lunedì 25 aprile 2016

LA PESTE DEL PENSIERO ALTERNATIVO

Viviamo in un'epoca terribile in cui prevalgono le potenze del Marasma. Non è mai stata così forte la reazione contro il pensiero scientifico e più in generale contro lo stesso concetto di Logica. Si è formata e consolidata una fitta rete di adepti del cosiddetto "Pensiero Alternativo" che come un contagio inarrestabile divora le nazioni. Combattere contro i cospirazionisti e contro le loro aberrazioni non è impresa facile, perché sono soggetti completamente insensibili a qualsiasi principio di razionalità. Per arginare l'infezione sarebbero più efficaci le punizioni medievali come lo spezzamento sulla ruota, ma vivendo in tempi di diritti umani inviolabili, bisogna per necessità affidarsi ai soli strumenti forniti dall'intelletto.

Quello che gli adepti della setta complottista non capiscono è che non esiste una procedura logica universalmente valida che permetta di risolvere tutte le proposizioni concepite da mente umana. Non esiste neppure un misterioso nesso tra tutto ciò che una persona o un gruppo di persone afferma, tale da permettere di dire: "Tutto ciò che il tizio dice è falso, perché si è scoperta nelle sue parole una singola falsità". Il fatto che ogni singola proposizione debba essere trattata separatamente dalle altre è una cosa che questi decerebrati non possono nemmeno lontanamente concepire. I risultati di questo modo di vedere le cose sarebbero persino comici, se non fosse che hanno risvolti tragici, come la ricomparsa di malattie da tempo debellate, solo per citare un caso tra tanti.    

Illustrerò alcuni esempi concreti della demenza degli adepti del "Pensiero Alternativo", tratti dalla mia esperienza diretta nel Web. Ogni loro asserzione è inficiata da tutta una serie di gravi fallacie logiche. Bisogna parlare di "asserzione",  perché "ragionamento" è una parola grossa, essendo ogni parola uscita dalla bocca di un complottista ben lontana dai princìpi elementari della razionalità. 

1) Non sequitur 
Se si trova un video falso sul terrorismo, ne consegue per i complottisti che il terrorismo non esiste ed è un falso. Una persona di buonsenso direbbe che quel video è falso, e la sua conclusione sarebbe giusto quella. Un complottista invece astrae dalla falsità di quel singolo video la falsità del fenomeno in esso descritto. Quindi se si trova un video falso sul cancro, il cancro non esiste. Uno dei dogmi che più si circolano è il seguente: "Se un bambino che è stato vaccinato è autistico, allora la vaccinazione provoca l'autismo". Che è come dire: "Se un bambino che gioca con l'orsacchiotto è autistico, allora gli orsacchiotti provocano l'autismo". Sarebbe troppo pretendere che questa mala genia possa distinguere un sillogismo valido da un paralogismo. 

2) Osservazione selettiva
Se tuttavia un video falso riguarda un dogma complottista, allora dalla sua falsità il complottista non dedurrà affatto l'inesistenza del fenomeno: dirà che si tratta di un "false flag", di un depistaggio, di una fabbricazione architettata dal Sistema (ossia dai Rothschild, dagli Illuminati, dai Rettiliani, etc.) per gettare discredito. Così se prendessimo il filmato falso sul terrorismo e gli alterassimo la traccia audio, mettendo la parola "scie chimiche" dove c'era "terrorismo", lasciando inalterato tutto il resto, e mostrassimo il reperto ai fanatici fuffologi, la loro reazione sarebbe d'ira sfrenata.  

3) Inconsistenza delle prove addotte 
Un video contraffatto e insostanziale è sufficiente come prova a ogni complottista. Così qualche anno fa mi è stato mostrato un video stupidissimo prodotto nel Mid West, in cui si vedevano queste tre cose: uno sceriffo corpulento e rimbambito, un paio di automobili sfregiate da un vandalo con un temperino, un moccioso biondiccio che aveva disegnato un grosso lucertolone verde e bipede. Se un tribunale accettasse simili prove in un caso di omicidio, chiunque potrebbe essere dichiarato colpevole.
Allo stesso modo si deve trattare il video sui mirabolanti motori del fuffologo Dottor R., sedicente "ricercatore indipendente" inglese: io nel video vedevo soltanto dei blocchi metallici avvolti nella stagnola da cui si levavano esili esalazioni di vapore biancastro. Per un complottista quella era invece una prova autoevidente. "Funziona!", esclamava in preda alle convulsioni e agli sputacchi. Ma funziona cosa?! 

4) Assenza di consequenzialità
Ad ogni minima obiezione, il complottista non risponde con argomenti. Non abbozza neppure l'ombra di un ragionamento. Risponde inviando un quantitativo impressionante di link a siti di fuffologia pura ed applicata, come se queste fossero prove inconfutabili, incontrovertibili e di per se stesse evidenti dei suoi sproloqui. Lo schema fisso è questo:
  a) Azione: critica del dogma complottista;
   
 b) Reazione: invio di pacchetti di link, già pronti per l'occasione; 
 c) Pretesa della conversione dell'interlocutore, come se le pagine dei siti complottisti avessero il potere di folgorare chiunque, di colpire e produrre una trasformazione, proprio come è accaduto a San Paolo sulla via di Damasco.

5) Completa perdita del senso della realtà
Per illustrare il rapporto che i complottisti hanno coi dati di fatto nudi e crudi, basterà riportare il caso dei motori a combustibili alternativi. A causa di alcuni provocatori (Grillo, Fo Jr. et alteri), si diffuse anni fa l'idea superstiziosa secondo cui ogni motore a scoppio potrebbe essere alimentato anche col semplice olio d'oliva. Secondo questi guru, il combustibile ideale per qualsiasi automobile sarebbe l'olio per friggere i calamari. Conseguenza: migliaia di persone, anche laureate in discipline scientifiche (ricordo una mia ex collega ingegnere), fecero incetta di tale olio da frittura nei supermercati, immettendolo tal quale nel serbatoio della loro automobile e causando danni immani al motore. Anni dopo, l'idea dell'olio per friggere i calamari si ripresentò negli ambienti complottisti. Ricordo che uno di questi infelici riteneva che in caso di blackout globale e di cessazione delle forniture di petrolio, sarebbe stato in grado di far funzionare la sua macchina rifornendosi al supermercato con l'olio da frittura. Ho cercato di dirgli che tale olio per poter essere usato come carburante necessita di un trattamento chimico industriale chiamato "esterificazione". Niente da fare. Nemmeno gli sfiorava la mente l'idea che nessun supermercato sarebbe in grado di assicurare una fornitura sufficiente a muovere anche una sola auto. Nemmeno gli sfiorava l'idea che in caso di crollo tecnologico gli stessi supermercati sarebbero devastati e saccheggiati, e non potrebbe sussistere nel caos alcuna rete di rifornimento. Qualcuno dirà che riporto il caso di un soggetto estremo. Tuttavia si vedono moltissime persone, all'apparenza ragionevoli, che credono fermamente di poter sopravvivere al tracollo della società coltivandosi un orticello, senza tener conto che in tali condizioni il loro misero appezzamento sarebbe calpestato dalle folle sconvolte dal panico - e loro stessi diverrebbero preda di improvvisati cannibali.

