domenica 30 marzo 2014

NON SEQUITUR

E adesso dedichiamoci all'ennesimo caciucco di baggianate, sempre dalla stessa fonte: 
 
"Sorvoliamo pure per ora su Plutarco (nato nel 46 dc), del quale si cita solo (perché nella fantasia della restituta non esiste il suono della V) Oualerios per Valerius, senza maliziosamente mai citare le alternanze Νέρουα, Νέρβα; Σεουῆρος, Σεβῆρος e altre; eppoi, ancor peggio, su Polibio. Se vorrai ti dirò, se non avrai paura dei dati nudi e crudi che distruggono le tue certezze fondate soltanto sull'autorevolezza. Comunque già con Plutarco siamo fuori dai termini della cosiddetta pronunzia classica. In sostanza dire Kikero per Cicero è una bischerata."
Sorvoliamo su Plutarco? Un par de cojjoni, come dicono i Romani in quello che Dante Alighieri chiamava "il più turpe dei volgari", e che invece è particolamente adatto quando si tratta di esporre le inconsistenze al pubblico ludibrio.

Plutarco (46 d.C. ? - 125 d.C. ?) ebbe contatto diretto con la lingua latina in un'epoca ancora non troppo lontana da quella classica, così le sue trascrizioni ci danno un esempio di come il latino era pronunciato dalle classi colte nel I-II secolo d.C. L'idea della pronuncia classica che sparisce da un giorno all'altro seguendo una cronologia da manuale è di una grande ingenuità. Se qualcuno dice bischerate, quello non è Plutarco: molto più facile che le dicano i moderni che all'epoca non erano presenti e che rifiutano di servirsi di argomenti razionali.

Rimando a successivi post per una trattazione più approfondita. Per adesso mi limito a qualche significativo esempio tratto dalle Vite Parallele e contenente trascrizioni di parole latine con C e G davanti a vocali anteriori o al dittongo AE:

lat. ancilia : ἀγκύλια 
lat. Caesar : Καίσαρ 
lat. Celeres : Κέλερας (acc.)
lat. Cicero : Κ
ικέρων 
lat. hoc age : ὃκ ἄγε 
lat. Marcellus : Μ
άρκελλος
lat. Marcius : Μά
ρκιος
lat. Mucius : Μού
κιος
lat. Lucius : Λ
εκιος
lat. Scaevola : Σ
καιλας 
lat. Scipio : Σ
κηπίων 

Né si può argomentare che il greco, non avendo l'affricata palatale, l'avrebbe semplicemente trascritta come una velare: questo non accade  nelle lingue antiche e nemmeno in quelle moderne. I suoni /k/ e /tʃ/ sono molto diversi tra loro: è un inganno scolastico ritenerli simili e parlare di "c dura" e "c molle". L'orecchio di una persona che parla una lingua priva di suoni palatali non ne coglie alcuna somiglianza. Se una lingua non ha
/tʃ/, piuttosto la trascrive con /ts/ o con /s/.

Infatti il greco in epoca bizantina iniziò a trascrivere il suono palatale sviluppatosi nel tardo latino come τζ:
Μουτζιανι per Muciani.

Le alternanze tra
ου e β per trascrivere latino /w/ dimostrano in modo chiaro che questo suono stava assumendo nel I secolo d.C. una pronuncia bilabiale /β/, simile alla nostra /v/ ma realizzata con le labbra unite o avvicinate. Di questo esistono numerose testimonianze anche successive (ad esempio in Velio Longo, II secolo). Il processo tuttavia non era completato all'epoca di cui stiamo trattando, e molti ambienti ancora si pronunciava /w/. Si ha persino testimonianza che tra le plebi e tra popolazioni barbariche esisteva il vezzo di pronunciare addirittura il suono come una /u/ pienamente sillabica. I grammatici dell'epoca condannano la pronuncia trisillabica di venit come *u-e-nit.

Detto questo, non nascondo affatto alternanze come Νέρουα - Νέρβα o Σεουῆρος - Σεβῆρος, e non tremo certo di paura di fronte ad esse: ne sono a conoscenza fin dall'epoca del liceo.

Semplicemente il passaggio da /w/ alla bilabiale /β/ non ha nulla a che fare con la pronuncia della lettera C. Non sequitur. Mostrare che esisteva una pronuncia di V consonantica simile a /v/ non implica affatto che C fosse palatale davanti alle vocali E e I: tra le due cose non esiste nessun nesso logico.

L'argomento presentato è
pseudoscientifico e non ha alcun valore. Si basa infatti sulla convinzione che pronuncia restituta e pronuncia ecclesiastica siano due entità monolitiche, e che una volta trovato un dato che pare contrastare con un dettaglio della pronuncia restituta, questo debba per necessità significare l'affermazione della pronuncia ecclesiastica. Se la Scienza avesse seguito una simile metodologia, non avremmo automobili, frigoriferi, acqua corrente, corrente elettrica, computer, telefonini e quant'altro.

A quanto pare c'è gente che ignora un fatto molto semplice: le lingue cambiano nel tempo, e lo fanno seguendo leggi ben precise. Dove una legge fonetica ammette un'eccezione, quell'eccezione viene spiegata in ciascun caso. Essi pensano che le lingue non siano mai cambiate dall'epoca paleolitica: proiettano ogni caratteristica di una lingua fin nella notte dei tempi. A sentir loro, ci sarebbe persino da dubitare che sappiano della derivazione delle lingue neolatine dal latino volgare: è più facile che pensino al latino come a una lingua che a un certo punto si è spenta, e all'italiano come a una lingua parlata dal volgo fin dall'epoca di Noè.

Non si vede come i "dati di fatto nudi e crudi" possano distruggere le "certezze fondate sull'autorevolezza". Se mi azzardassi a dire una cosa simile al mitico Er Monnezza, lui mi replicherebbe di certo: "distruggono li maccheroni de tu' nonno". Mi limiterò ad affermare che i fatti li spiego secondo la logica, che a quanto pare non sembra essere molto popolare in certi ambienti.

CONTRO LA PSEUDOSCIENZA, SENZA SE E SENZA MA

Sempre a proposito della pronuncia della lingua latina, il solito autore di Forumarcheologia (mi sono stancato di mettere il link) in un commento a un post di questo blog se ne è uscito con una delle sue "perle":

"Spiegare le forme del verbo parcere (parco, parcis, peperci/PARSI, PARSUM, parcere) è difficile con la restituta, come giustificare le doppie forme parcimonia e parsimonia, testimonianze dirette della C di cece" 
 
Questa è un'enormità talmente assurda per chiunque abbia anche una rudimentale conoscenza della lingua latina e della sua storia, che non necessiterebbe neanche di replica. Sono tuttavia dell'idea che le enormità abbiano un potere deleterio e contaminante, perché diffondono in rete come pacchetti memetici, comportandosi proprio come i virus. Sono infezioni cognitive. Vanno combattute non tanto per convincere coloro che le producono, che agiscono come troll e dovrebbero essere ascritti a tale categoria, ma a beneficio generale degli internauti, per mostrare l'inconsistenza delle conclusioni estranee al metodo scientifico. Vanno combattute, come San Giorgio ha combattuto il drago.

Affinché non si obietti che i miei discorsi sono incomprensibili al volgo, li riassumerò in punti:

1) La palatalizzazione non implica MAI il cambiamento della lettera C in S, nemmeno nella pronuncia ecclesiastica.

