martedì 30 dicembre 2014

FREITUM È UNA PAROLA TEDESCA A TUTTI GLI EFFETTI

Rudolf Steiner nella sua opera L'economia dell'anima (Die Gesunde Entwickelung des Menschenwesens), si dilunga in una questione di lana caprina sulla frase inglese "The freedom of one cannot prosper without the freedom of all", traduzione dal tedesco "Die Freiheit des Einen kann nicht ohne de Freiheit de Anderen gedeihen". A detta del fondatore dell'antroposofia la traduzione in inglese sarebbe priva di senso. Così egli argomenta: 

"Ne darò la dimostrazione concentrandomi sulla parola significativa nella frase. In inglese la parola è freedom. Se paragoniamo la qualità di questa parola con la corrispondente parola tedesca, si dovrebbe usare Freitum - la terminazione "dom" in inglese corrisponde alla terminazone "tum" in tedesco. Se una simile parola esistesse, potremmo usare freedom impunemente. Freitum si tradurrebbe allora con "freedom", e non ci sarebbe alcun fraintendimento. Ma la parola usata nel testo originale è Freiheit - la terminazione "heit" corrisponde alla terminazione inglese "hood". Per mostrarvi che la traduzione di Freiheit con "freedom" non si armonizza con il genio della lingua, userò un'altra parola tedesca, Irrtum ("errore"), che esprime un fatto definito che accade una volta sola. Se volessimo dare a questa parola l'uscita "heit", dovremmo formare la parola Irreheit. Non troverete questa parola in alcun dizionario tedesco, ma non si andrebbe contro il genio della lingua inventandola. Sarebbe del tutto possibile usarla. Irreheit ci conduce immediatamente all'intima natura dell'essere umano. Non ci sono parole nella lingua tedesca uscenti in "heit" che non puntino a qualcosa di flessibile all'interno di una persona. Tali parole portano il loro significato verso una persona. Invero, è un peccato che noi non usiamo la parola Freitum in tedesco, perché se esistesse, potremmo esprimere il significato della parola inglese "freedom" direttamente, senza circoscriverla."

E ancora:

"Queste cose ci portano dritti nelle profondità della lngua stessa e ci rendono consapevoli del genio della lingua. Di conseguenza, quando scrivo un libro in tedesco, cerco di scegliere parole che possono essere tradotte correttamente in altre lingue - e i miei lettori tedeschi non esitano a chiamarlo stile povero. Ma questo non è sempre possibile. Se, per esempio, un libro è indirizzato alla cultura della Germania, potrebbe essere necessario considerare la sutiazione tedesca per prima. E questo è il motivo per cui ho ripetutamente usato la parola Freiheit, che non dovrebbe mai essere tradotta con "freedom". Il mio libro Die Philosophie der Freiheit non dovrebbe mai essere intitolato in inglese The Philosophy of Freedom. Un titolo inglese corretto per questo libro deve essere ancora trovato."

Con buona pace di Rudolf Steiner, in tedesco non esiste soltanto la parola Freiheit "libertà", ma anche Freitum, termine suscettibile di diverse interpretazioni - il cui uso in origine non corrispondeva perfettamente né al tedesco corrente Freiheit, né all'inglese freedom

Va innanzitutto fatto notare che nel tedesco contemporaneo la parola Freitum è un neologismo che compare come traduzione diretta dell'inglese freedom, soprattutto per esprimere il concetto di politica o filosofia libertaria. Alcuni parlanti ritengono la parola Freiheit inadeguata e la vorrebbero addirittura abolire, in quanto compare nell'inno nazista, la Canzone di Horst Wessel: "Der Tag für Freiheit und für Brot bricht an". A causa del paradossale odio antitedesco così diffuso nell'attuale Germania, ecco che anche le parole del lessico di base sono ritenute gravate da passate colpe. Si segnala l'esistenza di una rivista libertaria online denominata Freitum:


Coloro che oggi usano questa parola, non sembrano essere consapevoli del suo uso passato, fiorente nella fase più antica dell'alto tedesco moderno.

Quello che a noi interessa è proprio la continuazione diretta del medio alto tedesco vrîtuom "libertà". Le occorrenze della parola Freitum (con numerose varianti ortografiche come Vreitum, Freytum, Freythumb) nei secoli XIV-XIX dovrebbero essere considerate di sommo interesse dagli storici e dai filologi, ed è un peccato che siano tanto neglette dai moderni. Il termine era infatti usato per indicare una serie di concetti relativi alle città-stato e compare molto spesso nelle costituzioni municipali e in altri documenti legali. La sua obsolescenza deve essere stata causata dall'Unione Doganale (Zollverein), a cui seguì l'unificazione politica della Germania. 

