venerdì 31 gennaio 2020

ALCUNE NOTE SULL'ETIMOLOGIA DI BWANA

La parola swahili bwana "signore" era già abbastanza nota in Italia quando ero ancora uno scolaretto. Veniva usata in imitazioni di africani, che oggigiorno non sarebbero permesse. Non sempre veniva compreso il suo vero significato: molti pensavano addirittura che fosse "una specie di verso che fa il negro" e lo consideravano meritevole di irrisione. Sarebbe difficile per i moderni avere un'idea anche vaga del contesto scolastico degli anni '70 e del calderone di ripugnante ignoranza che vi ribolliva costantemente. Ormai credo che non ci sia bisogno di spiegarlo: bwana  è un termine di deferenza che ha conosciuto una notevole fortuna, venendo adottato anche in inglese, dove si pronuncia /'bwa:nə/. Essendo giunto agli anglofoni dalla diretta lingua parlata, non si sono formate deprecabili pronunce ortografiche. Nei dizionari bwana è spiegato come sinonimo di "mister" e di "boss", non sempre in contesti considerati positivi. Il sito etimologico Etymonline.com aggiunge che la prima attestazione nota di bwana in inglese risale al 1875, in Africa Orientale. Altre fonti riportano una data di poco diversa, il 1878. È un vocabolo coloniale usato dalla popolazione africana per rivolgersi a persone europee (e immagino anche agli arabi). Un tipico saluto swahili è "Jambo Bwana!", ossa "Salve padrone!", dove la parola jambo, corrispondente all'inglese hello, è formata dal verbo -amba "dire", con paralleli in altre lingue Bantu.  

Lo swahili bwana è considerato all'unanimità un prestito dall'arabo َبُونَا 'abūnā "nostro padre", che è 'abū "padre" con l'aggiunta del suffisso possessivo di prima persona plurale -nā. Entrambi gli elementi sono tipicamente semitici. In ebraico abbiamo אָב av "padre" e אָבִֽינוּ avinu "nostro padre". Non dobbiamo dimenticarci che proprio le genti dell'Arabia si sono dimostrate spietate schiaviste nei confronti della popolazione dell'Africa Subsahariana. Per motivi ideologici, a mio avviso deprecabili, ai nostri giorni viene passato sotto silenzio questo sfruttamento secolare imposto dai Saraceni.     
 
Un'audace proposta alternativa 

Molti anni fa mi capitò di vedere esposta in un museo una maschera tribale proveniente dalla regione dei Grandi Laghi africani, che aveva incisa sulla fronte una croce ramificata. La didascalia riportava un'informazione sconcertante: si affermava che il simbolo in questione era di origine cretese. Così come un simbolo aveva viaggiato dal regno di Minosse per finire nell'Africa profonda, allo stesso modo mi venne in mente che la radice pre-ellenica WANAK- "principe" fosse l'origine autentica dello Swahili bwana. In greco abbiamo ἄναξ (anax) "principe", "sovrano", genitivo ἄνακτος (anaktos). Anticamente la parola aveva una consonante w- iniziale, scritta con la lettera digamma  (F): ναξ (wanax), genitivo Fάνακτος (wanaktos). Nel testo eteocipriota dell'iscrizione bilingue di Amathus la stessa radice è attestata come WANAKA-. Finché non si chiarirà come l'arabo 'abūnā "nostro padre" abbia potuto dittongarsi e sviluppare una -a- tonica, il dubbio mi rimarrà. Certo, ha l'apparenza di un'idea folle e senza fondamente alcuno. Purtroppo non sono riuscito a trovare una documentazione in grado di risolvere questo problema etimologico. Innanzitutto mi servirebbe sapere se esistono forme affini a bwana in altre lingue Bantu o se si tratta di una peculiarità unica dello swahili. Proprio in ricerche di questo tipo Google si dimostra deleterio. Un ostacolo, non un aiuto.

martedì 28 gennaio 2020

ALCUNE NOTE SULL'ETIMOLOGIA DI MARACAIBO

La città venezuelana di Maracaibo è nota in Italia soprattutto per via di un brano musicale di Lu Colombo. Questa canzone, intitolata per l'appunto Maracaibo, fu scritta nel 1975 dalla stessa Colombo e da David Riondino, ma venne pubblicata come singolo soltanto nel 1981, dopo una serie  di rifiuti da parte di svariate case discografiche. Spesso è attribuita apocrifamente a Raffaella Carrà, a Giuni Russo o addirittura a Jerry Calà. Lo strano motivetto è stato considerato scomodo: parla di una prostituta resa pingue da insane abitudini voluttuarie. Rum e cocaina, bordelli, gangbang e simili. Zazà ballava nuda tra gli uomini (nudi anch'essi). Cocaetilene a mille nel sangue, con annesso rischio di arresto cardiaco. Anche grazie a questa turpe melodia, in Italia si crede fermamente che si debba pronunciare Maracaìbo, con l'accento sulla -i-. Infatti il ritornello fa MA-RA-CA-Ì-BO, con uno stridente iato, proprio come quello che ricorre nella parola "cocaina". Invece la pronuncia corretta è Maracàibo, con un dittongo discendente -ai- come quello della parola "zaino". La trascrizione fonologica della pronuncia spagnola è /mara'kaibo/, mentre la trascrizione fonetica è [mara'kaβo]. Una variante ortografica antica è Maracaybo
 
Sorge dunque una domanda. Da dove deriva il toponimo Maracaibo? Una leggenda vernacolare parla di un cacicco, ossia un capotribù, forse dei terribili Motilones, che dava il tormento ai coloni tedeschi e spagnoli stanziatisi nell'area. Il nome di questo irriducibile nemico dei nuovi arrivati sarebbe stato Mara. Si racconta che durante un assedio, dopo una lunga ed estenuante battaglia, il cacicco Mara sarebbe stramazzato a terra, ucciso da un colpo di archibugio. Gli spagnoli dell'avamposto si sarebbero messi a giubilare, urlando: "Mara cayó!", ovvero "Mara è caduto!" Da questa liberatoria frase di gioia sarebbe derivato presto il nome Maracaibo, forse grazie alla pronuncia dei Lanzichenecchi di Ambrosio Alfinger (Ambrose von Ehinger), che avevano scarsa dimestichezza col castigliano. Ormai pochi ricordano che il primo nome dato allo stanziamento era Neu Nürnberg, ossia Nuova Norimberga. Certo, è vero che in molti tuttora credono alla reale esistenza del fierissimo Mara, eppure non sembrano esistere documenti attendibili in grado di comprovarla. In tempi più recenti ci si è messa anche la politica, facendo di questa figura un simbolo della lotta per la libertà e delle rivendicazioni dei nativi. La domanda che ci poniamo è la seguente: Mara è davvero esistito? Oppure è stato costruito ex post per dare un'etimologia credibile al toponimo Maracaibo
 
Ovviamente ci appare ridicolo pensare che Maracaibo sia davvero derivato dalla deformazione della frase in spagnolo "Mara cayó". Sarebbe qualcosa di surreale e di grottesco, come spesso accade con questo genere di false etimologie. Il buonsenso ci dice che le alternative devono essere ricercate nelle lingue indigene, idea che possiamo soltanto sostenere fino alle estreme conseguenze. Va detto che a questo punto sorgono subito grandi difficoltà, per gli ostacoli quasi insuperabili incontrati nel tentativo di reperire materiale utile per la ricerca. Le proposte al momento disponibili sono tre: 
 
1) Maracaibo deriva da MAARA-IWO, che significa "Luogo dove abbondano i serpenti".
2) Maracaibo deriva da MARACAYAR-MBO, che significa "Zampa di giaguaro" (ma alcuni traducono "Fiume dei pappagalli").
3) Maracaibo deriva da MAARE KAYE, che significa "Luogo davanti al mare". 
 