2) Le forme che derivano dalla radice dell'infinito PARCERE infatti hanno sempre C: PARCIS, PARCIT, PARCIMUS, etc..

3) La forma del perfetto raddoppiato è sempre PEPERCI, mai *PEPERSI.

4) Il supino PARSUM non è prodotto di palatalizzazione: non c'è nulla che possa indurre una mutazione palatale, dato che la sillaba -CU- contiene il suono occlusivo (volgarmente detto "duro") anche nella pronuncia ecclesiastica.

5) PARCIMONIA deriva dalla radice dell'infinito PARCERE, mentre il sinonimo PARSIMONIA deriva da quella del supino PARSUM, e questo spiega la diversità della lettera.

6) PARSI e PARSUM non sono affatto testimonianze dirette di un suono palatale, ma di un suffisso sigmatico -S-:

perfetto PARSIT < *PARKSIT
supino PARSUM < *PARKSUM (tema in -u-)
participio passato PARSUS < *PARKSOS

Questo suffisso si trova nel perfetto e spessissimo nel supino in moltissimi verbi. Basti guardare il seguente elenco: 

augeo, auges, AUXI, auctum, augere
curro, curris, cucurri, CURSUM, currere 
dico, dicis, DIXI, dictum, dicere
edo, edis (es), edi, ESUM, edere (esse)
farcio, farcis, FARSI, fartum, farcire
flecto, flectis, FLEXI, FLEXUM, flectere

maneo, manes, MANSI, MANSUM, manere
necto, nectis, NEXI, NEXUM, nectere patior, pateris, PASSUS SUM, pati
pello, pellis, pepuli, PULSUM, pellere
pingo, pingis, PINXI, pictum, pingere
plecto, plectis, PLEXI, PLEXUM, plectere
rego, regis, REXI, rectum, regere 
spargo, spargis, SPARSI, SPARSUM, spargere
tergo, tergis, TERSI, TERSUM, tergere video, vides, vidi, VISUM, videre 
vincio, vincis, VINXI, vinctum, vincire
vivo, vivis, VIXI, victum, vivere

Bisogna notare come in altri casi non si ha alcun suono sibilante e il perfetto ha -C- come l'infinito:

facio, facis, feci, factum, facere
iacio, iacis, ieci, iactum, iacere 
vinco, vincis, vici, victum, vincere 
 
Si noti poi che queste forme, dove sono sopravvissute in italiano, mostrano sempre una chiara sibilante e mai suoni palatali, in nessun caso: visse, perplesso, flesso, connesso, resse, lesse, etc.

È evidente che stiamo trattando di un fenomeno diversissimo dalla pronuncia delle velari, qualcosa che non ha proprio nulla a che vedere, nemmeno di striscio.

Trattando l'origine di supini come VISUM, FLEXUM e PLEXUM, si può parlare diffusamente di come il suffisso dentale *-t- abbia prodotto assibilazione se aggiunto a una radice in -t- o in -d-, proprio come è avvenuto in germanico e in celtico. Questo però esula dallo scopo di questo breve trattatello.

Di fronte a tutto questo, qualcuno oserà dire che le forme MANSI e MANSUM provano che maneo aveva la "n" di "gnegne".
Scherno, ludibrio e irrisione è tutto ciò che la pseudoscienza merita.

Forse non serve neanche scomodare San Giorgio: basterebbe Harry Potter con la sua bacchetta magica e la formula maccheronica "ridiculus!" per porre fine alle baggianate presentate come "argomentazioni".

sabato 29 marzo 2014

I CHIERICI TRADITORI

Nessuno è interessato a pubblicare assurdità sui neutrini. La letteratura pseudoscientifica sulla forza nucleare forte o sul calcolo tensoriale appare a tutti come una fatica che non porta proprio da nessuna parte. Abbondano invece le assurdità ogni volta che la politica ha qualche interesse a un dato argomento. A un politicante può infatti far comodo influenzare la ricerca, spingendola in alto mare, occultando la verità su qualcosa o dirigendo i fondi dove più gli appare opportuno. Così si trovano sempre accademici supini, pronti a soddisfare il politicante e a forzare i dati. Se neutrini e quark non danno alcun frutto o risultato spendibile nella politica, le cose sono molto diverse quando è in gioco qualcosa di cruciale, come ad esempio la produzione di energia. Ecco perché le baggianate sulla cosiddetta fusione fredda sono andate avanti molto a lungo. Finché si tratta di qualche scienziato che passa il suo tempo cercando di ottenere un po' di fumo da elettrodi immersi in soluzioni acquose e urlando eureka se l'acqua passa da 25 °C a 25,1 °C, tutto questo potrebbe apparire anche innocuo e persino patetico. Diverso è il caso di quegli scienziati che di fronte alla contaminazione radioattiva dichiarano che i radionuclidi sono innocui. Ciò a cui siamo di fronte è un fenomeno molto grave che possiamo chiamare Tradimento dei Chierici, dove la parola chierici è usata in senso laico per designare le autorità scientifiche. Gli esempi non si contano. Recentemente in Australia un professore se ne è uscito con una dichiarazione a dir poco surreale e sconcertante: "Non dovete preoccuparvi, un uomo può vivere con 32 grammi di plutonio in corpo senza riportare nocumento". Ci si potrebbe chiedere se il signore in questione si presterebbe a dimostrare tale enormità ingerendo anche solo un milligrammo di plutonio con i cereali della prima colazione. Si tenga conto che un solo grammo di plutonio può contaminare fino a un milione di persone, per rendere l'idea della dimensione del problema. Un milionesimo di grammo di plutonio inalato è sufficiente a indurre cancro ai polmoni. Non si tratta di invenzioni: le proprietà fisiche di un elemento restano tali e quali senza badare ai tentativi di manipolarle. Stupisce che più un'idea si allontana dalla realtà, più trova accesi sostenitori tra le genti. Ogni volta che si parla di contaminazione nucleare, ecco che intervengono i negazionisti nucleari, coloro che affermano l'innocuità delle radiazioni ionizzanti. Queste persone mettono nella loro missione un fervore religioso, arrivando a comportarsi come troll e ad attaccare chi si oppone alle loro menzogne usando anche argomenti ad hominem. I risultati del funesto connubio tra Scienza e politica sono sotto gli occhi di tutti: il frutto di tale unione abominevole è in tutto e per tutto assimilabile alla pseudoscienza. Stalin all'epoca arrivò a declamare le proprietà benefiche della radoattività, a sua detta capace persino di irrobustisce la salute: il dittatore mirava a trasformare l'Unione Sovietica in una superpotenza nucleare. In occasione del disastro di Chernobyl, Chirac nascose ogni informazione sul fallout in Francia, perché doveva portare avanti la costruzione di nuove centrali nucleari. In nome della grandeur, fece sì che nessuno evitasse di consumare verdure a foglia larga. Questo provocò numerosi casi mortali di leucemia. A Marsiglia, mi diceva un amico, in ogni via c'erano diversi morti in quei giorni. Eppure agli occhi dei troll di regime, colui che riporta la realtà dei fatti è accusato di disonestà intellettuale. La tattica è chiara: non appena qualche utente scrive qualcosa sull'assoluta gravità del disastro di Fukushima Daiichi, ecco che arrivano giullari e gaglioffi a recitare il mantra della radioattività inoffensiva. Qualsiasi argomento razionale si possa mostrare loro appare vano: persino la fisica e la chimica di base vengono sovvertite. Essi tuonano come se da loro scaturisse la voce stessa di Dio, dando per scontata un'autorità che non posseggono affatto. Un utente ha così commentato la foto raccapricciante di un bambino malformato: "Lo sapete, vero, che tutto questo non c'entra nulla con Fukushima e con la radioattività?" E quindi? Stabilire che una foto ritrae un bambino malformato a causa del talidomide non implica affatto che le acque dei reattori di Fukushima siano adatte alla balneazione. Appare evidente che questi figuri servono coloro che nel mondo accademico si sono compromessi con la politica, ne sono strumenti, quasi prolungamenti degli arti. Le classi dirigenti di tutte le nazioni hanno il terrore di perdere il controllo delle masse, cosa che accadrebbe di sicuro in America se scienziati integri stabilissero che è necessario evacuare la costa occidentale degli Stati Uniti. Non sia mai. Così ecco comparire post rassicuranti in cui si dichiara che Fukushima è ok, che tutto è sotto controllo, che la radioattività ha fatto rifiorire la vita, e via discorrendo. Siccome neppure questo è sufficiente, ecco che i narcotici mediatici distolgono la scarsa attenzione delle masse a questo problema. Tutte queste macchinazioni non risolveranno nulla in ogni caso: si giungerà a un punto di non ritorno in cui la realtà stessa delle cose si rivolterà contro ogni tentativo di farla apparire diversa da ciò che è.