6) Creduloneria e scetticismo estremo
Nella compagine del "Pensiero Alternativo" coesistono modi di vedere le cose che sono paradossali e tra loro contraddittori.
Quando si parla di salute e di alimentazione, ecco che i complottisti sono pronti a credere a qualsiasi cosa purché non sia la medicina figlia della Scienza. Se qualcuno dicesse loro che mangiare la merda fa bene e cura tutte le malattie, ci crederebbero subito. Si annoverano infiniti casi di persone andate in rovina per aver prestato fede alle baggianate di qualche ciarlatano che pretende di curare il cancro con una serie di rimedi che vanno dall'acqua fresca al bicarbonato.
Quando si parla di politica e d'informazione, ecco che subentra uno scetticismo ferreo. Così non è raro imbattersi in gente che crede fermamente nella natura irreale e simulata degli attentati terroristici, delle guerre in corso e persino delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. In un telegiornale dicono che c'è stato un incidente nucleare? Allora per questi dementi il cesio-137 e lo stronzio-90 sono innocui, anzi, fanno bene! 

Le opinioni dei complottisti sono eterodirette, proprio come i movimenti di un burattino si devono al puparo. Le loro affermazioni incredibilmente stupide sono come la programmazione di un robot: li condizionano totalmente. Essi non possono uscire da schemi ben precisi, così come una vespa continuerà a cercare sempre nello stesso punto la preda che le è stata sottratta. Non se ne trova uno, neppure uno, che sia capace di un pensiero proprio. Eppure molti si definiscono "risvegliati", pensano di aver avuto l'Illuminazione. Ne ricordo uno che urlava: "Sveglia! Sveglia! Sveglia! La causa prima del cancro è il latte!" 

Un tempo per gente che proferiva proposizioni oggi assai popolari c'era il manicomio, o nei casi più benigni il compatimento. Negli anni che furono girava per le vie di Milano un lunatico in bicicletta che cercava di convincere i passanti che la Terra è piatta. Raccoglieva soltanto irrisione e scherno, come un babbuino che avesse mostrato le chiappe. Nel frattempo le cose sono cambiate. Un po' di droga e di spazzatura online, ed ecco che la Terra piatta diventa un meme contagioso. Molti considerano la fede nella Terra piatta un'opinione come tante altre. In questi giorni di umanità terminale, in nome di un malinteso principio di libertà di parola e del relativismo cognitivo, diventa uno scandalo anche affermare che un triangolo non può avere più di un angolo retto o che un quadrilatero deve per necessità avere quattro lati. Su questo humus funesto sono così cresciuti funghi incredibilmente maligni, peggiori dell'Amanita phalloides, le cui spore contaminano l'aria e trasmettono la morte.

giovedì 21 aprile 2016

LA SCOMPARSA DELLE LINGUE DELLA PATAGONIA: IL PROBLEMA DELLE RELIGIONI NATIVE

Il concetto di “Dio”

Un altro capitolo di questo processo di assimilazione semantica è costituito dalla necessità del missionario di far assumere agli indigeni l'idea del dio giudaico-cristiano, obiettivo ultimo del suo paziente lavoro di comunicazione. Dai tempi dei primi contatti con i popoli amerindiani, molti missionari spagnoli e portoghesi seguirono la tattica evangelica di identificare a ogni costo la divinità cristiana con qualche entità autoctona, identificazione che serviva da punto di partenza per introdurre la nuova visione cosmologica. Tra i parlanti Nahuatl (1) del Messico il metodo sembrava promettente, perché avevano un concetto chiamato nientemeno che teo-tl, che somigliava da morire al termine greco Theos (2). Tuttavia il sistema non funzionò sempre così bene. In Patagonia non si incontrava nulla di assimilabile a Dio.
Gli indigeni dell'estremo sud dell'America sembravano “atei” in modo esasperante, per quanto l'esistenza di Dio fosse loro proposta dalle più diverse "necessità" della ragione naturale aquiniana.
Paul Hyades lo riassumeva così sul finire del  XIX secolo, riferendosi a quello che oggi si chiamano Yahgan (Hyades e Deniker 1891):

“Nous les avons observés bien attentivement à ce point de vue (...) pendant l’année que nous avons passée parmi eux: et jamais nous n’avons pu saisir la moindre allusion à un culte quelconque, ni à une idée religieuse.”

E il missionario Borgatello (1924), alludendo agli Shelk'nam (3) e ai Kawésqar:

“Ora che molti di loro, tanto Alakaluffi che Onas, conoscono lo spagnuolo e sanno esprimere chiaramente in questa lingua le loro idee, si è veramente in grado di avere notizie certe intorno alle loro antiche credenze.
Ho richiesto pertanto agli Onas se sapevano che esistesse un Dio o Essere Supremo, prima di essere fatti cristiani, se esistesse il Paradiso e l’Inferno, il Demonio, ecc.
Essi mi risposero:
- Nada saber nosotros de todo esto (cioè ‘nulla sapevamo noi di tutto questo’).
Così pure gli Alakaluffi mi diedero la stessa risposta.”

Le lingue patagoniche finirono tuttavia col dotarsi di parole per tradurre Dio. Il meccanismo, in cui secondo Tonelli (1926) si poteva notare chiaramente la mano dei missionari salesiani, fu tradurre qualche attributo teologico cristiano, e per sineddoche designare la totalità della divinità a partire da questo termine.
Così la parola Shelk'nam xowen ‘eterno, antico’ fu quella scelta nel lavori lessicografici del Beauvoir e della sua scuola nella missione di Candelaria. Altri missionari preferirono temaukel, perché questo termine Shelk'nam significava ‘parola’, ossia Verbum. Così gli Shelk'nam appresero che “In principio era Temaukel...” giusto quando stavano giungendo alla loro fine.

Miguel Peyró García (Università di Siviglia),
La desaparición de las lenguas de la Patagonia, 2005.
Traduzione del sottoscritto, 2016.


Note del traduttore:

(1) Peyró García ha "entre los náhuatl", il che è privo di senso, perché Nahuatl è il nome della lingua (significa "il giusto suono"). Avrebbe dovuto dire "entre los Nahuatlacas" o "entre los hablantes del Náhuatl".   

(2) La parola greca è θεός. Peyró García ha ispanizzato la sua ortografia in Teos, distorcendo il dato. È a parer mio molto dubbio che i missionari che convertirono i Messicani avessero una conoscenza anche rudimentale della lingua greca.  

(3) Selknam nel testo originale. A causa della notoria difficoltà dei parlanti ispanici a pronunciare il suono sh /ʃ/ (italiano sc di scena), le trascrizion nella loro lingua lo adattano a s

Una singolare contraddizione

A proposito del teonimo Shelk'nam Temaukel, dobbiamo riportare una singolare contraddizione. Questo è ciò che è scritto in Wikipedia in lingua spagnola a proposito di Temaukel (20/04/2016):

Temáukel, también conocido como Timáukel, Temáulk, Timáukl, Pemáulk, Temuakel, Pimaukel o Pimaujil, es el dios supremo del panteón selknam y haush. Las características de Temáukel lo asemejan bastante al Dios de las religiones abrahámicas. Es más, algunos selknam que tuvieron suficiente contacto con los europeos, consideraban al Dios de los cristianos equivalente a su propio dios supremo, Temáukel. Este reconocimiento del Dios cristiano no es excluyente de la existencia de Temáukel, es decir, serían equivalentes, pero de ninguna manera el mismo ser. En teoría, entre todas las deidades selknam, es el único que es considerado un Dios propiamente tal, puesto que las otras deidades son identificadas más bien como antepasados mitológicos.