Cosa significa cosa? E in che lingua? Non si sa. Un utente di Quora, scoraggiato, afferma che Maracaibo in soldoni non significa un cazzo. Nessun documento in tutto il vasto Web ci permette di appurare a quale lingua farebbero riferimento le etimologie sopra riportate, che sono tra loro incompatibili. Si parla dovunque soltanto di "lingua nativa" o "lingua degli indigeni" (come se ce ne fosse una sola), in modo generico, senza precisare nulla di più. Il nome di questa lingua non è però menzionato. L'unica volta che qualcuno tenta un'attribuzione, se ne esce con una baggianata "ad mentulam canis" (MARACAYAR-MBO per un webmaster sarebbe Guaraní). Non è riportato da nessuna parte nemmeno il nome dell'autore di ciascuna delle proposte menzionate. Non uno straccio di bibliografia. Si converrà che la cosa è fortemente sospetta. Le tre "etimologie" proposte hanno tutta l'aria di essere semplici pacchetti memetici senza la benché minima realtà storica. 
 
Dopo una lunga e infruttuosa ricerca tramite Google, la cui onniscienza è millanteria, i risultati sulle prime sono stati sconfortanti. Alla fine però sono riuscito per purissimo caso a reperire un'informazione interessante in un file pdf scaricato molto tempo fa. Si tratta di un vocabolario comparativo delle lingue native della Colombia, compilato da Randall Q. Huber e Robert B. Reed. Il titolo dell'opera è Vocabulario comparativo. Palabras Selectas de Lenguas Indígenas de Colombia (Asociación Instituto lingüístico de Verano, 1992). Tra le lingue trattate, divise per famiglia di appartenenza, figura anche quella degli Yukpa, che appartengono al ceppo Caribe e sono denominati Motilones. Tale popolo è diffuso anche nel vicino Venezuela, proprio nella regione di Maracaibo. In lingua Yukpa il serpente a sonagli è chiamato tu-máraka, trascritto foneticamente dagli autori come tɨ-máraka. Si tratta di una parola composta, dove *máraka doveva essere proprio un antico nome del serpente. Questa deve essere la radice da cui è stato ricavato il toponimo Maracaibo, anche tenendo conto del fatto che una comune glossa spagnola è "Tierra de cascabeles" (cascabel è il serpente a sonagli).  Se poi ammettiamo che la terminazione -ka sia un suffisso fossilizzato e che la radice della parola sia *mara-, possiamo pensare che il nome del capotribù Mara dovesse significare "Serpente". Così potremmo dedurre questo: 
 
1) sia Mara che Maracaibo hanno la loro comune origine in un nome Caribe del serpente - e forse specificamente del serpente a sonagli;
2) la storiella della caduta di Mara è stata inventata ex post in modo del tutto indipendente, nel tentativo di spiegare questa assonanza; ovviamente i responsabili non conoscevano alcuna lingua nativa. 
3) Resta il fatto che tutto è molto debole e che la forma esatta MAARA-IWO non l'abbiamo potuta trovare da nessuna parte (non è chiara la funzione del suffisso -IWO: locativo o plurale/collettivo?). 
 
Altre parole Caribe per indicare tipi di serpente sono molto diverse e non portano alcun aiuto: 
 
Carijona: aka'i "serpente"
Yukpa: samámu "anaconda"

Carijona: ʔa'kaima "anaconda" 
 
Yukpa: takújemo, takújemu "serpente corallo"
    (-j- trascrive la semiconsonante, come -y- in spagnolo) 

A complicare le cose, anche i Barí sono chiamati Motilones come gli Yukpa, ma la loro lingua appartiene invece alla famiglia Chibchá. Nella loro lingua non ho trovato parole adatte a sostenere una traduzione di Maracaibo come "Luogo dei serpenti" o simili. Sono riuscito a trovare un'unica parola per indicare un ofide: 
 
Barí: tʃiduurə "serpente"  
 
Altre parole di lingue Chibcha per indicare il serpente sono molto diverse tra loro, al punto che non si riesce a ricostruire una protoforma.  
 
Ika: gwi.ómɨ "serpente"
Kogui: tákbi "serpente"
Dimina: guma "serpente"
Chimila: mannuʔ "serpente"
Tunebo Centrale: kumoroá "serpente" 

Ika: makúku "anaconda"
Kogui: kámawaldi "anaconda"
Dimina: mɨnta "anaconda"

Ika: áku "serpente a sonagli"
     geiróta "serpente corallo"
Kogui: guíjuba "serpente a sonagli"
       ge-takbé "serpente corallo"
Dimina: guma teʒaku "serpente a sonagli"
Chimila: síŋ "serpente a sonagli",
      mbuwaʔ "serpente a sonagli; serpente corallo"
 
Forse il Chimila mannuʔ "serpente" potrebbe venire da *mar-nu-? Tutto è molto labile. Non c'è null'altro di utile nel documento. Invitiamo l'eventuale lettore a verificare di persona. 


Anche ammettendo che l'etimologia giusta sia quella che postula MARACAYAR-MBO "zampa di giaguaro", non troveremmo niente per poterlo provare. Non siamo riusciti a trovare una lingua in cui il nome del giaguaro si avvicinasse al supposto MARACAYAR-. In una singola lingua Caribe, tra l'altro parlata in una regione del Brasile distante anni luce da Maracaibo, abbiamo evidenza di una voce KAMARA "guaguaro", ma dovremmo supporre una metatesi in *MARAKA, che non avrebbe una chiara giustificazione. Questa è una lista di parole col significato di "giaguaro; cane" in varie lingue Caribe:    
 
Yukpa: eʃo "giaguaro; cane"
Tiriyó: kaikui "giaguaro; cane"
Hixkaryana: kamara "giaguaro; cane" 
Makushi: kaikusi "giaguaro; cane" 
Panare: akərə "giaguaro; cane"
Bakairi: udodo "giaguaro; cane"
Ikpeng: akari "giaguaro; cane"
Kuikuro: ekeγe "giaguaro; cane"
 
Tutto questo l'abbiamo riportato per dare un'idea della marasmica complessità del problema. Non dobbiamo infine trascurare la possibilità che all'epoca dell'arrivo dei Conquistadores si parlassero in Venezuela e in Colombia lingue oggi estinte senza lasciare traccia e non appartenenti a ceppi noti - il che vanificherebbe ogni sforzo. Riportiamo un fatto singolare. Prima che si cominciasse a parlare del cacicco Mara e della sua caduta, la regione di Maracaibo era chiamata Coquibacao
 
Il Web: diffusore di peste memetica 
 
Non soltanto Google non ci è stato di aiuto, ma ci ha dato serissimi problemi. Il motore di ricerca diffonde i pacchetti memetici costituiti da tre proposte etimologiche difficilmente valutabili, mettendo in evidenza centinaia di siti che le riportano acriticamente, spesso copiando e incollando da fonti ormai non più identificabili. Come conseguenza, se anche ci fosse da qualche parte un documento significativo, sprofonderebbe sotto tonnellate di spazzatura in una vera e propria discarica virtuale.  

