domenica 5 ottobre 2014


L'EFFETTO DINOSAURO 

Autori: Kit Pedler, Gerry Davis 
Titolo originale: Brainrack
Anno: 1974 
Pubblicazioni italiane: Urania 650 (agosto 1974)
    Unica ristampa in Millemondi
Casa editrice: Arnoldo Mondadori Editore 
Genere: Fantascienza
Traduzione: Bianca Russo 
Copertina: Karol Thole 
Formato: 13 x 19
Pagine: 190 pagg.

Trama (da Mondourania):

"Una delle teorie più accreditate sull'estinzione dei dinosauri afferma che quei bestioni scomparvero dalla faccia della terra perchè il loro cervello troppo piccolo non riusciva più a controllare il loro corpo troppo grande. Lo scienziato-detective protagonista di questo romanzo applica la stessa teoria alla nostra società: il gigantismo che sta sotto gli occhi di tutti, l'inefficienza dei servizi, il caos in cui viviamo, dimostrerebbero che il "cervello" del pachiderma sociale non è ormai più in grado di coordinare e far funzionare niente. E' soltanto un'intuizione intelligente, o davvero qualche male "organico", e scientificamente dimostrabile, minaccia l'umanità? Si tratta di raccogliere dati significativi; ma ben presto si vede che per bloccare una simile indagine ci sono persone disposte a tutto e che la vita di un ricercatore può valere in certi casi molto poco." 
 


Recensioni: 

Mi sono occupato del volume in questione qualche anno fa: avendolo trovato in una bancarella dell'usato, sono stato attratto dal suo titolo e dalla sua trama, così l'ho comprato e l'ho letto. All'epoca ero un blogger attivo nella piattaforma Splinder, ormai scomparsa, così ho subito applicato il concetto portante del romanzo alla situazione di quella fatiscente blogosfera. Questo è ciò che ho scritto su Anobii

Splinder è la dimostrazione vivente dell'EFFETTO DINOSAURO! 

Questo volume di Urania descrive a meraviglia la situazione di Splinder. La Redazione della piattaforma è assolutamente incapace di controllare il pachiderma sociale, le sue capacità sono quelle di un cervello di tyrannosaurus rex, grande come un pacchetto di sigarette e destinato a muovere un corpo alto come un palazzo. 

Sul blog Esilio a Mordor e in Facebook ho approfondito il concetto: 

L'idea portante, mi rendo conto, può essere applicata tale quale alla situazione ormai imperversante nella blogosfera slinderiana: la piattaforma ha assunto proporzioni mastodontiche e le poche persone che ci lavorano stanno perdendo il controllo delle sue membra, pur essendo di certo animate dalla migliore volontà. Certo, ci sono in media quattordici pagine di utenti online, ma in ogni pagina almeno tre spammatori. Così vediamo che moltissimi sono i post che si possono visualizzare nelle pagine delle ultime pubblicazioni, ma almeno il 50% sono automatismi creati da splog-robot. Lo scenario è desolante e destinato a peggiorare di mese in mese. Anzi, ho il sentore che questa peste abbia già messo radici profonde in tutta la Rete. Presto non ci sarà più conoscenza condivisa, ogni cosa diverrà un veicolo di nuove infezioni. Ogni corpo sociale sarà solo un gigante paralitico e senza memoria. Non posso poi fare a meno di notare che l'ex Motime, oggi US.Splinder, detiene un record della presenza di splog. Se uno va in home, si rende conto che ci sono in media più di 5.000 utenti online, per una piattaforma fino a poco fa piccolissima, in cui gli utenti genuini saranno stati poche centinaia. Il tasso di crescita è stato mostruoso, addirittura tumorale. Prima che il contagio divorasse US.Splinder, gli utenti online erano sempre meno di 100. Poi con la crescita subitanea sono arrivati gli splogger. Tutto questo è accaduto perché il sistema immunitario della piattaforma non è stato più in grado di gestire le periferie della rete sociale elefantiaca. È un vero peccato che studiosi del calibro di Barabási non abbiano tenuto conto di questo fenomeno.
(scritto il 27 03 2011)

A distanza di tempo, penso che l'argomento sia sempre attuale. Se i miei contributi relativi alla situazione di Splinder sono obsoleti a causa dell'estinzione della piattaforma, il principio generale resta valido e serve a descrivere questo paese e l'intera società umana. Lo vediamo ogni giorno nelle nostre vite urbanoidi in costante peggioramento: dirigenti inamovibili e inetti, complicatissime procedure di semplificazione che aggiungono al danno la beffa, il moltiplicarsi esponenziale della burocrazia - tanto che si arriverà al giorno in cui nessuno potrà andare al cesso senza avere un protocollo in ingresso e uno in uscita - diritti civili che diventano barzellette perché costretti a passare nei mostruosi ingranaggi della produzione di documenti inutili, scartoffie digitali di quest'epoca di sfacelo, l'uso di un linguaggio orwelliano che chiama "riduzione" l'aumento delle tasse e del numero di elementi parassitari collocati ai vertici degli enti pubblici e privati. Il crollo è inevitabile, è soltanto questione di tempo.  

Non so se rileggerò il libro di Pedler e Davis: la narrazione mi è parsa soporifera e il finale non deve essere eclatante, visto che me lo sono del tutto dimenticato. È un po' come quando si ripongono grandi aspettative in qualcosa che si risolve in nulla di fatto. Ho l'impressione che un'idea geniale sia stata utilizzata male e sprecata, come spesso accade nel mondo della fantascienza.  

Sempre su Anobii, l'utente VM71 ha scritto questa recensione: 

L'inizio dell'estinzione 

Riflessione amara sulla parabola discendente dell'intelligenza umana in una società che si affida in maniera massiccia alla tecnologia. La visione ecologista contro il nucleare e l'inquinamento prodotto dalle auto è ancora valida oggi, anche se l'opera è di 35 anni fa. Lo stile ed i personaggi, molto british, rendono questo romanzo estremamente piacevole. In appendice si trova un articolo di divulgazione scientifica di Asimov: interessante ma un po' pesante. 

sabato 4 ottobre 2014

UN NUOVO ARGOMENTO CONTRO L'ORIGINE ETRUSCA DELLA GORGIA TOSCANA

Nella lingua longobarda esisteva il vocabolo *gahagi "bosco riservato", che ci è attestato nella forma latinizzata gahagium. Di questa parola è nota la comune variante *kahagi, attestata come cahagium: il prefisso germanico ga- ha spessissimo la variante ca- in longobardo. Questa desonorizzazione è ben nota nell'area dell'alto tedesco: il prefisso ka- si trova anche in antico bavarese. L'origine ultima del prefisso è la stessa forma indoeuropea *kom- da cui discende anche il ben noto latino cum, com-, con-, co-. La radice hagi- che forma la parola *ga-hagi è la stessa che si trova nell'inglese haw "recinzione" e hedge "siepe; barriera", nel tedesco Hain "boschetto", Hag "siepe" e Hecke "siepe, cespuglio; macchia". Il perfetto corrispondente tedesco di *gahagi è Gehege "recinto"

Veniamo ora alle evoluzioni del longobardismo in questione nei volgari italiani. A settentrione evolve in gaggio e in gazzo. In Toscana presenta invece un ben diverso sviluppo: diviene infatti cafaggio, con la variante caggio. Dalla parola cafaggio deriva anche cafaggiaio, che significa "boscaiolo". La consonante velare longobarda /g/, seguita da semiconsonante palatale si è palatalizzata in volgare neolatino, ma non è questo ciò che intendo rimarcare. Quello che salta agli occhi è lo sviluppo toscano della consonante longobarda /h/. Occorre innanzitutto dire che la /h/ iniziale di parola originaria ha cessato presto di essere pronunciata: in Rotari troviano arigawerc "attrezzature militari" per harigawerc - alla lettera "opera dell'esercito" - e così pure andegawerc "attrezzi di casa" per handegawerc - alla lettera "opera manuale" (trascrivo con -w- la sequenza -uu- dei codici). Il suono permaneva invece tra due vocali: gamahalos, glossato confabulati, e via discorrendo. In altre parole, quando nuove aspirate (fricative e affricate) si sono sviluppate a partire dalla seconda rotazione consonantica, /h/ iniziale non si pronunciava più. 

Reductio ad absurdum 

Ora, se nelle parlate toscane dei secoli VIII-XI fosse esistita la gorgia come parte dell'eredità etrusca, sarebbe esistito il suono /h/. I nostri avversari affermano questo esplicitamente. Si dimostra che se questo fosse accaduto, il termine cahagium non sarebbe passato in toscano come cafaggio, ma come *cahaggio, e sarebbe stato scritto in modo ipercorretto come *cacaggio. Invece vediamo come la /h/ intervocalica longobarda è stata adottata come /f/. Questo perché /f/ era il suono toscano dell'epoca più vicino a /h/. Non esisteva dunque alcuna gorgia, che si è sviluppata in epoca successiva.
Q.E.D. 

