venerdì 12 luglio 2019

SENTIERI VERSO IL NIRVANA

Sofia giaceva distesa sul divano con gli occhi sbarrati.
Dalle casse dello stereo si spargevano per la stanza le note di "Aurora" degli Helevorn.
La tivù, accesa a volume zero, trasmetteva scene di guerriglia urbana.
"Sistemiamo la questione una volta per tutte", disse ad alta voce. Si alzò, andò in bagno, si vestì e prese dal cassetto della scrivania la pistola che vi era custodita, una Glock 17, e tre caricatori.
Alle 8 e 30 esatte si introdusse nella sede della Fondazione. Colpi d’arma da fuoco e grida di terrore risuonarono poco dopo in tutto il palazzo. 

Danilo mi telefonò all’una di notte. Ero sveglio e in balia dei consueti bruciori di stomaco, così risposi subito.
"Puoi raggiungermi?"
"Dove sei?"
"Al cinema" 
Era così che chiamava il piazzale del capannone dismesso situato a poca distanza dall’argine.
"Arrivo."
Sapendo dove si appostavano le pattuglie per i controlli, per evitare sorprese feci il giro largo . Dopo venti minuti ero sul posto. Imboccata la strada a fondo chiuso che conduceva al capannone, vidi la vettura di Danilo posteggiata accanto al muro di cinta. Accostai, scesi dall’auto e lo raggiunsi.
"Beh?"
"Ho un problema, anzi due."
Aprì il bagagliaio dell’auto e mi fece segno di guardare. All’interno c’erano due cadaveri. 
"Cos’hai combinato?"
"Abbiamo avuto una discussione."
"Animata, a quanto vedo. Chi erano?"
"Gente poco raccomandabile."
"E mo'?"
"Ho due badili sul sedile posteriore."
"Ma porca puttana. E dove la scaviamo la buca?"
"Tranquillo, qui dietro c’è un terreno incolto, non ci vede nessuno." 
"Grazie al cazzo."
"Dammi una mano a tirarli giù, dai."
"Gli hai tolto i documenti?"
"Ovvio." 
Fu una faticaccia d’inferno ma, stranamente, mi calmò il bruciore di stomaco. 

Rientrato a casa dopo tre ore, mi distesi a letto senza neppure svestirmi.
Mi svegliai a metà mattina e per prima cosa accesi il televisore.
Su tutti i canali non si faceva che parlare della strage alla Fondazione.
Riconobbi il viso di Sofia, "l’autrice del massacro", come la definì il giornalista.
Sofia… erano trascorsi dieci anni dall’ultima volta in cui l’avevo incontrata. Non sarebbe più accaduto: era stata abbattuta dalla polizia accorsa sul luogo dell’eccidio.
In meno di un’ora, Sofia era riuscita a far fuori venti persone.
Non male, per una ragazza che ricordavo timida e delicata. 

Pietro Ferrari, luglio 2019
DE CASU DIABOLI 

Dopo due giorni di autosegregazione, Anselmo si decise ad uscire di casa.
Era una tiepida giornata primaverile: il puzzo dei fanghi di depurazione sparsi sui campi toglieva il fiato. Un misto di odori molesti - escrementi umani e suini frammisti ad altre sozzure di ignota origine -, aleggiava sul territorio butterato dalle escavazioni, completamente spoglio di vegetazione.
Il sentiero che conduceva al torrente costeggiava un fosso in cui confluivano scarichi fognari. Ne esalavano lezzi nauseabondi. I campi erano letteralmente zuppi di liquami cloacali, ovunque si scorgevano pozze di putridume che il terreno non riusciva ad assorbire.
L'aria era letteralmente intrisa di merda.
Nei pressi di una casupola intravide un nugolo di bambini intenti a giocare a pallone. Somigliavano sinistramente ai nani del film di Cronenberg "La covata malefica". Giunto a poche decine di metri dal ponte, fu investito da una folata di aria rovente, seguita, poco dopo, dal fragore di una violentissima esplosione.
A occidente si levò una nuvola simile al fungo di un'esplosione atomica.
Dovevano essere esplose in simultanea svariate cisterne della vicina raffineria.
Mentre rientrava a casa, il cielo si venne via via oscurando. Un'enorme cappa di fumo si distese sulle campagne brulle e sull’abitato.
Ben presto fu tutto un risuonare di sirene di ambulanze e di mezzi dei vigili del fuoco. Immense lingue di fuoco si levavano all’orizzonte. E Anselmo sorrise. 

Pietro Ferrari, luglio 2019
UN INATTESO RITORNO 

Saranno state le sette di sera. Mi ero appena cambiato dopo essere tornato dal lavoro quando udii bussare alla porta.
Scostai le tende della finestra che dà sulla veranda e li vidi.
Erano in tre, talmente simili da risultare indistinguibili: alti un metro e sessanta, robusti.
Erano tre fantocci fecali, muniti di gambe e braccia e con una testa rudimentale. Benché la finestra fosse chiusa, fui investito da un pungente odore di escrementi. 
Venni colto dalle vertigini.
Stavo forse sognando?
No, erano proprio lì, dinanzi ai miei occhi, e non smettevano di bussare.
Mi accostai alla porta.
"Che volete? Chi siete?"
"Babbo! Siamo opera tua!"
"Che state dicendo? Io non vi conosco!"
"Come non ci conosci? Siamo usciti dal tuo buco del culo! Ci hai fabbricati tu, un poco alla volta, nel corso della tua esistenza."
In un istante compresi l'atroce verità: gli stronzi che avevo deposto in mezzo secolo si erano compattati, assumendo sembianze umane, ed ora si presentavano all'uscio di casa mia, in cerca di asilo!
"Andatevene, non vi voglio qui!"
"Non ce ne andremo."
"Chiamo la polizia!"
"Fai pure."
Mi attaccai al telefono.
"Polizia, aiuto!"
"Si calmi. Da dove chiama?"
"Dalla provincia di Pavia"
"Che succede?"
"Ci sono tre stronzi che vogliono entrare in casa mia!"
"Sono armati?"
"Non mi pare."
"Chi sono, esattamente?"
"Non lo so, non li ho mai visti prima!"
"Sono italiani?"
"Parlano italiano ma non so dirle se siano di qui."
"Senta, in questo momento le pattuglie sono tutte impegnate."
"E io che faccio?"
"Se la situazione degenera, richiami. Nel frattempo io allerto la pattuglia più vicina. Mi fornisca cortesemente il suo indirizzo."
Fornii il mio indirizzo.
I colpi alla porta proseguivano.
"Smettetela, stronzi!"
"Se non apri resteremo qui ad aspettare. Dovrai pur uscire, prima o poi."
"Adesso arriva la polizia!"
"Ne sei proprio sicuro?"
In quel preciso momento udii grida stridule provenire dal cortile della vicina.
Dunque non stava capitando solo a me?
"Siamo tornati! Non potrete più disfarvi di noi!" esclamarono in coro i tre fantocci.
Sbirciai nuovamente dalla finestra: gli stronzi stavano facendo il girotondo in veranda!
"Andate via! Non avete il diritto di insolentirmi!"
"Abbiamo tutto il diritto, invece. Sei stato tu ad averci prodotti, babbino."
"Non sono il vostro babbo!"
"E invece sì! Siamo il frutto delle tue interiora! Rivendichiamo le nostre prerogative!"
"Cosa vorreste che facessi? Che vi accogliessi in casa?"
"Ci sembra il minimo."
"Ma se puzzate da far schifo!"
"Non è certo colpa nostra, sei tu ad averci formati così."
"Basta! Non voglio più ascoltarvi, andate via!"
Mi rifugiai in saletta e accesi il televisore.
Il tiggì stava trasmettendo immagini riprese in piazza del Duomo a Milano: c'erano stronzi ovunque!
Era dunque quello il redde rationem?
La merda tornava a presentarci il conto?
Per troppo tempo ci eravamo cullati nell’illusione che le nostre feci fossero scomparse nel nulla, una volta tirato lo sciacquone del wc, ed ecco che ora l'erroneità di tale convinzione si manifestava in tutta la sua maleodorante evidenza.
Gli stronzi non si erano affatto dissolti come bolle di sapone, al contrario: si erano aggregati sino a formare quelli che, a tutti gli effetti, apparivano come manichini escrementizi animati.
Decisi di tentare il tutto per tutto: i tre stronzi presidiavano la porta sulla veranda? Avrei tentato la fuga dalla porta sul cortile.
Cercando di fare meno rumore possibile, tolsi il catenaccio e sbirciai fuori. Il cortile era sgombro.
Dalla strada però giungevano urla agghiaccianti. Aguzzai la vista.
Nei pressi del cancello, un gruppo di stronzi aveva circondato un passante che tentava disperatamente di respingerli mulinando le braccia. Fu sopraffatto: gli stronzi gli balzarono addosso, sommergendolo.
Richiusi la porta e tornai in saletta. Avrei atteso la notte, nella speranza che al calare delle tenebre gli assedianti si disperdessero. La suoneria del cellulare per poco non mi fece prendere un colpo. Risposi benché si trattasse di un numero sconosciuto. "Stiamo venendo a prenderti."
"Chi parla?"
"Siamo noi, babbino."
"Chi vi ha dato il mio numero, maledetti?"
"Siamo stati parte di te, ricordi? Ti conosciamo intimamente."
"Andate via!"
"Credevi di esserti liberato di noi? Ti sbagliavi. Ci hai estromessi dalla tua vita senza alcun riguardo, come se fossimo…"
"Siete soltanto degli stronzi!"
"Sì, siamo degli stronzi: i tuoi stronzi! E adesso ci ripagherai di tutto l’affetto che ci hai negato."
"Non vi devo nulla!"
"A presto babbino!" 