sabato 25 gennaio 2020

ALCUNE NOTE SULL'ETIMOLOGIA DI MACABRO

La parola italiana macabro è un caso molto interessante. La pronuncia corrente è sdrucciola, màcabro, ma un tempo esisteva anche la forma piana, macàbro, che attualmente sarebbe considerata ridicola, pur essendo più corretta. La parola proviene infatti dal francese macabre, di origine incerta. Questa è la stessa fonte che ha dato origine anche all'inglese macabre (pronuncia britannica /mə'ka:bɹə/, /mə'ka:bə(ɹ)/; pronuncia americana /mə'ka:b/, /mə'ka:bɹə/, /mə'ka:bəɹ/) e allo spagnolo macabro (pronuncia /ma'kabro/). Il vocabolo è giunto persino in Romania come macabru (pronuncia /ma'kabru/), ma si tratta di un articolo d'importazione abbastanza recente. Il problema fondamentale è capire qual è la vera origine del francese macabre
 
La prima attestazione a noi nota è databile all'anno 1376. Compare nel Respit de la Mort, un componimento di Jean le Fèvre (circa 1325 - circa 1380). La citazione è la seguente: 
 
Je fis de Macabré la dance  
qui toutes gens maine a sa tresche
et a la fosse les adresche
qui leur est derraine maison.

Questa è la traduzione: 

Feci di Macabré la danza
che ogni persona mena nella sua tresca
e alla fossa invia
ch'è la sua ultima magione. 
 
Sorgono tuttavia problemi. I versi sopra riportati sono stati filtrati dagli studiosi e si possono considerare in qualche modo elaborazioni. Infatti i manoscritti più antichi hanno versioni leggermente diverse. Le riporto nel seguito (primi tre versi): 
 
Manoscritto 994: 
 
Je fis de Macabre la dance  
qui toutes gens maine a la tresche
et a la fosse les adresce  
 
Manoscritto 1543: 
 
Je fis de Macabre la dance  
qui toutes gens maine a sa tresche
et a la fosse les adresche  

Manoscritto 19137: 
 
Je fis de Macrabe la dance  
qui toutes gens maine a tresche
et a la fosse les adresce  
 
Come si può vedere, nessuna di queste versioni ha la forma con l'accento sull'ultima sillaba, Macabré. Si ha invece Macabre, con la variante metatetica Macrabe

Nel manoscritto 1352 abbiamo invece una forma diversa: 

Je fis de Macabree la dance
qui toute gent maine a sa tresche
et a la fosse les adresse

In un componimento più recente, Ballade d'un Prisonnier, il verso finale è il seguente: 
 
Je danseray la macabrée danse.
 
Appare chiaro che "danzare la danza macabra" significa "morire".
 
 
 
Come interpretare queste strane forme? A lungo si è favoleggiato di un pittore fantomatico chiamato proprio Macabré, cosa che a mio avviso appare inverosimile. Certo, tutto può essere. Bisogna però notare che un personaggio di questo genere non ha lasciato alcuna documentazione concreta della propria esistenza. Se anche questo artista venisse scoperto, resterebbe da capire l'origine del suo soprannome. 
 
L'ipotesi in cui ci si imbatte più frequentemente è quella che fa risalire Macabré ai Santi Maccabei. Nel Secondo Libro dei Maccabei (cap. 6) è narrato il martirio di sette fratelli, della loro madre e dello scriba Eleazaro, all'epoca in cui la Giudea era dominata da un sovrano greco, il Seleucide Antioco Epifane IV (215 a.C. - 164 a.C.). Tornato da una spedizione in Egitto, Antioco IV calò su Gerusalemme, sterminando gran parte della popolazione, depredando il Tempio e proibendo con misure draconiane l'esercizio della religione ebraica. Fu così che lo scriba Eleazaro fu costretto a mangiare carne suina immolata alle divinità pagane. Essendosi rifiutato di farlo, venne massacrato a bastonate fino alla morte (nel Web si legge che sarebbe anche stato soffocato da vapori ripugnanti, ma non è specificata la fonte). Sette fratelli furono tutti uccisi tra tormenti atrocissimi e loro madre fu costretta ad assistere per poi essere a sua volta martirizzata. Sono appunto questi i Santi Maccabei. Si chiamano così perché patirono al tempo della rivolta dei Maccabei, non perché appartenessero alla famiglia degli Asmonei. Furono considerati precursori di Cristo.  
 
Nel Medioevo il culto dei Santi Maccabei fu diffusissimo e assai popolare in tutta la Cristianità, sia tra i Romani che tra i Bizantini. L'idea di molti studiosi è che la Danza Macabra abbia tratto il suo nome proprio da quella che veniva chiamata chorea Machabaeorum o Machabaeorum chor(e)a, ossia Danza dei Maccabei. La locuzione è ben attestata, anche con varianti ortografiche come chorea Maccabeorum. Questa locuzione indicava la morte di torture che i sette fratelli martirizzati dovettero subire. Esistono truculente narrazioni apocrife che descrivono ogni minimo dettaglio, con dovizia di particolari macabri, per l'appunto. Nel Secondo Libro dei Maccabei è riportato che a quando si preparavano a tagliare la lingua e le mani a uno dei giovani, questi disse di non curarsene e di sperare che Dio gli avrebbe restituito le membra amputate. Affinché l'etimologia proposta abbia un senso, bisogna spiegare come da Machabaeus si possa essere giunti a Macabree, Macabrée, Macabre. I romanisti sono convinti che si tratti di una serie di errori di scrittura: prima l'inserimento di una rotica -r-, che avrebbe portato da Macabée "Maccabeo" a Macabrée. Quindi si sarebbe giunti a Macabré e per errore nella scrittura della vocale finale, a Macabre, cosa che avrebbe dato origine a una lettura ortografica con ritrazione dell'accento.
 
Un'altra teoria, che va prontamente dismessa, è quella dell'associazione con San Macario, eremita egiziano che soffriva di piaghe verminose. Quando un cagnotto gli cadeva, lo rimetteva subito sulla carne cancrenosa, dicendo che quella povera creatura aveva il diritto di godersi il suo festino. Così San Macario sarebbe divenuto un improbabile San Macabrio, forse per l'errore di uno scriba in qualche documento. A Pisa, in un dipinto del Campo Santo, un uomo di nome Macario si rivolge ai vivi in nome dei Morti. Nulla giustifica una tale identificazione di San Macario con la Morte, così si deve trattare di un nome attribuito arbitrariamente dall'artista al portavoce dell'Oltretomba. In seguito, questo Macario sarebbe stato identificato in modo abusivo con San Macario.  

A queste complesse elucubrazioni dei romanisti, si oppone una teoria totalmente dissimile quanto diretta, concettualmente semplice, cristallina come la Verità. Il nostro Macabrée trae la sua origine dall'arabo مَقَابِر maqābir "cimiteri", plurale di مَقْبَرَة maqbara "cimitero" (anche مَقْبُرَة maqbura). La mia idea in proposito è questa: ai tempi delle Crociate, sarebbe vissuto in Terrasanta un necrofilo, che si divertiva ad esumare i cadaveri per aspirarne i lezzi. Il suo nome sarebbe quindi passato in Francia, conoscendovi una prodigiosa diffusione. 
 