LA PAROLA LAUNEHILD IN UN DOCUMENTO DI DIRITTO LONGOBARDO DEL XII SECOLO

Anche dopo che la lingua dei Longobardi fu uscita dall'uso corrente, dovette permanerne una qualche conoscenza tra le persone che continuavano a professare il Diritto Longobardo e tra i notai. Alcuni glossari legali sono giunti fino a noi, con traduzioni di voci longobarde contenute nei codici. Di certo quelli che abbiamo non sono gli unici esistenti e molte forme saranno andate perdute. Ecco un'altra cosa che difficilmente sarà menzionata nelle scuole: ancora nel XII secolo esistevano persone che si appellavano alle leggi dei Longobardi, riconoscendosi di origine diversa dal resto della popolazione. Casi del genere non sono affatto rari e se ne trovano notevoli documentazioni. Come spiegare il fenomeno? Sarebbero necessari studi approfonditi, i cui risultati metterebbero senza dubbio in crisi certa retorica scolastica. 

Ne riporto un esempio molto interessante, tratto dal sito dell'Università di Pavia:  


Si tratta di una carta promissionis che fu scritta nel maggio 1132 a Milano. In essa si parla di una certa Druda, moglie del milanese Mustus Burro, professante la legge dei Longobardi. Essendo in contesa con il prete ufficiale di San Giovanni in Laterano di Milano, certo Obizzo, con il documento in questione la donna promette di non infastidire lui e la sua chiesa, a cui il marito aveva evidentemente donato delle proprietà. La promessa viene fatta anche a nome degli eredi, menzionati in fondo al documento. Si stabilisce la pena di cinquanta denari d'argento in caso di violazione della promessa, e per sancire questo atto di generosità, Druda riceve un pagamento che con vocabolo longobardo è chiamato launehild. La parola ricorre due volte. Rimando al sito per approfondimenti sul testo, limitandomi ad enucleare alcuni passaggi chiave.  

All'inizio del documento si trova la professione di Legge Longobarda: "promitto atque spondeo me ego Druda cuniux Musti qui dicitur Burro, de suprascripta civitate, qui professi sumus lege vivere Longobardorum mihi que supra Drudae ipso Mussto iugali et mundoaldo meo". Si noterà la presenza del termine mundoald (qui dotato di desinenza latina -o), che indica colui che esercità l'autorità, detta mundium nei codici. Il vocabolo è formato dalle radici mund- "mano, autorità" (cfr. tedesco Vormund "tutore"; mündig "maggiorenne") e wald- "dominare" (cfr. tedesco walten).  

Verso la fine dell'atto si trovano le menzioni del risarcimento, indicato senza alcuna desinenza latina: "Quidem et anc adfirmandam promissionis cartam accepi ego que supra Druda a te predicto Obizone presbitero exinde launehild crosinam unam". E ancora, dove ricorrono le croci sostitutive delle firme: "Signum + manus suprascripte Drude qui hanc cartam promisionis ut supra fieri rogavit et suprascriptum launehild accepit." 

La parola originale era launegild "controprestazione", composta da -gild "pagamento" (cfr. tedesco Geld) e da laun- "ricompensa" (cfr. tedesco Lohn). La consonante -g- mostrava una certa tendenza a mutarsi in -ch- tra due vocali e in certi gruppi consonantici, come attestato in numerosissimi antroponimi, e quindi a divenire una semplice -h-. Così si trova la variante launechild. La forma launehild, che dimostra chiaramente la natura aspirata del suono -ch- in launechild, di cui è la naturale evoluzione, è attestata anche a Milano, come in molti altri luoghi. 

Nonostante questi mutamenti fonetici siano chiaramente dissimili da qualsiasi cosa si trovi nelle lingue romanze, esiste sempre qualcuno che cerca di ricondurli alla gorgia toscana. Affermare a più riprese che nessun vernacolo toscano ha mai intaccato la consonante sonora /g/ non sembra servire a molto: ci si trova davanti a un muro di gomma, visto che non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. Spero sia di qualche utilità rimarcare le attestazioni di consonanti aspirate in Lombardia e in Veneto, in contesti molto simili a quelli in cui ricorrono in Toscana. La forma launehild rappresenta la pronuncia più recente del lemma, in uso tra gli ultimi parlanti della lingua in diverse regioni d'Italia. Questo implica una trasmissione in epoca tarda attraverso genuina usura fonetica popolare e non un'influenza esterna proveniente dal volgare neolatino. 

EVIDENZE DELLA TARDA SOPRAVVIVENZA DELLA LINGUA LONGOBARDA

Interessanti attestazioni di importanti parole longobarde si trovano in atti notarili e in altri documenti di epoca sorprendentemente tarda. A tutto ciò non sembra esser fatta molta pubblicità in Italia, a causa dei pregiudizi degli autori, che ancora chiamano "gotico" e "longobardo" qualsiasi cosa riesca loro ripugnante sotto il profilo linguistico, estetico e persino morale. Peggio ancora, c'è chi cerca di far violenza ai dati per affermare le proprie idee preconcette. A un simile scempio va posta la parola fine.
Cominciamo con la seguente citazione:

Ego Pedreuerto notario rogitus ad iam dicto Staualene in hanc cartolam ih me subscripsi. (anno 872) 

Il documento in questione è un atto notarile scritto ad Asti, che risale in pratica a un secolo dopo l'estinzione del Regno Longobardo. Eppure il pronome longobardo ih è stato conservato nell'atto, come prova eloquente del fatto che esisteva ancora una lingua parlata chiaramente germanica. I fautori della scomparsa precoce della lingua balbettano e farfugliano applicando un ragionamento circolare. Siccome essi assumono per dogma che non poteva esistere nulla di germanico nell'Italia del tardo IX secolo, dicono che questo ih in realtà sarebbe il latino hic, nonostante non vi sia somiglianza grafica tra le due parole. Non possono riportare alcun caso in cui una forma ih sarebbe scritta per hic: la loro sicumera viene soltanto dal fatto che hanno assunto come vero il loro pregiudizio. Proprio come quelli che quando vedono un fulmine globulare in cielo dicono che è la Madonna, anche se tra la figura di una donna in cielo e quella di una sfera lucente non sussiste somiglianza veruna. Noi però sappiamo, ed è pienamente documentabile, che in antico alto tedesco ih significa "io": non è necessario pretendere l'attestazione del pronome nell'attuale forma tedesca ich

Sempre da documenti e atti notarili:

Paulus Drancus (anno 812), "giovane gagliardo" (1) 

Julianus Dungo (anno 818, Abbazia di Nonantola), "grasso", "pesante" (2) 

Johannis Zanvidi filii quondam Petri Zanvidi (anno 919, Chioggia), "coi denti dagli spazi larghi" 

Benedictus Scarnafol (anno 1003, Abbazia di Farfa), "sporcaccione" (3)

(1) cfr. norreno drengr "ragazzo"
(2) cfr. norreno þungr "grave"
(3) cfr. antico alto tedesco scarno "sterco", antico inglese scearn id., norreno skarn

A quanti affermano che Zanvidi (gen.) non sarebbe altro che un derivato di Gian Vito, faccio notare che siamo agli inizi del X secolo e che Zanvidus è chiaramente un soprannome che in un caso si applica a Petrus e in un altro a Johannes. Non ha la struttura di un nome proprio Gian Vito: se fosse stato ritenuto un ipocoristico di Johannes, non sarebbe stato apposto a tale nome. In tale epoca non si può ancora parlare di veri e propri cognomi. Nel Codice Diplomatico Padovano in cui si trova l'attestazione di Zanvidi, non sembrano esserci evidenze dell'ipocoristico Zan(i) per Johannes in epoca tanto precoce. Si ha invece la prova che alcune persone si definivano appartenenti alla nazione dei Longobardi, professandone il diritto. 

Affermo con forza l'idea di Wilhelm Bruckner contro quella dei romanisti: esistevano ancora famiglie in grado di parlare la lingua longobarda in epoca tarda. I soprannomi sopra riportati danno il senso di una lingua germanica viva, colloquiale, opposta al pur approssimativo latino degli atti notarili. Allo stesso modo capita ai nostri giorni che parlanti dialettali abbiano un nome colloquiale nel loro idioma vernacolo, di uso familiare, che viene apposto al nominativo italiano negli annunci funebri. La differenza è che spesso i soprannomi dialettali odierni sono oscuri, mentre quelli longobardi dei secoli IX-XI appaiono chiarissimi e comprensibili a chiunque abbia qualche nozione di filologia germanica. 