Pietro Ferrari, luglio 2019

lunedì 8 luglio 2019


THE CELL - LA CELLULA 

Titolo originale: The Cell
Paese di produzione: Stati Uniti d'America
Lingua: Inglese
Anno: 2000
Durata: 107 min
Rapporto: 2.35:1
Genere: Orrore, fantascienza, thriller
Regia: Tarsem Singh
Soggetto: Mark Protosevich
Sceneggiatura: Mark Protosevich
Produzione: Julio Caro, Eric McLeod
Fotografia: Paul Laufer
Montaggio: Robert Duffy, Paul Rubell
Effetti speciali: John S. Baker, Tony Centonze
Musiche: Howard Shore
Scenografia: Tom Foden
Location: Namibia; California
Interpreti e personaggi
    Jennifer Lopez: Catherine Deane
    Vince Vaughn: Agente FBI Peter Novak
    Vincent D'Onofrio: Carl Rudolph Stargher
    Jake Thomas: Carl Stargher (da giovane)
    Jake Weber: Agente FBI Gordon Ramsey
    Dylan Baker: Henry West
    Marianne Jean-Baptiste: Dottoressa Miriam Kent
    Patrick Bauchau: Lucien Baines
    Gerry Becker: Dottor Barry Cooperman
    Tara Subkoff: Julia Hickson
    Catherine Sutherland: Anne Marie Vicksey
    Musetta Vander: Ella Baines
    Colton James: Edward Baines
    Dean Norris: Cole
    Gareth Williams: Padre di Carl Stargher
    Pruitt Taylor Vince: Dottor Reid
    James Gammon: Teddy Lee
    Kim Chizevsky-Nicholls: Vittima di Stargher 
Doppiatori italiani
    Laura Boccanera: Catherine Deane
    Tony Sansone: Agente FBI Peter Novak
    Tonino Accolla: Carl Rudolph Stargher
Budget: 33 milioni di dollari US
Box office: 104 milioni di dollari US
Riconoscimenti:
   1) Blockbuster Entertainment Awards 2001: Favorite Actress - Science Fiction Jennifer Lopez
      2) MTV Movie Award 2001: Best Dressed Jennifer Lopez World Stunt Awards - Taurus Award: Best High Work Jill Brown

Trama: 
Quando gli agenti federali l'hanno trovato, il cadavere della ragazza emanava intensi lezzi di candeggina, che hanno fatto storcere il naso a tutti. Un investigatore a momenti sveniva. No, ragazzi. Quella non era candeggina. Era sburra. Ebbene, quell'ammasso di lubrico materiale genetico, pullulante di spermatozzi ormai in decomposizione, era stato scaricato sulla donna morta dal maniaco necrofilo Carl Rudolph Stargher. Questo carnefice, di un sadismo infinito, faceva affogare lentamente le sue vittime in una cella di plexiglas, immettendo in quell'ambiente stagno un flusso costante d'acqua proveniente da una specie di doccia. Così godeva ad osservare la disperazione e l'agonia, il lento soffocamento della malcapitata di turno. In questo modo si procurava erezioni durissime e si preparava alla seconda fase del suo abominevole teatrino: la consumazione dell'atto sessuale, che consisteva in uno strusciamento ossessivo dei genitali sulle membra della morta. Lo psicopatico aveva la pelle della schiena perforata da ganci possenti, collegati a funi. Nel momento più opportuno azionava con un telecomando un paranco che lo elevava fin sul soffitto, appeso all'apparato di contenzione. A questo punto raggiungeva l'orgasmo. Senza nemmeno toccarsi il membro virile, più teso di un argano di balestra, si metteva ad eiettare fiumi di liquido seminale nel vuoto, getti di materia vilissima che finivano sul corpo freddo oggetto dell'insana bramosia necrofila. Come fermare un simile flagello? Nessun investigatore è al corrente del luogo in cui il maniaco tiene prigioniera l'ultima donna da lui rapita, si sa soltanto che potrebbe essere ancora viva. Andato in coma nel corso di un'irruzione degli agenti, per non aver potuto assumere in tempo un farmaco salvavita, il mostro soffocatore non è più stato in grado di pronunciare una sola sillaba. Anche volendo, non potrebbe rivelare nemmeno un insignificante dettaglio dei crimini di cui si è macchiato. A questo punto solo una persona su tutto il pianeta può sperare di risolvere questo rompicapo e di salvare la vittima ancora segregata in un luogo ignoto, già minacciata dal lento stillicidio di una doccia nella gabbia sigillata. Questa eroina è la dottoressa Catherine Deane, una procace psicologa - intrepretata dalla famosa Jennifer Lopez, quella che è spesso accusata dai santi uomini Evangelici e Mormoni di provocar loro erezioni, causando la dannazione eterna di miliardi di anime non nate scaturite dall'uretra congestionata in seguito a palliti turgide. La Deane è specializzata nell'usare una macchina che le permette di entrare nella mente di persone inerti nel corso di uno stato di attività cerebrale simile al sonno REM. Servendosi di questa mirabile tecnologia, ha a lungo cercato di far breccia in un fanciullo autistico in coma allo scopo di comunicare con lui e di risvegliarlo. Nella sua opera non ha avuto molto successo, a dire il vero, ma l'FBI non ha altra scelta: sarà proprio lei a occuparsi del caso, a cercare di penetrare nella mente distorta dello psicopatico, con risultati imprevedibili...  


Recensione:  
Il film è stato proiettato al mitico Cineforum Fantafilm dell'amico Andrea "Jarok" Vaccaro il 06/12/2010. Purtroppo non mi è stato possibile assistere allo spettacolo. Adesso, a distanza di anni, apprezzo pienamente questo capolavoro, generato dal genio dell'India. Tarsem Dhandwar Singh è infatti un regista indiano nato a Jalandhar nel 1961. Appartiene alla comunità religiosa Sikh, come è possibile capire già dal nome Singh "Leone", dato a tutti i maschi che hanno ricevuto il battesimo chiamato Amrit (le femmine invece si chiamano tutte Kaur "Principessa"). Maestro indiscusso dell'ideazione di video musicali e di sketch pubblicitari, il nostro Tarsem dà proprio in The Cell il meglio delle sue facoltà innate. Possiamo considerare la pellicola come un immenso crogiolo ribollente, in cui gli ingredienti più disparati si mescolano fino a dare corpo a una miscela esplosiva: antropologia, criminologia, religione, onirismo, psicologia e molto altro.  