In ebraico esiste la parola meqaber "scavatore di tombe", attestata come hapax legomenon nel Libro di Geremia (capitolo 14). La parola è sopravvissuta come prestito ebraico nello yiddish (meqaber zayn "essere un seppellitore", "inumare, sotterrare un morto"). Similmente in aramaico meqabrey significa "becchini, inumatori", parola che si adatta splendidamente al francese Macabrée. L'origine ultima sia della forma araba che di quella ebraica e di quella aramaica è il protosemitico *qabru "tomba, sepolcro", con un tipico suffisso *ma-, *mu-, attestato in moltissime lingue afroasiatiche, egiziano antico compreso. Sono propenso a credere che la forma araba e quella aramaica siano migliori candidate rispetto a quella ebraica, in cui la consonante -b- aveva un suono fricativo -v-. Credo inoltre che sia probabile che la sillaba finale della parola ebraica avesse una vocale lunga, essendo piuttosto meqabēr /məqa've:r/. Più che un inumatore, un uomo macabro è un esumatore, che scava per estrarre corpi decomposti. Il suo agire è l'esatto contrario della pietà tipica delle genti semitiche, che non prevedono esumazioni e ricomposizioni di corpi negli ossari. Sono ben determinato nel difendere le mie tesi: Macabrée doveva essere il soprannome attribuito da arabi o da siriani di lingua aramaica a un franco folle che dissotterrava i morti per abusare di loro, provocando immenso scandalo. I romanisti non potranno mai convincermi del contrario. All'origine della parola "macabro" ci sarà più facilmente un necrofilo piuttosto che un precursore di Cristo! 
 
Riporto un link a un interessante articolo in cui questi argomenti sono discussi:    


Con insopportabile paternalismo la Wikipedia in inglese avverte che la parola macabre non deve essere confusa con Marcabru, che era un famoso trovatore provenzale del XII secolo, animato da una misoginia violentissima (accusava le donne di essere maligne e di puzzare). Aggiungerei allora, a beneficio dei rudi Anglosassoni d'America, che macabre non va confuso nemmeno con Marcab, nome di un pianeta della mitologia di Ron Hubbard, tuttora creduto reale dagli adepti della Chiesa di Scientology. Non è poi impossibile che lo stesso Hubbard, che era uno scrittore di fantascienza oltre che un capo religioso, si sia ispirato proprio alla parola macabre per creare il nome del pianeta in questione, a sua detta popolato da gente malvagia. Marcab sarebbe, in altre parole, il Pianeta Macabro. Così come Helatrobus è il Pianeta Infernale (dall'inglese Hell) e il Demiurgo Xenu è lo Straniero, l'Alieno (dal greco xenos).

martedì 21 gennaio 2020

ETIMOLOGIA DI PETTEGOLO E DI PETTEGOLEZZO

Raimondo Vianello nel corso di una futile trasmissione disquisì sull'origine della parola pettegolezzo, pur non essendo un grande etimologo. A suo dire, pettegolezzo sarebbe derivato da "olezzo di peti", tramite il veneto. L'uomo di spettacolo citò la forma d'origine come "peteoleso" (pron. /peteo'leso/, con -s- che trascrive una sibilante sorda), facendo battute con marcato accento veneziano, stando però attento a non essere troppo esplicito. Ripeteva di continuo "pete-oleso" con uno stacco mediano, come se fosse "péte olèso", più volte, ridacchiando per poi rivolgersi con sarcasmo alle dame presenti e chieder loro - in modo retorico - se avessero capito. 

Il punto è che in italiano lombardo televisivo il termine olezzo ha una consonante affricata sorda (quella che i cruscomani chiamano assurdamente "z aspra"), come in razzismo. Tuttavia nell'italiano toscano olezzo ha una consonante affricata sonora (quella che i cruscomani chiamano assurdamente "z dolce"), come in gazza. Quest'ultima pronuncia dovrebbe essere la più genuina (anche se personalmente non l'ho mai sentita sulla bocca di nessuno), tanto che i romanisti hanno pensato di ricostruire la protoforma latina volgare come *olidiu(m). Mentre la forma lombarda ha la -e- aperta [ɛ] come in cesto, la forma toscana ha la -e- chiusa [e] come in neve. La vocale aperta lombarda ha l'aria di essere secondaria, come spesso accade, di qui la ricostruzione di una -i- nel latino volgare *olidiu(m)

Vianello affermava una falsa etimologia che presupporrebbe quindi un latino volgare *ole:tiu(m), che però non è documentato da nessuna parte, pur esistendo ole:tum "merda". Il termine latino per dire "peto" era pe:ditum, di cui le forme romanze sono contrazioni. Così abbiamo ad esempio il milanese pètt "peto" (< pe:ditum), con un plurale pitt "peti" < *pe:diti:, con tanto di Umlaut palatale (la forma neutra è passata al maschile). Certo, mi si dirà, il consorte della Mondaini non era esattamente un'autorità nel campo della filologia romanza. In ultima analisi la forma latina pe:ditum viene da un precedente *pezdetom, dal verbo *pezdo: "io scorreggio", di chiara origine indoeuropea (*pezd- / *perd-), con parenti in greco (perdomai "io scorreggio") e in germanico (da cui anche l'inglese fart "peto"). 

In veneto in realtà esisteva originariamente soltanto una forma femminile per dire "pettegolo", usata anche quando il soggetto è di sesso maschile: petégola (XVI secolo). In seguito si è avuta anche la forma maschile petégolo. Del vianellismo senza la consonante -g- non ho trovato traccia in letteratura. Questa forma petégola sembra proprio derivare da un precedente *petticula, a sua volta regolare evoluzione di *pe:diticula, che è proprio un diminutivo di *pe:ditum "peto", alla lettera "piccolo peto". Forse era un neutro plurale con valore collettivo, "piccoli peti", piuttosto che un femminile. Per quanto riguarda il derivato pettegolezzo, non ha in sé alcun olezzo: è stato formato da pettegolo con un suffisso -ezzo. In passato erano diffuse anche altre forme, come pettegolume e pettegolata. Una volta capite tutte queste cose, possiamo giungere alla conclusione che Vianello fosse arrivato alla verità per vie traverse e grossolane (l'olezzo non l'aveva azzeccato, ma i peti sì). Il pettegolo è proprio uno scorreggione, un petomane che emette gas fetidi quanto rumorosi dalla bocca anziché dall'ano. 
 
Archeocomparativismo 

False etimologie imperversavano ancora nel XIX secolo. Così alcuni associavano pettegolo a un artificioso *puticulus "ragazzino", supposto diminutivo di putus "ragazzo" (da cui deriva putto, che però presuppone *pu:ttus con vocale lunga e consonante doppia). A parte il fatto che il vocalismo è incompatibile e che la semantica fa schifo, in realtà si trova soltanto un puticulus "pozzetto", diminutivo di puteus "pozzo", che non c'entra una beata fava. Reputo assurdo anche l'accostamento a petere "andare verso": anche qui la semantica fa schifo, a prescindere dalle difficoltà fonetiche (-t- in veneto avrebbe avuto la lenizione) e grammaticali (la morfologia non si spiega). Queste paretimologie grottesche sono state davvero proposte da qualche parruccone e si possono facilmente trovare nel Web: 