BACHI DOTTI E BACHI VOLGARI

Anni fa mi capitò di leggere su un libro uno strafalcione immane. Si parlava dell'Euskara, la lingua dei Baschi. Il termine SAGU, che significa "topo", era stato tradotto chissà come con "sorriso". Capii presto cos'era successo. L'autore del libro era francese, e ovviamente aveva tradotto SAGU con "souris", che in francese significa per l'appunto "topo". A causa dell'omofonia con alcune voci del verbo "sourire", ossia "sorridere", il traduttore che aveva reso il libro in italiano ha dato origine a questo grave errore. Conoscendo già a grandi linee l'Euskara, la cosa mi è balzata subito agli occhi. Immagino che molti lettori saranno stati tratti in inganno.

Il problema delle false conoscenze che si propagano tramite pacchetti memetici è molto grave. Un caso notevole è quello della cosiddetta Ave Maria in etrusco, che in realtà era un Padre Nostro e in ultima analisi un falso storico. Un banale banner ha fuorviato un webmaster in un modo molto subdolo. Le pubblicità online spesso hanno connessione con il testo di una pagina. Così a me capitano pubblicità di sistemi per migliorare il sonno o per disintossicarsi dalla droga, perché parlo di stati alterati e di delirio nei miei post. Una volta mi è persino capitata la segnalazione di un proctologo. In altri blog mi appaiono banner su idoli mariani perché parlo di Dio e di Satana nell'ambito del Catarismo. Una pagina che riportava la preghiera in finto etrusco aveva "Hail Mary" in un banner, e qualcuno lo ha preso per il titolo della preghiera a lui incomprensibile. Così l'equivoco si è propagato ovunque, anche sulla Wikipedia. Me ne sono occupato in un post pubblicato il 10/10/2009 sul blog IL VOLTO OSCURO DELLA STORIA (ormai estinto) e in seguito recuperato:


Sempre a proposito della lingua etrusca, ho trovato un glossario sulla Wikipedia che contiene un errore marchiano. Non parlo di qualche termine inteso in modo diverso da studiosi diversi (che è una cosa abbastanza normale). Parlo di propagazione di un fraintendimento. Il termine HUIN- che dovrebbe significare "sorgente" si trova invece tradotto con "primavera", perché un traduttore dall'inglese ha equivocato la parola "spring", che significa sia "sorgente" che "primavera". Ogni giorno che passa mi convinco sempre di più della necessità di capillari controlli incrociati sulle informazioni reperite sia in Rete che su carta.

JOHN COLLINGS SQUIRE E IL PRINCIPIO DI CONSERVAZIONE DELLA REALTÀ

Qualche mese fa mi è capitato di prendere a prestito dalla biblioteca un volume di storie ucroniche intitolato "Se la Storia fosse andata diversamente" (originale "If It Had Happened Otherwhise"). Mi sembrava molto interessante, in quanto affrontava le possibilità di sviluppo a partire da singoli nodi storici. Si articolava in diversi racconti, tutti fondati su una domanda del tipo "cosa sarebbe successo se il Regno di Granada non fosse caduto?" e simili.
Indagando, ho potuto constatare che gli autori non sono affatto degli sconosciuti. Questa è una
recensione sull'opera in questione, riportata sul sito libreriauniversitaria.it

"Lo storico inglese John Collings Squire, all'inizio degli anni Trenta, invitò alcune autorevoli personalità della politica e della cultura dell'epoca - G.K. Chesterton, Winston Churchill, Emil Ludwig e André Maurois, tra gli altri - a cimentarsi in una ricostruzione ipotetica di alcuni nodi cruciali della storia occidentale. Nacque così un piccolo capolavoro di letteratura ucronica, o come diremmo oggi di storia virtuale, il quale ben lungi dall'essere un arido virtuosismo accademico, o una semplice bizzarria, può essere invece letto come un tentativo originale di riesaminare la storia mediante un totale ribaltamento dei fatti realmente accaduti." 

Eppure a me non è piaciuto granché, in quanto si fonda in gran parte sul cosiddetto Principio di Conservazione della Realtà. In altre parole, gli autori danno per scontato che la Storia sia stata creata da Dio così com'è, e che alterandola in qualsiasi punto non si avrebbe nella sostanza alterazione di ciò che accadrebbe in seguito.
Secondo questa impostazione, ci si potrebbe chiederebbe cosa avrebbe fatto Mussolini in un corso storico in cui Giulio Cesare fosse morto di polmonite ancora bambino - senza realizzare che se ciò fosse avvenuto, non solo non sarebbe mai esistito Mussolini, ma neppure alcuna nazione che conosciamo, e ovunque si parlerebbero lingue molto diverse da quelle in uso oggi.
Solo per fare un esempio, Philip Guedalla immagina un corso storico in cui il Regno di Granada sopravvive agli attacchi degli eserciti dei Re Cattolici, ma nella sua narrazione si parla di Lord Byron e di Napoleone. Persino la scoperta delle Americhe è concepita come noi la conosciamo, solo che non avrebbe destato entusiasmo. A chi non verrebbe da ridere leggendo della partecipazione di Granada alla Prima Guerra Mondiale?
Anche quando si comprende che un determinato evento ne escluderebbe un altro, manca l'idea di divergenza sul lungo periodo. Questo perché la struttura dell'opera è basata sulla meccanica classica, assolutamente lineare. Oggi abbiamo conoscenze più approfondite sulla natura del tempo e della realtà stessa, e capiamo quello che neppure Winston Churchill avrebbe mai potuto comprendere, data la sua ignoranza della quantistica, del Principio d'Indeterminazione di Heisenberg e del Paradigma Olografico.
Chi non ricorda la famosa affermazione di Edward Lorenz sulla farfalla che batte le ali in Brasile provocando un tornado in Texas? L'Effetto Farfalla non lascia scampo. Gli eventi propagano in modo del tutto incontrollabile. Pensiamo ad esempio all'accoppiamento. Ogni volta che un viscido spermatozoo penetra le difese di un ovulo fetente, si innescano meccanismi meiotici di crossing over che portano al caotico mescolamento del genoma maschile con quello femminile. Così basta un fattore minimo, imponderabile, per produrre una persona anziché un'altra. Se un gatto fosse morto per le vie di Braunau, Alois Hitler e Klara Pölzl avrebbero coito in una posizione diversa, in un'ora diversa, dopo aver mangiato cibi diversi. Lui avrebbe eiaculato in un momento diverso, secondo una diversa dinamica, ed ecco che un diverso spermatozoo avrebbe vinto la gara - e sarebbe nata una Gertrud Hitler di nessuna importanza anziché il ben noto Adolf. 