Questo è l'elenco dei significati della parola:

Privilegio; diritto; diritto cittadino; libertà; libertà di mercato; diritto di asilo 

Questi sono alcuni esempi di frasi in cui ricorre, con la data dell'attestazione:  

1) Haben abgenomen ein chlostewer ab der pfafhait gut ... da wir niht recht zu heten und haben daran ubervaren der pfaffen vreitum (1323)
2) Mit alle dem vreitum und genaden, die in iren hantfesten geschribn stent (1331)
3) Dem obg. gotshaus ze R. seiner recht, freytum und genade, swie ez die hat oder haben sol an seinen laeuten und guten, an gerichten, an vischwaiden ... stät behalten (1332)
4) Statigen wir demselben gotshaus den freytum, den ez innerhalb der portten des chlosters  haben sol (1332)
5) Daz eri vnd sein gotshous di selben hofmarich haben sullen ewichleichen in allen den rechten und  vreitumen, als si daz alt hous ze nachst da be enther gehabt habent (1335)
6) Das der freytumb und die sach ... ewiklich stet und unczebrochen beleib, darumbe so [gib] ich ... den brief (1408)
7) Von der purger puess, dy das gericht pitten vmb dy übertreter des fraytumb (1413)
8) Saecken, die teghen vrydoem desses lande wesen moghen (1420)
9) Adelick fryedom als junckher (1448)
10) Welcher wider der stadt freithun wird handeln (1541)
11) In diesem jahr wurden die Zeidner ... des freitums entblösset, dass ihre gemeine nicht mehr ein markt, sondern ein schlechtes dorf soll heißen (1614)  

Per approfondimenti sugli esempi sopra riportati si rimanda al seguente sito dell'Università di Heidelberg: 


Ulteriori citazioni:

Wir bestaten auch dem vorgenanten Gotshaus ze Fürstenzell all ander Genad, Freytum, und Recht, die unser Vetter Chunich Otto sälig, und auch wir, aller Pfaffhait Edeln, und Unedeln, Arm und Reichen in unsern Land gemainleich gegeben haben. (Monumenta Furstencellensia)

FREYTUM, Freyheit, privilegium. Mon. boic. vol. II p. 484 ad an 1337. "alle die Genad, und Ureitum" b. p. 179 ad an. 1295. "wider die Rechtichait, und wider den Vreytun." Mon. boic. vol. III. p. 365. ad an. 1332. "Freyton." Mon. boic. vol. IX. p. 125. ad an. 1311. It. Freyton, en Eigenthum; item eine Freyung, Asylum.   (Glossarium germanico-latinum vocum obsoletarum primi et medii aevi inprimis bavaricarum, di Lorenz von Westenrieder)

Um jetzt diesen, einer ganzen Kirche, die Millionen gebildeter Menschen in ihrem Schoosse zählt, gemachten Vorwurf in theologischer Hinsicht zu würdigen, wollen wir zuerst untersuchen, was man denn unter dem einerseits so sehr gepriesenen Freythum und dem anderer Seits zu so schmählichem Vorwurfe gemachten Knechtthum zu verstehen habe. (Jahrschrift für Theologie und Kirchenrecht der Katholiken. Ulm, 1820)

Esiste anche un verbo freitumen "liberare", tradotto con "von (Deich-)Lasten befreien".

A chi obietterà che questa parola Freitum è desueta, risponderò che anche moltissime parole italiane sono desuete, eppure nessuno si sognerebbe mai di depennarle dai vocabolari. Certo, se qualcuno entrasse in un bar e ordinasse una pinta di cervogia, desterebbe una grande ilarità o addirittura non sarebbe capito. Tuttavia le parole pinta e cervogia sono parte della nostra eredità culturale, e questo nessuno lo può negare. Sarebbe anche ora che i tedeschi si ricordassero delle loro radici.

giovedì 25 dicembre 2014

'I RIBELLI DEI 50 SOLI' DI A.E. VAN VOGT E IL CONCETTO DI IMMOBILISMO LINGUISTICO

Hwæt! Wē Gārdena      in gēardagum 
þēodcyninga      þrym gefrūnon 
hū ðā æþelingas      ellen fremedon. 
Oft Scyld Scēfing      sceaþena þrēatum 
monegum mǣgþum      meodosetla oftēah 
egsode Eorle      syððan ǣrest wearð 
fēasceaft funden      hē þæs frōfre gebād 
wēox under wolcnum      weorðmyndum þāh 
oð þæt him ǣghwylc      þāra ymbsittendra 
ofer hronrāde      hȳran scolde, 
gomban gyldan      þæt wæs gōd cyning. 
Ðǣm eafera wæs      æfter cenned 
geong in geardum      þone God sende 
folce tō frōfre      fyrenðearfe ongeat 
þæt hīe ǣr drugon      aldorlēase 
lange hwīle      him þæs Līffrēa  
wuldres Wealdend      woroldāre forgeaf: 
Bēowulf wæs brēme      --blǣd wīde sprang-- 
Scyldes eafera      Scedelandum in.
(Beowulf 1-14)

Ci credereste se vi dicessi che questo è inglese? So per certo che moltissimi non lo riterrebbero possibile, e questo perché le genti faticano molto a capire che le lingue cambiano durante i secoli fino a diventare irriconoscibili. Coloro che si trovassero a trasecolare apprendendo che il brano da me riportato è in antico inglese, faticherebbero ancor di più a credere ai loro sensi se dicessi loro che la separazione temporale tra la lingua del Beowulf e quella odierna non è poi così grande. Ancora 1.000 anni fa, in Inghilterra, la lingua corrente non distava troppo da quella del brano da me riportato. Certo, molti vocaboli sono poetici, ricercati, e non si saranno trovati nella parlata di un fabbro, tuttavia quanto ho detto non è troppo impreciso. Lo stesso Re Aroldo II d'Inghilterra, caduto nella Battaglia di Hastings, non sarebbe stato in grado di comprendere i discorsi di Obama. Se consideriamo poi che all'epoca di Shakespeare la lingua inglese aveva già una forma ben riconoscibile ai moderni, vediamo che i cambiamenti drastici, sia fonetici che lessicali, che ci separano dall'antico inglese sono avvenuti in un lasso di tempo davvero breve, durante il dominio dei Normanni sull'Inghilterra. 