Le origini di un sadico necrofilo   

Mi spiace dirlo ma non posso farne a meno. So che gli amici tradizionalisti e i fusariani si adireranno, ma tanto la realtà non cambia. Lo psicopatico Carl Rudolph Stargher è un prodotto della cosiddetta "famiglia tradizionale" nell'ambito di una setta evangelica estremista, di quelle che in Amerdica sono pane quotidiano. La dottoressa Catherine Deane compie catabasi oniriche nella parte più intima dell'essere del serial killer necrofilo, riuscendo a ricostruirne l'intero processo di formazione. Quando era un bambino innocente, è stato sottoposto da un padre brutale ad abusi spaventosi, che hanno causato lo stravolgimento della sua personalità, plasmandola in forme a dir poco demoniache. Le spiegazioni alternative sono due: 1) il bambino ha subìto una vera e propria trasmutazione ontologica, trasformandosi in un demone; 2) lo spirito del bambino è stato espulso dal corpo, che è diventato la dimora di un demone o di una legione di demoni. In entrambi i casi, la causa scatenante è da identificarsi nelle opere maligne del padre. L'energumeno ha cercato di affogare il suo pargoletto mentre veniva battezzato, poi al ritorno a casa gli ha assestato un pugno in faccia rompendogli la mandibola. Ogni volta che disobbediva agli ordini, lo massacrava di botte e gli ustionava i testicoli col ferro da stiro arroventato. Dopo anni di abusi fisici e morali, di orrende torture e di indottrinamento, è cresciuto giorno dopo giorno il mostro, fino a rivelarsi in tutto il suo fulgore nero, come una funesta falena che sfarfalla dal bozzolo. Certo, il padre ha sempre terrorizzato a morte il bruco con il ricatto dell'Inferno, ignorando l'esistenza stessa della metamorfosi; come risultato ha ottenuto una cosa soltanto, ha creato l'Inferno.


Un inatteso colpo di genio

Per la dottoressa Catherine Deane la discesa nelle abissali caverne oniriche dei suoi pazienti è qualcosa di incredibilmente snervante e frustrante. La tecnologia non mantiene le sue promesse e non le consente di trovare il bandolo della matassa in quei labirinti tenebrosi. Il bambino autistico la ostacola, oppone resistenza ad ogni sua mossa. Lei vorrebbe fargli attraversare un fiume, ma non si vede nemmeno una goccia d'acqua: ovunque si estendono soltanto sabbie rossicce. Ogni dialogo in quel deserto è vano. Il moccioso, serrato come un riccio, contorce il volto in un odioso grugno. "L'orco quel che vuole fa, e l'orco quando vuole trovar mi sa", sibila. Chi sia quest'orco non si capisce. Un prodotto dell'immaginazione? Una paranoia che ha preso corpo? Un pedosauro? L'informazione non è recuperabile, per quanto grande sia lo sforzo della terapeuta. Allo stesso modo il maniaco Carl Rudolph Stargher si erge come una fortezza inespugnabile davanti a lei. Quando impersona l'innocenza perduta, appare come un fragile bambino seviziato dal padre diabolico. Poi subisce una metamorfosi e appare in tutto il fulgore del Potere del Male. Vestito con bellissimi abiti imperiali, egli è colui che dispensa il tormento, colui che uccide per provare voluttà. Un Caligola Elettrico! Un Barone Vladimir Harkonnen dalla forma fisica smagliante! All'improvviso giunge alla ricercatrice la grande intuizione, come un lampo: prendendosi ogni responsabilità, non perde tempo e senza alcuna autorizzazione burocratica decide di invertire la macchina onirica. Anziché essere lei a insinuarsi nella mente del predatore, sarà lui a entrare nella sua. Il rischio è immenso, eppure l'idea si rivela subito giusta. Il principio è molto semplice: ognuno è signore e padrone del proprio microcosmo, dove chi entra è soltanto un ospite, un estraneo senza alcun potere. Quando Stargher fa il suo ingresso nella mente della dottoressa Deane, non è più un imperatore dalle vesti sfarzose. È inerme e si regge a stento in piedi. La padrona di casa ha un aspetto conturbante, a metà strada tra una guerriera ninja e la Vergine Maria - ma vestita di rosso anziché di azzurro. Accoglie nel proprio regno quell'estraneo minuscolo, tremebondo, esitante, che fino a poco prima era fonte di terrore - e risolve tutto all'istante a suon di sganassoni.

Fonti di ispirazione   

La cultura eclettica del regista Sikh lo ha di certo portato a visionare e ad analizzare con accuratezza Dreamscape - Fuga nell'incubo (Joseph Ruben, 1984), che è un importante capostipite di pellicole oniriche, la cui origine può essere individuata nel romanzo di Roger Zelazny He Who Shapes (aka The Dream Master, 1966) - pur avendo una trama in larga misura indipendente.  

A un certo punto la dottoressa Deane guarda alla televisione un film di animazione: è Il pianeta selvaggio, di René Laloux (1973), disegnato da Roland Topor! Senza dubbio uno dei miei preferiti. Si riconoscono subito le figure spettrali dei Draag, giganti dalla pelle azzurrognola, intenti a giocare con i piccolissimi e miserabili Oms - gli antenati della specie umana.

Quando l'agente dell'FBI Peter Novak entra nella mente del mostro nel tentativo di liberare Catherine Deane, si ritrova in un paesaggio desolato e arido in cui tre donne a bocca spalancata rivolgono il loro sguardo verso il Cielo del Nulla. Questa scena è ispirata a un dipinto del pittore norvegese Odd Nerdrum (Dawn, 1990). Le splendide opere di Nerdrum consistono in immagini infernali in cui prevalgono necrofilia, cannibalismo, coprofilia e coprofagia, sullo sfondo di un mondo annientato. Immagini che comunicano un'angoscia insopprimibile. 

Un ambiente infero dai massicci muri petrigni e pieno di scale, che la dottoressa Deane attraversa inseguendo Stargher bambino, è ispirato al dipinto intitolato Schacht dell'artista surrealista svizzero Hans Ruedi Giger, il creatore di Alien. 

Un altro artista a cui Singh fa riferimento è l'inglese Damien Steven Hirst. Un cavallo viene tagliato in sottili segmenti da una serie di lame cadute dal soffitto, formando una struttura che rimanda all'installazione hirstiana denominata Some Comfort Gained for the Acceptance of the Inherent Lies in Everything (1996). Per realizzare la scena, il regista si rivolse a una clinica veterinaria a Parigi, che conservava sezioni di animali. Questa è purissima Arte Metafisica!  

Prima di accarezzare le donne uccise col proprio glande tumefatto e di coprirle di sperma, il maniaco le sottopone a un rituale che ha l'intento di "purificarle": le dissangua, come se fossero bestie sottoposte a macellazione halal. Per questo il cadavere rinvenuto dagli agenti è così pallido. Il dissanguamento rituale è ovviamente una reminiscenza biblica, che affonda le sue radici nel Pentateuco: il Popolo Eletto ha ereditato leggi che vietano l'assimilazione del sangue e dichiarano impuro ogni contatto con tale fluido vitale - con l'eccezione degli omicidi considerati "leciti". La fonte d'ispirazione della scena del rinvenimento del corpo cosparso di sburra in sfacelo è la celeberrima serie televisiva Twin Peaks. Chi non ricorda Laura Palmer, adolescente sessualmente attiva e dedita a riti satanici, senza vita e chiusa in un sacco di plastica trasparente?

Non manca l'autoreferenzialità. In una sequenza si vede il carnefice seduto accanto a una vasca da bagno piena di sangue in cui è immerso il corpo della sua prima vittima. Tutto ciò rimanda al video del brano Losing My Religion dei R.E.M., dall'albun Out of Time (1991). Ebbene, quel video è opera dello stesso regista indiano. Diverse canzoni del gruppo rock statunitense si sono ben impresse nella mia memoria, anche a causa della pronuncia alterata delle parole (ad esempio consider this giungeva e giunge tuttora alle mie orecchie come consideradàs).

Questa trattazione non esaurisce l'argomento. Tarsem Singh ha tratto ispirazione anche dai video girati da Floria Sigismondi per Marilyn Manson, oltre a Closer di Mark Romanek, a The Perfect Drug dei Nine Inch Nails e a Bedtime Story di Madonna.

Curiosità

Vincent D'Onofrio ammise che sua moglie si rifiutò di dormire con lui per due settimane dopo aver visto la sua performance nel film, come se fosse uno psicopatico genuino e un serial killer. Tra l'altro, l'attore fu sottoposto a svariate umiliazioni: dovette indossare una parrucca e una tuta di plastica aderente per simulare la pelle con i ganci inseriti. Si noterà che rituali in cui l'iniziato viene appeso in modo simile (non ricorrendo a finzioni), erano già diffusi a suo tempo tra gli eroici Sioux e sono tuttora fiorenti in alcune comunità dedite al BDSM. 