Etimología
La palabra Temáukel tiene la característica de un nombre propio. Su origen era desconocido por los mismos selknam. Según Martin Gusinde, nadie fue capaz de darle un significado especial por ser, precisamente, un nombre propio.

Atributos
Temáukel guarda muchas semejanzas con el Dios de las religiones abrahámicas. Sin embargo, no es la única deidad dentro de las creencias selknam y, entre estas, es el único en ser identificado como un Dios propiamente tal, lo cual lo convierte en el ser supremo de una religión henoteista.

Como dios supremo, se le describen características de infinitud. Sin embargo, a diferencia del Dios abrahámico, no se trata de un ser omnipresente puesto que, de acuerdo a los relatos selknam, él nunca ha estado en el mundo terrenal. No obstante, es un dios infinito, por ser eterno, considerándose que siempre ha existido y siempre existirá.
Se le describe como un ser incorpóreo, ajeno a los sentimientos y deseos humanos. Temáukel es estricto en el cumplimiento de sus mandamientos. De acuerdo a las creencias selknam, el no cumplimiento de los mandatos entregados a través de Kénos suponían un castigo a quienes desobedecían, enviando muerte y enfermedades.

Culto
Temáukel, dios supremo del panteón selknam, era un ser respetado y temido, sin embargo no era malvado, sino severo. Los selknam rara vez pronunciaban su nombre y, jamás era usado en circunstancias triviales. Debido a este temor que los selknam tenían a su dios, se referían a él mediante el uso de circunloquios. Las formas habituales de referirse a él eran "so'onh haskán" (habitante del cielo) y "aiyemok so'onh haskán" (aquel que habita en el cielo) y "so'onh kas pemer" (aquel que está en el cielo).

Los selknam no tenían oraciones propiamente tal, pero las mujeres solían hablarle a su dios supremo cuando sus hijos estaban gravemente enfermos, para pedirle que no muriera injustificadamente. Por otro lado, se conocen dos tipos de ofrendas que los selknam realizaban a Temáukel. El primero de ellos era arrojar fuera de sus viviendas un trozo de carne cuando comían de noche, que lo ofrecían a su dios. El segundo consistía en un trozo de carbón ardiente que las mujeres arrojaban fuera de sus chozas, especialmente en la mañana.  

Mitología
Temáukel es un dios primigenio, por lo tanto, siempre ha existido. Habita en la Cúpula Celeste, en el Cielo Este o Wintek y nunca ha estado en la Tierra.
De acuerdo al mito, Temáukel es el creador de la Cúpula Celeste y la Tierra primitiva. A esta envió a Kénos con la misión de darle forma y crear a la humanidad.

I dati riportati da Peyro Garcia contrastano sensibilmente con quelli riportati dalla Wikipedia in lingua spagnola. Non è possibile che entrambe le descrizioni siano vere. Se Peyró García ha ragione, allora Wikipedia riporta falsità o dati male interpretati. Al contrario, se Wikipedia riporta dati fidedigni, allora l'articolo di Peyró García contiene falsità. Come verificarlo? Semplice. Si deve compiere un'indagine. 

Applicazione del Perpendiculum

La stessa pagina della Wikipedia sopra menzionata rimanda a uno splendido e dettagliato lavoro di Martin Gusinde sul mondo spirituale degli Shelk'nam. È consultabile e scaricabile gratuitamente seguendo questo link:


Quanto esposto è di una complessità incredibile. Giungo quindi alla conclusione che è semplicemente impossibile che un simile apparato mitologico possa essersi formato nel giro di pochi anni dall'influenza della predicazone dei missionari salesiani. Non risulta inoltre che Temaukel (con le sue varianti) sia la traduzione di "parola". Anzi, era considerato un nome tabù che non veniva mai pronunciato e che incuteva paura superstiziosa. Quindi le informazioni riportate dall'articolo di Peyró García a questo proposito devono ritenersi fabbricazioni o frutto di gravi distorsioni. Le possibilità sono due: 

1) L'autore si è fidato della propria memoria, riportando qualcosa di cui era erroneamente convinto senza prima verificarla (come può accadere a chiunque);
2) L'autore ha forgiato la glossa erronea temaukel "parola" a bella posta, cum dolo.

La falsa glossa temaukel "parola" deve essere in ogni caso considerata come un meme. In altre parole appartiene al regno della disinformazione. Per quanto riguarda il missionario Borgatello, le sue dichiarazioni potrebbero essere frutto di un fraintendimento, dovuto all'estrema riluttanza dei popoli della Terra del Fuoco a parlare delle cose a loro più sacre. In altre parole, le religioni dei Fueghini erano esoteriche.

