Alejandro Amenábar
Soggetto: Alejandro Amenábar, Mateo Gil
Sceneggiatura: Alejandro Amenábar
Produttori: Alejandro Amenábar, Hans Burman,
    Wolfgang Burmann,  José Luis Cuerda, Julio
    Madurga, Ricardo Steinberg, María Elena Sáinz
    de Rozas
Produttore esecutivo: José Luis Cuerda, Emiliano
    Otegui
Casa di produzione: Las Producciones del
   Escorpión, Sogepaq
Distribuzione (Italia): Lucky Red
Fotografia:
Hans Burman
Montaggio:
María Elena Sáinz de Rozas
Effetti speciali: Reyes Abades
Musiche: Alejandro Amenábar, Mariano Marín
Scenografia: Wolfgang Burmann

Interpreti e personaggi:
    Ana Torrent: Ángela Márquez
   Fele Martínez: Chema
   Eduardo Noriega: Bosco Herranz
   Xabier Elorriaga: Jorge Castro
   Miguel Picazo: Figueroa
   Nieves Herranz: Sena Márquez
   Rosa Campillo: Yolanda
   José Luis Cuerda: primo relatore di Ángela
   Francisco Hernández: padre di Ángela
   Rosa Ávila: madre di Ángela
   Teresa Castanedo: presentatrice TV
   José Miguel Caballero: commesso delle videoteca
   Joserra Cadiñanos: vigilante
Doppiatori italiani:
   Francesca Fiorentini:
Ángela Márquez
   Luigi Ferraro: Chema
   Vittorio De Angelis: Bosco Herranz
   Sergio Di Stefano: Jorge Castro
Premi:
   7 Premi Goya 1997: miglior film, miglior regista
   esordiente, miglior sceneggiatura originale,
   miglior attore rivelazione (Fele Martínez), miglior
   produzione, miglior montaggio e miglior sonoro;
   Méliès d'argento 1997

Trama (da Comingsoon.it):
Perché la morte e la violenza attraggono tanto? E' moralmente lecita l'esibizione della violenza nei film? In ogni caso fino a che punto si può mostrarla? Ecco l'argomento della tesi di Angela, che studia in una scuola di cinema a Madrid. Insieme al suo collega Chema, che è un appassionato di film violenti, Angela si mette alla ricerca di chi ha girato uno 'snuff movie' nel quale la protagonista è torturata fino alla morte. 
 
Citazioni: 
 
"Di che colore sono i miei occhi?"
(Ángela)
 
"Là fuori c'è l'industria americana, che è molto agguerrita, e il solo modo di competere è... dare al pubblico quello che vuole vedere."
(Il professore)
 
Il professore: "Perché ti interessa la violenza?
Ángela: "Forse perché la troviamo continuamente alla televisone o nel cinema e ci stiamo abituando un po' troppo a vederla."
Il professore: "Allora?"
Ángela: "Mi mette paura."
Il professore: "Perché?"
Ángela: "Perché non mi piace la violenza."
Il professore: "E arrivi a rifiutarla..."
Ángela: "Certo."
Il professore: "Sempre?"
Ángela: "Sì."
Il professore: "Ma la violenza è comunque una cosa innata nell'animo di tutti. Non possiamo pensare di censurarla sempre, in ogni film."
Ángela: "No, però il regista deve essere consapevole di..."
Il professore: "Il regista deve solo riuscire a capire quello che il pubblico vuole avere. È il principio basilare di qualsiasi forma di spettacolo? Rifiuti anche le regole dello spettacolo?"  