L'innato e ipocrita puritanesimo imperante in America ha fatto sì che nella distribuzione domestica fosse tagliata proprio la scena più importante, quella della masturbazione necrofila e dello scaricamento del liquame genetico sui resti mortali femminili, esangui e più pallidi del gesso. Così diventa incomprensibile l'odore pungente di candeggina avvertito dagli agenti dell'FBI al rinvenimento della carcassa! Poi i padri di famiglia amerdicani possono impunemente continuare a seviziare i loro figli e per le autorità morali è tutto OK.   

Quando Carl Stargher sbudella Peter Novak con un brutto arnese, il povero investigatore doveva ricordare a Catherine Deane l'aborto a cui si era sottoposta quando era al college. Questo doveva essere l'episodio centrale della sua esistenza tormentata, la causa prima del senso di colpa che l'accompagnava perennemente. All'ultimo fu deciso un cambiamento nei dialoghi, perché risultò che questa scena avrebbe reso la dottoressa una protagonista piuttosto antipatica al pubblico. Non dimentichiamoci che gli States sono un paese biblico pullulante di adoratori dei feti: un aborto anche soltanto immaginario non sarebbe mai stato perdonato e la stessa Jennifer Lopez, già nel mirino dei fondamentalisti per la storia delle palliti turgide, ne avrebbe avuto un danno d'immagine.

The Cell 2 

Come sempre accade di questi tempi, è stato fatto un sequel: The Cell 2 - La soglia del terrore (Tim Iacofano, 2009), interpretato da Tessie Santiago, Chris Bruno e Frank Whaley (per me sono perfetti sconosciuti, forse perché sono troppo vecchio). Non l'ho visionato, quindi non saprei giudicarlo. Se devo essere franco, nutro una grande diffidenza verso questi prodotti realizzati raschiando il fondo della pentola per raccattare quattro soldi in più. Leggendo la trama e i riassunti nel Web, comprendo che forse qualche elemento originale potrebbe anche esserci. Mi riservo comunque di pubblicare una recensione appena sarà possibile. 

Altre recensioni 

Roger Ebert, critico cinematografico statunitense deceduto nel 2013, ha detto mirabilia del film e del suo artefice: 

"Tarsem, il regista, è un virtuoso visivo che, senza sforzo, fa il giocoliere con la trama. È splendido il modo in cui miscela così tanti stili, generi in un film così originale."

Morando Morandini, critico cinematografico italiano deceduto nel 2015, era tutto fuorché entusiasta dell'opera del Sikh. Così ha scritto: 

"È, come tentativo di thriller visionario, un bluff che, tolti pochi momenti ingegnosi, ha lo spessore narrativo di un videogioco e il valore grafico della copertina di un CD heavy metal." 

Che dire? Nel frattempo Morandini si è spento, mortuus est, etc., così come è tramontata la tecnologia dei CD. Sic transit gloria mundi!  

Lietta Tornabuoni, giornalista e critica cinematografica italiana deceduta nel 2011, ha scritto quanto segue: 

"Sono interessanti sia il tentativo di materializzare in immagini una mente malvagia e mostruosa, sia il fallimento del tentativo: un eccesso di artificio troppo lambiccato toglie forza all'impresa."

Marco Balbi, attore e doppiatore italiano tuttora vivente, è partito in quarta nella sua recensione apparsa su Ciak nel 2000:

"Se c'era bisogno di una conferma «cinematografica» del suo straordinario talento visivo, Tarsem, pluripremiato e geniale autore di videoclip e spot pubblicitari, l'ha data: il suo film è un fasto di immagini traboccanti colori e invenzioni visive, un'opera barocca che fin dai primi fotogrammi delizia l'occhio dello spettatore."

Poi però esprime un certo scetticismo: a suo avviso il problema principale della pellicola "è proprio la sceneggiatura, una storia inverosimile e prevedibile, una scimmiottatura de Il silenzio degli innocenti.

Il campionario dei giudizi è forse un po' scarno, ma a mio avviso si può considerare significativo.

giovedì 4 luglio 2019


PARTS: THE CLONUS HORROR 

Titolo originale: Parts: The Clonus Horror
AKA: The Clonus Horror; Clonus
Anno: 1979
Data di uscita (USA): Agosto 1979
Paese: Stati Uniti
Lingua: Inglese
Durata: 90 min
Regia: Robert S. Fiveson
Genere: Fantascienza, horror
Sottogenere: Distopia
Produzione: Robert S. Fiveson, Myrl A. Schreibman
Co-produttore: Michael D. Lee
Casa di produzione: Clonus Associated
Soggetto: Bob Sullivan (storia)
     Ron Smith (screenplay),
     Myrl A. Schreibman
     Robert S. Fiveson (adattamento)
Musiche: Hod David Schudson

Scenografia: Max Beaufort
Fotografia: Max Beaufort
Costumi: Durinda Wood
Montaggio: Robert Gordon
Distribuzione: Group 1 International Distribution
    Organization Ltd.

Personaggi e interpreti: 
   Tim Donnelly: Richard Knight Junior
    Paulette Breen: Lena
    Dick Sargent: Dottor Jameson
    David Hooks: Il professor Richard P. Knight 
    Peter Graves: Jeffrey Knight
    James Mantell: Ricky Knight
    Keenan Wynn: Jake Noble
    Lauren Tuttle: Anna Noble
    Frank Ashmore: George Walker 
    Zale Kessler: Dottor Nelson
    William Bufkin: Clone
    Tony Haig: Jack
    Eileen Dietz: Dana
    Boyd Holister: Il senatore
    Eddy Carroll: Un medico
    John Donovan: Una guida
    Joel Lawrence: Una guida
    Keith Langsdale: Una guida
    Larry Manning: Una guida
    Ricky DiAngelo: Una guida
    Eugene Robert Glazer: Una guida
Titoli tradotti: 
    Spagnolo: El horror de Clonus
Budget: 257.000 dollari US
Premi: Saturn Awards for Science Fiction, Fantasy and
    Horror Films, 1980 (nomination, miglior film con budget
    inferiore a 1 milione di dollari US) 


Trama:
La vicenda inizia in un complesso abitativo isolato chiamato Clonus, situato nel bel mezzo di una regione desertica. In questa struttura vengono allevati uomini e donne, che sono tutti cloni di persone del mondo esterno: la finalità del progetto è quella di fornire organi di ricambio per i trapianti. Ovviamente nessuna dei confinati a Clonus sa nulla di tutto questo. Per non far sorgere velleità di esplorazione o di fuga, viene fatto loro credere che uno alla volta saranno scelti per raggiungere una paradisiaca destinazione finale, una terra prospera e felice chiamata America. Richard ha un carattere diverso da quello dei suoi simili. Si pone domande ed è curioso, inquieto. Durante una corsa incontra casualmente Lena, una bellissima ragazza bionda che appartiene al suo stesso gruppo di controllo (riconoscibile dal particolare orecchino) e inizia una relazione con lei. A un certo punto qualcosa nel mondo di Richard si incrina. Mentre passeggia lungo il fiume, scopre una lattina con la scritta Milwaukee - il nome della marca della birra. Non conoscendo la parola, che gli suona aliena, comincia a irritare tutti con le sue domande. Non è soddisfatto dalla risposta che riceve da un meccanismo simile a un confessionale funzionante come un'enciclopedia - secondo cui il Milwaukee sarebbe una specie di minerale. Le febbrili indagini del giovane lo portano infine a un ufficio incustodito, in cui trova abbondante materiale cartaceo ed audiovisivo capace di spiegargli l'orrenda verità sul progetto Clonus. Così apprende di essere un clone, destinato a fare una ben brutta fine, macellato per salvare la vita del suo originale. In preda al terrore, Richard si dà alla fuga e riesce ad evadere da Clonus, inseguito dagli aguzzini. Giunge così in una cittadina che si trova oltre la distesa desertica, alla ricerca dell'uomo di cui è una copia. Presto scopre che le autorità di Clonus non hanno rinunciato a braccarlo: sa troppe cose compromettenti e non gli deve essere permesso in nessun modo di rivelarle. Caso vuole che a soccorrere il povero Richard, finito in un cumulo di immondizia per sfuggire agli inseguitori, sia proprio un giornalista in pensione, Jack Noble. Questi porta il clone dal suo promotore, che risulta essere Richard Knight, fratello del più noto Jeffrey, un cinico politicante in corsa per la presidenza degli States. Ebbene, si scopre subito che proprio Richard Knight è l'originale del clone che porta il suo stesso nome. Oltre ai problemi etici e filosofici (il fuggitivo è o meno un essere umano?), sorge una situazione di gravissimo pericolo, perché Jeffrey Knight, finanziatore occulto del progetto Clonus, non vuole certo che la verità si risappia... Sequenze ad alta tensione, fino all'epilogo annichilente.