LA SCOMPARSA DELLE LINGUE DELLA PATAGONIA: I PRESTITI INGLESI IN YAMANA

Il processo di assimilazione linguistica

Vista in generale, la scomparsa delle lingue patagoniche fu una conseguenza diretta della dispersione e dell'estinzione delle loro comunità di parlanti. Tuttavia nel breve lasso di tempo di questa tragedia, dal primo stanziamento permanente degli occidentali nella regione fino alla scomparsa delle società indigene, le lingue hanno avuto il tempo per soffrire un brutale processo di distruzione semantica e funzionale, correlativo linguistico della liquidazione delle forme di vita autoctone. Gli studi sul campo compiuti dai linguisti nel XX secolo raccolgono le lingue in questo stato terminale, non solo per quanto riguarda la loro vitalità in numero di parlanti, ma anche riguardo alle loro caratteristiche strutturali. Molte delle distinzioni semantiche autoctone si erano già perdute, e solo un minuzioso studio etimologico ci permette di ricostruirle oggi a partire dai dati conservati. Il nuovo mondo occidentale era penetrato in tutte le sfere della vita, incluse quelle simbolico-comunicative. Non senza motivo i missionari avevano considerato il lavoro linguistico come una parte sostanziale dell'attività evangelica: non solo per poter comunicare con i nativi, ma anche e soprattutto per introdurre nelle loro lingue (ossia nel loro mondo) i fondamenti della visione cosmologica occidentale della realtà, ciò che Bartolomeu Melià, in un altro contesto sudamericano, ha denominato creazione di lingue cristiane indigene.
Il processo di assimilazione linguistica è il primo passo verso la scomparsa delle lingue in quanto tali. In una prima fase, il parlante indigeno interiorizza nella sua lingua - mediante metafora, calco semantico o prestito diretto - le strutture cognitive della lingua dominante. In una seconda fase, il parlante abbandona progressivamente la sua lingua in favore della lingua che esprime tutto in un modo più coerente e semplice, la lingua dominante, che è anche un importante segno di prestigio del nuovo ordine sociale.
La sua lingua comincia a diventare inutile ai suoi stessi occhi, perché alla fine viene ad esprimere le stesse cose della lingua dominante, però con gravi carenze (le distinzioni non interiorizzate) e con inutili remore (i resti nella grammatica e nel lessico delle antiche distinzioni, che hanno cessato di essere operanti), senza dimenticare le connotazioni sociali che va acquisendo il suo uso preferenziale.
Lo studio di questo fenomeno nel caso delle lingue patagoniche è lungi dall'essere concluso. Per portarlo a termine disponiamo soprattutto, come già detto, di materiale raccolto proprio durante il processo di distruzione culturale e linguistica.
Segnaleremo giusto alcuni aspetti di ciò. In yahgan o yamana, la lingua dei canoisti che soffrirono gli esperimenti missionari degli angliscani nel XIX secolo, il numero di prestiti dall'inglese finì con l'essere molto importante. Sia Guerra (1995) che Poblete y Salas (1997), che fecero indagini linguistiche tra i suoi ultimi parlanti, registrarono un buon numero di termini inglesi incrostati nella lingua, termini che si conservavano anche nell'ambiente ispanofono in cui questi ultimi informatori si muovevano da decenni. Risulta significativa la distribuzione di questi termini inglesi per campo lessicale.
Un certo numero di questi pare inevitabilmente vincolato alle nuove realtà introdotte dagli inglesi: glas ‘vetro’, naif ‘coltello’, nísel ‘ago (di acciaio)’, sit ‘seme’, ti ‘tè’, túra ‘porta’, bred ‘pane’, plánket ‘coperta (di fabbrica)’, powt ‘barca’, kuk ‘cucina’. In questo gruppo sono inclusi i nuovi animali e le loro nuove parti: kiáta ‘gatto’, sip ‘pecora’, xorn ‘corno’. Allo stesso modo le nuove realtà umane derivate dal contatto con gli europei: lam-a ‘ubriaco’ sembra procedere dall'inglese rum, che sarebbe anche la base del gününa küne lam ‘vino’ e del tehuelche lama ‘essere ubriaco’ e laam ‘bevanda alcolica’.
Tuttavia in altri casi l'adozione di elementi inglesi parrebbe superflua, visto che sarebbe logico aspettarsi l'esistenza di termini autoctoni: rótna ‘marcio’, fáta ‘grasso’, mílik ‘latte’, fláwers ‘fiore’, rut ‘cammino’, péipi ‘bebè’. La spiegazione per l'incorporazione di questi elementi può fondarsi solo nel fatto che designavano nuovi usi culturali di queste realtà, ad esempio un nuovo ruolo sociale dei bambini piccoli a partire dal concetto europeo di infanzia, un nuovo uso alimentare del latte e del grasso (a partire dallo sfruttamento del bestiame), etc.
Di particolare interesse è il termine raccolto da Guerra (1995) usato dagli stessi indigeni per designarsi: intjan (dall'inglese Indian), termine integrato con elementi autoctoni in vari vocaboli derivati: intjan-kuta ‘la lingua yahgan’, wata-intjan ‘gli antichi yahgan’. Gli indigeni hanno adottato il termine che gli europei usavano per designarli perché essi stessi già cominciavano a vedersi attraverso nuovi occhi, accettando così in qualche modo il ruolo che era stato loro assegnato nella nuova società bianca.

Miguel Peyró García (Università di Siviglia), La desaparición de las lenguas de la Patagonia, 2005.
Traduzione del sottoscritto, 2016.

lunedì 18 aprile 2016

ALCUNE NOTE SUL CULTO DEL PORCO TRA GLI ANTICHI CELTI

Un antico zoonimo usato dai Celti e dai Liguri è tuttora vivo nelle lingue celtiche superstiti. Si tratta della radice *mokko- "maiale, porco". Non si trovano paralleli credibili in altre lingue indoeuropee, così è molto probabile che si tratti di una voce indigena, presa da un sostrato neolitico estinto da epoca preistorica. Il significato più antico dovrebbe essere "cinghiale". Queste sono le attestazioni degli esiti di *mokko- nelle lingue britanniche e nel gaelico:

Gallese moch "maiale" 
Bretone moc'h "porcello" 
Cornico mogh "maiali" 
Gaelico muc "maiale" (f., gen. muice),
  da una variante femminile *mokku:-,
  gen. *mokkja:s.

Se l'epiteto "porco" conferito alla divinità suona oggi come bestemmia, all'epoca dei Celti era invece un segno di fecondità, di robustezza e addirittura di regalità. Si deve notare che a quei tempi il maiale era ancora poco distinto dal suino selvatico, il cinghiale. Più che la sua sporcizia, erano la sua aggressività e la sua natura fiera a colpire l'immaginazione. Infatti nella Gallia Transalpina ci è ben noto un MERCURIUS MOCCUS, attestato al dativo come MERCVR(IO) MOCCO in un'iscrizione (CIL XIII : 5676, Civitas Lingonum, più anticamente Andematunnum, attuale Langres). Non dobbiamo dimenticarci che Mercurio è un'interpretazione romana di Lugus, che aveva come attributo proprio un cinghiale. Nel territorio dei Leponzi, nell'attuale Crevoladossola, è stata trovata un'iscrizione dedicata a TINCUS MOCCUS. Anche nell'onomastica celtica dell'epoca romana questa radice era ben diffusa: abbiamo attestati antroponimi sia maschili che femminili come ad esempio Moccus, Mocius, Mocca, Mocia, Mocceius, Moccia, Mocco, Mocus. L'onomastica dei Liguri mostra Mocco o Moco, che sopravvive nell'odierno toponimo Mocònesi.

Al giorno d'oggi la venerazione del maiale è stata ripresa in forma degenerata e travisata da alcune conventicole settarie della Wicca, che hanno dato origine a obbrobriose tregende in cui donne e uomini si accoppiano con i porci. In Inghilterra è tale la tolleranza per queste malsane attività di bestialismo erotico che The Telegraph ha dedicato un articolo all'argomento, mostrando l'immagine di una coppia in rivoltante promiscuità con un suino in visibile stato di eccitazione. Questo schifo abietto è stato etichettato con la scritta "So romantic". Non ci credete? Seguite questo link: 

domenica 17 aprile 2016

LE ORIGINI DI DESIO

La città oggi nota come Desio era un borgo chiamato Deussio nel X secolo. In seguito sono comparse le varianti Deuxio e Dexio, dove -x- è meramente grafica per -ss-, -s-. Il suo nome non deriva la sua origine dal vocabolo latino Deus o dal greco Zeus, come pure è stato proposto da etimologi incompetenti. Tali derivazioni sono impossibili per motivi morfologici e fonetici. Qualsiasi persona con conoscenze anche esigue di latino e di greco capirebbe che in Deus e in Zeus la finale -s non fa parte della radice (basti considerare le forme declinate) e quindi non è possibile derivarne formazioni come *Deusius e *Zeusius, anche senza menzionare la presenza della consonante doppia nel toponimo antico. Un'etimologia popolare è senza dubbio anche quella che rimanda a Deusdedit, ossia "Dio diede". C'è tuttavia anche di peggio: per molto tempo è stata in auge una paretimologia delirante che riconduceva Desio al latino ad decimum, perché situato "a dieci miglia da Milano verso Como".

L'autentica etimologia del toponimo in questione è da una radice celtica che indica lo spirito immondo, documentata da Agostino d'Ippona come dusius "demone". Questa è la citazione (De Civitate Dei contra Paganos):

"Et quoniam creberrima fama est multique se expertos uel ab eis, qui experti essent, de quorum fide dubitandum non esset, audisse confirmant, Siluanos et Panes, quos uulgo incubos uocant, inprobos saepe extitisse mulieribus et earum appetisse ac peregisse concubitum; et quosdam daemones, quos Dusios Galli nuncupant, adsidue hanc inmunditiam et temptare et efficere, plures talesque adseuerant, ut hoc negare inpudentiae uideatu." 

