AGLOSSA PINGUINALIS
Ali dal dorso peloso, grigio. La falena esausta volava per la stanza, infastidita dalla luce delle candele e dal fumo. Ogni tanto tendeva le antenne ramificate, nel vano tentativo di trovare un luogo adatto in cui scaricare il proprio dolente fardello. Nella camera regnava un’aria viziata e malsana: i lezzi di fiori appassiti e di morte ammorbavano ogni cosa. Per Anne de Roget non faceva ormai più nessuna differenza. Il tempo del suo respiro era finito. Quando il suo petto era vivo, il suo alzarsi e abbassarsi ritmicamente faceva sognare i giovani gentiluomini che frequentavano la casa. Adesso non c’era più speranza, nessuno l’avrebbe più amata, nessuno avrebbe più sospirato nel contemplare le sue forme. Presto sarebbe calato su di lei il coperchio di una solida bara di legno di rovere e tutto avrebbe avuto fine: il mondo sarebbe davvero morto per lei. Non riusciva ad adattarsi all’idea della morte. Certo, non se l’era mai immaginata così. I suoi genitori e il precettore le avevano detto che al momento della morte l’anima si presenta al Creatore, che a seconda dei suoi meriti va in Cielo o all’Inferno. Ora che poteva considerare la cosa per esperienza personale, la giovane Anne sapeva che erano tutte idiozie. Però neanche lo sconsiderato La Palisse aveva ragione. Anche se stava sempre molto attento a non farsi udire, egli era convinto che con la cessazione della vita tutto fosse finito. Adesso che Anne si trovava lì, intrappolata in quel corpo estinto, non sapeva darsi alcuna spiegazione del suo stato. Avrebbe dovuto essere terrorizzata: in fondo sarebbe rimasta nella bara, sprofondata nel sottosuolo. Per tutta l’eternità, anche dopo lo sbriciolarsi del legno e la completa degradazione del cadavere. Inglobata nell’inazione permanente, anche il più insignificante movimento era al di là della sua portata. Eppure i sentimenti turbolenti che caratterizzano i vivi non sorgevano in lei. Il suo modo di esistere non le permetteva di lasciarsi andare a ira e paura, si trovava oltre.
La farfalla indolenzita fu attratta dal drappo rosso in cui era avvolto il cadavere. Volteggiò a lungo, quindi si andò a sistemare proprio sul collo della defunta Anne de Roget. Ovviamente il sistema nervoso del lepidottero non poteva avere alcuna nozione dei drammi di creature gigantesche come gli umani. Le immagini che gli ommatidi trasmettevano alla creatura alata sarebbero parse talmente strane a qualsiasi persona, che neppure la più sfrenata oppiomania avrebbe permesso di immedesimarsi in quell’abisso polidimensionale, sfaccettato, cangiante. Le contrazioni addominali peggiorarono all’improvviso. Una sensazione orribilmente fastidiosa, che per certi versi avrebbe potuto essere assimilata al senso di pena e di dolore provocato da una forte colite spastica. Un grande carico di uova spingeva nel ventre, bramoso di fuoriuscire dalla cloaca per invadere il mondo esterno con la propria vorace fecondità. Tra una contrattura e l’altra, l’esausto lepidottero defecò la propria covata, proprio sulla pelle ancora candida e priva di alterazioni della fanciulla. A questo punto nulla era più sotto controllo: la muscolatura dell’addome e la peristalsi del budello ovopositore avevano sostituito qualsiasi residua volontà ancora potesse risiedere nelle minuscole sinapsi. Il materiale che usciva copioso sembrava tra una scarica di diarrea e una serie di grappoli mollicci, della consistenza dell’albume, ricoperti da una cuticola che teneva a malapena insieme gli acini. Così spirò quel piccolo essere, che era vissuto soltanto lo stretto necessario per copulare e per formare in sé quell’ammasso disgustoso di nuova vita brulicante. Così spirò, come un uomo che non si accorge di rendere l’anima mentre sta evacuando le feci.