Da una cronaca anomima del tardo X secolo: 

Defunctus ut diximus Grimoalt, Idelrici filius Grimoalt, quem lingua todesca, quod olim Langobardi loquebantur, stoleseyz fuit appellatus, quod nos in nostro eloquio, qui ante optulibus principis et regis milites hic inde sedendo perordinat possumus vocitare, in principali dignitate est elevatus. Chronicon Salernitanum (anno 978)  

Il termine stoleseyz è una variante tarda di stolesazo "funzionario regio", derivato dalle radici stol- "sedia" e saz- "sedere". Questo mutamento fonetico, prova una tarda applicazione di un Umlaut in -i-, che non appare nei testi più antichi. Una forma con un suffisso *-io aggiunto a una radice con vocale breve è all'origine della forma stoleseyz (confronta medio alto tedesco stuol-sezze; < proto-germanico *-satjan-), mentre una forma con suffisso -o aggiunto a una radice con vocale lunga è all'origine di stolesazo (confronta medio alto tedesco stuolsaze; < proto-germanico *-se:tan-). Tutto ciò non sarebbe potuto accadere se la lingua fosse morta rapidamente: è chiaro che l'autore del Chronicon non ha semplicemente copiato la forma attestata nei documenti più antichi. Vediamo che nel tardo X secolo ancora permaneva una certa capacità di comprendere la lingua, che pure l'autore del Chronicon afferma essere uscita dall'uso corrente. Evidentemente la morte della lingua longobarda non avvenne dovunque nello stesso tempo, come vorrebbero gli autori dei manuali scolastici italiani, ma in tempi diversi presso comunità diverse, a seconda anche della densità della popolazione di origine germanica: l'autore del Chronicon si sarà riferito alla situazione di Salerno. Appare in ogni caso chiaro che se il longobardo fosse stato dimenticato nel VII secolo, come per ragioni ideologiche qualcuno vorrebbe, non sarebbe neanche perdurata memoria della sua esistenza nel X secolo.

L'ottima studiosa Giovanna Princi Braccini ha recentemente citato un incantesimo antiemorragico longobardo scritto a margine del ms. Vat. lat. 5359. Purtroppo non sono riuscito a reperire il suo lavoro e non ho potuto quindi analizzare il testo della formula. Attraverso l'analisi dei documenti disponibili, compresa l'Historia Langobardorum di Paolo Diacono e il Chronicon Salernitanum, l'autrice giunge a conclusioni cautelative, collocando l'estinzione della lingua dei Longobardi in qualche momento indefinito tra i primi e gli ultimi decenni del secolo VIII - in ogni caso non "prestissimo" come voluto dalla tradizione del mondo scolastico italiano. Tale stima permetterebbe di identificare il declino del longobardo con la fine del Regno. A parer mio un conto è la fine di una lingua come normale mezzo di comunicazione, un altro è invece la morte degli ultimi gruppi superstiti di parlanti: non sarebbe il primo caso di lingue credute estinte in un certo periodo di cui sono saltati fuori parlanti isolati anche dopo un secolo o più.
Lo studio in cui Princi Braccini tratta l'interessante questione è il seguente:  

Giovanna Princi Braccini Vecchi e nuovi indizi sui tempi della morte della lingua dei Longobardi

Studi in memoria di Giulia Caterina Mastrelli Anzilotti Firenze, Istituto di studi per l'Alto Adige 2001 = Archivio per l'Alto Adige. Rivista di studi alpini, Firenze 93-94 (1999-2000) 353-74 

sabato 27 settembre 2014


UCRONIA E ONIROSTORIA

Si risolverebbero molti problemi connessi al difficile argomento dell'ucronia cercando di fare chiarezza sulla sua definizione. 

Questo è quanto riporta Wikipedia ad oggi (27/09/2014): 

"L'ucronìa (anche detta storia alternativa, allostoria o fantastoria) è un genere di narrativa fantastica basata sulla premessa generale che la storia del mondo abbia seguito un corso alternativo rispetto a quello reale." 

E ancora:  

"Per la sua natura, l'ucronia è spesso assimilata al più vasto genere della fantascienza e si incrocia con la fantapolitica, mescolandosi all'utopia o alla distopia quando va a descrivere società ideali o, al contrario, indesiderabili." 

A parer mio si dovrebbe innanzitutto distinguere nettamente l'ucronia dalla fantascienza. Anche se molti reputano naturale classificare l'ucronia come un sottogenere della fantascienza, critico questa impostazione. Ritengo che si tratti di due cose completamente diverse, che non derivano dallo stesso ceppo e non hanno praticamente nulla in comune. 

Il termine fantascienza è una traduzione dell'inglese Science Fiction, ossia alla lettera "narrativa scientifica immaginaria". Wikipedia fornisce questa ragionevole spiegazione: 

"La fantascienza ha come tema fondamentale l'impatto di una scienza e/o una tecnologia – attuale o immaginaria – sulla società e sull'individuo. I personaggi, oltre che esseri umani, possono essere alieni, robot, cyborg, mostri o mutanti; la storia può essere ambientata nel passato, nel presente o, più frequentemente, nel futuro".  

Come si può vedere, un'ucronia può essere fantascientifica, ma esistono anche ucronie non fantascientifiche. Se il Punto di Divergenza si colloca nella Roma di Cesare e si narrano eventi occorsi a quattro secoli dalla sua morte, non si ha motivo di utilizzare il termine fantascienza.  

Ovviamente dobbiamo tener conto del fatto che moltissima gente definisce in modo diverso la parola "fantascienza"

"La fantascienza è quella forma di fastidiosa pornografia concettuale, che pur non essendo necessariamente collegata alla descrizione di atti sessuali, ne condivide l'oscenità. Così volgarmente essa è sinonimo di "sproposito". Per questo quando si sente dire qualcosa di assurdo, incredibile o stupido - come le elucubrazioni dei complottisti o le promesse del governo Renzi - si commenta in modo lapidario: "è fantascienza". Come dire che è qualcosa di infimo e di deleterio, letteratura da quattro soldi, carta imbrattata di feci." 

Condanniamo duramente questa semantica e non esitiamo ad anatemizzarla. Complici di questo scempio sono i giornalisti, che utilizzano spesso e volentieri questa perniciosa definizione, che accomuna in pratica cosa tra loro diverse come i carciofi e le lavatrici. 

Dobbiamo a questo punto analizzare le premesse che definiscono uno scritto come "ucronia". Appurato che all'origine di tutto c'è un Punto di Divergenza a partire dal quale gli eventi propagano, possiamo classificare questo evento come segue: 

1) La Divergenza corrisponde a un evento collegato alla scelta cruciale di una persona, che innesca un diverso corso storico. 
2) La Divergenza corrisponde a un fattore ambientale possibile, definito da una sua probabilità di occorrenza, che collocandosi in un contesto cruciale innesca un diverso corso storico. 
3) La Divergenza corrisponde a un elemento estraneo alla Storia, collocato a bella posta dal narratore. 

Un esempio del primo caso è il diverso esito di una battaglia, dovuto alla decisione di un condottiero.
Esempi del secondo caso possono ritenersi una malattia che uccide da bambino un personaggio cruciale come Cesare, il maltempo che fa deviare Cristoforo Colombo dalla sua rotta facendolo finire tra gli Aztechi o il mancato presentarsi della tempesta che distrusse l'Invencible Armada.
Il terzo caso merita una discussione più approfondita. Riportiamo a questo proposito alcuni esempi concreti per far meglio capire cosa si intende. 

a) Cristoforo Colombo si imbatte in una grande isola che è quanto rimane del continente di Atlantide, e vi trova discendenti di Fenici;
b) Sir Francis Drake approda nell'isola di Frislandia, grande quasi quanto l'Islanda e situata a meridione di questa. Vi trova genti che parlano una lingua germanica affine al norreno, ma da questa un po' diversa.
c) Hernán Cortés arriva in Messico e scopre gli Aztechi con le armi da fuoco.
d) Il popolo giapponese non si è formato in quello che conosciamo come arcipelago nipponico ma in Madagascar: nel XX secolo si trova in quell'isola il Mikado con tanto di bandiera con il sole rosso da cui emergono i raggi, e si discute dell'impatto di ciò nella II Guerra Mondiale.
e) Un'astronave atterra in America e ne esce Adolf Hitler seguito da un esercito di scimmioni in tuta spaziale che spargono il terrore a New York. 

Mi sono davvero imbattuto nei casi c), d), e) in un gruppo di Facebook dedicato all'ucronia: non si tratta di mie elucubrazioni cervellotiche. In particolare il caso e) è stata la causa del mio abbandono del gruppo - in cui sono rientrato soltanto dopo molti mesi, una volta mitigata la mia furia. 

Alcuni esempi di Punto di Divergenza del terzo tipo sono ben noti e hanno dato origine a scritti molto importanti nella storia della letteratura e del cinema: le terre descritte da Jonathan Swift (Lilliput, Blefescu, Brobdingnag, Luggnagg, etc.), l'isola di Utopia di cui ha parlato Tommaso Moro, la Città del Sole di Tommaso Campanella, l'Isola del Teschio in cui abita King Kong, l'Arcipelago dei Rinogradi e via discorrendo. 

Cosa salta subito agli occhi? Il Punto di Divergenza impossibile, di tipo 3), non caratterizza un'ucronia, ma qualcosa di ontologicamente molto diverso, che possiamo chiamare onirostoria, cioè Storia onirica. Perché questa denominazione? Semplice: nei sogni è facilissimo imbattersi in situazioni di questo tipo, in cui elementi della realtà di veglia sono ricombinati in modo assurdo.  

Postulare continenti diversi, conformazioni diverse del paesaggio e via discorrendo, implica che il vero Punto di Divergenza si deve collocare milioni di anni fa, e un simile corso degli eventi si sarebbe ripercosso a tal punto che forse nemmeno avremmo avuto lo sviluppo del genere umano, e in ogni caso non potremmo pensare di trovare qualcosa di noto e riconoscibile. 