Anche il libro che ho recensito tempo fa, America Vichinga, edito da Frassinelli e ormai esaurito, contiene lo stesso Principio di Conservazione della Realtà. Infatti si fa intervenire Walter Raleigh in un corso storico la cui divergenza dal nostro risaliva al XI secolo. Potrete chiedervi come mai America Vichinga ha destato il mio entusiasmo mentre mi mostro così critico con il volume di Squire. La differenza è che America Vichinga è scritto molto bene, contiene diversi spunti suggestivi e fa sognare. È più fluido, nonostante l'identica esigenza di far convergere la narrazione ucronica con il nostro corso storico.

In generale, mi sento di dire che i migliori ucronisti non sono storici di professione.

(Esilio a Mordor, 4 ottobre 2008)

Titolo: Se la storia fosse andata diversamente. Saggi di
     storia virtuale
Titolo originale: If It Had Happened Otherwise
Autore: Autori vari 
Anno: 1931
Lingua originale: Inglese
Paese: Regno Unito
Curatore: John Collings Squire
Tipologia: Collezione di saggi (racconti)
Soggetto: Storia, ucronia
1a edizione it.: 24 settembre 1999 
Editore: Corbaccio
Collana: Collana storica
Curatore dell'edizione italiana: Gianfranco De Turris
Codice ISBN-10: 8879723545
Codice ISBN-13: 978-8879723541
Pagine: 356 pagg.
Formato: Copertina flessibile
Traduttore: Manuela Frassi

Sinossi (da www.amazon.it):
"Che cosa sarebbe accaduto se Napoleone, invece di arrendersi agli inglesi, dopo la sconfitta di Waterloo, fosse riuscito a fuggire in America? Se alla fine del XV secolo in Spagna avessero vinto i Mori? Questo curioso e insolito libro presenta le ricostruzioni "virtuali" di alcuni avvenimenti visti da grandi storici, insigni statisti quali per esempio Harold Nicholson e Winston Churchill che, a dispetto dello sviluppo delle varie, immaginarie ipotesi, presentano ambientazioni storicamente precise e accurate, facendo riflettere su cosa sarebbe accaduto se la storia avesse preso strade diverse."

Elenco dei saggi (edizione originale):

"If Drouet's Cart Had Stuck" di Hilaire Belloc
"If Don John of Austria Had Married Mary Queen of
      Scots"
di G. K. Chesterton
"If Lee Had NOT Won the Battle of Gettysburg" di Winston
      Churchill
"If Napoleon Had Escaped to America" di H. A. L. Fisher
"If the Moors in Spain Had Won" di Philip Guedalla
"If the General Strike Had Succeeded" di Ronald Knox
"If the Emperor Frederick Had Not Had Cancer" di Emil
     Ludwig
"If Louis XVI Had Had an Atom of Firmness" di André
     Maurois
"If Byron Had Become King of Greece" di Harold Nicolson
"If It Had Been Discovered in 1930 that Bacon Really Did
      Write Shakespeare"
, di J. C. Squire 
"If Booth Had Missed Lincoln" di Milton Waldman

Aggiunte dell'edizione rivisitata:

"If the Dutch Had Kept Nieuw Amsterdam" di Hendrik
      Willem van Loon
"If: A Jacobite Fantasy" di Charles Petrie
"If Napoleon Had Won the Battle of Waterloo" di G. M.
      Trevelyan

domenica 23 marzo 2014

ALCUNE NOTE SULL'ORTOGRAFIA DEL LATINO

Quando una lingua adotta un alfabeto, cerca per quanto possibile di esprimere ogni suo fonema con una lettera adatta. Non sempre l'adattamento ha successo, ma il principio resta in linea di massima valido. In seguito all'adozione dell'alfabeto, poiché ogni lingua naturalmente evolve, l'adesione delle lettere ai fonemi può anche deteriorarsi, e in questo modo hanno origine le ortografie storiche. Ciò accade perché la scrittura tende ad essere molto resistente al cambiamento una volta che è stata codificata. In alcuni casi, due suoni diversi, scritti usando due lettere diverse, vengono a collassare in un suono unico.

Esempio:
In greco antico la lettera Y esprimeva il suono /ü/, ma il suo valore fonetico viene ad essere confuso con quello della lettera I nelle parole dotte di origine greca nelle lingue moderne. Così σύστημα dà origine a sistema (inglese system). Molti faticano a capire perché in alcune parole si debba scrivere y e in altre i: Dante Alighieri scriveva tranquillamente ydioma, non pochi americani scrivono prysm.

Altre volte invece un suono viene a differenziarsi a seconda del contesto, dando origine a due o più suoni completamente diversi che però rimangono scritti con lo stesso carattere.

Esempio:
In ebraico il fonema /p/, scritto con la lettera פ (pe) ha sviluppato in fine di sillaba e in posizione intervocalica il suono /f/, cosicché la lettera in questione si trova ad avere due pronunce diverse. 

Il latino aveva così il suono velare /k/ scritto con la lettera "c". Quando questo suono iniziò a mutare davanti alle vocali anteriori /e/ e /i/, il carattere usato per scriverlo rimase immutato. Questa è la ragione per cui ancora oggi la lettera "c" è usata con due diversi suoni in lingue discendenti dal latino come l'italiano, lo spagnolo e il romeno.

C'è chi assurdamente pretende di far credere che il suono affricato palatale dell'italiano "cece" e "amici" già sussistesse nel latino imperiale, ma questa idea ridicola è contraddetta da numerosi fatti deducibili a partire dalla sola analisi del sistema usato dai Romani per registrare la parola. 

Se per assurdo il suono palatale fosse esistito già nella lingua all'epoca dell'adozione della scrittura, ecco che sarebbe stato scritto con un carattere diverso da quello usato per il suono velare.

Notiamo che ad esempio l'umbro e il volsco, che avevano già mutato la velare /k/ in un suono palatale davanti a vocali anteriori quando avevano adottato la scrittura, avevano un segno speciale per esprimerlo.   
Quando gli Umbri presero l'alfabeto dagli Etruschi, non riuscirono a distinguere graficamente /k/ da /g/ e /u/ da /o/, trascrivendo questi suoni alla maniera etrusca, ma furono per contro ben capaci di capire che parole come
çersna "cena" avevano un suono più simile a /s/ che a /k/, e agirono di conseguenza usando un segno speciale (translitterato con "ç"). Quando dall'alfabeto etrusco passarono a quello latino, usarono un segno "ś" alterato a partire dalla lettera "s", o anche quest'ultima tal quale. Il passaggio all'alfabeto latino permise agli Umbri di esprimere alcuni cambiamenti che la loro lingua aveva subito e che la scrittura da loro usata in precedenza non erano stati registrati: l'oscuramento della /a:/ finale di parola in /o:/ e il rotacismo della sibilante sonora.  