Anche Isidoro di Siviglia ne parla (Originum sive Etymologiarum): 

"Pilosi, qui Graece Panitae, Latine Incubi appellantur, sive Inui ab ineundo passim cum animalibus. Unde et Incubi dicuntur ab incumbendo, hoc est stuprando. Saepe enim inprobi existunt etiam mulieribus, et earum peragunt concubitum: quos daemones Galli Dusios vocant, quia adsidue hanc peragunt immunditiam."

Nel celtico locale dell'Insubria doveva suonare *Deuđđios, dove -đđ- esprime un suono interdentale simile a quello dell'inglese thin, ma forte. Il termine è dalla radice indoeuropea *dhwes- "spirito". Il dusius di Agostino può rappresentare un diverso grado apofonico (se sta per /'dusius/ o /'du:sius/) o una forma tarda (se sta per /'du:ssius/. Il toponimo lombardo è ben compatibile con la forma cornica dus "diavolo" e con quella bretone teus "folletto", che conservando una sibilante devono derivare da una forma gallica con -đđ- (< *-st-). La vocale cornica u e il dittongo spurio bretone eu trascrivono entrambi il suono /y/, e questo deve derivare da un precedente dittongo: *douđđios. Si tenga conto che -eu- è nella lingua gallica un arcaismo, presto sostituito da -ou-, quindi anche da -o- /o:/ e da -u- /u:/, come dimostrato dall'attestazione di centinaia di antroponimi di epoca romana. Nel toponimo Deussio si è invece avuta la riduzione del dittongo -eu- in -e-, come è accaduto anche in un altro nome di luogo di chiara origine indoeuropea: Leucum, che è diventato Lecco.

Stessa etimologia ha l'inglese Deuce "Diavolo", che non è realmente dall'antico francese deus "due" (moderno deux) inteso come il punteggio dei dadi. Questa è soltanto una paretimologia o etimologia popolare, un tentativo del volgo e di studiosi ingenui di spiegare Omero con Omero. A riprova di questa origine celtica, si cita la presenza della forma ducius, evidentemente per dusius, che glossa alcuni vocaboli per indicare i demoni nel Promptorium parvulorum sive clericorum (anno 1440):

Bugge, or buglarde. Maurus, Ducius.
Thyrce, wykkyd spyryte. Ducius.

Ebbene, questo ducius è la fonte diretta di Deuce nell'accezione di Diavolo. Si noti che la grafia con la lettera c per /s/ si trova anche nella parola thyrce, che è direttamente dal protogermanico *þurisaz "demone": norreno þurs "gigante", gotico *þauris /'θɔris/, che si trova nell'antroponimo Thorismodus, ossia *Þaurismoþs "Ira del Demone"

Il termine celtico all'origine del nome di Desio si ritrova non solo in varietà dialettali del francese, ma anche nel romancio (dischöl "folletto" < *dusiolus), nel tedesco della Westfalia (dus "diavolo") e persino nel basco (tusuri "bestia").

venerdì 15 aprile 2016

L'ETIMOLOGIA ARABA DEL ROMANESCO COATTO SCIALLO 'TRANQUILLO'

Di origine abbastanza recente, la parola gergale sciallo "tranquillo", deriva chiaramente dall'arabo inshallah /in'ʃa:lla/, alla lettera "se Dio vuole", "Deo volente". Il termine arabo è denso di significati teologici, indicando la totale sottomissione dell'uomo a Dio e l'assoluta mancanza di controllo dell'essere umano sul proprio futuro. Aliene a simili sottigliezze, le genti hanno usato questa espressione per tradurre un concetto simile a "così sia". Questa voce deve essere passata dall'arabo al gergo dei coatti romani tramite mediazione carceraria. A un certo punto, i detenuti avevano appreso ad usare la voce "scialla" come intercalare neutro nel senso di "va bene" e quindi di "stai tranquillo". Da questo uso deve essere presto nato un aggettivo nuovo, assimilato alla morfologia italiana: sciallo. Questo articolo, comparso su Repubblica nel 2005, menziona esplicitamente il coattismo in questione: 


È difficile stabilire quando esattamente è avvenuta la formazione dell'aggettivo. Dal romanesco coatto il termine si è diffuso in tutta Italia subendo molteplici slittamenti semantici anni prima della pubblicazione dell'articolo sopra menzionato. Già negli anni '90 dello scorso secolo, ho sentito usare scallo in piena Brianza col significato di "bello" o come equivalente di "figo". Così la frase "è sciallo" valeva semplicemente "è bello", segno che la parola si era già adattata da tempo alla realtà locale: in romanesco coatto il verbo richiesto dalla parola è invece stare"sto sciallo" significa "sono tranquillo". In particolare ho udito molto spesso questa parola in bocca a torme di giovinastri decerebrati in quel calderone di ladri e di malfattori d'ogni genere che è diventata la città di Achille Ratti.

La parola scialla era già penetrata in suolo italico in un'altra occasione, ai tempi dei contatti tra Genovesi e Saraceni, dando origine all'esclamazione scialla! "evviva!" Alcuni la fanno risalire a wa shallah /wa'ʃa:lla/ "e Dio volendo", sinonimo di inshallah, anche se distinguere tra le due forme non sembra molto facile, visto che la sillaba iniziale è caduta. Riporto infine il link a un articolo dell'Accademia della Crusca che fa menzione dell'esclamazione ligure, anche se nutro forti dubbi sulla proposta di collegare a questa voce l'italiano scialare e alcuni suoi paralleli dialettali, tutte voci che più probabilmente derivano dal latino exhalare.

giovedì 14 aprile 2016

ROMANESCO COATTO MECCA 'PROSTITUTA'; FRANCESE MEC 'INDIVIDUO'

Nel romanesco coatto esiste il vocabolo mecca, tradotto in genere con "prostituta", ma talvolta anche con "ragazza". L'origine di questo coattismo è presto individuata: si tratta della voce colloquiale francese mec, che significa "individuo", "tizio", "tipo", "uomo", "ragazzo". Non soltanto: presenta tutta una gamma di significati che vanno da "marito" a "cicisbeo", da "uomo energico" a "pappone". A prima vista il suo campo semantico sembra essere affine a quello dell'inglese guy "individuo, tizio", ma mostra una tale varietà di slittamenti semantici da stupire non poco.

Qual è il significato originario della parola? Quale ne è l'origine? Quando siamo di fronte a simili termini gergali, dobbiamo innanzitutto delimitare il valore semantico da cui tutto ha avuto inizio. La cosa non sempre è ovvia. Ad esempio pochi italiani sanno che il sopracitato termine inglese guy in origine significava "fantoccio" e che è derivato dal nome di Guy Fawkes. La parola in questione è diventata tanto comune da affiancarsi a man "uomo" e da fargli concorrenza, ponendo seri problemi a eventuali futuri studiosi di archeolinguistica, posto che l'umanità potrà davvero sopravvivere abbastanza a lungo.