sabato 18 gennaio 2020

PRONUNCIA ORTOGRAFICA DI NOMI GENOVESI, VENETI E SICILIANI IN ITALIANO

Accadde molto tempo fa. Non importa, ci sono traumi che non si dimenticano. Ci sono ferite che non rimarginano. Una stoltissima annunciatrice televisiva disse che sarebbe stata trasmessa La Venexiana, film erotico di Carlo Bolognini (1986), vagamente ispirato all'omonima commedia composta da un anonimo autore nel XVI secolo. C'è un piccolo problema. L'annunciatrice in questione - possa Yog-Sothoth divorare in eterno la sua anima, defecarla, vomitarla e ingurgitarla di nuovo in un eterno ciclo di dannazione atelorroica - pronunciò la lettera -x- di Venexiana come un gruppo consonantico /ks/, uscendosene con un'oscenità innominabile: una pronuncia ortografica escrementizia, ossia /vene'ksjana/, mentre deve essere /vene'sjana/. Infatti in veneto la lettera x trascrive la sibilante s sorda e la sibilante sonora /z/ come nell'italiano rosa, ad esempio in xe "è", voce del verbo esser "essere" da pronunciarsi /ze/, non certo /*kse/ come fanno alcuni. Un tempo anche Venexia era pronunciata con la consonante sonora /z/, ma questo uso sembra essere tramontato. La televisione - sia dannato in eterno nella Geenna quel porco del suo inventore - ha sì una colpa fondamentale nella diffusione del peggior materiale fecale ideologico. Non bisogna però dimenticare che un'istituzione diabolica, creata direttamente dal Principio del Male, ossia il sistema scolastico, è responsabile dello sterco che la televisione poi diffonde. L'annunciatrice microcefala che ha inventato un gruppo consonantico /ks/ inesistente, avrebbe potuto chiedersi da dove diavolo si sarebbe dovuta originare una pronuncia tanto insensata, Diabole Domine! Invece nulla. Perché vige la totale sottomissione ai dettami di una scuola demente in cui il corpo docente insegna che la lettera x va pronunciata sempre e comuncue /ks/, indipendentemente dal contesto. Su Splinder, la piattaforma blogosferica oggi sparita nel Nulla, esisteva un blogger che si faceva chiamare Rosso Venexiano. Ebbene, in un'occasione ho sentuto una tipa pronunciare il nick come /'rosso vene'ksjano/, quando avrebbe fatto bene a dire /'rosso vene'sjano/ (a parte il fatto che in veneto sarebbe Roso Venexiàn). Ho quasi avuto una sincope! Maledetta -k- intrusiva, io ti esorcizzo!

Roberto Benigni, attore e comico di cui non ho alcuna stima, in un'occasione ebbe a dire che il cognome Craxi in realtà si dovrebbe scrivere Crasi e che la lettera x il celebre Bettino se l'è messa per far colpo. Questa opinione non era poi così lontana dal vero. Lo stesso politico socialista lo riconobbe nel corso di un'intervista. La vera pronuncia del suo cognome, anche se non è proprio il Crasi postulato dal comico toscano, è Crasci. Infatti in siciliano la lettera x si usa per trascrivere il suono palatale che in italiano è reso con sc davanti a vocali anteriori (e, i). Oggi questo uso è in declino, ma un tempo era generale e si scriveva xumi "fiume", xuri "fiore", etc. Facendo sfoggio di una gran simpatia, lo stesso Craxi disse che esiste anche una variante tronca del suo cognome, la più antica, che suona Crascì. Resta da capire per quale motivo ideologico lo stesso possessore di questo cognome abbia sempre tollerato l'abominevole pronuncia ortografica /'kraksi/ (che in Meridione spesso diventava /'krakkissi/ e simili). Forse sapeva bene che contro la belluina ignoranza del volgo crasso non è possibile andare, pena l'impopolarità. Così ha fatto dell'errore delle plebi scolarizzate una specie di vessillo, un nome d'arte - cosa che alla fine l'ha perduto. Per il resto, devo riportare che mi sono imbattuto in una siciliana matura malata di pronuncia ortografica, che giungeva nei suoi eccessi a risultati inverecondi. Apparteneva alla mala genia dei burosauri e pronunciava la stessa lingua italiana in modo assurdo e grottesco, tanto da articolare EX INAM come EKISSÌNAME /ekis'siname/: un suo interlocutore andò su tutte le furie, pensando che gli stesse parlando di una fantomatica entità denominata EKISSÌNAMA, al plurale. Per scrivere in siciliano, oggi si usano ortografie italianizzate, ad esempio ciumi "fiume", sciuri "fiore", il che almeno ha evitato ulteriori tremendi abusi. Maledetta -k- intrusiva, io ti esorcizzo! 

Veniamo ora all'augusta e inclita città marinara di Genova. Tutti sanno dell'esistenza del patriota Nino Bixio, genovese doc. Ecco, ora rivolgo una domanda retorica a tutti gli utenti. Come pronunciate il cognome Bixio? Immagino che lo facciate come la scuola maledetta vi ha insegnato, ossia attribuendo a quella strana, singolare -x- il valore di un gruppo consolantico /ks/. Così ecco che Bixio lo pronunciate /'biksjo/. Invece nell'ortografia tradizionale genovese la lettera x suona come j nel francese jour: è una fricativa palatale sonora /ʒ/. Così il genovese quaexi "quasi" suona /'kwɛʒi/. Ricordo che il carissimo amico Kremo riportava la cosa parlando della microtoponomastica del circondario genovese e di Torriglia in occasione di una mia visita. Il cognome Bixio si deve pronunciare /'biʒu/. Proprio come il francese bijou, ma con l'accento sulla prima sillaba. L'etimologia è la stessa dell'italiano bigio "grigiastro". Adesso, e qui son dolori, veniamo a come la pronuncia ortografica di Bixio è stata adattata nel Meridione d'Italia. Data la difficoltà endemica a pronunciare il gruppo consonantico /ks/, si sono prodotte molteplici pronunce aberranti: bìkissio /'bikissjo/, bìkkissjo /'bikkissjo/ e addirittura bikìssjo /bi'kissjo/, con l'accento su una sillaba inesistente, come se significasse "Colui che bacia due volte". Ma se lo avessero chiamato Nino Bigio non sarebbe stato meglio per lui e per tutti? Maledetta -k- intrusiva, io ti esorcizzo!

mercoledì 15 gennaio 2020

PRONUNCIA ORTOGRAFICA DI PAROLE SPAGNOLE E NAHUATL IN ITALIANO

Infinite sono le aberrazioni indotte dalla pronuncia ortografica. Persino una lingua come lo spagnolo, sorella dell'italiano per comune origine dal latino volgare, non è riuscita a sfuggire a questo tristissimo fato. Televisione e scuola hanno provocato scempi che dire atroci è ancor poco.
 
Dai banchi di memoria stagnanti stoccati nel mio cervello sofferente e infiammato emergono ogni giorno ricordi disgustosi, come fiotti di bile rigurgitati dallo stomaco. Ricordo ancora un caso di pronuncia ortografica dello spagnolo emerso quando vidi un film con Gilberto Govi, Che tempi!, di Giorgio Bianchi (1948). Il signor Felice Pastorino, interpretato dal famoso comico genovese, si trovava di fronte un argentino, Manuel Aguirre, interpretato da Alberto Sordi. Così accadeva che il Pastorino, leggendo il cognome Aguirre /a'girre/, lo pronunciasse come se fosse *Agüirre /a'gwirre/. Subito l'argentino gli faceva notare l'errore, ma ecco che il genovese batteva i piedi per terra, prendendola male, strepitando. Protestava con furia, pretendendo di aver ragione: "Guardi che so leggere!" Non voleva capire che in Aguirre la -u- è soltanto un segno diacritico per indicare la retta pronuncia della -g-, non diversamente da quanto accade in italiano con la -h- in parole come ghetto. Il Pastorino eccedeva anche sul piano lessicale, affermando che in spagnolo hombre significherebbe "amico" anziché "uomo", ma questo è un altro discorso. Di fronte a tanti spropositi, Aguirre replicava serafico e sorridente: "Muy simpático!" Forse pensava "Maricón cabrón hijo de puta!", ma non lo dava a vedere. Un tempo erano molto comuni in tutta Italia personalità simili al signor Pastorino da Genova. In Brianza un uomo così lo si chiama Paulìn Vunciùn, perché "el g'ha semper resùn". Suo fratello è Bastiàn Cuntrari.   
 