Da qui si trae un primo indizio contro chi propugna l'anacronismo di una fantomatica pronuncia palatale antica: quando i Romani hanno preso la scrittura vi era soltanto /k/ a differenza dell'umbro che - repetita iuvant - era una lingua diversa ed evolutasi in modo indipendente. 

Dall'indizio si può però chiaramente passare alle prove concrete. Sappiamo che il dittongo /ae/ era nell'antichità repubblicana un dittongo vero e proprio, discendente, con primo membro /a/. Sappiamo anche che CAESAR era letto con la velare /k/ e con il dittongo /ae/ (arcaico /ai/).

Infatti non soltanto il termine ha dato in tedesco Kaiser "Imperatore", ma in antico inglese ha dato cāsere. Il dittongo, adottato come /ai/ dai Germani, è evoluto regolarmente in /a:/ nella lingua anglosassone. Questi sono dati di fatto.

Adesso passiamo all'attacco. Siccome /ae/ aveva il primo elemento /a/ ai tempi di Cesare e di Augusto, colui che pretende di affermare la pronuncia palatale di "c" davanti a vocali anteriori non sa in nessun modo spiegare come questo suono avrebbe potuto esistere ai tempi di Cesare, visto che davanti ad "a" non si trova la "c" di cece nemmeno nello schema della pronuncia ecclesiastica.

D'altronde abbiamo chiara la testimonianza del poeta Ennio (239 a.C - 169 a.C.), che ci dà un'interessante allitterazione: Lumine sic tremulo terra et cava caerula candent "così di tremula luce brillano la terra e l'ampia volta del cielo". 

Ora, siccome nei secoli la parola Cesare si è evoluta indubbiamente con il suono palatale, dando forme come italiano Cesare e via discorrendo, significa che questo suono si è sviluppato soltanto dopo che il dittongo /ae/ si è mutato in /e:/. Questo è in perfetto accordo con il fatto che la palatalizzazione è iniziata tardi.

Naturalmente i sostenitori della pronuncia monottongata "e" noteranno che esistono esempi di "e" per "ae" già nell'antichità. Tuttavia questo argomento non ha alcun significato, come mi accingo a mostrare con la massima evidenza. 

A scanso di equivoci, si nota che si tratta di una pronuncia latina rustica di "ae" come "e", che era antica ed evidentemente dovuta a una tendenza presente anche nelle lingue sabelliche. La /e:/ prodotta da questo mutamento, che non si trovava nella lingua urbana, era un suono chiuso come quello di italiano "cena". Analogamente in questo modo di parlare il dittongo /au/ si monottongava in /o:/, anche in questo caso col suono chiuso come quello di italiano "ora". Esempi sono copo per caupo "taverniere", Clodius per Claudius, etc. Invece la riduzione di /ae/ in /e:/ nella lingua urbana ha avuto luogo più tardi e ha prodotto un suono aperto come quello dell'italiano "retto". Si tratta di due fenomeni diversi che non vanno confusi. Tutte le lingue neolatine derivano dalla lingua che aveva /ae/, non dal latino rustico dei tempi antichi.
Questo è in sintesi lo schema:

              LATINO ARCAICO
                    (IE *ai > ai)
                                 |
               ----------------------------------
               |                                             |
† LATINO RUSTICO        LATINO URBANO

   (ai > e: chiuso)                         (ai > ae)
                                                           |   
                                   TARDO LATINO URBANO
                                              (ae > e: aperto)
                                                          |
                                         LINGUE ROMANZE


Per quanto riguarda la "c" davanti a "i", si consideri la parola cicirrus "galletto", chiaramente onomatopeica e derivata dal verso dell'animale, che in italiano è trascritto tradizionalmente con chicchirichì. Chi proietta all'infinito nel passato la pronuncia palatale, non può spiegare questo nome, che tra l'altro in greco è trascritto da Esichio come κίκιρρος. La parola potrebbe essere passata in latino dall'osco, e qualcuno potrebbe pensare che per questo avesse il suono duro. Ma anche in questo caso, se per assurdo la lettera "c" avesse espresso il suono palatale davanti a "i" in latino, il termine con il suono velare sarebbe stato normalmente trascritto con un diverso carattere per render conto della diversa pronuncia, ad esempio *kikirrus. Questo però non è accaduto, perché di suoni palatali nel latino dell'epoca non ne esistevano.

Già considerando quanto esposto sopra, l'idea della pronuncia palatale antica nel latino - priva di ogni valore nel mercato delle idee scientifiche - è da considerarsi alla stregua di un peana osceno di Benigni. 

sabato 22 marzo 2014

LA SIGNORA PSYCHE ZENOBIA E LA FELLATIO

Questo si legge sul dizionario Etymonline alla voce SUCK (v.):

Meaning "do fellatio" is first recorded 1928. Slang sense of "be contemptible" first attested 1971 (the underlying notion is of fellatio). Related: Sucked; sucking. Suck eggs is from 1906. Suck hind tit "be inferior" is American English slang first recorded 1940.

Traduco per i pochi che ancora ignorano l'inglese:

Il significato di "praticare la fellatio" ("fare un pompino", etc.) è documentato per la prima volta nel 1928. Il senso gergale di "essere spregevole" è attestato per la prima volta nel 1971 (la nozione soggiacente è quella di fellatio). "Succhiare le uova" è attestato dal 1906. "Succhiare la tetta posteriore" nel senso di "essere inferiore" è inglese americano gergale documentato per la prima volta nel 1940. 

Sono riuscito a trovare una possibile attestazione di gran lunga precedente dell'uso osceno di questo verbo nell'opera di Edgar Allan Poe (1809-1849). A dire il vero non si tratta di un'attestazione diretta, ossia la parola non compare tale e quale con questo significato nella fonte che ho trovato, ma è celata in un nomignolo. Si tratta di una certa Signora Psyche Zenobia, un personaggio bizzarro il cui nominativo è alterato in Suky Snobbs dai suoi detrattori. Si vede chiaramente che affinché Psyche si riduca a Suky, è necessario supporre che il soprannome si debba pronunciare come se fosse scritto Sucky. Evidentemente Poe ha cambiato l'ortografia per far sì che i benpensanti non arrivassero ad associare Suky al verbo indicante la fellatio. 

Questa descrizione è tratta dal racconto Come si scrive un articolo "alla Blackwood" (How to Write a Blackwood Article):

"Presumo che tutti abbiano sentito parlare di me; il mio nome è Signora Psyche Zenobia; so che qusto è un fatto reale; nessuno, tranne i miei nemici, mi chiama Suky Snobbs; mi hanno assicurato che Suky non è che una volgare corruzione di Psyche, che è puro greco e significa "anima" (cioè me, poiché io sono tutta anima), e talvolta significa "farfalla": quest'ultimo significato indubbiamente allude alla mia apparizione nel mio nuovo vestito di raso cremisi col mantelet arabo color azzurro cielo e le guarnizioni di fibbie verdi e le sette balze a forma di orecchio, color arancione."