Recensione:
Questo capolavoro precede di tre anni 8mm - Delitto a luci rosse. Tratta lo stesso argomento, ossia la produzione di film snuff, ma servendosi di un approccio molto diverso. Nel film di Schumacher era un politico a commissionare la produzione di un video di morte, servendosi allo scopo di un ambiguo produttore di porno sadico, Dino Velvet, le cui pellicole erano legali per un soffio. Nel film di Amen
ábar invece il mostro è annidato nel mondo accademico. L'università, e più precisamente la Facoltà di Scienze della Comunicazione, si rivela come un microcosmo raggelante con un suo ecosistema. Ci sono le vittime, scelte tra le studentesse, e ci sono i predatori, che fanno capo a un insospettabile professore, Jorge Castro. Non deve stupire più di tanto che questo demone teorizzi sulle sue aberrazioni, giustificandole con le stesse stronzate socio-culturali che tanto piacciono alla nostrana Sinistra al Caviale. Questa maschera va tanto di moda ai nostri giorni: il predatore che ha più successo non è quello dall'aspetto più terribile, ma quello che meglio si mimetizza. La scuola, madre di tutte le storture, appare ancora una volta come una potente allegoria dell'umanità intera. La protagonista, Ángela, interpretata da un'ottima Ana Torrent, si immerge nell'Abisso dopo essersi imbattuta in qualcosa che non avrebbe mai immaginato. Eppure i suoi sentimenti sono ambivalenti. La sua attrazione per Bosco, il principale sospettato, è qualcosa di torbido e di sconvolgente. L'assassino, lo psicopatico dotato di bell'aspetto, compare nei sogni di Ángela con caratteri che sono al contempo quelli del carnefice e dell'amante, prima ferendola con un coltello e poi mettendo la testa tra le sue gambe. Questa tensione lavora in lei, scavando un fiume carsico fino alla rivelazione finale. Notevole è anche l'interpretazione di Fele Martínez nel ruolo di Chema, lo studente amante dell'horror che aiuta Ángela nella sue indagini tra continui colpi di scena. Quello che mi lascia un po' perplesso è l'idea che l'orrore degli snuff movies possa uscire dal mondo delle leggende metropolitane e fare notizia, diventare scoop per giornalisti e cronisti, scuotere le moltitudini ed insinuare in loro il tarlo dell'inaudito. Questo sì che è tipico dell'universo onirico, non della realtà infera in cui siamo condannati a vivere. 
 
Altre recensioni e reazioni nel Web 
 
Riporto alcuni interventi apparsi sul Davinotti:
 
 
Herrkinski ha scritto:
 
"Il film di Amenabar è decisamente inquietante e fortunatamente abbastanza lontano dal fiasco dell'affine 8mm con Nicholas Cage. La trama è ben strutturata e il crescendo di tensione è ideale, con momenti di puro terrore. Qualche parte è leggermente superflua, tuttavia il film è un ottimo thriller, dall'atmosfera morbosa e malsana. Unica nota negativa: sarebbe stato forse più impressionante se il regista avesse mostrato più esplicitamente i finti filmati snuff. Da vedere, comunque."
 
Nicola81 ha scritto:
 
"Thriller incentrato sugli snuff-movies, ma anche una riflessione sulla crisi dell'industria cinematografica, considerata l'inevitabile conseguenza della morbosità del pubblico. Malgrado l'argomento, la violenza è quasi assente e si è preferito puntare maggiormente sulle psicologie dei personaggi, tutti ben interpretati (ottima, in particolare, la Torrent). Qualche ingenuità nello script e qualche lungaggine evitabile rischiano di tarpargli le ali, ma Amenabar mostra già quelle qualità che esploderanno nei successivi Apri gli occhi e The others."
MEMORABILE: Il video; I sotterranei dell'università; Il finale
 
Gaussiana ha scritto:
 
"Il primo lungometraggio di Amenabar tratta il tema degli snuff-movie, ma a differenza di altre opere simili (mi riferisco ad Hardcore poiché 8 mm uscirà pochi anni dopo) sposta l'attenzione, almeno all'inizio e alla fine, sulla morbosità come caratteristica tipica dell'uomo e dunque presente nell'intera società sotto una forma voyeuristica. Per il resto è un piacevole thriller lineare e senza grossi colpi di scena; alcune scene, viste attraverso il bianco e nero della telecamera digitale, arricchiscono la narrazione."
MEMORABILE: Chema con la maglietta di Cannibal holocaust!