Su una televisione privata lombarda, all'epoca in cui ancora scanalavo, mi imbattei in un gruppo folkloristico che cantava una singolare canzone milanese. Il protagonista era un pappone che faceva prostituire la compagna e la massacrava di sganassoni a ogni minimo segno di ribellione. Era un energumeno, un gorilla! Ai nostri giorni una cosa simile non potrebbe nemmeno più essere pensata, figurarsi trasmessa nell'etere. Alla fine, le gesta dello squallido magnaccia si concludevano in modo inglorioso. Arrivavano i poliziotti e caricavano il criminale su un cellulare denominato Mosquito, conducendolo a marcire in galera. Il punto è che il cantante pronunciava Mosquito con una consonante labiovelare /kw/, come se fosse stato scritto in italiano: /mos'kwito/ anziché /mos'kito/

Non si creda che questa peste della pronuncia ortografica risparmiasse persone di cultura elevata. Ricordo quando consultai l'Enciclopedia UTET e mi imbattei nella voce QUEBRACHO, che è il nome di varie specie di piante dal legno durissimo (Aspidosperma quebracho-blanco, Schinopsis Lorentzii, Schinopsis balansae), assai diffuse in Argentina: era riporta in caratteri fonetici la falsa pronuncia /kwe'brako/, quando sarebbe stato semplicissimo trascrivere /ke'bratʃo/. Non si dice di usare la /β/ bilabiale dello spagnolo, abbastanza simile alla mostra /v/, ma almeno si potrebbero rendere in modo corretto suoni presenti nella nostra lingua, evitando vere e proprie aberrazioni! 

Sembra che secoli fa ci fosse maggior senno. Il famosissimo nome di Don Chisciotte (Don Quijote, Don Quixote) fu scritto così in Italia proprio per evitare delittuose pronunce ortografiche. In inglese invece la trascrizione è stata fedele all'originale, Quixote, cosa che ha generato una terrificante falsa pronuncia /kwik'soʊti:/ o /kwik'səʊti:/, tuttora in uso. In tempi più recenti è incappato nelle maglie della pronuncia ortografica il generale Armando Diaz (Napoli, 1861 - Roma, 1928). Il militare era italiano, ma il cognome mostra una chiara origine spagnola. La sua pronuncia quindi ha avuto una consonante affricata: /'diats/. Si noterà che in Brianza questo stesso cognome ha dato origine a bestemmie un tempo comunissime: da giovane avrò sentito un milione di volte urlare "porco dìaz!" e anche "porco dìez!", con indebolimento della vocale atona, ma sempre con la consonante affricata finale /-ts/. Non sarebbe stato più semplice pronunciare un più verosimile /'dias/? Non si pretende certo una consonante interdentale /θ/, inesistente in italiano e in lombardo, ma non ci sono dubbi che realizzare una fricativa /-s/ costa meno fatica che realizzare un'affricata /-ts/.  

Tutte queste aberrazioni sono ben lungi dall'essere estinte: non di rado ci si imbatte tuttora in una falsa pronuncia del cognome della prosperosa Belén Rodriguez, che le genti della televisione pronunciano ortograficamente /ro'drigwets/ (in gran parte della Spagna è /ro'ðrigeθ/, in America Latina è /ro'ðriges/). Direi che pronunciare come se fosse scritto Rodrighes andrebbe più che bene per un italiano. Pronunciare -gu- come in italiano è un'assurdità, visto che la -u- è qui soltanto un segno diacritico che non ha nessuna realtà storica.

Il malcostume della pronuncia ortografica di origine scolastica si applica purtroppo anche alla lingua Nāhuatl, scritta per tradizione secondo le consuetudini ispaniche. Così lo stesso nome degli Aztechi subisce in Italia pronunce false come /ats'teki/ e addirittura /at'tseki/ (come se fosse scritto *Azzechi!), mentre si deve pronunciare /as'teki/, con una semplicissima /s/. La forma Nāhuatl era infatti āztecatl /a:s'te:katɬ/ "azteco", al plurale Āztecah /'a:s'te:kaʔ/ "Aztechi". Un'altra vittima dello scempio è la famosa larva branchiata di una salamadra messicana, detta axolotl. Gli studenti fanno la gara tra chi riesce ad articolare la pronuncia più inverosimile. Di solito vince quello che pronuncia /akso'lotel/, seguito da un altro che pronuncia /akso'lolt/. La pronuncia corretta è /a:'ʃu:lutɬ/. La parola deriva infatti dal Nahuatl āxōlotl e significa "servo dell'acqua", da ātl "acqua" e da xōlotl "servo". La consontante -x- si pronuncia come la sc- di scena. La caratteristica -tl finale non è una sequenza di suoni ed è difficile da pronunciare per un europeo: la -t- deve essere articolata quasi contemporaneamente a una -l- sorda. L'accento è sulla penultima sillaba, che ha la vocale lunga.  
 
I Russi hanno evitato le pronunce ortografiche in modo molto naturale, trascrivendo i nomi traslitterati in cirillico secondo criteri fonetici approssimativi ma abbastana validi. Non ho affatto simpatia per le genti di Vladimir Putin, ma devo dire che hanno evitato la devastazione che da noi è stata prodotta dalla scuola e dai media - almeno per quanto riguarda la pronuncia delle parole straniere.

domenica 12 gennaio 2020

PRONUNCIA ORTOGRAFICA DI PAROLE INGLESI IN ITALIANO

Una delle massime aberrazioni concepibili dalla mente dell'essere umano è senza dubbio la stramaledetta pronuncia ortografica. Tale immondizia concettuale nasce dalla perversione di chi considera la lingua scritta come anteriore alla lingua parlata. La definisco in un solo modo: bestemmia contro il Logos!

Una delle lingue che ha più sofferto le maledizioni delle pronunce ortografiche è stata quella della millenaria Regina Elisabetta. Ecco le più popolari pronunce ortografiche di parole inglesi entrate in italiano, incluse alcune sigle commerciali diffuse tramite la pubblicità televisiva:

tranvai /tran'vai/ "tram"
     < tramway "tramvia" 
block notes /blok 'notes/ "blocco per appunti" (anche abbreviato in
 notes /'notes/)
     < notes "note")
water /'vater/ "tazza del cesso"
     < water closet "gabinetto con scarico ad acqua"
     closet è stato adattato persino in cloche per falsa etimologia: un 
     tempo era comune water cloche /'vater 'kloʃ/ 
Lines /'lines/ (pannolini per bambini)
     < lines, plurale di line "linea, striscia"
Carefree /kare'fre/ (assorbenti intimi)
     < (to) care "prendersi cura" + free "libero"
Colgate /kol'gate/ (dentifricio)
    dal cognome del fondatore William Colgate, probabilmente da 
    coal "carbone" + gate "cancello"
Somatoline /somato'line/ (dimagrante)
    < somato- "corpo" (dal greco accademico) + line "linea"


La deleteria influenza della televisione, scatola maligna inventata da Mefistofele, è stata determinante nella diffusione di questo schifo. Se water /'vater/ "tazza del cesso" è un vocabolo ancor oggi diffusissimo nella parlata quotidiana, altre forme come tranvai si possono ritenere obsolete. Non sempre i parlanti italofoni si sono mostrati consapevoli della natura di questi vocaboli. Solo per fare un esempio, mi è capitato di sentir sostenere che tranvai sarebbe derivato da un'onomatopea tran tran mimante lo sferragliamento del mezzo urbano e da vai inteso come voce del verbo andare.  