Sembra che alla Signora Zenobia abbiano assicurato che Suky è una corruzione di Psyche proprio per allontanare il sospetto di una connessione con la radice suck. Si noti che questa alterazione è in ogni caso etichettata come "volgare" (in inglese vulgar), cosa di per sé molto significativa. Alla lettera, Suky Snobbs nasconderebbe quindi una Snob Succhiante. Questo significa che con ogni probabilità il significato osceno era già corrente, almeno in certi ambienti, come quello degli editori e del giornalismo, in cui è possibile che la pratica non fosse rara. Teniamo conto che all'epoca le condizioni igieniche non dovevano essere particolarmente buone - lo stesso Poe ci descrive un'epidemia di colera - e che non ci si potesse aspettare di trovare genitali fragranti. Questo avrà reso poco attraente la suzione dei falli alla maggior parte del gentil sesso, ma nonostante ciò qualche donna eccentrica avrà avuto un motivo convincente per praticarla anche in condizioni tanto avverse.

domenica 16 marzo 2014

I DIALETTI LONGOBARDI

A proposito degli antroponimi longobardi attestati in Toscana, nel forum Archeologia si legge:

"All'epoca in Toscana l'etrusco (verosimilmente) non era più parlato, ma neppure il longobardo, che sparì prestissimo e nel 700 non era più parlato (Albano Leoni 1983, Pfister 1997) (se mai diffusamente lo fosse stato) lasciando gli antroponimi, distorti dalla lingua locale o composti con il latino."

Nel tentativo di collegare le peculiarità fonetiche di questi antroponimi agli attuali vernacoli toscani, si riportano inoltre alcuni passi tratti dai lavori dell'ottima studiosa Nicoletta Francovich Onesti:

"Nei nomi propri della Toscana l'assordimento delle sonore germ. */b, d, g/ è di gran lunga prevalente, e molto più frequente che in altre zone d'Italia." 

"tendenza locale neolatina a conservare le sorde latine /p, t, k/ in Toscana MEGLIO CHE NEL NORD ITALIA, dove hanno più spesso esiti dialettali sonori, indicati già dalle grafie latine di quest'epoca (Löfsted 140-44; Politzer 1953, 13; Rohlfs 1966, I § 212). In questo senso possiamo addirittura trovare nei documenti toscani anomale grafie con <c> per <g> anche per un suono derivante da /g/ latino: Corgite per Gurgite ricorre in due documenti lucchesi del 757 (CDL n° 126, 133), iocale per iugale in CDL n° 67 (738 Lucca)." 

"...LA STESSA PERSONA (tale Sichimund, che era arciprete della chiesa lucchese, fratello del vescovo di Lucca Talesperianus e di Radipert 'gasindius regis') È CHIAMATA SIGEMUND in una carta scritta A PAVIA E SICHIMUND NEI DOCUMENTI TOSCANI..." 

"È poi ben noto che nell'area toscana si ha uno sviluppo strettamente regionale delle fricative sorde lgb. [x‚ ç] (derivanti a loro volta dal germ. */k/ per seconda mutazione consonantica) le quali producono negli antroponimi della Toscana un tipico esito [š] <-sci-> (Arcamone 1984, 385, 402). " 

Naturalmente la Onesti non nega la natura eminentemente germanica dei tratti fonetici del patrimonio antropinimico dei Longobardi: l'idea della distorsione vernacolare toscana è da attribuirsi all'autore dell'intervento sul forum. Una simile idea non potrebbe mai essere partorita dalla mente di una persona con qualche conoscenza di filologia germanica. Inoltre, sempre secondo tale autore, i passi da lui riportati "confuterebbero" quanto da me asserito. Mi asterrò dal parafrasare Er Monnezza e cercherò di procedere con ordine.

Non mancano coloro che sono ansiosi di far scomparire la lingua longobarda al primo contatto tra le genti di Alboino e la popolazione locale italiana, e che pur di sostenere la loro tesi sono pronti a far violenza ai dati documentati. Le cose non sono andate come queste persone sostengono: la loro è soltanto una semplificazione da manuale scolastico, nata dalla rappresentazione della Storia come un insieme di date e di eventi puntiformi inanalizzabili. La causa è da ricercarsi nella propaganda della scuola, che per decenni ha cercato di sminuire i Germani per ragioni puramente ideologiche. Non soltanto tale lingua fu parlata a lungo dalla minoranza longobarda, estinguendosi soltanto nel IX secolo e forse in certi luoghi addirittura agli inizi dell'XI, ma diede un sostanziale contributo al formarsi della lingua italiana. I prestiti longobardi nel volgare furono tanto pervasivi che raggiunsero anche regioni come la Sicilia, che non conobbero mai un'occupazione longobarda. Ovviamente le citazioni sull'estinzione precoce della lingua (Albano Leoni, 1983; Pfister, 1997) sono prese tal quali con copia e incolla da un articolo della Onesti, senza indagine ulteriore e presentati come se fossero un'autorità biblica. Si possono allora prendere con la stessa metodologia altre citazioni, come ad esempio lo storico belga François-Louis Ganshof (1895-1980), che reputa la lingua longobarda estinta tra l'VIII e il IX secolo. Ovviamente nessuno può sapere esattamente cosa è accaduto: tracciare l'estinzione di una lingua non è quasi mai un compito facile. Tuttavia, presenterò nel seguito il motivo della mia propensione a ritenere l'estinzione della lingua longobarda come qualcosa di abbastanza tardivo. 

Dal patrimonio di antroponimi, si possono evidenziare diverse aree dialettali principali: 

longobardo settentrionale
longobardo toscano
longobardo meridionale 

È vero che nel longobardo toscano esiste maggior evidenza di fenomeni di aspirazione, ma questi non mancano in ogni caso nelle altre varietà. Si noti che la Onesti non dice affatto che al di fuori della Toscana gli antroponimi longobardi ignoravano l'assordimento delle sonore e l'aspirazione. Dice solo che tale assordimento in Toscana "è di gran lunga prevalente, e molto più frequente che in altre zone d'Italia". Tuttavia gli esempi non toscani sono numerosi, come si può arguire anche da Meyer (Sprache und Sprachdenkmäler der Langobarden, 1877). Gli antroponimi in -PERT e in -PRAND non sono esclusivi della Toscana e si trovano anche oltre i confini della Penisola presso altre genti germaniche come Bavari e Franchi. Sempre leggendo Meyer, si vede inoltre come le attestazioni toscane di antroponimi longobardi nei documenti raccolti nel suo volume siano di per sé più numerose di quelle di qualsiasi altro luogo, con ogni probabilità anche perché ivi si concentrava una popolazione longobarda più cospicua.
Sempre la Onesti riporta questo brano dell'Origo gentis Langobardorum:

"Et habuit Wacho de Austrigusa filias duas, nomen unae Wisigarda, quam tradidit in matrimonium Theudiperti regis Francorum; et nomen secundae Walderada (...) tradidit eam Garipald in uxorem. Filia regis Herulorum tertiam uxorem habuit nomen Silinga; de ipsa habuit filium nomine Waltari. Mortuus est Wacho, et regnavit filius ipsius Waltari annos septem, farigaidus; isti omnes Lethinges fuerunt." 

Vi si trovano due casi di assordimento, di cui uno in un antroponimo franco e l'altro in un antroponimo bavarese, cosa che ben difficilmente si potrà pensare connessa a un fantomatico vernacolo toscano.