Con il francese mec i problemi non sono irrilevanti. Il termine ha cominiato ad apparire in questa forma nel XIX secolo, e per spiegarlo sono state elaborate le più fantasiose paretimologie. Eccone un elenco:  

1) La parola sarebbe un acronimo di mis en cause, ossia "chiamato in causa": si sarebbe formata dalle sue iniziali. Questa proposta è talmente ridicola da meritare soltanto compatimento, come le più stravaganti etimologie popolari scaturite dalla natura belluina del volgo ignorante.
2) La parola sarebbe derivata da quel bizzarro Meg usato da Balzac per indicare Dio. Sarebbe un'abbreviazione di mégot, termine gergale che significava "fumatore". A parte il fatto che non è facile trovare attributi condivisi tra Dio e i fumatori, mi si dovrebbe spiegare quale singolare catena di slittamenti semantici avrebbe portato all'attuale gamma di significati del termine mec. Senza contare che il passaggio da /g/ finale a /k/ sarebbe esso stesso anomalo.
3) La parola sarebbe derivata dall'uso gergale di maquereau "sgombro". Secondo questa proposta etimologica, il termine mec sarebbe una variante del pur comune mac, che però ha un campo semantico più limitato: significa soltanto "prosseneta", "pappone". Lo sgombro è un pesce aggressivo e vorace, donde lo slittamento semantico a "lenone" sarebbe stato un naturale sviluppo. La variante mec /mɛk/ sarebbe stata retroformata da una pronuncia dialettale /mɛ'kRo/ per /ma'kRo/.

In realtà gli sgombri non c'entrano nulla. Il termine maquereau "sgombro" - che alcuni etimologi fanno goffamente risalire a un composto delle parole latine macula e radiata, con l'aggiunta di un suffisso diminutivo - ha infatti già da secoli un omofono col senso di "protettore, lenone", che ha però tutt'altra etimologia: si tratta di una somiglianza casuale. Nella lingua d'oïl medievale esisteva infatti maquerel "intermediario", a sua volta dal francone (cfr. olandese makelaar "intermediario"). È questo il significato primitivo della parola, che è di origine germanica e deriva dal verbo protogermanico *mako:nan "fare": antico alto tedesco mahhôn, antico sassone makôn, makoian, antico inglese macian /'makjan/, norreno maka. Nell'attuale tedesco abbiamo machen "fare" e in inglese to make "fare": quest'ultimo vocabolo è a tutti ben noto. In francese esiste poi un altro parente di maquereau, derivato dalla stessa radice germanica: è il verbo maquiller, che attualmente significa "truccarsi" (donde maquillage), ma che in epoca più antica significava "lavorare a qualcosa, fare" (antico piccardo maquier "fare").  

Adesso possiamo tornare all'Urbe. La parola francese mec è passata in romanesco in epoca recente in una forma femminile mecca, che in origine significava "tizia, tipa", quindi "ragazza" (fine XIX secolo). Infine per ulteriore slittamento semantico è giunta a significare "prostituta", e in questa accezione è documentata nella narrativa del XX secolo (Pasolini, 1955; 1959). Nel gergo della malavita romana (fine XIX secolo) la semantica era diversa: mecca significava "signora, padrona" ed esisteva anche il maschile mecco "signore, padrone". Allego alcuni link: 


sabato 9 aprile 2016

ROMANESCO COATTO MARANGA, MARANCA 'TEPPISTELLO'

A Roma la parola maranga (variante maranca) indica un bullo che, a differenza del coatto, ha la sua ragion d'essere nella vigliacca persecuzione delle persone più deboli e su queste infierisce senza pietà. Alcuni la traducono semplicemente con "teppistello". La sua origine è ritenuta oscurissima: l'unico tentativo etimologico che ho trovato non risulta davvero convincente. Circola infatti nel Web l'idea che il vocabolo abbia un'origine onomatopeica: "termine d'etimologia incerta, probabilmente con accostamento bestiale scimmiesco". Veniamo così ad apprendere, con grande stupore, che le scimmie urlando articolano i seguenti suoni: "Marang! Marang!" Peccato che tutto ciò sia incredibilmente stupido. Occorre cercare qualcosa che sia più sensato di queste proposte farlocche, che sono come sterpi ed erbacce.

In realtà l'origine ultima di maranga, maranca "teppistello" (< "individuo brutale") è l'omonimo vocabolo che indicava la scure. Lo slittamento semantico diretto da "scure" a "individuo brutale" sarebbe ben comprensibile, ma l'attestazione di maranga "arruffone, che lavora alla carlona" (Lurati / Pinana, 1983, 276) implica una complessa catena di passaggi, che vediamo di analizzare.

La parola marra "zappa, ascia, scure", documentata già in latino, è di origine preromana. Non esiste alcuna connessione indoeuropea credibile, mentre si trovano paralleli interessanti nell'ambito dell'antico egiziano e dell'accadico: 

antico egiziano (dall'Antico Regno):
mr "zappa", da pronunciarsi /mar/ 

accadico:
marrum "vanga, pala" Si trattava di una lama triangolare che poteva essere usata come zappa o come ventilabro.

siriaco (aramaico):
mar "zappa" < accadico

ebraico mishnaico:
mar "zappa" < accadico

L'origine ultima di questi vocaboli culturali è il sumerico ngar (variante mar) "vanga, pala; ventilabro". Il quella lingua il fonema ng /ŋ/ alterna molto spesso con m (vedi Halloran, Sumerian Lexicon).  

Per tornare a noi, è alquanto probabile che il termine marra avesse una grande diffusione tra le lingue preromane della penisola. Infatti da questa radice deriva *marranca, con un suffisso molto produttivo, -anc-, che è caratteristico dell'antica lingua dei Liguri - anche se in realtà era vitale in un'area ben più estesa.

Tramite il suffisso latino -o (gen. -onis) sono stati formati due discendenti di questo *marranca, che sono ben documentati in territori tra loro molto lontani. Si tratta di marangone "palombaro" e di marangone "falegname".

È chiaro che la denominazione del falegname tragga la sua diretta origine da quella della scure, suo abituale strumento di lavoro. La denominazione del palombaro è un calco del nome del pellicano e di altri uccelli marini. Il latino pelecanus viene dal greco πελεκάν (variante πελεκανός "folaga"), a sua volta da πέλεκυς "ascia", per la forma del suo becco. Così marangone è stato coniato col senso originario di "pellicano" da *marranca, traduzione della parola greca per "ascia". Da "pellicano" (poi "cormorano", "smergo") il vocabolo è giunto a indicare il palombaro a causa degli usi dell'uccello marino, che si immerge tra i flutti per procacciarsi il cibo. Questi slittamenti semantici di certo potranno sembrare poco comprensibili al lettore, ma alla luce della documentazione sembrano indubitabili. Questo perché si tende a valutare lo slittamento a partire dalla forma iniziale e dai risultati finali come se il passaggio fosse avvenuto in un lasso di tempo ristrettissimo, mentre in realtà ci sono voluti molti secoli, il processo essendo avvenuto tramite piccoli passi impercettibili. 

A questo punto si vede come si sia potuto formare maranga "lavoratore grossolano". Da questo significato si è giunti a "individuo rozzo", quindi a "individuo bruto, violento e manesco", che ha dato il lemma coatto. In certi gerghi giovanili la parola è giunta a significare "nordafricano" e ad essere usata come sinonimo delle voci maruego e magrebba, che provengono chiaramente dal nome del Marocco (Maghreb).  