In epoca precedente erano pronunciati in modo ortografico o semi-ortografico anche numerosi altri prestiti dall'inglese. Questi due esempi li ho udito con le mie stesse orecchie, il secondo da mia madre (RIP): 

boogie woogie /'budʒi 'budʒi/ (con la -g- di getto)
      anziché /'bu:gi 'wu:gi/ (con la -g- di ghetto)
one step /one'step/ anziché /'wʌnstep/ 

I fumetti di Topolino hanno dato il loro contributo con una gran quantità di onomatopee e di ideofoni importati dal mondo anglosassone, a cui tutti abbiamo attribuito naturalmente una pronuncia ortografica che oggi siamo inclini a considerare delittuosa. Questi sono alcuni esembi celeberrimi:

sigh: indica sospiro, pianto
sob: indica singhiozzo, pianto
thump: indica un rumore sordo
chomp: indica masticazione rumorosa 
 
Il sospiro paperoniano sigh è pronunciato /sig/ in Italia, ma la pronuncia inglese è /saɪ/; si noterà che la pronuncia ortografica di sigh è la stessa data alla prima parola del saluto nazista Sieg Heil.
Il tonfo paperoniano thump è pronunciato /tump/ in Italia, ma la pronuncia inglese è /θʌmp/
Talvolta nei fumetti si scriveva ciomp anziché chomp per evitare che qualche sprovveduto realizzasse ch- come una velare occlusiva /k/, perdendo l'onomatopea. In genere non ho mai sentito una simile atrocità, anche perché a scuola le maestrine stavano molto attente che si pronunciasse correttamente ch come un'affricata in toponimi come Michigan e via discorrendo. Un esempio scolastico di pronuncia di ch è sempre stato Chicago, ma il nome della città dell'Illinois in realtà si pronuncia con una /ʃ/ iniziale, la stessa dell'italiano scemo.

Anche nella microtoponomastica questa piaga della pronuncia ortografica era alquanto diffusa e in molti casi non è tuttora estinta: Viale Jenner è ancora pronunciato in modo sistematico /'jenner/ anziché /'dʒenner/, come se l'augusto medico fosse un figlio della Germania anziché di Albione. Spesso se ne esce qualche cronista a dire che ci sono stati tumulti nei pressi della moschea di Viale Jenner, pronunciando /'jenner/. Una simpatica cinesina mi raccontò di un islamico di Viale Jenner che si recò al ristorante a ingozzarsi di carne suina e di grappa. Anche lei pronunciava /'jenner/, come tutti. Herr Edward Jenner di Prussia è una realtà. Lunga vita al concittadino del sacrosanto Cancelliere Otto von Bismarck!  Si deve quindi menzionare il caso di Via Washington un tempo subiva la pronuncia ortografica /'via 'vaʃʃington/ dai Milanesi, con tanto di -g- sonora grande come una casa, articolata con pena perché a scuola insegnano che le lettere mute non devono esistere. Credevo che questo uso fosse estinto e che avesse ceduto definitivamente il passo a un più corretto /'woʃin(g)ton/; proprio qualche giorno dopo la ruminazione di questi pensieri, ecco che un amico milanese ha pronunciato /'via 'vaʃʃington/.

Non penso che la causa degli atroci scempi descritti fosse la semplice ottusità del volgo: tutti sapevano ad esempio che il francese non si può leggere come si scrive - e chi osasse farlo veniva schernito senza pietà, additato a tutti come un somaro. Si trattava di forme di resistenza e di boicottaggio contro l'introduzione della lingua inglese, odiatissima. Fino a prova contraria, nessuno usava pronunce ortografiche del francese. Chi lo avesse fatto sarebbe stato bollato come un immondo zotico. Invece la lingua di Albione era vilipesa dal sistema scolastico. Mi fu riferito da una minuta e frizzante brunetta che suo zio pronunciava James Dean come I-àa-mes Dé-aan, con netta sillabazione. Non c'era verso di spiegare a quel rozzo villico della Brianza che una simile pronuncia è assolutamente erronea. Lui insisteva, picchiava i pugni sul tavolo, tirava bestemmie e urlava. A sua detta, a scuola gli avevano insegnato a scrivere e lui aveva imparato: se su un foglio c'è scritto James Dean, ecco, doveva leggersi come se fosse un nominativo italiano, I-àà-mes Dé-aan. La lingua della Germania è riuscita a ottenere un maggior rispetto. Solo qualche contadino paccianesco nelle campagne della Toscana applica la pronuncia ortografica a parole tedesche, tanto che Volkswagen diventa sulle sue labbra Fosfage, con suono palatale - si sente dire ben più spesso Fosfaghe, col suono velare. Però mi pare che davanti ai Lager e alla Gestapo si caghino tutti in mano anche in quelle contrade: i suoni palatali spariscono come per incanto!

mercoledì 8 gennaio 2020

UN ITALIANO UCRONICO

Nostra grande curiosità è sempre stata l'allostoria linguistica dell'italiano. Come si parlerebbe nella nostra Penisola se l'evoluzione del latino volgare nella Toscana antica fosse stata diversa e i poeti avessero elaborato una lingua colta molto diversa da quella a cui siamo abituati? Cercherò di fare alcune ipotesi e di produrre qualche risultato, disegnando per sommi capi un corso storico ucronico, da prendersi ovviamente come un semplice esperimento concettuale. 
 
Notando che nella realtà in cui viviamo non si sono prodotte forme pur ineccepibili come *netticchia "nipotina" (< lat. nepticula) e *anocchia "vecchietta" (< lat. anucula), ne approfittiamo per plasmare una nuova conlang (ossia constructed language "lingua costruita"), una forma di italiano ucronico che non ha subìto rilevanti infusioni di latino letterario e di greco, ma che continua meglio certe forme latine. Ecco, per il vostro piacere filosofico, una lista di vocaboli di questo peculiare idioma:

albo "bianco"
annicchio "capretto di un anno"
anócchia
"vecchietta"
appolcrare "abbellire"
articchiare "articolare"
articchio "articolo" 
ave "uccello"
bello "guerra"
capicchio "capitolo"
gerre "portare"
magno "grande"
màssomo "massimo"
ménomo "minimo"
merchie! "accidenti!" < lat. mehercle
miracchio "miracolo"
netticchia "nipotina"
noverca "matrigna" 
òle "un tempo"
pólcro "bello"
presézzo "presidio"
privigno "figliastro"
puèro "bambino"
rufo "rosso"
sue "maiale"
suéllo "maialino"
tasto "silenzioso" < lat. tacitus
vasto "vuoto" < lat. vacitus 
vétrico "patrigno"
 
Non si sono prodotti dittonghi dalle vocali /e/ e /o/ brevi toniche del latino: 
 
èri "ieri"
mètere "mietere"
mèto "paura"
òmo
"uomo"
fòra
"fuori"
òve
"pecora" 
scòla "scuola"
tòrlo
"tuorlo" 

Si conservano arcaismi come óvo "uovo" e óva "uova", dalla parola latina con vocale tonica lunga /o:/. Così si hanno esiti regolari di parole che hanno invece esiti irregolari nell'italiano del nostro corso storico: 
 
lópo "lupo"
óscio "uscio" 
 
Ai romanisti sarà saltata subito all'occhio l'irregolarità dell'italiano lupo, dato che il latino lupus ha una -u- tonica breve, che non si sarebbe dovuta conservare immutata. Alcuni hanno spiegato il vocalismo di lupo ipotizzando l'influsso dei dialetti umbri, altri lo hanno visto invece come un dottismo causato da tabù linguistico. Ecco, assumiamo che nell'italiano ucronico queste interferenze non ci siano state.