Recensione:
Ho trovato il film interessante e godibile, anche se mi ha fatto uno strano effetto visionarlo con l'audio in spagnolo, non essendo stato in grado di reperirne una copia in italiano. All'epoca nessuno avrebbe mai pensato che si sarebbe arrivati in così poco tempo a disporre della capacità di clonare anche soltanto un topo. Si era dunque nel campo della fantascienza profonda. In un mondo di lettori e di spettatori ossessionati da robot, astronavi e alieni, il tema della clonazione era tutto sommato poco sentito. I film sui cloni erano rari ancora nei primi anni '90: sono diventati più numerosi a partire dal 1996, anno in cui è stata clonata la famosa pecora Dolly. Negli anni '70 il concetto di clone era ancora così poco familiare alle masse da ingenerare equivoci esilaranti. Nel doppiaggio in italiano di Guerre Stellari (George Lucas, 1977), la Guerra dei Cloni diventa un'incomprensibile Guerra dei Quoti, per via di un'epidemia di raffreddore che tra le altre cose trasformò Darth Vader in Darth Fener. Ne Il dormiglione (Woody Allen, 1973), una prosperosa fellatrice capisce "incoronazione" anziché "clonazione". Proprio il film del segaligno ashkenazita occhialuto parrebbe la prima attestazione rilevante di questo argomento nella SF; di lì a pochi anni sarebbe stato reso appena più popolare da I ragazzi venuti dal Brasile (Franklin J. Schnaffner, 1978) - più che altro per via del potere traumatizzante del dottor Josef Mengele. 

Riporto una lista di film sulla clonazione umana, tratta dalla Wikipedia in italiano e di certo non esaustiva: 


Il film di Woody Allen non è riportato, ma Clonus fa bella figura tra le più antiche e autorevoli pellicole sui cloni, preceduta solo da quella sulle prodezze di un Mengele galvanizzato, interpretato in modo superbo da Gregory Peck. Si noterà che nell'elenco non esiste nemmeno un'opera cinematografica che sia anteriore agli anni '70. Neanche una. 

Etica, trapianti e cloni 

Il tema dei trapianti di organi era molto sentito nei tardi anni '70 e nei primi anni '80. Ricordo dibattiti furibondi al liceo. L'insegnante di italiano ci aveva proposto un tema sul caso di una bambina a cui era stato trapiantato il cuore di una scimmia. Uno intervento che risultò fallimentare, scatenando però un vespaio a livello mondiale, soprattutto tra i religiosi. Il mio scarno componimento era stato giudicato "scioccante", avendo "lasciato inevasa la questione morale". In pratica ero ritenuto una specie di piccolo Mengele. Se tuttavia avessi osato parlare di clonazione - dopo aver spiegato il concetto - sarei stato ritenuto un pazzo, alla meglio mi avrebbero apostrofato: "Leggi troppi libri di fantascienza!" Il che era già considerato un primo indizio di psicosi. Eppure il tema di un possibile trapianto di cervello non era ritenuto fantascienza e destava un incontenibile terrore al solo menzionarlo. Oltre ai "problemi etici", basati sui borborigmi della divinità biblica e sull'esagerato valore dato alla vita umana dai moderni ("sacralità della persona", "inviolabilità", "progetto divino", etc.), c'era anche un'altra criticità impellente: il rigetto! Ebbene, nel film di Fiveson è suggerita una soluzione. Un organo fornito da un'altra persona o da un animale non è sempre compatibile. L'organismo può non accettarlo, riconoscendolo come un corpo estraneo. Spesso ne nascono reazioni che possono condurre alla morte. Se però il donatore dell'organo è un clone del paziente, con lo stesso identico genoma, non si può presentare alcun rigetto. A questo punto si pone un ulteriore problema, non facilmente eludibile: per donare un organo, il clone deve essere messo a morte. Non si tratta qui di rischiare la vita di qualcuno per un troppo audace amor della Scienza o di estrarre organi da un corpo condannato al coma vegetativo: la soppressione del clone è a tutti gli effetti un omicidio a sangue freddo. 

Assuefazione all'Orrore 

Richard Knight, l'uomo che ha fornito il materiale genetico da cui è stato prodotto il suo omonimo clone, prova un'istintiva ripugnanza morale per il progetto che ha permesso a suo fratello Jeffrey di avere un cuore nuovo di zecca. Lo paragona ad Auschwitz (nella pronuncia spagnola il toponimo è adattato in Áujvij, con due suoni aspirati). Vengono da lui evocati anche i fantasmi di Stalin e di Hitler (nell'ordine della classifica degli antisociali, io risulterei al terzo posto). Il suo malvagio fratello Jeffrey cerca di convincerlo della liceità dell'obbrobrioso progetto Clonus con un argomento assai audace: i cloni non sarebbero in realtà esseri umani e dovrebbero essere giudicati oggetti (non animali, si badi bene: non devono poter suscitare empatia). Ecco riesumate tonnellate di paccottiglia biblica adattata in modo posticcio alle dottrine scientifiche del presente. I cloni non avrebbero quella cosa imponderabile chiamata "anima" o "spirito", pur essendo capaci di parlare e possedendo tutte le facoltà mentali di qualsiasi essere umano. La prima preoccupazione dell'Homo americanus è fare i conti con la Bibbia. All'inzio Richard Knight reputa atroci e inaccettabili i discorsi di Jeffrey sulla non umanità dei cloni. Poi fa uno sforzo per accettarli (un fratello è sempre un fratello) e nel suo salotto afferma - pur non credendoci fino in fondo - che in realtà i cloni sarebbero mostri, scherzi della Natura. Il Richard clonato sbuca a questo punto da una porta urlando: "Sono umano come voi!!" Il pathos è gestito con somma maestria da Fiveson. La scena non si dimentica facilmente. 

La condizione di semi-immortalità 

La fuga di Logan (Michael Anderson, 1976) costituisce il prototipo dell'ontologia narrativa di Clonus, anche se l'ambientazione è molto diversa. Il tema cardine è sempre quello del Fuggitivo, un uomo nato e cresciuto in un contesto innaturale di isolamento, votato a un destino miserrimo, che riesce ad evadere dalla sua prigionia per venirsi a trovarsi perso in un mondo ignoto. Senz'altro è un tipo di storia di grande fecondità e versatilità, che può adattarsi ai più svariati contesti storici, assumendo sempre nuove forme. Mentre nell'opera di Anderson il tema opprimente era quello della brevità della vita biologica, la cui durata era amministrata con impietosa severità da una Macchina-Carnefice, Fiveson ci presenta l'anelito di eternità dei politicanti, della stramaledetta classe dirigente. Quel verminaio immondo che si è formato già nel Neolitico e che continua ad opprimerci, non accetta e non accetterà mai i limiti imposti dalla biologia: desidera perpetuare l'esistenza materiale fino alla Fine dei Secoli. Quello che il fondatore del progetto Clonus mira ad ottenere è una condizione che potremmo chiamare semi-immortalità. Non è proprio l'abolizione della Morte e dei limiti imposti dalla disgregazione dei tessuti; direi però che è qualcosa che si avvicina in modo sorprendente a tutto questo. Un essere vivente, uomo o donna che sia, può sostituire tutto ciò che nel suo corpo è difettoso, eliminando ogni fonte di entropia e di marasma, eludendo così l'exitus. Lo può fare, a rigor di logica, un gran numero di volte, arrivando a durare nei secoli - a discapito degli agnelli sacrificali da cui saranno ricavati i pezzi di ricambio. Non basta essere ricchi per ottenere simili privilegi biologici: occorre essere super-ricchi. Autentici plutocrati, i cui averi sono tanto cospicui da far apparire il tirannello della Corte di Hardcore un semplice provincialotto. E con questo ho detto tutto.