Rimando a questo punto a un articolo bellissimo e completo di Christian Schmitt (Università di Bonn) sull'etimologia di marangone "palombaro" e marangone "falegname", che invito tutti a leggere: 

UNA PROPOSTA ETIMOLOGICA PER IL ROMANESCO BURINO

Ben nota è la parola romanesca burino "contadino, campagnolo", quindi passata ad indicare una persona volgare e ignorante, dai modi rozzi. Le false etimologie non mancano, come spesso accade per le voci più tipiche del dialetto di Roma. Le riassumo in questa sede, fornendole di confutazione dove necessario:

1) I burini sarebbero stati in origine pastori che venivano nell'Urbe per vendere il burro. In romanesco è risaputo che alla consonante forte /rr/ dell'italiano corrisponde /r/ in modo sistematico: si ha guèra per guerra; tèra per terra; fèro per ferro; bìra per birra, e così bùro per burro. I burini dunque sarebbero stati in origine dei *burrini. Decisamente un'etimologia ingenua.
Non mi risulta che la formazione abbia alcun parallelo noto nell'intera Romània.  

2) Essendo in latino buris /'bu:ris/ il manico dell'aratro, i contadini ne avrebbero preso il nome. Secondo la spiegazione più diffusa, all'epoca dello Stato Pontificio, sarebbero avvenuti flussi migratori stagionali di braccianti romagnoli nell'Agro Pontino. La cosa pare poco probabile, dato che l'Agro Pontino era una terra paludosa di miseria e di morte, infestata dalla malaria e ben poco adatta a coltivazioni stagionali: fu il sempre vituperato Mussolini che la bonificò, eradicando le piaghe che la affliggevano da secoli. Certo, il burino è un contadino nel senso letterale della parola (è un abitante del contado), ma è più un pastore che un agricoltore. Data l'aria mefitica dei paesi fuori Roma e le febbri ricorrenti, non si può credere al burino aratore, capace di sgobbare dal mattino alla sera impugnando la bure. In effetti i burini erano più che altro pendolari, che giungevano a Roma il lunedì mattina per vendere prodotti della pastorizia, vi restavano l'intera settimana tornandosene a casa il sabato sera. Non mi risulta che la formazione abbia alcun parallelo noto nell'intera Romània.  

In alcune lingue romanze il latino bu:ri(m) ha lasciato discendenti:

piemontese bü "manico dell'aratro"
sardo sa buri "il manico dell'aratro"

Tuttavia non mi risulta che la parola sia mai stata vitale nell'Italia centrale. Nello stesso italiano, il lemma tecnico bure ha l'aria di essere stato reintrodotto dai letterati. Chi ritiene fondata la derivazione di burino da bure, dovrebbe fornire prove che bure fosse parola viva nelle varietà dialettali di Roma e del Lazio.

Sull'origine ultima della parola latina buris, prova del fatto che si trattava di un vocabolo importato sono le sue peculiarità morfologiche: accusativo sing. in -im (burim) e ablativo sing. in -i (buri). Può essere accostata al greco γύης "legno curvo dell'aratro" e risalire a una protoforma *gwu:sa:- con regolare rotacismo. Tale radice sembra indoeuropea come mandolino sembra inglese. La costumanza tipica dei romanisti di spulciare vocabolari di latino per cercare etimologie senza analizzare l'origine dei lemmi dovrebbe finire una volta per tutte.

Riporto il link a un articolo dell'Archivio Storico del Corriere della Sera, che insiste con la falsa etimologia appena confutata:


3) Una possibile etimologia germanica è stata segnalata da altri romanisti. Si rifà a una forma longobarda, ricostruita come *gaburo "garzone", corrispondente in tutto all'antico alto tedesco gibûro "garzone". Nella lingua longobarda da noi ricostruita (conlang neolongobarda), che utilizza la nobile tradizione di /p/ per l'antico /b/, si ha CAPURO /ka'pu:ro/. In ultima istanza la sua radice corrisponde al tedesco odierno Bauer "contadino". Il problema è che una forma germanica di questo tipo non avrebbe mai sostituito la sua terminazione con un suffisso diminutivo romanzo. Avremmo, in altre parole, *buro o *burone, non burino. Per inciso, la forma buros usata nel gergo dei Paninari di Roma (anni '80 del XX secolo) è soltanto una retroformazione.

4) Mi è stata segnalata da un navigatore l'assonanza tra il romanesco burino e l'olandese boerin "contadina" /'bu:rin/. Secondo lui, la parola romanesca sarebbe discesa naturalmente dall'olandese. Tuttavia vediamo come proprio il suffisso femminile -in sia un ostacolo. Bisognerebbe assumere che la forma originale fosse un femminile burina "contadina", da cui burino sarebbe stato retroformato. Di queste manipolazioni tuttavia non si trova traccia alcuna e non si riesce bene a capire come dall'Olanda la parola possa essere arrivata a diventare popolare a Roma. In realtà l'olandese non è una lingua così eccezionale come alcuni ritengono: è semplicemente parte di una varietà di basso tedesco denominata lingua francone, e la radice di boer /bu:r/ "contadino" è naturalmente condivisa da tutte le forme continentali di germanico occidentale anteriori alla dittongazione di /u:/ in /au/ così tipica del tedesco moderno. Si rimanda così al punto 3).   

Un'audace proposta

Per quel che mi riguarda, la più probabile etimologia di burino è quella già proposta nel Ventennio da Carlo Bornate in un suo manuale scolastico di storia romana a uso dei ginnasi superiori. In un memorabile brano sugli antichi Aborigeni, considerati i primi abitatori non indoeuropei del Lazio, l'autore suggeriva che discendenti di quelle genti fossero proprio i burini, ossia i pastori dell'Agro Pontino e delle montagne che ancora ai suoi tempi si vedevano calare a Roma. La parola latina classica è Abori:gine:s, gen. Abori:ginum (priva di singolare), ma si ha il sospetto che la forma originale sia stata adattata per ricalcare l'etimologia popolare dalla locuzione ab ori:gine, ossia "dall'origine". Tale paretimologia è da rifiutarsi, anche perché esiste la testimonianza di una forma greca Βορειγονοι (Licofrone).
Non è impossibile che *Bori:goni: e *Bori:geni: fossero le forme di partenza. Il passaggio da *Bori:geni: a Burini non è impossibile:

/*bo'ri:geni:/ > /*bo'ri:jeni:/ > romanesco /bu'ri:ni/.

Il mutamento sarebbe ben simile a quello che ha portato da /'digitu-/ a /'di:to/.

Questa parola potrebbe aver sviluppato la sua attuale fonetica nell'epoca oscura che seguì il crollo dell'Impero d'Occidente, quando la popolazione romana si era inselvatichita e tra le rovine dell'Urbe sparuti gruppi di pastori vivevano in condizioni peggiori di quelle vigenti nel Neolitico. Erano i tempi in cui hanno avuto origine i Frangipani (o Frangipane), da *Frangipagani, così chiamati per le loro guerre contro i pagani dei Monti della Tolfa. Anche qui in caso di dileguo di -g- intervocalica, addirittura tra vocali centrali.

domenica 3 aprile 2016

LA SPAVENTOSA DECADENZA DELLE UNIVERSITÀ


Grande è stata la mia indignazione quando mi sono imbattuto in un articolo pseudoscientifico intitolato "La civiltà dell'Isola di Pasqua non fu distrutta dalle guerre". In sintesi, per i ricercatori della Binghamton University di New York guidati da Carl Lipo, Rapa Nui sarebbe stata un paradiso di ecosostenibilità fino all'arrivo degli Europei e non avrebbe conosciuto alcuna crisi ambientale. La prova di ciò? Semplice: le punte di ossidiana, chiamate mata'a nella lingua pascuense, sarebbero state in realtà "utensili domestici", perché questo indicherebbero fantomatiche "analisi morfometriche". A cosa sarebbero serviti questi "utensili domestici"? Per l'agricoltura e per fare i tatuaggi, ci assicura Lipo. Sì, e magari anche per fare la birra.