Questa è la traduzione dei versi sopra riportati:

“Udite! Noi dei Danesi delle Lance nei giorni lontani,
di quei re delle nazioni --  udite di quella gloria, 
di come quei nobili  compirono fatti coraggiosi. 
Spesso Scyld, figlio di Scef, dagli eserciti nemici 
a molte genti strappò le panche dell’idromele; 
e terrorizzò i terribili Eruli dopo che dapprima 
fu trovato senza aiuto e indigente, seppe poi ripagare per questo:- 
egli divenne grande sotto il cielo, prosperò in onori, 
finché a lui ognuna delle tribù confinanti 
oltre la Via delle Balene si dovette sottomettere, 
e pagare tributo: - egli era un buon re! 
A lui nacque poi un erede,  
un giovane nei cortili, Dio lo mandò 
a confortare le genti; aveva visto l'angoscia terribile 
che avevano sofferto prima, senza un capo
per lungo periodo; per questo il Signore della Vita, 
il Re della Gloria, concesse loro onore sulla terra: 
Beowulf fu famoso – si diffuse lontano la sua fama, 
dell'erede di Scyld, nelle terre di Scandinavia.”   

Cosa c'entra tutto questo con il libro I ribelli dei 50 soli di Alfred E. Van Vogt? Più di un lettore di fantascienza risponderà sdegnato dicendo che non c'entra proprio nulla. E qui si sbaglierebbe di grosso. Infatti nel libro dello scrittore di Winnipeg si parla di gruppi di persone anglofone vissute in totale isolamento su un pianeta selvaggio e tagliato fuori da ogni comunicazione. Ebbene, secondo l'autore di SF, questi anglosassoni remoti sarebbero stati in grado di parlare un perfetto inglese standard ancora dopo 15.000 anni dalla dispersione dei loro capostipiti. Questo senza contare che tra i tempi attuali e la diaspora degli anglosassoni immaginata da Van Vogt senza dubbio si estende un lasso temporale di altre migliaia di anni. Un tempo sufficiente a far gemmare diverse famiglie linguistiche a partire da una sola lingua d'origine, dando vita a idiomi tra loro distanti come il finnico dal russo, come il turco dall'islandese. Di fronte alle solidissime evidenze da me riportate sopra, l'ipotesi dell'immobilismo linguistico è di una tale patente assurdità da meritare di essere schernita. Se almeno ne I ribelli dei 50 soli ci fosse qualcosa di grande, una creazione concettuale in grado di compensare l'assurdo scenario linguistico dell'inglese immutabile, potrei anche mitigare la severità del mio giudizio. Se devo esser franco, la lettura del libro non ha destato in me alcun senso di meraviglia. L'opera non mi pare geniale sotto nessun aspetto.

LA LEGGENDA DI BEOWULF

Titolo originale: Beowulf
Nazione: USA
Anno: 2007
Genere: fantasy
Durata: 115
Produzione: Warner Bros
Distribuzione: Warner Bros
Regia: Robert Zemeckis
Attori:
  Ray Winstone: Beowulf
  Anthony Hopkins: Re Hrothgar 
  John Malkovich: Unferth 
  Robin Wright Penn: Regina Wealtheow
  Brendan Gleeson: Wiglaf
  Crispin Glover: Grendel
  Alison Lohman: Ursula
  Charlotte Salt: Estrith 
  Chris Coppola: Olaf
  Sebastian Roché: Wulfgar
  Lesle Zemeckis: Yrsa
  Angelina Jolie: Madre di Grendel 
  Costas Mandylor: Hondshew
Doppiatori italiani:  
  Francesco Pannofino: Beowulf
  Dario Penne: Re Hrothgar
  Roberto Pedicini: Unferth
  Chiara Colizzi: Regina Wealtheow
  Emanuela Rossi: Madre di Grendel
  Roberto Draghetti: Wiglaf
  Massimo Popolizio: Grendel
  Domitilla D'Amico: Ursula
  Oreste Baldini: Hondshew
 Emanuela D'Amico: Yrsa
 Giacomo Vitullo: Olaf 
 


Note:
La storia narrata nel film è l’adattamento di un antichissimo poema epico scritto in lingua inglese arcaica, e datato intorno al VII secolo. Il nome del suo autore, o dei suoi autori, è sconosciuto. Unica certezza è che si tratti del più lungo poema epico in lingua anglosassone mai scritto.