Atrocità

Il trucco scenico dello smascheramento finale del cattivo in realtà non apporta alcun sollievo allo spettatore. Certo, alla conferenza stampa del neoinsediato presidente Jeffrey Knight fanno irruzione due giornalisti che gli chiedono di parlare di Clonus, con la videocassetta compromettente alla mano. Per quella prova schiacciante, il presidente ha fatto uccidere suo fratello assieme al figlio. Prima di macchiarsi di tali spaventosi delitti, aveva affermanto che l'orrore del progetto Clonus è qualcosa che vale la pena. Un simile mostro merita di essere annientato dalla furia degli Elementi. Perché il film non è dunque da considerarsi a lieto fine e ottimista? La risposta è semplice: la Nemesi di Jeffrey Knight non riesce a salvare i cloni Richard e Lena, che fanno una fine atroce. Il ritorno di Richard nel campus di Clonus non è vittorioso come il ritorno di Logan 5 nella città controllata dal Computer Centrale. Attirato dalla vista dell'amata Lena alla finestra della sua stanza, il giovane clone viene subito catturato. Con orrore scopre che la bionda ragazza è stata lobotomizzata. Quando lei si volta, lui resta raggelato dal suo aspetto: il sorriso ebete, lo sguardo allucinato e perso nel vuoto, la cicatrice sulla fronte, proprio dove il trapano ha tagliato l'osso per ledere il lobo frontale. Nei fotogrammi finali si vede Richard congelato come un merluzzo, appeso e sventrato. Eppure è cosciente: da un occhio gli esce una lacrima.

Clonus e The Island 

Ovviamente non poteva mancare il remake. Famoso è il caso di The Island (Michael Bay, 2005), che riprende punto per punto l'intera impalcatura filmica di Clonus. Si tratta di un remake non autorizzato, che diede origine a un'aspra battaglia legale. Tra i due film si riscontrano tuttavia alcune differenze non da poco. In Clonus il progetto di clonazione è segreto e noto solo a pochissimi politici, oltre che agli scienziati che vi lavorano e al personale coinvolto (infermiere sadiche, psichiatri assassini, lobotomizzatori, gorilla e affini). Tutto viene tenuto nascosto, si fa capire che la produzione di un Übermensch semi-immortale desterebbe nella massa americana un tale sdegno da causare rivolte violentissime. Invece The Island ci mostra una società in cui tutti sanno della produzione di organi di ricambio tramite clonazione. L'industria che gestisce il processo è ritenuta la punta di diamante della tecnologia umana, perché viene tenuta nascosta la verità sulla soppressione dei cloni. Si fa bere a tutti, volgo e notabili, la scemenza colossale degli agnati privi di consapevolezza, in pratica embrioni troppo cresciuti e incapaci di interpretare il mondo.      

Curiosità varie 

Il titolo del film doveva essere semplicemente Clonus. La casa di distribuzione pretendeva  che fosse cambiato in Parts. Siccome il regista si opponeva, fu deciso di assemblare le due opzioni, dando così vita al definitivo Parts: The Clonus Horror

La casa con la piscina è una dimora reale, non un semplice set in cartapesta. L'indirizzo è 3366 Scadlock Lane, Los Angeles, California, US. Se vi sia avvenuto davvero qualche omicidio è una cosa che ignoro. Certo, tutto è possibile. Una dimora famosa negli States può sempre ospitare stravaganti festini e balli in maschera dalle conseguenze imprevedibili...

Che altro dire? Non si trovano molti trivia nel Web su Clonus. Forse perché la gente non vuole pensare. Troppo grande è il flusso di aberrazioni stomachevoli. A nessuno piace soffermarsi troppo su tematiche tanto avvilenti. Vorrà dire che faremo un bilancio nel prossimo futuro.  

Un cognome di origine pictica

Fiveson è un cognome molto peculiare. Ai tempi della sua formazione era un patronimico. Il suffisso -son è chiaramente norreno (sonr, -son "figlio"), ma la base proviene da un'altra lingua, ben misteriosa: l'idioma dei Picti. Infatti uno degli eponimi di tale popolo dell'antica Scozia è proprio Fib, nome di un re figlio di Cruithne. Proprio da questo Fib ha tratto il suo nome il regno di Fife.

domenica 30 giugno 2019

TEDESCO NACHEN 'PICCOLA BARCA' E NORRENO NǪKKVI 'BARCA, NAVE': UN RELITTO PREINDOEUROPEO

Approfondendo i miei studi di lessico norreno, la mia attenzione è caduta sulla seguente voce, estratta dal dizionario di Zoëga

nǫkkvi (m.), barca; nave
   gen./dat./acc. nǫkkva 
   plurale: 
   nom. nǫkkvar, gen./acc. nǫkkva, dat. nǫkkvum 


Si tratta di un vocabolo poetico, che non ricorrereva nella lingua corrente. È anche attestato come nome proprio maschile di persona: Nǫkkvi. L'antroponimo era tipico dei Vichinghi e fu portato da un loro capitano, un Re del Mare.   

Il tedesco moderno ha una parola imparentata: Nachen (m.) "piccola imbarcazione". Si tratta di un diretto discendente del medio alto tedesco nache, a sua volta dall'antico alto tedesco nahho "barchetta, barca fluviale". In antico sassone si ha nako "barchetta", ovviamente senza rotazione consonantica.

Anche in antico inglese esiste una parola derivata dalla stessa radice: naca (m.) "barca; nave". Il suo uso era esclusivamente poetico. Purtroppo questa singolare voce è andata perduta abbastanza presto, a causa del tremendo trauma che ha portato nel lessico anglosassone ingenti quantità di materiale romanzo dall'antico francese, facendo diventare obsolete moltissime parole ereditate. 

In olandese abbiamo aak "piccola imbarcazione (per navigare nei canali)". Evidentemente l'assenza della nasale iniziale è dovuta a deglutizione. In altre parole, si dovrebbe avere *naak, ma la consonante n- è stata interpretata come parte dell'articolo indeterminativo: a un certo punto een *naak è diventato een aak. In medio olandese è attestata sia la forma con nasale integra, naecke, che quella con nasale deglutita, aecke. Questo fenomeno esiste anche in antico frisone, che ha âke, âk (aek, aak in frisone occidentale moderno). 

Non abbiamo attestazioni nella lingua dei Goti. Se il vocabolo fosse stato presente, sarebbe sicuramente *naqa, con la declinazione debole maschile: gen. *naqins, dat. *naqin, acc. *naqan; pl. nom./acc. *naqans, gen. *naqane, dat. *naqam. Troverei strana l'assenza di questa parola in gotico, dato che è stata ereditata da tutti gli altri rami del germanico.

Si ricostruisce agevolmente una forma protogermanica *nakwæ:n "barca; nave". Veniamo ora al punto. Qual è l'origine ultima di questa parola? I neogrammatici danno per scontato che si tratti di una forma indoeuropea e ricostruiscono così una radice *nagw- che in modo ridicolo proiettano nelle steppe dell'Asia. Ecco cosa riporta la Wikipedia in tedesco (2019): 

"Ein Nachen (althochdeutsch Nahho, germanisch Nakwa, indogermanisch Nagua) bezeichnet ursprünglich einen Einbaum, ein kompaktes, flaches Boot bzw. einen Kahn für die Binnenschifffahrt." 

Guardando la cronologia della pagina wikipediana, si scopre che a quanto pare queste oscenità sono in Rete dal 2013. Il protogermanico è chiamato "germanisch"; l'indoeuropeo è chiamato "indogermanisch", usando una denominazione obsoleta; le forme ricostruite non hanno asterisco alcuno. L'ortografia usata per la pretesa forma indoeuropea Nagua ha del grottesco, sembra quasi una voce amerindiana ispanizzata. Tutto ciò è talmente rozzo che potrebbe essere stato concepito dalla mente febbrile di un contadino paccianesco in qualche desolata campagna sassone. 