Nella definizione di onirostoria dobbiamo inserire ugualmente le narrazioni il cui punto di divergenza è del primo o del secondo tipo, in cui però gli eventi narrati mostrano applicazione del Principio di Conservazione della Realtà, ostacolando la propagazione degli eventi. Queste narrazioni onirostoriche possono essere chiamate anche ucronie difettose, perché postulano elementi della realtà storica in cui viviamo a dispetto di condizioni iniziali che le renderebbero impossibili. 

Detto questo, si capisce che gli ucronisti attivi nel Web in moltissimi casi confondono l'ucronia con l'onirostoria, con tutto quello che ne consegue.  

domenica 21 settembre 2014


L'IMPORTANZA DEL PUNTO DI DIVERGENZA NELLA NARRATIVA UCRONICA 

Gli ucronisti attivi nel Web trattano spesso gli eventi cruciali come se fossero punti, ossia singolarità inanalizzabili e prive di struttura. Tendono altresì a considerare alcuni punti fissi nel corso storico con cui si cimentano, senza domandarsi se la loro esistenza sarebbe possibile una volta posta la singolarità originale, ossia il Punto di Divergenza a partire dal quale la nostra realtà e quella ucronica si differenziano. Con la nostra breve analisi ci proponiamo di mostrare che queste modalità di procedere sono inconsistenti e portano a risultati non soltanto privi di senso, ma spesso anche meritevoli di irrisione e di scherno. 

Ogni Punto di Singolarità in realtà non è affatto qualcosa di inanalizzabile. Se si cambia una singola decisione di un personaggio importante o l'esito di una sua impresa cruciale, bisogna sempre domandarsi se questo cambiamento sarebbe stato possibile, e ciò può essere fatto unicamente comprendendo in modo profondo la biografia del personaggio stesso, ma anche tutto ciò che lo riguarda: educazione, contesto della famiglia, dei conoscenti e della società in cui viveva, stato di salute. Purtroppo nella massima parte dei casi un simile studio è irrealizzabile per il semplice fatto che i dati di cui si ha bisogno sono persi per sempre. 

Se ci si chiede per esempio come sarebbe cambiata la Storia se il Riformatore Zwingli avesse trionfato nella Battaglia di Kappel (11 ottobre 1531), dovremmo innanzitutto sapere tutto, ma proprio tutto, non soltanto su Zwingli, ma anche sull'intero suo parentado, su tutte le persone con cui ha interagito, con tutti i poteri che si opponevano alla sua opera. Servirebbe un affresco gigantesco e dettagliato fin nei particolari più microscopici. Dovremmo studiare gli eventi della fatidica battaglia, per capire se la vittoria degli avversari di Zwingli fu dovuta a fattori ineluttabili (superiorità numerica soverchiante, etc.) o se il Riformatore aveva una qualche probabilità di vittoria e la sua disfatta è stata causata da mera sfortuna. I libri di storia ci dicono che Zwingli fu colto alla sprovvista dalle truppe dei cantoni ostili alla Riforma e che poté avere un margine davvero minimo per mettere insieme un esercito, quindi già solo per questo un ribaltamento delle sorti a Kappel parrebbe piuttosto improbabile. 

In altri casi non siamo così fortunati. Più andiamo a ritroso nel tempo, più l'analisi della situazione diventa difficile. I rischi insiti nel giocare con la vita di Giulio Cesare sono tali da sconsigliare l'impresa: non solo la propagazione di ogni cambiamento anche minimo sarebbe incontrollabile, ma un  qualsiasi fattore inconoscibile nella sua esistenza potrebbe rivelarsi determinante. Sarebbe necessario conoscere ogni pensiero passato per la testa di tutte le persone entrate in contatto anche marginalmente con Cesare per poter azzardare qualcosa. Le variabili in gioco sono troppe. Il problema è che nessuno sembra essere comprendere la necessità di approfondimenti così accurati, che certo possono rendere la produzione di un'ucronia sensata qualcosa di irrealizzabile.  

C'è anche di peggio. Alcuni contesti sono talmente oscuri che si ignora persino il nome dei personaggi coinvolti in dati eventi. Prendiamo ad esempio le guerre condotte dai generali di Augusto, Druso Maggiore e Tiberio, contro le popolazioni alpine negli anni 16-15 a.C. Conosciamo il famoso Trofeo delle Alpi che si trova a La Turbie, eretto negli anni 7-6 A.C., in cui sono menzionati più di quaranta popoli soggiogati. Sono i seguenti: 

Trumpilini, Camunni, Venosti, Vennoneti, Isarci, Breuni, Genauni, Focunati, le quattro nazioni dei Vindelici, Cosuaneti, Rucinati, Licati, Catenati, Ambisonti, Rugusci, Suaneti, Caluconi, Brixeneti, Leponzi, Uberi, Nantuati, Seduni, Veragri, Salassi, Acitavoni, Medulli, Ucenni, Caturigi, Brigiani, Sogionti, Brodionti, Nemaloni, Edenati, Vesubiani, Veamini, Galliti, Triullati, Ecdini, Vergunni, Eguituri, Nematuri, Oratelli, Nerusi, Velauni, Seutri. 

A quanto mi risulta, le fonti romane non ci hanno tramandato nemmeno il nome di uno dei capi ribelli di queste genti. Non sarebbe dunque molto saggio collocare un Punto di Divergenza proprio nelle guerre alpine in questione. In molti casi c'è persino il problema di capire quale fosse la lingua parlata da una data popolazione.  

Una possibile soluzione è quella di procedere con grande prudenza e di interrogarsi su ogni passo compiuto. Evitare di dar vita a ucronie giocando con l'ignoto in modo disinvolto può essere d'aiuto. Di certo sono da ritenere scadenti i prodotti di quei dilettanti che si divertono a tagliuzzare la Storia facendone collage folli, pensando di scardinare ogni evento dal contesto che lo ha generato per dar vita a grotteschi mostri di Frankenstein privi di qualsiasi significato. 

sabato 20 settembre 2014


CROCIERA NELL'INFINITO

Autore: Alfred Elton Van Vogt
Titolo originale: The Voyage of the Space Beagle
Anno: 1950

Il libro si compone di quattro parti:

1) Coeurl
2) Riim
3) Ixtl
4) Anabis

Genesi dell'opera: Nata dalla fusione di quattro racconti scritti dal 1939 al 1950:

Black Destroyer
War of Nerves 
Discord in Scarlet 
M33 in Andromeda 

Pubblicazioni italiane:
Urania 27 (novembre 1953)
Urania 312 bis (luglio 1963)
Futuro. Biblioteca di Fantascienza 1, Fanucci Editore (1974)
Urania Classici 22 (gennaio 1979)
Il Fantastico Economico Classico 3, Compagnia del Fantastico. Gruppo Newton (1994)
Urania collezione 82 (novembre 2009)

Traduzioni: Sergio Sué, Sebastiano Fusco

Trama sintetica (da Mondourania):

Come Isaac Asimov modellò la sua "trilogia galattica" sulla Decadenza e caduta dell'Impero romano di Gibbon, così A.E. Van Vogt si è ispirato per questa sua crociera classica nell'infinito a un altro illustre precedente, la famosa relazione che Charles Darwin pubblicò al ritorno della nave Beagle dal viaggio intorno al mondo. Come il veliero del grande naturalista, l'astronave Argus è infatti incaricata di esplorare pianeti e galassie lontanissime ed ha a bordo un nutrito e litigioso gruppo di scienziati. Gli enigmi, le sorprese, i pericoli che essi incontrano sulle rotte cosmiche e le strabilianti osservazioni e dati che via via raccolgono sulla vita extraterrestre danno vita a una narrazione di lucido rigore scientifico unito a un avvincente senso s'avventura e di meraviglia.

Sapendo che il nome del Connettivismo è stato ispirato da questo libro di Van Vogt, quando me lo sono procurato ero al settimo cielo. A quei tempi per me Van Vogt era soltanto un nome: non avevo mai letto nessuna delle sue opere. Ero felice di potermi immergere nella fonte d'ispirazione che or della fine aveva dato il suo contributo alla nascita del Movimento. Tuttavia sono rimasto profondamente deluso dal volume. Ho addirittura percepito un viscerale quanto inesplicabile senso di tradimento, che procedendo nella lettura si trasformava in una profonda irritazione e in aperta insofferenza. Ho letto Coeurl, Riim e Ixtl, abbandonando poi la lettura, che procedeva sempre più a rilento causa mancanza di entusiasmo. Ho classificato il romanzo come "libercolo scadente", ripromettendomi comunque di rileggerlo e di approfondirlo. Queste sono le parole che ho concepito a quell'epoca:

"Ripetitivo, banale, spesso travalica i confini del ridicolo. Al massimo conterrà venticinque righe di un qualche valore letterario. Il brano in cui l'alieno Ixtl interpreta il disegno schematico di un atomo è di una tale delirante assurdità che sfigurerebbe persino su Topolino."

E ancora:

"Stupisce davvero che qualcuno ne voglia fare la bibbia di un modo talebano-scientista di intendere la fantascienza: c'è più scienza in un film di Lando Buzzanca."