Altri arcaismi: 

meco "con me"
teco "con te"
novésco "con noi"
vovésco "con voi" 

Le prime due forme pronominali, meco e teco, esistevano nell'italiano letterario. Le altre due sono notevoli, dato che già nell'Appendix Probi si stigmatizzava noscum per nobiscum "con noi" e voscum per vobiscum "con voi". Si tratta quindi di esiti in qualche misura dotti, a dispetto della regolare evoluzione fonetica. In italiano letterario sono note le forme nosco e vosco.  

Mancano le lenizioni delle consonanti sorde, che tanto sono diffuse nel nostro italiano: 

aco "ago", "aghi"
laco "lago", "laghi"
péscopo "ispettore" 

Quest'ultimo vocabolo non ha mai avuto significato religioso, mantenendo la sua origine militare; si ipotizza che il Punto di Divergenza tra l'ucronia in questione e il nostro corso storico risalga all'epoca di Diocleziano.   
 
Restano sostantivi che distinguono il nominativo da una forma obliqua (usata come accusativo, dativo, ecc.): 
 
frate "fratello" (obliquo fratre)
latro "ladro" (obliquo latrone)
mate "madre" (obliquo matre)
òmo "uomo" (obliquo òmine)
pate "padre" (obliquo patre)
sòro "sorella" (obliquo soróre

Al posto di antichi neutri possono trovarsi occasionalmente forme maschili rifatte per analogia: 

còre "cuore" (obliquo corde, ma plurale/collettivo corda, di genere neutro)

Si hanno femminili in -o, come fico (che nel nostro italiano è passato al maschile) e querco "quercia (che nel nostro italiano è passato al femminile): ella fico "il fico" (albero e frutto), ella querco "la quercia".

Alcune parole dell'italiano ucronico sopra illustrato esistono nella nostra lingua italiana soltanto come reliquie: menomo è ben noto ed usato dallo stesso Leopardi, ormai nessuno lo usa, ma ha dato origine a parole tuttora correnti come menomare, menomato, menomazione. Questa è la dimostrazione più eloquente di come sia possibile per il volgo dimenticare l'etimologia delle parole e non comprendere neppure le connessioni più elementari. Altre volte una parola dell'italiano ucronico da me proposto vive soltanto come toponimo. Questo è proprio il caso di presezzo, che esiste come nome di un paese lombardo, Presezzo (in provincia di Bergamo), che è derivato direttamente dal latino praesidium. La consonante -zz- è sonora come quella di mezzo.  
 
I verbi sono meno regolari di quelli del nostro italiano. 
 
Questa è la coniugazione del verbo esse "essere" al presente indicativo:

son "sono"
ei "sei" 
è "è" 
sómo "siamo"
este "siete"
son "sono" 
 
Le forme del presente congiuntivo sono le seguenti: 

sén "sia"
sei "sia"
"sia"
sémo "siamo"
séte "siate"
sén "siano"

Questa è la coniugazione del verbo posse "potere" al presente indicativo: 
 
posso "posso"
pòte "puoi" 
pòte "può" 
pòssomo "possiamo"
potèste "potete"
posse "possono" 
 
Le forme del presente congiuntivo sono le seguenti: 

posse "possa"
posse "possa"
posse "possa"
pòssimo "possiamo"
pòste "possiate"
posse "possano"

 
Questà è la coniugazione del verbo avere "avere" al presente indicativo: 
 
abbio "ho" 
ave "hai"
ave "ha"
avémo "abbiamo"
avete "avete"
ave "hanno"

Il presente congiuntivo è quasi identico a quello da noi usato: 
 
abbia "abbia"
abbia "abbia"
abbia "abbia"
abbiamo "abbiamo"
abbiate "abbiate"
abbia "abbiano"
 
Questà è la coniugazione del verbo amare "amare" al presente indicativo:

amo "amo"
ama "ami"
ama "ama"
amàmo "amiamo"
amate "amate"
ama "amano" 

Le forme del presente congiuntivo sono le seguenti: 

ame "ami"
ame "ami"
ame "ami"
amémo "amiamo"
améte "amiate"
ame "amino"
 
Questà è la coniugazione del verbo vedere "vedere" al presente indicativo:

vezzo "vedo"
vede "vedi"
vede "vede"
vedémo "vediamo"
vedete "vedete"
vede "vedono" 

Le forme del presente congiuntivo sono le seguenti: 

vezza "veda"
vezza "veda"
vezza "veda"
vezzàmo "vediamo"
vezzàte "vediate"
vezza "vedano" 

Questà è la coniugazione del verbo dùcere "guidare" al presente indicativo:

duco "guido"
duce "guidi"
duce "guida"
dùcimo "guidiamo"
duste "guidate"
duco "guidano" 

Le forme del presente congiuntivo sono le seguenti: 

duca "guidi"
duca "guidi"
duca "guidi"
ducàmo "guidiamo"
ducàte "guidiate"
duca "guidino"
 
Questà è la coniugazione del verbo odire "udire, sentire" al presente indicativo:

ozzo "odo, sento"
odi "odi, senti"
odi "ode, sente"
odìmo "udiamo, sentiamo"
odite "udite, sentite"
ozzo "odono, sentono" 

Le forme del presente congiuntivo sono le seguenti: 

ozza "oda, senta"
ozza "oda, senta"
ozza "oda, senta"
ozzàmo "udiamo, sentiamo"
ozzàte "udiamo, sentite"
ozza "odano, sentano"
 
Nell'Italia ucronica in cui si parla questa lingua non si è imposto il Cristianesimo, che è stato annientato da Diocleziano. Nemmeno il Neoplatonismo ha avuto fortuna: sono rimasti soltanto culti pagani vernacolari. Alcuni nomi di divinità sono identici o quasi a quelli a noi conosciuti: 

Giove "Giove"
Marte "Marte"
Vènere "Venere"
Bacco "Bacco"
Giano "Giano"

Altri hanno subìto evoluzioni fonetiche prevedibili: 

Erchie "Ercole"
Giana "Diana"
Mercóro "Mercurio"
Piuto "Plutone" (obliquo Piutone)
Satórno "Saturno" 

Altri elementi del vocabolario cultuale, scomparsi nel nostro corso storico, perdurano: 

ara "altare" 
fano "tempio"
èppia "banchetto sacro"
nèmo "bosco sacro" (obliquo nèmore, plurale nèmora)  
piàcchio "espiazione cruenta" 

L'ortografia adottata è praticamente identica a quella che usiamo quotidianamente, con l'uso gli accenti dove abbiamo ritenuto necessario chiarire la pronuncia ed evitare ambiguità. Si potrebbe quasi dire che questo italiano ucronico sia una sorta di livellatore che regolarizza l'evoluzione dal latino, più classico che volgare, restaurando una regolarità che nella nostra realtà è andata perduta. Sembra quasi un metro di paragone tra le condizioni ideali di evoluzione linguistica e quelle reale, di gran lunga più caotiche e imprevedibili. Se poi si vorrà dire che questa non è davvero "ucronia", bensì "onirostoria", si faccia pure.