Recensione:
Riporto questo scritto del carissimo amico 7di9: una bellissima recensione de La leggenda di Beowulf, pellicola diretta da Robert Zemeckis, su Real Dark Dream. Il testo, pubblicato a suo tempo su Esilio a Mordor, per fortuna non è andato perduto, dato che è ancora consultabile in questa pagina:


Eroe di una tribù di origine svedese e figlio di un sovrano, Beowulf è un guerriero, nel senso più puro del termine, un combattente che decide di partire per una fredda regione della Danimarca al fine di uccidere il temibile demone che la infesta. E' questa in sintesi la trama del film diretto da Robert Zemeckis, il quale ripropone, dopo Polar Express, una tipologia di cinema visivamente costruito attraverso la grafica virtuale generata al computer.
 La colonna sonora è certamente uno degli elementi maggiormente riusciti della produzione. Alan Silvestri svolge un lavoro egregio, salvifico per certi versi. Il ritmo delle melodie è sempre incalzante e ben orchestrato quando le scene di guerra o di combattimento lo richiedono. Ed è incontrovertibile quanto questo aspetto aiuti sicuramente a meglio immedesimarsi nella storia. E' dunque d’obbligo riconoscere l’effetto riparatore che la musica opera in certe scene, le quali sarebbero risultate sicuramente meno digeribili e meno fluide, oltre che maggiormente macchinose, se private del loro accompagnamento orchestrale. Non si può dire lo stesso dell’effetto prodotto dalla recitazione dei personaggi, i cui volti perlopiù immobili e le cui pupille prive di vita non fanno che spingere lo spettatore lontano da una qualunque parvenza di partecipazione, di immedesimazione con le vicende narrate. Nonostante però la tendenziale, e a tratti fastidiosa, rigidità  dei volti dei personaggi, le cui espressioni sono limitate, la tecnica tridimensionale è sicuramente di buona fattura – anche se ancora lontanissima da un’accettabile verosimiglianza in grado di sostituire, nella forma e nella sostanza, la recitazione, ma soprattutto la profondità recitativa – di attori in carne e ossa. In ogni caso, nota di merito deve essere riconosciuta per l’ambientazione, perfettamente ricostruita: il freddo, la neve e la temperatura proibitiva sono realmente percepibili. Bisogna ammettere che da questo punto di vista la regia ha svolto un ottimo lavoro, contrapponendo i colori freddi della flora danese ai toni accessi e maggiormente caldi degli abiti dei personaggi, che sembrano quasi ricoperti di fuoco e lapilli.
 L’intera storia è costantemente immersa in una densa atmosfera di mistero, lugubre, profondamente oscura, che riesce a conferire maggiore forza alle figure dei demoni che la infestano. Particolarmente coinvolgente, e ben fotografata, è la scena del primo attacco di Grendel, il mostro che Beowulf ha promesso di uccidere. Violento al punto giusto, e caricato di un’equilibrata dose di effetti sanguinolenti, il momento dell’attacco del mostro è una sapiente macchina di suspense, dove le urla della creatura si mescolano alle luci blu, spettrali, del luogo, schiacciando le parole e le grida degli abitanti impauriti e alla disperata ricerca di una via di fuga.
 Anche se accademica e sufficientemente fluida, la regia risente di un movimento di macchina troppo stereotipato, raramente arricchito da guizzi originali, che in molti tratti tende ad un tipo di ripresa vicina a quella di un moderno videogioco, con riprese che risultano poco plausibili, e per questo abbastanza inaccettabili per l’occhio dello spettatore: l’effetto fake del film è comunque diffuso più o meno in tutti gli strati della pellicola, e difficilmente viene via, contribuendo non poco ad alienare dallo schermo chi assiste alla proiezione.
 I dialoghi, funzionali, risentono dell’arcaicità  del testo originario dell’opera. Sopra le righe, la sceneggiatura potrebbe risultare irritante in certi frangenti, anche se mediata da diversi e ben dosati spunti ironici. Le esigenze da epopea sono però pienamente rispettate: l’intera storia è a tutti gli effetti un inno atto a glorificare le gesta dell’eroe Beowulf, nel bene e nel male. A parte questo, la scelta degli sceneggiatori Roger Avary e Neil Gaiman di non adattare il tono leggendario e altisonante dei dialoghi originali dell’poema ad un linguaggio filmico maggiormente fruibile è da premiare, soprattutto considerando la tendenziale piattezza –  tanto dialogica quanto sintattica – di molti degli script moderni, soprattutto quelli destinati ad un pubblico eterogeneo.
 La trama è semplice – potrebbe definirsi minimale –  ed è giocata su di un paio di nodi narrativi che vengono reiterati per ben tre volte fino alla conclusione del film. Visti i difetti evidenziati finora, è palese come un simile intreccio diegetico non possa che peggiorare la già  precaria stabilità  del film. L’effetto finale sarebbe sicuramente cambiato se sullo schermo ci fossero stati attori reali, con espressioni realmente umane. L’empatia abita altrove, ed è un vero peccato, poiché l’operazione di voler riproporre una storia tanto antica, ancestrale, nel nostro tempo è scelta da ammirare, sicuramente coraggiosa.

Considerazioni: 
Aggiungo a questo punto qualche mio breve commento. Ottima la recitazione del poema in anglosassone, verso la fine del film. Non mancano però gli anacronismi: solo per fare un esempio si cita l'Islanda, che all'epoca della stesura del poema non era ancora stata raggiunta dai coloni norvegesi. Il tentativo di inserire in un contesto storico eventi più o meno liberamente ispirati al Beowulf, genera talvolta effetti surreali, ma questo è inevitabile: si è forse mai dato un solo americano in grado di produrre un film seguendo alla lettera una fonte senza apportarvi alcuna modifica? La mia opinione sul film è in ogni caso nettamente positiva. L'unica cosa davvero inguardabile è la strega con i tacchi a spillo.

domenica 21 dicembre 2014

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: I NOMI DELLA II DECLINAZIONE IN -R

Come è ben noto, la terminazione caratteristica del nominativo singolare dei nomi latini ascritti alla II declinazione è -us. Questa uscita proviene dall'antico latino -os, che continua la terminazione indoeuropea. È anche ben noto che alcuni nomi non hanno questa uscita, e hanno una ben precisa caratteristica: la loro radice termina in -r e non mostrano alcuna desinenza al nominativo singolare. Identico discorso per gli aggettivi il cui nominativo singolare maschile ha queste caratteristiche.