L'albero genealogico dei Lethingi fino a Teodolinda e a Perctarit spiega ancor meglio tutto questo: 


Wacho, Ariperto, Gundeperga, Godeperto e Perctarit non hanno nulla a che vedere con Benigni. 

Per quanto riguarda le aspirate, i nomi in -CHIS sono comuni dovunque, anche in Friuli (la stessa Onesti cita il nobile friulano MUNICHIS, etc.), per non parlare del WACHO sopra menzionato. In non poche occorrenze, -CH- nel longobardo compare in posizione postconsonantica, come nei dialetti alemannici, il che esclude qualsiasi relazione causale con la gorgia toscana, come non mi stancherò mai di ripetere.

Ancora, la Onesti riporta per il Meridione forme con consonanti sorde da antiche sonore e con aspirate, come ad esempio Dagileopa, Antechis, Lupelchisi. Inoltre Vvinelaupo (Lucera), Vvinipirga (Puglia), Liutperti (S. Vincenzo al Volturno), Liutprandi (id.). A Brindisi è attestata la voce allipergo "albergo". Tra i toponimi si notino Atripalda (prov. Avellino), Caggione (Salento, < long. *kahagi "bosco recintato", donde anche toscano cafaggio). 

L'autore di Forumarcheologia ha una certa tendenza a confondere fenomeni che vanno tenuti distinti e mostra una forte predisposizione per la fallacia logica chiamata "osservazione selettiva".

Riportiamo i seguenti dati sulle variazioni dialettali di alcuni antroponimi:

longobardo settentrionale SIGEMUND
longobardo toscano SICHIMUND
(il fatto che il nome dellla stessa persona sia registrato in due dialetti diversi a seconda del luogo non stupisce, siccome ognuno tende a parlare come mangia e a scrivere di conseguenza) 

longobardo settentrionale DAGHIBERT
longobardo toscano TACHIPERT

Essendo questi nomi composti da radici vigenti nella lingua parlata, si capisce anche come i Longobardi pronunciassero le parole ogni giorno. Riporto anche i corrispondenti nell'antico alto tedesco (AAT) e nel gotico. 

"vittoria" (AAT sigu, sigo, sigi, siki, Got. sigi(s)-):
longobardo settentrionale SIGE-, SIGI-
longobardo toscano SICHE-, SICHI- 

"giorno" (AAT tag, Got. dags):
longobardo settentrionale DAGHI-
longobardo toscano TACHI- 

"splendente" (AAT beraht, peraht, Got. bairhts, -ai- è una /e/ aperta):
longobardo settentrionale -PERT, - BERT
longobardo toscano -PERT 

"spada, tizzone" (AAT brant, Norr. brandr)
longobardo settentrionale -PRAND
longobardo toscano -PRAND

Ribadisco che questi non sono fenomeni legati all'attuale pronuncia dei vernacoli toscani, ma mutamenti nati all'interno della II Rotazione dell'Alto Tedesco e perfettamente comprensibili in tale ambito, e le forme documentate lo provano. 

Ovviamente quanto ho riportato non esaurisce la molteplicità dei dialetti longobardi. Ad esempio, il dialetto di Bergamo era più simile a quello toscano ed aveva -CH- da -G-: LAUNECHILD anziché LAUNEGILD. Il dialetto di Rieti aveva T- per D- come il dialetto toscano, ma aveva -C- per -G-: TACIPERT. Se in Toscana troviamo anche TAHIPERTO (dat.) e TAIPERT, a Pavia abbiamo DAIPERT. C'è abbastanza materiale per produrre un'opera di un certo respiro. Purtroppo si registra un sostanziale disinteresse da parte del mondo accademico. I lavori della Onesti sono interessantissimi, ma sono dispersi in articoli. La Scienza di questi tempi soffre di articolite acuta, quello che manca è la classificazione sistematica delle informazioni di cui si dispone.

La radice germanica *ri:ka- "re" (gotico reiks "principe, sovrano", reiki "regno, dominio", norreno ríki "regno", antico inglese rīce id., antico alto tedesco rīhhi id.), evolve in longobardo con un suono aspirato palatale che viene scritto diversamente a seconda dell'area:

1) si trova scritto -ris nei dialetti longobardi settentrionali:
2) si trova scritto -risci nel dialetto longobardo toscano:
3) si trova scritto -rissi nel dialetto longobardo di Benevento:

Come si vede, il mutamento è simile a quello che ha portato al tedesco Reich, con una "ch" palatale, che nulla ha a che vedere con la pronuncia dei vernacoli toscani neolatini. Si trovano dialetti tedeschi in cui questo "ch" si palatalizza completamente, e in cui ich suona isch. Quindi la citazione di questo mutamento come prova di toscanismo è maliziosa e fallace. Raccomando una volta di più un approfondito studio della II Rotazione, sperando che sia di giovamento e faccia capire la natura di questi fenomeni.

Nel dialetto di Benevento è notevole l'ortografia "sch" per "sc", che farebbe pensare a un suono simile a quello dell'olandese Scheveningen, usato come shibboleth nella II Guerra Mondiale.

Gli antroponimi longobardi non sono assimilati, a parte qualche volta una rozza latinizzazione tramite aggiunta di desinenze -us, gen. -i, dat. -o, etc. In moltissimi casi esibiscono le consonanti finali germaniche e un aspetto fonetico incompatibile con la lingua latina volgare o con qualsiasi varietà romanza. Il toscano odierno non tollera le consonanti finali e tende ad aggiungere -e. Lo vediamo bene in alcuni prestiti dalla lingua inglese:

bar > barre
roastbeef > rosbiffe

Questa caratteristica è particolarmente tipica dei dialetti del Centro e Sud Italia. Nella lingua italiana standard essa si trova ad esempio nei nomi biblici: Davide per David, Giobbe per Iob, Giacobbe per Iacob, e un tempo si usava anche Saulle per Saul. Un toscano di bassa cultura prova parimenti invincibile difficoltà ad articolare nessi consonantici complessi, come quelli che si riscontrano in una lingua germanica. Per averne un'idea, si dovrebbe fare un'indagine chiedendo a persone delle campagne di Lucca che si esprimono in vernacolo di articolare i nomi ANSPRAND, TEUTPALD, LAUTCHIS. Sarebbe un interessante esperimento, il cui esito atteso consterebbe di grottesche imitazioni come *ASSEPRANDE, *TETTEPALDE e *LATTEHISSE

La persistenza di antroponimi non assimilati oltre la scomparsa del regno dei Longobardi è di per sé un indizio del perdurare dell'uso della lingua longobarda almeno in famiglia.

Contro l'ingenua idea che vorrebbe le consonanti aspirate dei nomi longobardi originate dal vernacolo, occorre far presente che tutte le parole latine dei testi in cui questi nomi si trovano non riportano neppure un caso di trascrizione di un'ipotetica gorgia. Dato che il latino dell'epoca era di basso profilo e scadente, di certo si noterebbero numerose attestazioni di una pronuncia aspirata toscana se questa fosse realmente esistita. Un fantomatica tendenza a "distorcere" gli antroponimi longobardi si rifletterebbe a maggior ragione sul lessico latino. 
Chi asserisce che i nomi longobardi mostrino effetti di "distorsione" ignora bellamente ogni rudimento di filologia germanica e si contraddice poi da sé, essendo incapace di spiegare come mai questa "distorsione" sarebbe assente nelle parole latine.