Vediamo che la radice *nagw- deve essere un resto di una lingua di sostrato, anteriore alla formazione del protogermanico. Quello che invece trovo interessante è una sua possibile relazione con l'indoeuropeo *na:w- "nave". Forse si tratta di un prestito remoto, in una direzione o nell'altra. Oppure entrambe le lingue avranno preso questo nome della nave da una terza lingua del tutto sconosciuta. A favore dell'idea che *na:w- sia un prestito in indoeuropeo sta il suo vocalismo peculiare. La /g/ presupposta dal protogermanico /k/ può ben corrispondere a una laringale ricostruibile per uno stadio particolarmente antico dell'indoeuropeo comune. Mentre in indoeuropeo l'antica laringale è scomparsa prolungando per compensazione la vocale precedente, nella lingua preindoeuropa del sostrato nordico si è conservata e indurita, diventando un'occlusiva.

venerdì 28 giugno 2019

IL RIBALDO E LA RIBALDERIA IN NORRENO: UN IMPORTANTE PRESTITO CULTURALE

Approfondendo i miei studi di lessico norreno, la mia attenzione è caduta sulle seguenti voci, estratte dal dizionario di Zoëga

ribbaldi (m.), ribaldo, selvaggio
   gen./dat./acc. ribalda; pl. ribbaldar "ribaldi"
ribbungr (m.), ribaldo
    gen. ribbungs "del ribaldo"; pl. ribbungar "ribaldi" 
ribbalda-skapr (m.), ribalderia 

Trovo notevole la forma ribbungr, il cui suffisso non ha facile spiegazione. L'origine di queste parole è l'antico francese ribautz, ribaltz (obl. ribaut, ribalt, ribaud, ribald) "ribaldo". Il prestito deve essere giunto in norreno nel XIII secolo, nell'epoca gloriosa delle Saghe dei Cavalieri (Riddarasǫgur). A quei tempi la Norvegia era un crocevia in cui l'antica eredità pagana si incontrava con il Cristianesimo ormai imperante e con la poesia cavalleresca della Francia, dando origine alle più bizzarre contaminazioni, del massimo interesse per un filologo.  

Tutti noi ci siamo imbattuti almeno una volta nelle parole ribaldo e ribalderia, ma cosa significano esattamente? Per usare un linguaggio tecnico, in epoca medievale si chiamava ribaldo un soldato di bassa condizione sociale, che viveva di rapine e di saccheggi. Questo riportano i dizionari. In genere il vocabolo è ormai considerato un sinonimo di malfattore e può ad esempio indicare un ladruncolo, un emarginato che vive di espedienti. Tutto ciò è riduttivo. Stando all'originale semantica, il ribaldo è sì un malfattore, un individuo violento e poco raccomandabile, ma in aggiunta è anche libidinoso. La parola dell'antico francese ha connotazioni inscindibili dalla libidine e indica anche un amante lascivo. Designa un uomo dominato da istinti primordiali, capace di sfoderare l'arma davanti a una fanciulla e di cercare il contatto, lo sfregamento, nei casi più gravi anche la penetrazione. La categoria è di per sé piuttosto eterogenea. Ai tempi non comprendeva soltanto i puttanieri e i vecchi sileni bavosi: anche quelli che attualmente chiamiamo pedofili, nel Medioevo erano chiamati ribaldi. Proverbiale era la ribalderia dei canonici!

Vediamo ora di chiarire da dove la lingua d'oïl ha preso la parola in analisi. Nell'antica lingua dei Franchi doveva esistere il verbo *rîban "essere lascivo", corrispondente alla perfezione all'omonimo vocabolo dell'antico alto tedesco, che però è ben attestato: rîban "essere in calore". L'antico francese aveva ereditato il verbo riber "essere licenzioso" proprio dal vocabolo franco. Tramite il suffisso peggiorativo -ald, di origine germanica, si è dunque formato il termine ribaut. La parola ha avuto fortuna e si è diffusa fino in Italia e altrove, giungendo fino in Scandinavia. La protoforma germanica del verbo usato dai Franchi e in Germania è ricostruita come *wri:banan e il suo originario significato è "sfregare" (da cui il medio alto tedesco rîben e il tedesco moderno reiben "sfregare"). Anche in inglese è derivata una parola da questa fonte: il verbo to rub, che significa "sfregare" ma anche "fare sesso". Sì, il ribaldo è colui che sfrega l'uccello addosso all'oggetto della sua libidine sfrenata, senza limiti. 

Tutto parrebbe chiaro. C'è però un problema non di poco conto. A quanto si legge in molti dizionari etimologici e nel Web, sarebbe esistita in antico alto tedesco la voce hrîba "prostituta", che sarebbe la base da cui ha tratto origine l'antico francese ribaut. Questa designazione della meretrice è incompatibile col protogermanico *wri:banan - dovendo risalire a una protoforma con *χr- iniziale. Siccome già nel medio alto tedesco il gruppo hr- si era semplificato in r-, ecco che avremmo un problema di confusione etimologica. Qual è la corretta origine del ribaldo e della ribalderia? Il punto è questo: è davvero esistita la parola hrîba in antico alto tedesco? La risposta sarebbe considerata desolante da molti studiosi: molto probabilmente il vocabolo in questione non è mai esistito. Si tratta di un frutto della mancata verifica delle fonti o addirittura della disonestà intellettuale dei romanisti, che contestano tanto la filologia germanica e i suoi cultori, per poi inventarsi vocaboli fantomatici a seconda delle loro necessità. Ignorano persino i rudimenti più elemenari delle lingue germaniche e della loro evoluzione storica: ad esempio le liste di elementi di adstrato germanico nelle lingue romanze diventano in mano loro qualcosa di incomprensibili e non analizzabile, come se provenissero da lingue preindoeuropee del Neolitico.

La realtà è che esiste soltanto un'occorrenza di *hrîba (mettiamoci questo benedetto asterisco) in tutta la letteratura in antico alto tedesco. Per giunta compare soltanto come glossa. Questo hapax legomenon è anche scritto diversamente. Si tratta di una forma accusativa: HRIPUN, glossata in latino come "prostitutam" in un commento di San Gerolamo al Vangelo di Matteo (il manoscritto si trova nella Biblioteca di Monaco, Clm 14747, f. 93b). Si tratterà di una cattiva trascrizione di *uurîba, che è un chiaro derivato del verbo *wri:banan. Trovo possibile il gruppo consonantico /wr-/ (in genere già semplificato in /r/ in antico alto tedesco), in qualche dialetto abbia dato una rotica diversa da quella consueta (es. un flap anziché un trillo), che il glossatore avrebbe trascritto come HR- per imperizia. Il medio alto tedesco ha il composto hoverîbe "prostituta di corte, cortigiana", che contiene lo stesso elemento. 

martedì 25 giugno 2019

UN INTERESSANTE PRESTITO GRECO IN NORRENO E LA SUA ORIGINE

Approfondendo i miei studi di lessico norreno, la mia attenzione è caduta sulla seguente voce, estratta dal dizionario di Zoëga

paðreimr (m.), l'Ippodromo di Costantinopoli  

Forme declinate:
sing.

gen. paðreims
dat. paðreimi
acc. paðreim 

pl.
nom. paðreimar 
gen./acc. paðreima
dat. paðreimum


La forma plurale indica soprattutto le arene dell'antica Roma. 

Un sostantivo derivato, che indica le corse nell'Ippodromo: 
paðreimsleikr (m.) "gioco circense"

Riporto un interessante brano tratto dalla Saga di Sigurd il Crociato, di Eystein e di Olaf (Saga Sigurðar Jórsalafara, Eysteins ok Óláfs), detta anche Saga dei figli di Magnus (Magnússona Saga) e contenuta nella Heimskringla (capitolo 12): 

Þar dvalðisk Sugurðr konungr um hríð. Ok eitthvert sinn þá sendi Kirjalax konungr til Sigurðar konungs menn at spyrja hvárt hann vill þiggja af honum sex skippund af rauðu gulli eða vildi hann at keisari láti efna til leiks þess er hann var vanr at láta leika á paðreimi. Sigurðr konungr kaus leikinn. Þá sǫgðu sendimenn keisara Sigurði konungi at keisara kostaði eigi minna fé leikinn en þetta gullit. Þá lét keisari efna til leiks. Ok þá er leikrinn var veittu allir leikar keisara betr þat sinn en dróttningu, er átti hálfan leikinn ok keppir í ǫllum leikum en nú gengr keisara betr ok hans mǫnnum, ok segja Grikkir at þat ár er keisari vinnr fleiri leika á paðreimi en dróttning þá mun keisari vinna sigr í herferð.