Nomi con nom. sing. in -us:

asinus "asino" (gen. asini)
caseus
"formaggio" (gen. casei)
digitus "dito" (gen. digiti)
equus "cavallo"  (gen. equi)
murus "muro" (gen. muri)

Aggettivi con nom. sing. m. in -us:

albus "bianco" (f. alba, n. album)
bonus "buono" (f. bona, n. bonum)
magnus "grande" (f. magna, n. magnum)
malus "cattivo" (f. mala, n. malum)
parvus "piccolo" (f. parva, n. parvum)

Nomi dalla radice in -r con nom. sing. senza terminazione in -us:

ager "campo" (gen. agri)
gener "genero" (gen. generi)
magister
"maestro" (gen. magistri)

puer "bambino" (gen. pueri)
vir "uomo" (gen. viri)

Aggettivi dalla radice in -r con nom. sing. m. senza terminazione in -us:

macer "magro" (f. macra, n. macrum
niger "nero" (f. nigra, n. nigrum)
piger "pigro" (f. pigra, n. pigrum)
pulcher "bello" (f. pulchra, n. pulchrum)
satur "sazio" (f. satura, n. saturum)

Sono consapevole del fatto che nel mondo della scuola non è costume interrogarsi sui dettagli di quanto si apprende, ma a questa triste situazione va messa la parola fine. Per questo cercherò di riassumere in termini comprensibili le ragioni dell'aspetto delle parole qui trattate. 

Nel latino arcaico la terminazione del nominativo singolare maschile -os era usata in tutti questi casi, anche quando la radice terminava in -r. Così si elencano le seguenti protoforme, trascritte con un'ortografia più adatta:

*agros "campo"
*makros "magro"
*nigros "nero"
*pigros "pigro"
*sakros "sacro" (1)
*wiros "uomo"

(1) = SAKROS, attestato in CIL I2 1

Il passo successivo fu la caduta di -o- quando la radice terminava in -r (quando preceduta da altra consonante, la rotica in questione diventava sillabica):

*agṛs 
*makṛs 
*nigṛs
*pigṛs
*sakṛs
*wirs. 

Infine la sequenza -rs diveniva -rr e si creava una vocale di sostegno -e- dove necessario:

*agerr 
*makerr 
*nigerr
*pigerr
*sakerr
*wirr 

A questo punto si è giunti alle forme attestate.

Si noterà che la stessa assimilazione -rs- > -rr- è avvenuta nel corpo delle parole:

curro "io corro" < *kurso:
ferre
"portare" < *ferse
porrum "porro" <
*porsom
torreo
"io arrostisco" < *torseo:

In particolare, il mutamento che abbiamo visto colpire il nominativo singolare in -os compare anche nei superlativi:

pigerrimus "il più pigro" < *pigersomos < *pigrisomos
sacerrimus "il più sacro" < *sakersomos < *sakrisomos
taeterrimus "il più orribile" < *taitersomos < *taitrisomos

A scanso di equivoci, faccio subito notare che dove si ha -rs- in latino classico, questo viene dalla semplificazione di un nesso complesso:

farsus "ripieno" < *farksos
Mars
"Marte" < *Ma:worts
ursus "orso" < *urksos 
vorsus "in direzione di" < *werts(t)os < *werttos

Oppure si trova in parole che sono prestiti:

arsis "arsi, tempo forte" < greco ἄρσις
marsup(p)ium "sacco, tasca" < greco μαρσίππιον
marsus "marso" < sabellico *ma:rsies < *ma:wortios 
versus, vorsus "misura di cento piedi quadrati" < etrusco vers- "cento"
(2)

(2) Da non confondersi col quasi omofono vers(e) "fuoco", glossato uerse da Festo e attestato nel composto acnaś-vers "fuoco del possesso" (Lamine di Pyrgi), oltre che in alcuni gentilizi. Nel Liber Linteus troviamo versum spanza, che traduco con "e cento piattini", essendo a mio avviso la connessione con la parola "fuoco" incompatibile con la morfologia. Su un cippo (ET Ta 1.94) leggiamo mi versna apurval, verosimilmente "io sono l'estensione di cento unità di Apurvi" (il gentilizio è d'incerta lettura). 