Certo, non ho tenuto conto del tempo in cui il romanzo è stato scritto. Forse sono stato troppo caustico nel linguaggio, anche se le mie opinioni rimangono nella sostanza negative. Credo del resto che sia impossibile costringere qualcuno ad amare una cosa che non gli ispira attrazione e che non gli piace affatto. 

Non posso comunque liquidare con poche parole quest'opera, per un motivo molto semplice. Il protagonista, Grosvenor, è un connettivista. Sul complesso argomento del rapporto tra Connettivismo e Van Vogt e sull'origine stessa della parola non si dirà mai abbastanza. Non nascondo che ho provato una fitta dolorosa quando sono venuto a sapere che Ron Hubbard e la sua Chiesa di Scientology sono all'origine del concetto stesso di Connettivismo (inglese Nexialism), inteso come "una nuova scienza capace di ristabilire le connessioni tra le competenze e le conoscenze di una disciplina e l'altra". Non a caso qualcosa di sostanzialmente identico a un connettivista compare nel romanzo Gli amanti di Siddo, di Philip José Farmer, che considero un capolavoro. Tale opera è tutta incentrata sulla figura del Precursore, profeta di un'orribile religione e autore del Talmud Occidentale. Orbene, il Precursore presenta non pochi tratti in comune con Ron Hubbard, al punto che la sua Chiesa appare chiaramente una trasposizione letteraria di Scientology - così come mostra inquietanti somiglianze con la figura di Thulsa Doom del film Conan il barbaro di John Milius (1982). Si tratta di coincidenze? No di certo. Alfred Van Vogt era un attivo seguace di Hubbard, come sua moglie. Mentre Farmer mostra un mondo devastato da una tirannia spaventosa e descrive la Chiesa del Precursore nella luce più realistica e sinistra, Van Vogt è in tutto e per tutto un positivista che ha come punto fisso una fede assoluta, cieca e incrollabile in un futuro di espansione indefinita del genere umano. Forse proprio questo è all'origine della mia avversione per tale scrittore, più di qualsiasi considerazione sul suo uso improprio della Scienza e sul suo stile letterario scadente. 

Esiste tutta un'elaborata mitologia a proposito di Van Vogt, costruita ad arte dalla setta dei fantascientisti. Incensato come Maestro e presentato come un semidio, l'autore è descritto come il vero ispiratore di Alien. Ovviamente gli adoratori che blaterano sull'argomento dell'ispirazione di Alien ignorano l'esistenza in Natura di un gran numero di insetti parassitogeni come gli Icneumonidi, eleganti vespe che iniettano le loro uova nei bruchi vivi. Tra l'altro questa conoscenza era ben presente allo stesso Darwin, che studiò in modo approfondito questi animali, descrivendone i ributtanti dettagli riproduttivi. La comune ispirazione di Van Vogt e dell'artista svizzero H.R. Giger ha per l'appunto le sue radici nel mondo degli insetti. Non è un caso che l'idea portante di Crociera nell'Infinito sia stata tratta da Darwin e dai suoi viaggi: non è impossibile che l'autore di fantascienza si sia imbattuto in una descrizione degli icneumonidi mentre leggeva le opere del naturalista inglese.  
Si noti tuttavia che Alien e Ixtl hanno sì qualcosa in comune (l'essere parassiti incredibilmente evoluti), ma che i dettagli biologici non combaciano affatto nei dettagli: mentre Ixtl innesta le sue uova nel petto delle vittime, somigliando in questo agli icneumonidi, Alien ha un ciclo più complesso e una natura sociale simile a quella delle termiti. Non è l'adulto a iniettare le uova, ma sono le uova deposte dalla regina ad eiettare il ben noto simbionte facciale, intermediario del processo riproduttivo.
È ben possibile che molti fantascientisti ignorino anche il fatto che H.R. Giger è il vero artefice di Alien e che la progettazione di quella letale forma biologica non si deve a Ridley Scott. Qualcuno cita un contenzioso tra Van Vogt e lo stesso Scott, che non arrivò mai in tribunale a causa di un accordo economico raggiunto tra le due parti. Di certo una corte composta da biologi avrebbe rigettato le richieste di Van Vogt. Seducente e decisamente originale è invece l'idea di Ixtl come residuo di un precedente ciclo cosmogonico. 

Riporto infine una serie di recensioni non proprio eulogistiche che ho trovato in Anobii, alcune delle quali mi sembrano davvero meritorie:

Scritto da Mr. Nero: 

«Il mostro è qui, lo sto tenendo a bada col mio vibratore. Ma fate presto, perché non sembra preoccuparsene troppo... »
Il libro in sé è troppo antiquato e ingenuo per risultare godibile oggi, specie se non si ha troppa affinità con la sci-fi avventurosa à la Star Trek, che personalmente non mi è mai piaciuta, se non nella formula ignorante e tamarra di John Carter di Marte. Ho trovato interessanti alcune creature, in particolare quello Ixtl che, pare, avrebbe ispirato Alien (se non altro per l’idea di usare i membri dell’equipaggio come incubatrici dove impiantare le proprie uova), ma per il resto la prosa prolissa e i farfugliamenti pseudoscientifici e privi di consistenza rendono difficile proseguire nella lettura. Il motivo principale per cui vale la pena leggere questo classico oggi è costituito dalle risate involontarie che regala a chi conserva un cuore da ragazzino della terza media, come me. Sapete, vedere seriosissimi militari e scienziati (tutti maschi e castrati chimicamente con farmaci disciolti nel cibo, non sia mai che gli salti in testa qualche strana idea –giuro!) che si aggirano per la nave terrorizzati da orribili minacce dalle profondità dello spazio, brandendo dei vibratori, beh son cose che allietano il mio animo fanciullesco.
Trascrivo il mio brano preferito:

«Da tutte le parti si vedevano vibratori che fumavano e lampeggiavano. Grosvenor si sporse cautamente dall'ascensore, cercando di farsi un'idea chiara della situazione.»

Il povero Grosvenor, tenendo le chiappe ben attaccate al muro, si trova davanti questa scena:

«Entrambi gli ingressi al ponte di comando erano bloccati da dozzine di carrelli rovesciati, dietro i quali si riparavano uomini in uniforme militare. […] Evidentemente, le immagini ipnotiche avevano fatto esplodere l'ostilità repressa. Gli scienziati stavano combattendo i militari, che inconsciamente avevano sempre odiato. I militari, dal canto loro, erano infine liberi di sfogare disprezzo e furia sugli scienziati, per i quali non avevano mai nutrito alcuna stima.»

In pratica, una guerra intestina. Combattuta con dei vibratori.
Credo che ci sia qualche problema coi farmaci sciolti nel cibo, Alfred.

Scritto da Flavio:

"Il libro è in realtà una raccolta di lunghi racconti e la prosa ostica di Van Voght non aiuta ad amalgamarli."

Scritto da Mattjr:

Piuttosto deluso da quello che sapevo essere una pietra miliare della fantascienza
Alcune pagine sono davvero notevoli, ma la maggior parte del racconto è piuttosto tedioso...
 Nello spazio profonda alla ricerca di forme di vita sensazionali eppure il 70% del racconto è incentrato sulle beghe dei vari scienziati e del capo dipartimento del connettivismo (una scienza che l'autore non riesce a descrivere senza termini e teorie che sanno di fuffa cosmica)

Scritto da Lorentz:

Il libro racconta le avventure di una astronave in viaggio verso nuove galassie per fare ricerca scientifica su nuovi mondi e specie sconosciute.
 L'idea di per sé potrebbe essere buona se sviluppata meglio. Nel viaggio trovano quattro diverse specie aliene, tutte più o meno ostili. Il libro è quindi divisibile in quattro sezioni tutte dalla forma "incontro - minaccia - analisi scientifica - la nuova scienza connettivista ci fa sopravvivere". Questa nuova disciplina scientifica è più un metodo, dove il protagonista è l'unico esperto, che abbracciando tutte le discipline permette di avere un quadro completo del problema da affrontare.
 Altro punto deludente del libro consiste nella narrazione che, seppure talvolta fatta dal punto di vista dell'alieno, non approfondisce gli aspetti psicologici né la volontà dei personaggi; inoltre sono presenti piccole incongruenze, quali l'alieno che al primo approccio chiama gli abitanti dell'astronave "bipedi" per poi iniziare a chiamarli "umani" pur senza che abbia avuto modo di comunicare con loro o di imparare il termine.