Rumori. Passi. Anne de Roget capiva che qualcosa stava accadendo: i necrofori erano giunti a chiudere la bara. Dopo che Jules de Roget, suo fratello, diede il suo assenso con un gesto del capo, due uomini sollevarono il coperchio della bara, lo fissarono e iniziarono a battere per far penetrare a fondo i chiodi. Angoscia. Una nuova specie di angoscia. Qualcosa di inteso come orrore metafisico, molto al di là di qualsiasi reazione terrena. “Ogni battito del metallo riverbera”, pensò la donna, “Ogni battito del metallo è la Morte dell’Universo”. Un colpo secco, impresso dalla testa del maglio sull’estremità piatta di un chiodo. Un altro colpo, altrettanto secco. Ripetizione in crescendo, assordante. Ferro contro ferro, acciaio contro acciaio. Metallo che penetra nel legno. Maligna metanoia. Presagio di un’escatologia rivolta all’annientamento del concetto stesso di Essere. Non a una semplice cessazione, ma a una distruzione eterna e costante, come il supplizio di un antico titano il cui fegato cresceva giorno dopo giorno solo per essere dilaniato da un avvoltoio. “La Morte non è un attimo”, formulò l’intelletto di Anne, incapace di morire. Il rumore di un passo sul pavimento. Poi un altro. Un altro ancora. Insinuante. Come il Serpente Immorale descritto da Ulisse Aldrovandi nel suo Bestiario, questa consapevolezza dardeggiava la più infima componente ontologica della morta. Anche se non osava ammetterlo neppure con se stessa, Anne sentiva il tocco vellicante di una lingua premere sulla parte più bassa del suo corpo, su quell’orifizio che non aveva mai osato considerare nemmeno sul piano dell’immaginazione senza provare una fitta di pudore. Buio. Adesso la luce non esisteva più. L’intera esistenza si era oscurata, come se avesse perso la parte più importante di sé. Le sensazioni lasciavano pensare a un ritorno al grembo materno, una specie di estasi embrionale in cui l’autocoscienza si sarebbe infine consumata nella sua interezza. Nulla di più illusorio delle speranze della giovane donna. Proprio quando pensò di abbandonarsi finalmente al meritato sonno eterno, si accorse che le restava sempre quel fastidioso barlume di lucidità, quel diamante infinitesimale che la costringeva a pensare di esistere. Tutto il Cosmo si articolava in una serie di monadi scollegate, di parti prive della minima connessione. Erano attaccate insieme con un collante esiguo e posticcio, qualcosa di inventato dall’essere umano. Coscienza, moralità, convenzione: tutte queste caduche spoglie della Menzogna erano ciò che dava ai viventi l’impressione di un tutt’uno universale, di una realtà oggettiva. Ora per Anne de Roget questo artificio non aveva più alcun valore: le appariva in tutta la sua desolante inutilità.
Passarono i giorni e le notti, indistinguibili, in una quiete assoluta. Ma Anne sapeva che in realtà ogni parte della carcassa che imprigionava la sua scintilla era in preda ad un esasperato dinamismo. Servendosi di un senso sconosciuto ai vivi, avvertiva i contorni di ogni cosa in un modo tanto netto da essere descrivibile solo con difficoltà. Empatia. Comprendeva ogni mutamento di quelle membra ormai irrigidite nel gelo del rigor mortis e avviate a un triste sfacelo. Sentiva i flussi di gas intestinali accumularsi nelle viscere, esalazioni mefitiche che nascevano dal degrado incessante degli organi, ridotti sempre più ad ammassi liquaminosi. Non potendo più tale meteorismo sfogare attraverso l’ano, si accumulava gonfiando l’addome e provocando borborigmi. Le chiazze verdi sulla pelle viravano al viola e al bruno. Dalla narici usciva un abbondante flusso di percolato, residuo della rapida putrescenza cerebrale. Le larve di mosca sguazzavano in quel calderone, rosicchiando le membrane e le strutture che ancora resistevano. Una vasta gamma di parassiti pullulava nelle parti molli, prosperando in tanta abbondanza escrementizia. Gli ossiuri viaggiavano come matasse di spaghetti verso i ventricoli più adatti alla riproduzione, percorrendo quanto restava del decadente sistema linfatico, drenati dalla circolazione post mortem passiva. Ogni ospite abituale dell’intestino si era attivato per il Grande Banchetto. Autolisi. Distruzione cadaverica. Lo stomaco si era già distrutto, sciolto in una massa di pastone muriatico. La rete venosa putrefattiva emergeva con il suo odioso pigmento, dando origine a focolai interni di cancrena nera, crepitanti di idrogeno solforato. Virulenza senza limiti. Rivoltante lezzo di uova marce che filtrava e avvolgeva ogni cosa in quell’atroce spelonca. Ecco il destino finale della Bellezza e dell’Armonia: sic transit gloria mundi!