Veniamo dunque a coloro che attribuiscono al latino la pronuncia ecclesiastica ab aeterno. Costoro pronunciano le parole in cui -er è preceduto dalle lettere -c- e -g- usando suoni palatali:

ager /'adʒer/ 
macer /'matʃer/

niger /'nidʒer/ 
piger /'pidʒer/

Il problema è che assurdamente pensano che fosse così già nel Paleolitico. Ora, alla luce di quanto sopra esposto, si capisce che questa è una aberrazione. La palatalizzazione è tarda, secondaria e non può in alcun modo essere proiettata indietro a tempi remoti, dato che questo andrebbe contro la stessa struttura delle parole in questione - struttura che non avrebbe avuto motivo di formarsi.

sabato 20 dicembre 2014

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: LE DECINE DA 20 A 90

In latino le decine da 20 a 90 forniscono prove dirette e molto interessanti del trattamento della consonante velare (dura) /g/ davanti a vocale anteriore /i/. Riporto i numerali in questione:

viginti
triginta
quadraginta
quinquaginta
sexaginta
septuaginta
octoginta
nonaginta 

Questa è la pronuncia classica dei numerali elencati, che ha dovunque il suono duro /g/ (la gh di ghiro):

/wi:'ginti:/
/tri:'ginta:/
/kwadra:'ginta:/
/kwinkwa:'ginta:/
/seksa:'ginta:/
/septua:'ginta:/
/okto:'ginta:/
/no:na:'ginta:/ 

Questa è una panoramica delle decine da 20 a 90 in quattro lingue romanze (italiano, antico provenzale, spagnolo e francese):

Italiano

venti
trenta
quaranta
cinquanta
sessanta
settanta
ottanta
novanta
 

Occitano (antico provenzale) 

vint
trenta
quaranta
cinquanta
seissanta
setanta
ochanta
nonanta

Spagnolo

veinte
treinta
cuarenta
cincuenta
sesenta
setenta
ochenta
noventa

Francese:

vingt
trente
quarante
cinquante 
soixante

N.B. Le decine superiori si formano in altro modo: soixante-dix, quatre-vingt, quatre-vingt-dix.

Nella pronuncia ecclesiastica del latino, i numerali in questione suonano in questo modo, con l'affricata /dʒ/ (la g di giorno):

/vi'dʒinti/
/tri'dʒinta/
/kwadra'dʒinta/
/kwinkwa'dʒinta/
/seksa'dʒinta/
/septwa'dʒinta/
/okto'dʒinta/
/nona'dʒinta/ 

Come si può ben vedere, gli esiti nelle lingue romanze sono del tutto incompatibili con la pronuncia ecclesiastica sopra riportata e puntano invece a una pronuncia del latino volgare tardo con una debole semiconsonante /j/:

/'βi:(j)inti/
/'tri:(j)inta/
/kwa'dra:(j)inta/
/kwin'kwa:(j)inta/
/se'ksa:(j)inta/
/sep'twa:(j)inta/
/ok'twa:(j)inta/

/no'na:(j)inta/ 

Le forme per 80 e 90 nelle lingue romanze considerate sono chiaramente analogiche, a parte l'occitano nonanta, e non continuano direttamente quelle latine.

Si vede che nella terminazione -aginta l'accento è retratto e che la consonante /g/ non si è palatalizzata in /dʒ/, ma in /j/ (la i di iena), per poi addirittura sparire: si è così formato un dittongo -ai-. Si vede con la massima evidenza che mentre in Italia la terminazione -áinta risultante ha dato -anta, il dittongo -ai- si è invece monottongato in -e- in Spagna, dove si è avuto lo sviluppo -enta. Il processo di usura fonetica è stato abbastanza rapido: come riportato dal Grandgent, troviamo quarranta per quadraginta in un'iscrizione forse da datarsi al V secolo (Pirson, 97).

Per quanto riguarda viginti e triginta, la prima vocale -i-, lunga in latino classico, ha subito correptio ed ha attratto l'accento. In un'iscrizione ravennate del VI secolo in caratteri greci abbiamo βειεντι (Schuchardt, Vok. II, 461). I grammatici ancora in epoca abbastanza tarda cercarono di opporsi alle abitudini fonetiche della plebe nella pronuncia dei numerali: per esempio Consenzio segnala tríginta come una falsa pronuncia. La retrazione dell'accento sorse chiaramente quando i numerali erano usati prima del sostantivo a cui si riferivano: c'era la tendenza ad allontanare il più possibile l'accento secondario da quello principale, così quadragínta hómines divenne quadráginta hómines. In ogni caso non è un mistero che anomalie fonetiche si incontrano molto spesso nei numerali.

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: I PERFETTI CONTRATTI

In latino le voci del perfetto sono formate a partire da un apposito tema verbale, usato anche per il piuccheperfetto e per il futuro anteriore. Quando il tema del perfetto termina in -v- preceduto da vocale, si presentano spesso forme contratte in tutti i tempi e i modi derivati.
Questo è il perfetto indicativo del verbo laudare "lodare":

I sing.      laudavi
II sing.     laudavisti 
III sing.    laudavit
I pl.          laudavimus
II pl.         laudavistis
III pl.        laudaverunt

Le forme contratte sono laudasti per laudavisti; laudastis per laudavistis; laudarunt per laudaverunt. Forme contratte del piuccheperfetto indicativo: laudaram per laudaveram; laudaras per laudaveras; laudarat per laudaverat, etc. Forme contratte del piuccheperfetto congiuntivo: laudassem per laudavissem; laudasses per laudavisses; laudasset per laudavisset, etc. Futuro anteriore: laudaro per laudavero; laudaris per laudaveris; laudarit per laudaverit, etc. Perfetto congiuntivo: laudarim per laudaverim, etc. Così l'infinito perfetto attivo può essere laudasse anziché laudavisse

Allo stesso modo si comporta il verbo noscere "venire a sapere", il cui perfetto ha valore di presente indicativo:

I sing.     novi
II sing.    novisti
III sing.   novit
I pl.         novimus
II pl.        novistis
III pl.       noverunt

Le forme contratte sono nosti per novisti; nostis per novistis; norunt per noverunt. Forme contratte del piuccheperfetto indicativo: noram per noveram; noras per noveras; norat per noverat, etc. Forme contratte del piuccheperfetto congiuntivo: nossem per novissem; nosses per novisses; nosset per novisset, etc. Futuro anteriore: noro per novero; noris per noveris; norit per noverit, etc. Perfetto congiuntivo: norim per noverim, etc. Così l'infinito perfetto attivo può essere nosse anziché novisse

A questo punto i soliti fautori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno, che proiettano pronunce moderne all'infinito fin nel Paleolitico, dovrebbero spiegare la causa di tutte queste forme contratte. Ovviamente non possono produrre che balbettamenti.