Scritto da Maxx:

Non lasciatevi ingannare dal richiamo ad Alien. La creatura più affascinante della fantascienza filmica è opera dello svizzero Giger, ma nelle pagine di van Vogt non c’è traccia, se non forse in un “embrione” di quello che avrebbe dato spunto alla saga Aliena, ma i paragoni finiscono qui. La space Beagle di van Vogt è piena, soprattutto, delle menti più brillanti del pianeta Terra alla ricerca di informazioni e conoscenza. Biologi, chimici, fisici, matematici, storici, geologi, psicologi, tutti insieme a cercare di “ampliare” la conoscenza dello spazio. Ma come fare quando il quesito da risolvere è “grande”? van Vogt imbarca nell’equipaggio anche un “connettivista”, un teorico di una nuova scienza che è in grado di combinare e congiungere tutte le altre per la soluzione del problema. La ricerca sembra allora rivolgersi, più che ai misteri del cosmo, alla capacità della mente umana di superare ostacoli più o meno pericolosi.
P
ersonalmente il connettivista, dopo un po’, inizia a diventare antipatico, ma la morale di van Vogt rimane, l’uomo, messe da parte le rivalità e le gelosie comuni, può affacciarsi senza paura alla ricerca del nuovo, qualsiasi esso sia.

sabato 13 settembre 2014

LE DIECI PIAGHE DELLA FANTASCIENZA

Rifletto spesso sulla fantascienza e sui suoi cultori, e non manco di essere colto da mortificanti riflessioni ogni volta che rimugino sul tema. Qualcuno mi dirà che quanto ho da dire riguada soltanto la realtà italiana, che all'estero la fantascienza è fiorente e che la gente è diversa, ma a questo riguardo mantengo con costanza un sano scetticismo. Già Philip K. Dick parlava di Ghetto della Fantascienza, così sono portato a credere che quanto ho dedotto in anni di attenta osservazione possa valere per l'intero mondo occidentale. 

Sarebbe bello se ogni appassionato di fantascienza fosse libero di avere le opinioni che desidera e se tutti si rispettassero, contribuendo a qualcosa di costruttivo. Purtroppo nulla è più lontano dalla realtà dei fatti. Un fantascientista è nella maggior parte dei casi una persona indottrinata in un'ideologia tutta particolare, formata da numerosi dogmi, tabù, comandamenti, assiomi, pregiudizi e comportamenti stereotipati. Un'architettura concettuale di rara bruttura, se mi è permesso esprimere un giudizio. Per convenzione li chiamiamo fantascientisti, anche se sarebbe più giusto denominarli adoratori della fantascienza. Per colmo di paradosso, proprio tra i lettori si possono trovare i più acerrimi nemici dei nuovi autori e di ogni tentativo di far prosperare il genere con contributi innovativi. Ho stilato una lista delle principali storture di tale genia, vere e proprie piaghe pestilenziali:

1) Idolatria degli autori
2) Tecnofeticismo
3) Psicorigidità
4) Nozionismo
5) Settarismo
6) Ideologismo politico 
7) Immantentismo utopico
8) Incapacità adattiva 
9) Culto del futuro archeologico
10) Spreco di risorse

Vediamo di analizzare ogni voce in dettaglio:

1) Idolatria degli autori
I più famosi scrittori di fantascienza sono oggetti di culto semidivino, quasi fossero santi, profeti o altre entità soprannaturali. Così è ritenuta blasfema qualsiasi critica nei loro confronti. Tale è l'idolatria, che basta avanzare dubbi sulla validità di un libro di qualche mostro sacro per essere lapidati, scatenando una reazione simile a quella che si otterrebbe entrando in una moschea travestiti da maiali. Trovo doveroso precisare che l'adorazione degli autori è sommamente nociva, perché impastoia e paralizza i giovani talenti, inibendone la creatività, spingendoli a imitare i classici incriticabili, assurti a modelli di scrittura da cui non si può deviare. Non c'è spazio per il nuovo in un contesto tanto asfittico. 

2) Tecnofeticismo
La fantascienza è vista come qualcosa di sostanzialmente materialista. Quasi nessun fantascientista sembra scorgere anche lontanamente qualcosa di filosofico o di morale nelle sue letture. Tutto è incentrato sul culto del gingillo tecnologico, senza alcuna riflessione. Moltissimi leggono Philip K. Dick senza nemmeno sospettare che si tratta di un autore esoterico, ricchissimo di spunti gnostici: la stessa trama narrativa appare loro del tutto irrilevante, l'attenzione la concentrano su qualche mirabolante e improbabile marchingegno. La lettura così concepita è piatta, bidimensionale. Il crasso feticismo tecnologico e simbolico impedisce la comprensione a qualsiasi livello del testo.

3) Psicorigidità
Ricordo un documentario in cui una scimmia aveva il compito di trovare quale cavità si adattasse all'inserimento di un cilindro di legno che aveva in mano. Il primate si ostinava a voler cacciare il cilindro in un buco la cui sezione era quadrata, e di fronte all'impossibilità dell'impresa strepitava come un folle, insistendo fino a stremarsi. Qualcosa di simile avviene con molti fantascientisti. Non di rado si riscontrano forme estreme di imbecillità, come nel classico caso del fantascientista che se non vede sulla copertina di un libro un robot o un'astronave non lo compra. Gli editori si lamentano di tutto questo. A una convention mi è capitato di sentire una robusta filippica contro i lettori ottusi che sono abituati ad aprire una porta con tre borchie, e se ne viene mostrata loro una con quattro borchie non la aprono, non mostrano nemmeno una lontana e vaga curiosità verso ciò che potrebbe esserci dietro. Chi è causa del suo mal pianga se stesso. La fissità del microcosmo fantascientifico ha portato ingenti guadagni agli editori negli anni del boom della fantascienza, essi l'hanno attivamente incentivata. Adesso che cercano di proporre qualcosa di nuovo, le passate strategie diventano all'improvviso esecrabili. Purtroppo la locuzione "lettore di fantascienza neofobo" non è un ossimoro.

4) Nozionismo
Il lettore medio di fantascienza divora libri uno dopo l'altro, quasi fossero schede perforate immesse in un elaboratore degli anni '50. Come facciano a leggere così in fretta migliaia di volumi non mi è dato sapere: posso soltanto fare ipotesi nel tentativo di razionalizzare il fenomeno. Siccome non credo affatto che queste persone siano affette da un particolare tipo di autismo in grado di conferire illimitati poteri mnemonici, sono più incline a ritenere che la loro lettura sia superficiale. Leggono per intero qualche pagina, poi cominciano a saltare alcuni passi qua e là, procedendo quindi in modo rapido verso il finale, e digerendo un numero di Urania in un paio d'ore. A mio parere questo non è leggere. Sono sempre più scettico sull'esistenza dei cosiddetti "lettori bulimici", che dicono con fierezza di leggere più di cinquecento libri ogni anno: a pare mio si tratta soltanto di gente che posa. Tuttavia i fantascientisti non si limitano a questo. Hanno la testa piena zeppa di ogni genere di informazioni sconnesse sugli autori e sulle loro opere. Sanno citare a menadito ogni dettaglio della biografia di ogni scrittore, tutte le vicissitudini di ogni libro, come ad esempio le varie date di pubblicazione e via discorrendo. Informazioni che a chiunque richiederebbero giorni per essere accumulate, sono per loro del tutto ovvie - al punto che chi non le sa sciorinare è considerato incolto, ignorante, out. Intere enciclopedie di date compresse in uno spazio così piccolo. C'è da meravigliarsi che nei banchi di memoria di queste persone ci sia spazio per qualcos'altro.

5) Settarismo 
I fantascientisti sono estremamente litigiosi, e questo è stato rimarcato in diverse occasioni. A mio avviso non si tratta di semplice litigiosità, ma di vero e proprio settarismo facinoroso. Mi ricordano le genti di Lilliput e di Blefescu, che si combattevano accanitamente perché non si trovavano d'accordo sul modo migliore di rompere le uova. Un'analoga futilità spinge i fantascientisti a scontrarsi. Sembra che non si possa essere lettori di fantascienza se non si è data la propria adesione alla setta di Fusco - De Turris o a quella di Curtoni, come se fossero i Verdi e gli Azzurri di Bisanzio. Se osassi rivelare che non sono stato iniziato ai Misteri di Urania all'età di dodici anni, ma che ho iniziato a leggere fantascienza molto più tardi, sarei immediatamente linciato: sarebbe come cercare di vendere carne suina alla Mecca. Questo però non basta. In Rete mi sono imbattuto in affermazioni spaventose quanto surreali, che riporto senza il nome dell'autore (si dice il peccato, non il peccatore): "La fantascienza ha un tasso di abbandoni altissimo. Un lettore perso (perché deluso o tutto quello che volete) è peggio di un lettore morto. Perché finché vivrà parlerà male del genere che ha abbandonato e cercherà di convincerti a fare lo stesso!" A tanto si è arrivati, ad augurare la morte delle persone, a minacciarle come se fossero colpevoli di apostasia. Inutile dire che simili atteggiamenti non aiutano a fermare l'emorragia di lettori di fantascienza, anzi, la accelerano. Non ci si stupisca se di fronte a questo qualcuno potrebbe ribattere che "l'unico lettore di fantascienza buono è quello morto".  