Custodite dal tepore dell’ambiente vellutato ed oscuro della bara, anche le uova deposte dalla falena iniziarono a schiudersi, dando origine a innumerevoli piccoli bruchi. Neri, lucidi, armati di peli rigidi simili ad aculei. Voraci mandibole ansiose di rodere il mondo intero, smaltendolo nelle pingui budella e defecandolo in forma di mucchietti di sterco disidratato. Ognuno di quei sacchi mangianti iniziò ad aggredire il guscio stesso dell’uovo da cui si era schiuso, per poi passare ai resti della loro genitrice, che ancora giacevano rinsecchiti lì vicino. Anne de Roget sentiva che sul suo collo qualcosa stava crescendo. Programmati per cibarsi di grasso rancido, i bruchi si fecero strada nella carne in decomposizione fino a raggiungere il grasso delle mammelle, che aveva subito una parziale saponificazione. Quelle gocce di adipe acido e maleodorante attiravano la progenie della falena come l’El Dorado aveva attratto i Conquistadores. Nutrendosi di tanta abbondanza, presto scavarono tanto da estirpare del tutto le mammelle. Sotto le vesti impregnate di umori pestilenziali, si erano formati due grandi crateri cancrenosi, resi nerastri dai succhi digestivi di quegli esseri immondi. Le forze della crescita infuriavano in quei budelli sempre intenti a divorare. Erano diventati grandi come dita delle mani. La cassa da morto era invasa dai bruchi, che avevano cosparso di bava setosa l’oggetto del loro macabro simposio. Non contenti, iniziarono ad introdursi nel ventre, rompendo la cute, provocando l’impetuosa fuoriuscita di gas infiammabile. Qualche larva perì nell’improvvisa combustione di quelle folate, contorcendosi dannata e sfrigolando nel Fuoco dell’Abisso. Presto l’aria residua divenne insufficiente, così le fiamme impure si spensero. Quando i bruchi incendiati morivano tra atroci sofferenze, i loro resti semicarbonizzati venivano prontamente attaccati, smembrati e ingurgitati dai vicini sopravvissuti. Nel frattempo, l’infestazione degli acari stava giungendo al suo culmine. Ogni parte di quella che era stata una meravigliosa femmina umana, ora si muoveva sommersa da masse di piccolissimi esserini quasi invisibili ad occhio nudo. La più grossa tra le larve del fatale lepidottero arrivò al pancreas, che aveva assunto l’aspetto di un grosso grappolo formato da acini di cera. Quel boccone prelibato era ben valso la fatica fatta. Dopo tanto penare squarciando tessuti, inarcandosi e nuotando nella fogna, il carognaro era riuscito alla fine ad accaparrarsi il meglio, un autentico distillato di delizia plasmato da processi chimici imperscrutabili.
La defunta non poteva far altro che sopportare lo scempio nel suo progredire. All’inizio non fu affatto facile consumarsi in un’esistenza di questo genere. Sentire in sé la corrente infinita dell’obbrobrio l’avrebbe fatta impazzire. Se solo fosse riuscita ad evadere, a distogliere la coscienza dal calamitoso e implacabile flusso temporale! Proprio quando era così esausta da essere a un pelo dalla follia più totale, un torpore parve confortarla. Richiamò alla memoria i momenti migliori della sua vita, prima che una misteriosa e maligna consunzione la falciasse. Prima di giacere quasi immobile in quella tomba di materassi e lenzuola che era stata il suo letto. Prima che il sudore e l’anemia prosciugassero le sue forze. Cercò di cambiare lo squallido e repellente diverticolo infero in cui era stata trattenuta, evocando i giardini primaverili della sua infanzia. Era sua ferma intenzione sostituire quanto i suoi sensi raccoglievano con immagini e sensazioni di luoghi assolati. Aria tiepida e primaverile, profumata. Infiorescenze di papaveri nel prato umido, api che migravano alla raccolta di nettare da una corolla all’altra. Il polline dei pioppi trasportato dal venticello. Un’altalena cigolante, un giglio tra i capelli, un giovane corteggiatore che non aveva paura di fare brutte figure mentre lei si dondolava sorridendogli. Il rumore del mare lontano giungeva alle sue orecchie, un ruggito basso e continuo che nei suoi sensi sinestetici si mescolava con grazia ineffabile al sapore della salsedine. Presto sarebbe arrivato il precettore per la consueta ora di latino. Monsieur Adamard, con quella ridicola giacca beige, con quel parrucchino incipriato che a malapena riusciva a coprire il cranio largo e calvo. Per un attimo la nuda realtà parve farsi strada attraverso la densità colorata del giardino e del boschetto, ma la rivelazione del buio sepolcro si rivelò troppo irreale. Nuda, priva di punti di riferimento. Uno scheletro di percezione. Per un attimo la realtà sembrò persino ridicola. Quello spazio angusto e asfittico immerso nel terriccio non aveva nulla della bellezza dei ricordi di una gioventù spensierata. Perché allora prenderlo in considerazione? Ma era poi davvero la realtà? No. Non c’era alcun motivo di pensarlo. Il luogo mortuario era soltanto una finestra che dava su qualcosa di tanto spoglio ed incolore che poteva essere solo uno scherzo della fantasia. Oblio strisciante, silenzioso. Finalmente. I movimenti parvero attutirsi, come quando il dolore di un dente cariato si calma per l’azione di un chiodo di garofano. Il battito della sofferenza, una piccolissima arteria che pulsa dentro un dente e che pian piano muore. Adesso la giovane donna vedeva cespugli di bellissime e fragranti rose intorno a sé. Un ruscelletto scorreva poco oltre, gorgogliando sulle rocce disposte ad arte dai giardinieri. Sembrava quasi di essere a Versailles, tanta perfezione c’era nella vegetazione, nei vialetti, nelle aiuole, nelle fontane. Non riusciva nemmeno più a rendersi conto se era davvero il frutto di un ricordo d’infanzia. Ma aveva poi importanza? Ogni difesa logica si smorzò e venne meno, con dolce gradualità. Rapita dalla realtà simulata, Anne de Roget scivolava lentamente nel solipsismo. Incurante del rumore delle robuste fauci dei bruchi, incurante della loro oscena masticazione. Incurante dell’arrivo dei tarli delle ossa.
Marco "Antares666" Moretti
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