Per fissare le idee, se amavisti fosse stato pronunciato /ama'visti/ fin dall'inizio, con tale accento e con tale suono intervocalico, non sarebbe potuta sorgere nessuna contrazione. Invece si spiega tutto molto facilmente ammettendo la pronuncia originale /a'ma:wisti:/, con accento sulla terzultima sillaba, donde si sarebbe perso il suono /w/, dando origine ad /a'ma:isti:/, e quindi ad /a'ma:sti:/. A questo punto sarebbe scattato lo spostamento dell'accento nella forma non contratta, portando ad /ama:'wisti:/

Tutto è molto semplice. In realtà, nella lingua latina volgare sono attestate anche altre forme contratte che non si trovano nel sermo nobilis. Così Grandgent ci riporta il caso di un'iscrizione di Pompei in cui si trova triumphaut per triumphavit (Densusianu, I, 152). Tale uscita -aut per -avit è l'esatto predecessore dell'italiano . Anche le forme italiane come amai e amammo presuppongono contrazioni con dileguo dell'antica /w/, e di questo fenomeno abbiamo diretta testimonianza. Probo cita calcai per calcavi; probai per probavi; edificai per aedificavi (Schuchardt, Vok., II, 476). In Gregorio di Tours abbiamo caelebramus per celebravimus; memoramus per memoravimusvocitamus per vocitavimus (Bon., 440). Le evidenze storiche mostrano che la pronuncia ecclesiastica è posticcia e ricostruita in modo artificioso molto tempo dopo la fine del latino classico, attribuendo al latino una pronuncia romanza.

domenica 14 dicembre 2014

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: UNA FALSA ETIMOLOGIA DI CAESAR

Sull'etimologia del cognomen Caesar se ne son dette di tutti i colori, e questo già dall'antichità.

C'è chi voleva l'originario Caesar chiamato così perche nato da parto cesareo - e quindi il cognomen sarebbe derivato da caedere "tagliare", caesus "tagliato" (a caeso matris utero). Il suffisso -ar rimarrebbe però del tutto inspiegabile.

Altri invece proponevano come origine la parola dotta caesaries "chioma" (che trova una perfetto parallelismo nel sanscrito kesara- id.). Il fatto che Giulio Cesare fosse calvo non è d'ostacolo: come tutti sanno i cognomina erano ereditari.

Altra possibilità è il termine caesius "azzurro", con riferimento al colore degli occhi (a caesiis oculis). Anche in questo caso il suffisso -ar sarebbe inspiegabile. La parola, priva di etimologia indoerupea, è da ricondursi all'etrusco, dove è abbondantemente testimoniata dall'onomastica: Ceisna, Caisie, etc.

Come fa notare l'ottimo prof. Giulio Facchetti, l'origine più probabile di Caesar è dal nome etrusco di Cere, che suonava Caisri-, Ceisri-, Ceizra, Χaire-, Χe(i)ri- in lingua etrusca (in latino è Caere, indecl.). Se la forma Χeiritna (Χeritna), attestata come gentilizio, è più recente e continua nel latino Caeretanus, la forma più antica derivata dal nome di Cere è caisri-va-. Caesar significherebbe quindi "uomo di Cere". Le occorrenze etrusche di Cere erano già state individuate a suo tempo da Massimo Pallottino. Mi sento di difendere questa tesi del legame tra il cognomen Caesar e la città di Cere, che ha una sua logica e renderebbe conto anche della terminazione in -ar.

Esiste però un'altra etimologia possibile, per quanto inverosimile, che fu usata dallo stesso Giulio Cesare a scopi propagandistici e che ci interessa particolarmente per le sue implicazioni fonetiche. Per aumentare l'impressione di possanza, lo stesso Giulio Cesare sostenne che Caesar derivasse dalla parola usata dai Cartaginesi e dai Mauri per indicare l'elefante. Il primo denarius da lui coniato mostra la scritta CAESAR sopra la figura di un elefante.

L'interpretazione più verosimile di una simile derivazione si otterrebbe ammettendo che il primo a essere soprannominato Caesar avesse ucciso un elefante in battaglia. Il termine in questione, non semitico e di origine sconosciuta, ci è noto nella forma kaisar come glossa di Servio ed è attestato in alcune iscrizioni puniche (kysr). Aveva il suono velare iniziale - anzi, probabilmente addirittura uvulare come /q/ in arabo - visto che l'originaria /k/ è spesso trascritta in neopunico con ch in caratteri romani e con χ in caratteri greci. Se per assurdo Caesar avesse avuto all'epoca una pronuncia palatale, com'è insipiente e stoltissima opinione di qualcuno, non sarebbe mai stata proposta una paretimologia punica dell'antroponimo.