Le forme corgite e iocale non c'entrano proprio nulla con l'assordimento di /b/ /d/ /g/ nelle lingue dell'area antico alto tedesco. Si tratta di meri ipercorrettismi ad opera di persone ignoranti. In nessun caso si nota nei vernacoli toscani qualsiasi tendenza a rendere sorde /b/ /d/ /g/ in /p/ /t/ /k/ e sfido chiunque a dimostrare il contrario riportando casi concreti. Il fatto che /p/ /t/ /k/ latine si siano conservate meglio in Toscana che da altre parti non implica affatto che /b/ /d/ /g/ abbiano avuto la tendenza a diventare /p/ /t/ /k/. Si tratta di due cose diverse. 

Giova infine far notare una volta di più che nella Toscana del VIII secolo non si parlava come Benigni: le lingue romanze avevano iniziato il loro lungo cammino di differenziazione dal latino volgare nelle varie regioni della Romània. L'idée fixe dei sostenitori della cosiddetta "Continuità" è destituita di fondamento e dal punto di vista scientifico non ha il benché minimo valore. 

Visto che tutto ciò che scrivo viene definito "elucubrazione", riassumerò in poche parole i fatti:

1) Il toscano non desonorizza mai le occlusive /b, d, g/ in /p, t, k/

2) Il toscano rende fricative le occlusive /p, t, k/ in posizione intervocalica, mai in posizione iniziale assoluta o postconsonantica;

3) Il toscano può spirantizzare le occlusive /p, t, k/ se sono forti o in posizione postconsonantica, ma questi suoni non corrispondono ai suoni affricati longobardi; 

4) Il toscano non muta mai in fricative sorde le occlusive sonore /b, d, g/

5) La fonotattica del longobardo non collima mai con quella del toscano;

6) Gli antroponimi longobardi non sono "distorti", ma obbediscono a fenomeni fonetici ben documentati nelle varietà dell'antico alto tedesco. 

Conclusione: antroponimi longobardi e vernacoli toscani c'entrano come i carciofi con le lavatrici. Questo è quanto. 

sabato 15 marzo 2014

DANTE ALIGHIERI, I VOLGARI ITALIANI E LA GORGIA

Nel corso della sua vita Dante Alighieri ha viaggiato e ha visto molte cose, discutendo in dettaglio un gran numero di argomenti nei suoi trattati. Nel De Vulgari Eloquentia ha scritto diffusamente delle lingue e del problema delle loro origini. Date le fragili conoscenze della sua epoca e l'inesistenza del metodo scientifico, non ci si può certo aspettare che potesse giungere a risultati strabilianti: per quanto geniale era pur sempre figlio del suo tempo. Passando in rassegna i volgari parlati in Italia, ha riportato persino una poesiola pornografica in marchigiano attribuita a un fiorentino di nome Castra: "Una fermana scopai da Cascioli, cita cita se' n gìa 'n grande aina". Il verbo "scopare" è stato tradotto nei più assurdi e comici modi da commentatori moderni ("incontrare", "scorgere" o addirittura "battere con una scopa"), mentre appare evidente il suo senso vero, tuttora così vivo e vitale ai nostri giorni. Dante condannava e metteva in satira i dialetti italiani, giudicando "il più turpe" quello di Roma, "di accento ferino" quello di Aquileia, "aberrante" quello dei Casentinesi e degli abitanti di Fratta; soltanto il siciliano dei poeti si salva da una censura tanto veemente. Anche dei Sardi l'Alighieri aveva un'opinione terribile e credeva addirittura che non avessero una lingua propria, ma che imitassero il latino ereditato dall'epoca dell'Impero. Così è riportato nel De Vulgari Eloquentia (Liber Primus, XI, 7):

"Sardos etiam, qui non Latii sunt sed Latiis associandi videntur, eiciamus, quoniam soli sine proprio vulgari esse videntur, gramaticam tanquam simie homines imitantes: nam domus nova et dominus meus locuntur."

"Quanto ai Sardi, che non sono Italiani ma andranno associati agli Italiani, via anche loro, dato che sono i soli a risultare privi di un volgare proprio, imitando invece la grammatica come fanno le scimmie con gli uomini: e infatti dicono domus nova e dominus meus."

La deduzione di Dante è ovviamente erronea, ma non priva di un certo interesse: il sommo poeta, che difficilmente avrà conosciuto la lingua sarda per diretta esperienza, aveva raccolto da qualche fonte un paio di voci, constatando quindi la somiglianza col latino ed essendo da questo tratto in inganno. In realtà, il sardo non conserva il sigmatismo al nominativo singolare, così come ha perduto la declinazione. Non è chiaro se l'adattamento delle parole sarde alle forme latine vere e proprie dominus meus e domus mea sia stato compiuto dallo stesso Dante.

Tanto per fare qualche altro esempio di filologia del De Vulgari Eloquentia, si nota che l'autore accomunava il germanico allo slavo, errando gravemente. Tuttavia è arrivato a teorizzare un "idioma triforme", che è una più felice intuizione: aveva capito che italiano, provenzale e lingua d'oil non potevano risalire direttamente al latino classico dell'antichità, ma dovevano derivare da una instabile varietà volgare da questo distinta (quello che noi chiamiano latino volgare). Così ha distinto le lingue neolatine in tre ceppi a seconda della particella usata per affermare, ossia "oc", "oil" e "sì".

Veniamo dunque alle abitudini fonetiche dei dialetti toscani del XIII-XIV secolo. Nella sua ricerca del volgare più illustre, si direbbe che Dante non lo potesse trovare nemmeno nella natia Toscana. Il quadro che ne traccia è infatti abbastanza impietoso. Riporta anche qualche esempio: 

Locuntur Florentini et dicunt
Manichiamo introcque, | che noi non facciamo altro.

Pisani:
Bene andonno li fanti | de Fiorensa per Pisa.

Lucenses:
Fo voto a Dio ke in grassarra
eie lo comuno de Lucca.

Senenses:
Onche renegata avess'io Siena.
Ch'ee chesto?

Aretini:
Vuo' tu venire ovelle?

Tutte queste cose hanno la loro rilevanza per quanto riguarda la questione della gorgia, che alcuni insistono col ritenere antica. Dal confronto della propria parlata con quelle di altre genti d'Italia, Dante avrebbe di certo detto qualcosa sulla gorgia, se questa fosse effettivamente esistita. La totale assenza di menzioni di questa abitudine è un forte indizio della sua inesistenza all'epoca. A questo punto i casi sono due: 

1) Se la gorgia fosse esistita e Dante l'avesse considerata corretta e di buon uso, avrebbe notato la sua assenza al di fuori della Toscana;

2) Se la gorgia fosse esistita e Dante non l'avesse considerata corretta e di buon uso, ne avrebbe parlato diffusamente per stigmatizzarla.

Ammettiamo ora di scegliere la seconda possibilità e vediamo dove ci porta l'ipotesi. Data la severità dell'Alighieri, siamo propensi a credere che il suo giudizio su ogni forma di aspirazione sarebbe stato implacabile e che avrebbe riportato un gran numero di esempi da sottoporre al ludibrio e allo scherno delle future generazioni.