6) Ideologismo politico 
Lo zoccolo duro dei lettori di fantascienza di vecchio stampo vede ogni cosa attraverso le lenti distorcenti della politica. Vi sono non pochi antifascisti militanti che scorrono le pagine di ogni opera con il fucile in pugno: è sufficiente usare una parola sbagliata per scatenare in loro un'ira furibonda. Così sono stato sottoposto alla gogna mediatica per aver definito il Connettivismo "Avanguardia" anziché "Movimento". Il carissimo amico Giovanni De Matteo - che è tutto fuorché di destra - è stato addirittura etichettato come autore di un "elogio dello squadrismo nichilista", semplicemente perché nel suo ottimo romanzo Corpi spenti il tenente Briganti beve birra Weiss, e nel testo compare qualche parola tedesca del tutto priva di connotazioni politiche: il potere di questi vocaboli germanici sparsi sembra essere stato quello di un allergene devastante o di un sasso tirato in un nido di calabroni. "Questa è una Repubblica in cui è vietato articolare qualsiasi suono della lingua tedesca", avrebbero fatto scrivere nella Costituzione questi esaltati. Molti di costoro sono gli stessi anticlericali da operetta che ritenevano Ratzinger "nazista" per via delle sue origini tedesche, per poi inginocchiarsi davanti a Papa Ciccio, guardandolo con interesse là dove il sol tace. Però sui libri di fantascienza la scritta "vietato ai fascisti" non l'ha ancora messa nessuno. Pecunia non olet

7) Immanentismo utopico
Per quanto sia evidente che la massima parte della fantascienza degna di questo nome è pura letteratura distopica, i fantascientisti sono quasi tutti convinti immanentizzatori dell'Eschaton. Credono con fermezza che le loro letture non siano puro e semplice diletto, ma che debbano di riffa o di raffa essere una forma di impegno sociale volto a realizzare un futuro di prosperità, ipertecnologia ed espansione indefinita del genere umano. Le magnifiche sorti e progressive di cui con amarezza parlava Leopardi. Anche coloro che più sono orientati verso visioni cupe del futuro, poi sotto sotto strepitano di gioia quando viene data notizia di qualche nuova tecnologia che promette di rivoluzionare la vita di tutti i giorni, rendendo possibile colonizzare Marte, far svolgere ogni lavoro ai robot, avere chip e computer incorporati nel cervello e via discorrendo. Per quanto leggano opere in cui si delineano scenari raggelanti, al contempo essi credono a un futuro radioso, roseo, in cui ogni problema sarà risolto dai marchingegni, in cui è riposta una fede idolatrica. Il Robot come il Vitello d'Oro, la potenza di calcolo che genera l'intelligenza e la stessa anima, il genere umano che raggiungerà la Salvezza tramite la Macchina. Questo spiega l'enorme successo della delirante futurologia di Kurzweil e di iniziative aberranti come i Laboratori dell'Immortalità. 

8) Incapacità adattiva
Permane ancora come un fossile del passato la locuzione "letteratura di anticipazione", usata talvolta per riferirsi alla fantascienza. Ma cosa mai dovrebbe anticipare la fantascienza? Anni fa Ivo T. faceva notare che le possibilità della fantascienza sono tutt'altro che esaurite. Si possono esplorare campi che sono appena stati svelati dai moderni sviluppi della Scienza, come fantabiologia, fantazoologia, fantamedicina, fantapsichiatria, e via discorrendo. In realtà esistono opere che trattano questi campi, ma non sono considerate, la loro innovatività non viene colta, perché nella sua miopia lo zoccolo duro dei fantascientisti è fissato sulla tecnologia del razzo a reazione. Non si ha la capacità di adattare la visione della Scienza alla narrazione. Se Philip K. Dick in un suo racconto descriveva gli autori di fantascienza come Precog, esaltandone le capacità di previsione del futuro, oggi non si può più credere in questa fantasia. La fantascienza ha perso qualsiasi capacità di anticipazione per passare all'affannosa rincorsa del presente, come la spada di Damocle dell'obsolescenza legata a un crine sempre più labile, che anche un alito di vento può spezzare. Questi problemi non esisterebbero se la si smettesse di attribuire alla letteratura fantascientifica obblighi morali come quello di chiaroveggenza.  

9) Culto del futuro archeologico
L'aspetto più sconcertante degli adoratori della fantascienza è il loro fissarsi sull'idea di futuro tipica dell'epoca della propria formazione. Questa idea di futuro dipende quindi dalla classe di età a cui ogni fantascientista appartiene. La cosa diventa evidente come si considerano lettori di una certa età: tra loro spiccano i settari di Star Trek e di Guerre Stellari, con il loro futuro anni '70. Allo stesso modo si trovano ancora vecchi lettori fanatici che pretendono di proiettare nel futuro le farneticanti visioni della Golden Age. Più che futuro, uno pseudofuturo da archeologia. Nella loro miopia, questi soggetti neanche si rendono conto che la realtà che oggi viviamo ha già reso obsolete numerosissime opere di fantascienza. Anche i fantescientisti meno anziani hanno un archeofuturo che ha qualche nota stonata. In quest'ottica persino William Gibson col suo Neuromante è superato da tempo ed appartiene ormai al campo dello sterro di reperti fossili: chiunque dotato di un briciolo di senno non potrebbe che ridere al pensiero delle Pantere Moderne che hanno microsoft impiantati nel cervello e usano telefoni pubblici a gettoni. Sarebbe ora di svincolare la fantascienza dalle aspettative personali sul futuro, che la incatenano inutilmente a una Weltanschauung ingenua e lineare. La soluzione è adottare la "sospensione dell'incredulità", capace di fare di ogni romanzo e di ogni racconto un universo da prendere per quello che è senza la pretesa di proiettarlo nella realtà in cui viviamo. 

10) Spreco di risorse
Ovunque imperversano inutili battibecchi, come ad esempio quello sul rapporto tra fantascienza e fascismo. Decine di persone perdono tutto il loro tempo libero stilando futili classifiche di romanzi Urania, azzuffandosi in caso di disaccordo: sembra di essere all'asilo Mariuccia. Il danno più grave però lo arreca la peggiore di tutte le masturbazioni mentali: discutere ad nauseam del perché la fantascienza è moribonda, senza arrivare a nessuna conclusione. Dopo aver letto questo mio trattatello forse non c'è più bisogno di chiederselo.

sabato 6 settembre 2014

ENTOMOLOGIA E PENSIERO AMERICANO

Così scrivevo nel novembre del 2008, alla vigilia dell'elezione di Obama: 

«Mi sorge il dubbio che i teocon non siano davvero esseri intelligenti. Essi sembrano piuttosto come le vespe. Se uno porta via a una vespa un bruco, quella non può far altro che cercarlo dove l'aveva posato. Non segue l'odore del bruco, ma la traccia feromonale da lei lasciata, anche a costo di morire di inedia. Pur vedendo che la preda non c'è più, la vespa continuerà a muoversi dove lei pensa che debba invece trovarsi il cibo (l'ho visto sia in documentario che dal vivo). Così i teocon sono solo capaci di vedere in una situazione presente qualcosa di passato che conoscono bene. La situazione dell'Iraq per Bush DOVEVA essere come quella dell'Italia occupata, a dispetto della diversità di religione e di modo di vedere la realtà dei soggetti coinvolti. E il suo fallimento è sotto gli occhi di tutti, come quello di una persona che si sfrega un foruncolo fino a farlo diventare un cancro. Se per i teocon il Nazismo è male, il Comunismo è male e l'Islam è male, essi ne deducono che Nazismo, Comunismo e Islam DEVONO essere la stessa identica cosa, nel noumeno, nell'ontologia, a dispetto di ogni evidenza e di ogni considerazione storica. Ma forse faccio torto agli insetti. Una volta una locusta mi volò su una mano e la fissai negli occhi. Percepii più autocoscienza in quell'insetto senz'anima che in tutti i teocon della terra.» 

Che possiamo dire a distanza di anni? Gli eventi non possono che confermare la futilità di ogni tentativo di distinguere i Repubblicani dai Democratici: li accomuna una ben precisa attitudine verso la realtà, che li rende del tutto incapaci di capire le conseguenze delle proprie azioni. 

lunedì 1 settembre 2014

PRESTITI DAL LATINO E DALLE LINGUE ROMANZE D'AFRICA IN BERBERO

Al gruppo delle lingue camitiche appartengono le lingue berbere, tuttora di uso corrente in diverse regioni del Nordafrica. Gli antenati dei parlanti berberi attuali erano i popoli conosciuti nell'antichità come Libi e Numidi. Per quanto riguarda la trascrizione in caratteri latini, ho preferito usare il più possibile soluzioni senza segni diacritici, e ho utilizzato kh anziché x. Per maggiori informazioni sulla corretta pronuncia delle parole citate nel seguito si rimanda a questo link: 


Se a qualcuno Wikipedia non garba, il Web è ben vasto e i libri cartacei esistono ancora.