Non userò mezzi termini. La Binghamton University di New York è costituita essenzialmente da idioti. Sono fin troppe le università che pullulano di chierici traditori la cui unica occupazione è farsi pulire con la lingua il solco balano-prepuziale dalle studentesse. Snervati da interminabili sessioni di fellatio, questi accademici sono in grado soltanto di produrre deliri e baggianate: sembra proprio che ad ogni eiaculazione un po' di materia grigia venga drenata dal cranio e finisca espulsa dal membro.

Revisionismo e negazionismo la fanno da padroni ogni qual volta occorre pronunciarsi su una qualsiasi questione storica o archeologica. Le tradizioni della popolazione nativa oggetto di qualsiasi studio vengono dismesse come irrilevanti. Altrettanto insignificanti sono considerate le testimonianze dei navigatori europei, che hanno visto con i loro occhi le cose di cui hanno scritto. 

Il caso dell'Isola di Pasqua è paradigmatico. Ogni proposizione di questi membri dell'Accademia di Lagado è dominato dalla fallacia logica detta "non sequitur". Il fatto che le punte in ossidiana siano da loro considerate utensili non significa che non ci sia stata un'esplosione di ostilità. Le loro conclusioni sulle mata'a sono infondate, ma anche se si rivelassero esatte, quali ne sarebbero le conseguenze? Non cambierebbe nulla. L'ha detto nessuno a quei babbioni decerebrati che esistono anche le armi improprie? In una società dominata da una tirannia, gli insorti usano ciò che hanno sotto mano. Lo ha mai insegnato nessuno ai ricercatori della Binghamton? 

Questo è quanto è riportato da Jared Diamond nel suo libro Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere:

"Furono già i primi coloni, approdati sull'isola attorno al 900, a iniziare ad abbattere gli alberi. La deforestazione era ormai completa nel 1722, anno in cui Roggeveen, sbarcando sull'isola, non vide nessuna specie vegetale più alta di 3 metri. Siamo in grado di determinare con esattezza quando l'isola perse il suo ultimo albero? Ci sono cinque tipi di indizi che ci aiutano a rispondere a questa domanda. Gli esami con il radiocarbonio effettuati sulle noci di palma indicano in genere una datazione anteriore al 1500, ed è quindi probabile che la palma diventò rara o si estinse dopo quella data. Sulla penisola di Poike, che possiede il suolo meno fertile dell'isola e che dunque fu la prima area a essere deforestata, le palme scomparvero prima del 1400 circa, mentre il carbone derivato dall'abbattimento degli alberi spari attorno al 1440. Tuttavia, alcune tracce di attività agricola risalenti a epoche posteriori attestano che gli esseri umani continuarono a vivere in quella zona ininterrottamente. I campioni che Orliac ha datato, prelevandoli dai forni e dai cumuli di rifiuti, mostrano che il carbone fu rimpiazzato da combustibile erbaceo dopo il 1640. Ciò avvenne anche presso le abitazioni dell'élite, che avrebbe potuto usufruire degli ultimi e preziosi alberi rimasti anche quando ai contadini e alla gente comune fosse stato vietato l'accesso a quella risorsa in via di estinzione." 

Dalla stessa fonte, sulla catastrofe ambientale: 

"La storia dell'isola di Pasqua è il caso più eclatante di deforestazione mai verificatosi nel Pacifico, se non nel mondo intero: tutti gli alberi sono stati abbattuti e tutte le specie arboree si sono estinte. Le conseguenze immediate per gli isolani furono la perdita di materie prime e di fonti alimentari spontanee, nonché una diminuzione della produzione agricola. Le materie prime che andarono perdute o che rimasero disponibili soltanto in quantità nettamente ridotte erano tutte derivate dagli alberi o dagli uccelli che vi nidificavano: il legno, le funi, la corteccia per fabbricare il tapa e le piume. Il venir meno dei grandi alberi e delle funi pose fine al trasporto e all'innalzamento delle statue, così come alla costruzione delle canoe per la navigazione in alto mare."

Ancora Diamond, sull'impoverimento della dieta degli isolani: 

"Una volta esaurite le risorse lignee dell'isola, gli abitanti non poterono più costruire le robuste canoe per la navigazione in mare aperto. A partire dal 1500, infatti, gli ossi di delfino, la carne più consumata dagli isolani durante i primi secoli, scomparvero dai depositi di rifiuti, così come il tonno e gli altri pesci d'alto mare. Diminuì il numero degli ami e delle lische di pesce nei depositi di rifiuti, e rimasero soltanto resti di specie che potevano essere pescate in acque basse o dalla riva. Gli uccelli terrestri scomparvero del tutto, mentre gli uccelli marini si estinsero per due terzi. Gli individui delle specie sopravvissute, numericamente scarsi, furono costretti, per riprodursi, a rifugiarsi su alcuni isolotti al largo della costa. Le noci di palma, le bacche del melo malese e tutti gli altri frutti selvatici cessarono di far parte della dieta degli isolani. Si cominciarono a consumare specie di crostacei sempre più piccole e gli individui pescati diminuirono sempre di più in numero e in dimensioni. I ratti rimasero l'unica specie selvatica da carne la cui disponibilità restò immutata."

Sempre Diamond, sul cannibalismo:

"Nel 1774 il capitano Cook descrisse gli isolani come «piccoli di corporatura, scarni, timidi e infelici». La zona abitata sui bassipiani costieri, dove quasi tutti vivevano, si ridusse del 70 per cento in trecento anni, dal 1400 al 1700, ed è probabile che la popolazione sia diminuita di pari passo. Al posto della carne degli animali estinti, gli isolani iniziarono a consumare quella di una specie ancora disponibile e fino ad allora inutilizzata: l'uomo. Le ossa umane diventarono comuni non soltanto presso i luoghi di sepoltura, ma anche nei depositi di rifiuti più recenti, in cui è evidente che sono state spaccate per estrarne il midollo. Il cannibalismo ricorre ossessivamente nella tradizione orale degli isolani. L'insulto più bruciante che poteva essere fatto a un nemico era: «Mi è rimasta tra i denti la carne di tua madre»."

Alla faccia dell'ecosostenibilità e della vita idilliaca! Gli universitari incompetenti negano la terribile crisi ecologica che ha portato Rapa Nui al collasso? Allora facciano saltare fuori le risorse sparite, come ad esempio maiali, cani e polli! Se per questi buonisti scervellati regnavano l'armonia e equilibrio con la Natura, dove sarebbero finiti gli alberi abbattuti? Dementi, li facciano saltare fuori! Se non ci riescono, sono tenuti al Seppuku. 

Di certo gli sproloqui di questi accademici drogati non avranno fine con l'inverecondo articolo diffuso da Repubblica. È infatti in attesa una nuova pubblicazione della Binghamton University: "La civiltà dell'Isola di Pasqua fu distrutta dai Puffi!"