Þat segja þeir menn er verit hafa í Miklagarði at paðreimr sé á þá leið gǫrr atveggr hár er settr um einn vǫll, at jafna til víðs túns kringlótts, ok gráður um-hverfis með steinveggnum, ok sitja menn þar á, en leikr er á vellinum. Eru þarskrifuð  margskonar  forn tíðendi,  Æsir  ok  Vǫlsungar  ok  Gjúkungar,  gǫrt  af kopar ok málmi með svá miklum hagleik at þat þykkir kvikt vera. Ok meðþessi umbúð þykkir mǫnnum, sem þeir sé í leiknum, ok er leikrinn settr meðmiklum brǫgðum ok vélum. Sýnisk sem menn ríði í lopti, ok við er ok skoteldr hafðr ok sumt af forneskju. Þar við eru hǫfð alls konar sǫngfœri, psalterium ok organ, hǫrpur, gígjur ok fiðlur ok alls konar strengleikr.

Traduzione (mi si perdoni se è un po' raffazzonata): 

Il Re Sigurd stette là per qualche tempo. Allora il Re Kirjalax inviò uomini da lui per vedere se desiderava accettare sei libbre d'oro di carico navale, o se piuttosto volesse che il Re facesse preparativi per i giochi che l'Imperatore era solito svolgere nell'Ippodromo. Il Re Sigurd scelse i giochi. I messaggeri dissero che i giochi sarebbero costati all'Imperatore non meno di quel quantitativo d'oro. Allora il Re fece i preparativi per i giochi, e i giochi si svolsero nel modo usuale, e tutti i giochi andarono nel modo migliore per il Re quella volta. Metà dei giochi sono della Regina, e i loro uomini hanno gareggiato in tutti i giochi; i Greci dicono che quando il Re vince più giochi della Regina nell'Ippodromo, allora il Re sarà vittorioso se andrà in una spedizione di guerra.  

Gli uomini che sono stati a Bisanzio affermano che un ippodromo è così organizzato che un alto muro è stato sistemato attorno a un grande piano rotondo, e su per il muro ci sono scale, dove le persone siedono mentre il gioco va in campo. Sono stati scolpiti molti eventi antichi, Asi e Volsunghi e Nibelunghi, fatti di rame e minerale, così abilmente che sembrano essere vivi. E con questi dispositivi, ci si sente parte del gioco e il gioco procede da solo con molti trucchi e arti. Sembra che gli uomini stiano cavalcando nell'aria, che ci siano incendi e ci siano esplosioni di fuoco greco, e alcune cose sono opere di magia. Queste includono tutti i tipi di strumenti, salteri e organi, arpe, concerti e violini e tutti i tipi di giochi d'archi.

Veniamo ora all'etimologia della parola in analisi. Si tratta chiaramente di un prestito dal greco ἱππόδρομος (hippodromos), ossia "luogo dove corrono i cavalli", formato a partire da ἵππος (hippos) "cavallo" e δρόμος (dromos) "corsa". L'etimologia è indubitabile. Gli sviluppi fonetici sono degni di nota, in particolare la presenza del dittongo -ei-, che non ci aspetteremmo affatto. Trovo poi strano il vocalismo della prima sillaba, dato che in greco bizantino la /o/ breve doveva avere una pronuncia chiusa. Ci saremmo piuttosto aspettati una forma *poðromr, che però non mi risulta esistere (se qualcuno è in grado di provare il contrario, lo invito a comunicarmelo). Forse la parte finale della parola è stata modificata per associazione paretimologica con hreimr (m.) "grida; urlo", come allusione al pubblico rumoroso e festante? Oppure l'associazione è in qualche modo con heimr (m.) "paese", anche se la semantica è fragile? Come ipotesi sono tirate per i capelli, al momento non saprei cos'altro proporre per spiegare questo benedetto dittongo. 

In medio alto tedesco è documentata la forma poderâm "ippodromo", che è molto più vicina all'originale rispetto al norreno paðreimr. Resta comunque abbastanza strana la vocale lunga /a:/ nell'ultima sillaba. Potrebbe la forma norrena essere un prestito dall'area tedesca? Forse si potrebbe spiegare il dittongo /ei/ come un tentativo di nativizzare qualcosa di incomprensibile? Per risolvere in modo definitivo la questione servirebbero altri dati.

Si noterà che lo stesso vocabolo greco δρόμος "corsa", che compare come secondo membro nel nome dell'Ippodromo, in epoca più tarda è stato preso a prestito nella lingua dei Rom e dei Sinti, dove ha dato drom "viaggio; strada" (pl. droma). Ben noto è il saluto tradizionale latcho drom "buon viaggio". Approfondiremo tutto ciò in altra sede.

sabato 22 giugno 2019

UN PRESTITO NORRENO IN INGLESE: DUSK 'CREPUSCOLO'

Meditando sullo strano aspetto fonetico della parola inglese dusk "crepuscolo", sono stato assillato a lungo dal problema della sua origine non nativa - ferma restando la sua derivazione ultima dalla radice indoeuropea *dhwes- / *dhus- "fumo". 


Questa è la traduzione di quanto riportato nel sito: 

"oscurità parziale, stato tra la luce e la tenebra, crepuscolo", Il vocabolo è attestato a partire dal 1620, da un precedente aggettivo dusk, a sua volta dal medio inglese dosc (circa 1200) "scuro, non lucente; tendente all'oscurità, ombroso". L'aggettivo aveva più a che fare col colore che non con la luce. L'origine è incerta: il vocabolo non si trova in antico inglese. Nel medio inglese esisteva anche un verbo, dusken "diventare scuro". Il nome derivato era dusknesse "tenebra" (tardo XV secolo). 

Secondo gli autori di Etymonline.com, il nostro dusk potrebbe essere da una variante dell'antico inglese dox "scuro di capelli; scuro per assenza di luce", attestata nella lingua della Northumbria. La consonante -x /ks/ è dovuta a trasposizione di -s- e -k-: /*dosk/ > /doks/ (scritto dox), avvenuta prima della palatalizzazione. Resta tuttavia il fatto innegabile che soltanto poche parole inglesi con il gruppo consonantico -sk sono native. Siccome dusk non è un discendente di dox, deve essere venuto da fuori. 

Siccome in svedese esiste duska "essere fosco", sono incline a pensare che il northumbriano dox (per *dosc con /-sk/ finale) sia giunto almeno in parte dell'antico inglese proprio dal norreno. Doveva esistere in norreno un aggettivo *doskr "fosco; nebbioso; scuro", anche se non ci è attestato. Evidentemente questo *doskr è scomparso in epoca anteriore ai primi documenti letterari. Sarebbe interessante sapere se il grandissimo sapiente d'Islanda, Snorri Sturluson (1179 - 1241), fosse a conoscenza di questa parola o se ai suoi tempi fosse già estinta nell'ambiente in cui egli è nato e cresciuto. Se anche l'ombra del grand'uomo, evocata tramite necromanzia, ci confermasse che non conosceva alcun vocabolo simile, resta il fatto che la lingua norrena non era uniforme in tutto il territorio in cui era parlata e in tutta la durata della sua esistenza. Questo *doskr avrebbe potuto benissimo durare in antico svedese anche quando altrove si era già spento da lungo tempo, visto che un verbo corradicale vive ancor oggi in Svezia. 

Abbiamo così: 

Norreno *doskr < protogerm. *duskaz "fosco"
Norreno *duska < protogerm. *dusko:nan "offuscare" 


Si ha formale identità con il latino fuscus "fosco, fuligginoso; marrone scuro", che mostra lo stesso suffisso con consonante velare. Altre forme corradicali nelle lingue germaniche sono le seguenti: 

Antico inglese dosan, dosen "marrone, castano" < *dusinaz
Antico alto tedesco dosan, tusin "giallo pallido" < *dusinaz


Nel tardo latino troviamo la parola dosinus "grigio cenere", che è un evidente prestito da una lingua germanica. Si noterà che l'antico alto tedesco tusin è glossato in tardo latino con gilvus, a sua volta prestito germanico, identico nell'origine all'inglese yellow e al tedesco moderno gelb "giallo".