Nelle lingue berbere esistono notevoli prestiti dal latino parlato in Africa all'epoca dell'Impero. Questi sono spesso chiaramente riconoscibili per le loro terminazioni: i maschili latini della II declinazione conservano integra l'uscita -us del nominativo, che può anche avere varianti più rare come -uz, -uc, -uj. I neutri della II declinazione sono stati adottati con la terminazione -u, che in alcuni casi può cadere, anche se vi sono casi di conservazione di nasale finale. Sia le forme latine maschili che quelle neutre possono assumere in berbero prefissi come a-, i-. Così abbiamo:

abekkadu, abekkad, peccato < lat. pecca:tu(m)  
abelun, tappeto < lat. ve:lum
aberg, abarg, trave; pestello < lat. fulcru(m) 
afru, coltello < lat. ferru(m)
afullus, fullus, pulcino < lat. pullus
akerruc, quercia < lat. cerrus (1)
alili, lili, oleandro < lat. li:liu(m)  

angalus, andjalus, angelo < lat. angelus 
asnus, asino < lat. asinus
aqiṭṭus, ajaṭṭus, gatto < lat. cattus
ayugu, bue da lavoro < lat. iugu(m)
awraru, awatru, manico dell'aratro < lat. ara:tru(m)
blitu, bietola < lat. blitu(m)
fleggu, tipo di menta < lat. pu:le:giu(m) 

gherdus, carciofo < lat. carduus
ifilu, filo < lat. fi:lu(m) 

ifires, pere < lat. pirus
iger, campo coltivato < lat. ager (2)

(1) Non è da quercus, come non di rado si legge.
(2) La forma iger viene chiaramente da un precedente *i-ager, dove i- è il prefisso trovato in ifilu e in numerose altre forme.

Vi sono casi di nomi maschili della II declinazione che continuano l'accusativo in -u(m) anziché il nominativo in -us, dando origine all'uscita -u, che in alcuni casi può anche cadere. Questo strato di prestiti latini potrebbe essere più recente di quello sopra analizzato. 

aberkul, cinghialino < lat. porculu(m)
afurnu
, forno < lat. furnu(m)
agisi, qisi, formaggio < lat. ca:seu(m)
akurat, capoclan < lat. cu:ra:tu(m)
amergu, tordo < lat. mergu(m)
ickir, quercia < lat. aesculu(m)
ulmu, olmo < lat. ulmu(m)

Si segnala un caso di continuazione di un plurale:

urti, giardino < lat. horti:

I femminili della I declinazione conservano spesso l'uscita -a, ma in alcuni casi la perdono o la sostituiscono con il suffisso femminile -t. Nella maggior parte dei casi compare l'articolo femminile prefisso ta- (te-, ti-, tu-, t-) che troviamo anche nel famoso toponimo Tagaste (Thagaste).

afan, fan, tegame < panna
afurk, ramo < furca
amuredj, morchia < amurca
awren, aren, farina < fari:na
errigla, tarigla, regolo < lat. re:gula
ibawen, fave < lat. fabae
ikharba, caprone < lat. capra (1)
kamur, okamir, camera < lat. camera
rif, costa, bordo < lat. ri:pa
tabburt, teburt, porta < lat. porta
tabgha, mora, mora di gelso < lat. bacca 
Tafaska, Festa del Sacrificio < lat. Pascha 
taghawsa, cosa < lat. causa
takir, cera < lat. ce:ra 
taktunya, cotogna < lat. coto:nea 
talima, lima < lat. li:ma
tara, terrazza < lat. a:rea 
tarubya
, robbia < lat. rubia
taskala, scala < lat. sca:la
taslyuga, legume < lat. siliqua
tayda, pino < lat. taeda
tberna, taverna < lat. taberna
tisila, sandalo, suola < lat. solea
tisubla, lesina < lat. su:bula
tkilsit, gelso < lat. <mo:rus> celsa
tuṭebla, tavola; tronco di palma segato < lat. tabula

(1) La parola ikharba "caprone" è stata retroformata da *takharba "capra", che tuttavia a quanto pare non è documentato.

Esistono alcuni femminili formati a partire da voci latine maschili in -us o neutre in -um:

tafirest, pera < lat. pirus 
tafrut, coltello < lat. ferru(m)  
tafullust, gallina < lat. pullus

In altri casi si hanno forme femminili con tanto di prefisso, che derivano però da forme latine neutre:

lemsetka, mastice < lat. masticu(m), per mastiche:
tickirt, quercia < lat. aesculu(m) 

tikulma, sgabello < lat. *scabellu(m)

I nomi maschili o femminili della III declinazione in genere si formano dall'accusativo tramite caduta del suffisso -e(m), a volta con un diverso suffisso -u, mutuato dalla II declinazione. In alcuni casi invece è continuata la forma del nominativo. Raramente il femminile mostra il prefisso ta- (te-, ti-, t-) e il suffisso -t. Ovviamente i neutri continuano la forma diretta.

aberkus, agnello di diversi mesi < lat. berbex
afalku, falco < lat. falco:
afuri, tfuri, tafurat, herpes simplex < lat. porri:go:
anaw, nave < lat. na:ve(m)
atmun, atemun, timone dell'aratro < lat.
te:mo:ne(m) 
emerkid, amarkidu, ricompensa divina < lat. merce:de(m) 
idaymunen, spirito maligno < lat. daemone(m)

ifilku, felce < lat. filice(m)
ikiker, cece < lat. cicer
tafant, pane < lat. pa:ne(m)
tafkunt, focolare < lat. *foco:ne(m)
tilintit, tlintit, lenticchia < lat. lente(m)
tqumcict
, cimice < lat. ci:mice(m)
uskir, piastra di cottura < lat. si:ci:le(m), falcetto

Interessanti sono alcune forme verbali:

erfu, adirarsi < lat. rabio:
ewzen, pesare, misurare < lat. penso:
ikerrez, arare < lat. carrus 
mmuṛḍes
, morire per sgozzamento non rituale < lat. mortuus

Il latino che traspare da questi prestiti è quello classico. Il fonema /p/ manca nelle parole genuinamente berbere ed è stato adattato come /f/ nei prestiti più antichi, come /b/ in quelli più recenti. Al vocabolo afullus "pulcino" usato in alcune lingue corrisponde la forma abullus "gallo" in altre. Si nota come taida "pino" conserva il dittongo latino ae, così come taghawsa "cosa" conserva il dittongo latino au. I prestiti appartenenti a questo strato mostrano la genuina pronuncia velare di c davanti a vocali anteriori -e- ed -i-. Si trovano occorrenze in alcune lingue di -dj- anziché -g-, così si hanno forme come andjalus, andjelus per angalus, ma il fenomeno è secondario e interno ad alcune varietà di berbero. Un simile mutamento spiega ajaṭṭus per aqiṭṭus "gatto", e le varianti akherruc, acerruc, ajerruc per akerruc "quercia". Alcuni vocaboli come angalus, abekkadu, emerkid, ci parlano di un passato cristiano delle genti berbere, poi sommerso dalla marea dell'Islam. Questa eredità è particolarmente evidente tra i Tuareg.

Esistono anche numerose parole nelle lingue berbere che non sono riconducibili al latino classico, ma che derivano da forme di latino più tardo o da vari idiomi romanzi africani, oggi perduti, che si sono naturalmente evoluti dal latino di epoca imperiale parlato in quel vasto territorio. Queste parole sono ben riconoscibili ed appare evidente che non provengono dal francese, dalla lingua franca o dallo spagnolo.

Già abbiamo trattato i casi del latino di Sabrata (Sabratha), che è rimasto molto conservativo ed è sopravvissuto fino al XI secolo, e del neolatino di Gafsa (Capsa), che si era evoluto in modo tale da ricordare il sardo ed è sopravvissuto almeno fino al XVI secolo. Si può però provare che in altre regioni, come il Marocco e la Cabilia, si sono originate lingue molto diverse. In alcuni casi si hanno prove di idiomi romanzi di tipo affine a quelli sviluppatisi nella maggior parte della Romània, con assibilazione o palatalizzazione della velare /k/ davanti a vocali anteriori. Così abbiamo:

agursel, fungo < lat. *agaricellu(m)
azebbuj, oleastro < lat. acerbus
dudjember, budjamber, dicembre < lat. december 
tasentit, segale < lat. cente:nu(m)

Si noti che l'esito della consonante assibilata o palatale presente nelle varietà latine o neolatine che hanno dato origine a queste parole non è coerente: -s-, -z- o -dj-. Insistiamo sul fatto che i prestiti da una lingua all'altra non sono sempre e necessariamente coevi, ma in genere si accumulano stratificandosi, e questo spiega le irregolarità fonetiche. A conferma di questo fatto, a volte si possono identificare interessanti doppioni, che dimostrano l'ingresso di materiale latino o neolatino a partire da fonti diverse in epoche diverse. Così in cabilo abbiamo tayuga "coppia di buoi", formato dal latino iugu(m) "giogo", oltre al vocabolo azaglu "giogo", che viene dal latino iugulu(m). Sempre in cabilo abbiamo aguglu "cagliata fresca", dal latino coagulu(m), e lo stesso vocabolo è passato tramite una forma romanza *kaglu a dare cabilo kkal "cagliare", ikkil "latte cagliato".  

I diversi esiti delle parole latine e di quelle neolatine d'Africa dimostrano una volta di più l'assurdità delle idee di coloro che sostengono la pronuncia ecclesiastica del latino ab aeterno. Costoro pretendono che si debba ignorare la complessità dei dati di fatto per cancellarli con un colpo di spugna, rifiutandosi con pervicacia di non vedere ciò che non fa loro comodo, per sostituire la realtà con il loro latino scolastico apprenditiccio che in realtà non spiega proprio nulla. Sarebbe anche ora che certi internauti prima di imbarcarsi in un'impresa deponessero le loro futili motivazioni ideologiche e si fermassero per acquisire qualche nozione di linguistica seria.