Notiamo infine che l'originario termine cananeo usato dai Fenici per indicare l'elefante doveva essere *fil /fi:l/ (cfr. arabo fīl, ebr. pīl). È possibile che kaisar fosse una parola dei Mauri presa a prestito dai Cartaginesi o indicante un particolare elefante (forse l'elefante africano in opposizione a quello asiatico usato dall'esercito?). Qual è l'origine di ultima di kaisar? Non è facile dare una risposta, ma non risulta che esista nulla di simile nelle lingue berbere documentate. 

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: LA CONFUSIONE SISTEMATICA TRA GOTI E GETI

Tale fu l'assonanza tra il nome dei Goti (Gothi) e quello dei Geti (Getae), che i due etnonimi si trovano spesso come interscambiabili in fonti tarde come ad esempio Iordanes (VI secolo). Questi, che era di origine gotica, aveva un fratello che viveva in contatto con i Goti. Eppure tale era la sua venerazione acritica degli autori classici che non soltanto scambiava spesso Gothi con Getae, ma addirittura confondeva le storie dei due popoli, mescolando tra loro cose che nulla hanno a che vedere. Com'è dunque possibile che un simile scambio avvenisse? Semplice: all'epoca di Iordanes doveva ancora sussistere una pronuncia dotta del latino in cui la consonante era velare in entrambi i casi, o almeno la g- di Getae non si era ridotta a /j/ come nella lingua comune - o a /dʒ/ come negli sviluppi italiani - e aveva al massimo un suono prepalatale /gj/ che poteva conservare una somiglianza con /g/.

Inutile dire che l'etnonimo Getae non ha alcunché in comune con i Goti: si tratta di una falsa etimologia. I Geti erano affini ai Daci, parlavano una lingua di gruppo satem e non kentum, che presentava molte isoglosse con l'albanese, ma anche con lo slavo e con le lingue baltiche. Nessun germano avrebbe compreso i discorsi di un geta. Esiste la concreta possibilità che la lingua albanese non derivi da una lingua dell'Illiria e che la sua attuale sede geografica sia piuttosto il risultato di una migrazione di Daci in epoca tarda. L'interesse di alcuni romani colti nei confronti della lingua dei Geti dovette sussistere: sappiamo che Ovidio, in esilio a Tomis (attuale Costanza, Romania), per ingannare la noia apprese l'idioma getico e compose anche in esso un carme, disgraziatamente andato perduto, o fagocitato dall'immane ventre di qualche biblioteca vaticana in attesa di essere vomitato come Pinocchio dal Terribile Pescecane.

domenica 7 dicembre 2014

SULLA DIVERSITÀ DEI GRUPPI UMANI NELLA COMUNE MISERIA

Fino a ieri dominava la tesi dell'origine unica e monolitica del genere umano. Chiunque osasse sfidare l'idea dell'assoluta identità genetica di tutti i tipi umani era fatto oggetto di discriminazione e veniva marginalizzato. Oggi la Scienza è in grado di fornirci con grande dettaglio la composizione del genoma di ogni tipo umano vivente su questo pianeta, tracciandone la complessa storia di incroci con altre specie umane, diverse da Homo sapiens. Si è così scoperto che gli Europei hanno fino al 2% circa di corredo neanderthaliano (Homo neanderthalensis). Nelle popolazioni asiatiche la percentuale è lievemente superiore. Gli aborigeni australiani oltre a questo apporto neanderthaliano, hanno anche il 4% circa di corredo denisovano (Homo denisoviensis, nome ufficiale non ancora fissato). Nei Papua e in altre genti della Melanesia il corredo denisovano è addirittura maggiore, fino al 6%. Il corredo denisovano si trova in percentuali minori, circa l'1%, anche nelle genti amerindiane e in quelle asiatiche, come i cinesi e i tibetani. I Denisovani, che abitavano in Siberia, erano immuni al mal d'altitudine e potevano consumare carne marcia senza nocumento. Le loro costumanze necrofaghe si ritrovano intatte tra i Papua, che sono endocannibali, fanno marcire i cadaveri dei loro cari e ne mangiano ritualmente le carni assieme ai cagnotti. Il gene che permette di non soffrire a causa della quota elevata si è conservato molto bene nell'attuale popolazione tibetana. Le genti dell'Africa Subsahariana sono rimaste immuni da ogni contatto con l'uomo di Neanderthal e con quello di Denisova, ma non rappresentano in alcun modo il tipo originario di Homo sapiens prima degli incroci con popolazioni neanderthaliane e denisovane: portano infatti in sé il corredo di un tipo di ominide ben più arcaico e distante da tutto ciò che conosciamo per esperienza diretta, con ogni probabilità una varietà di Homo erectus separato da noi da ben 700.000 anni di storia. Da quanto sinteticamente esposto, ne consegue che gli esseri umani non sono tutti uguali. Hanno in sé componenti di origine diversa, quindi sono tra loro diversi. Si spera che queste conoscenze, che sono dati di fatto ben documentati, fondati su studi reperibili nel Web e riportati anche dai quotidiani on line, colpiscano come un maglio le idiozie politically correct e le riducano in polvere! Ai soliti fautori dell'insipiente buonismo che tireranno fuori la paroletta magica "razzismo" per imporre il silenzio, obietto con forza che la diversità dei popoli è un patrimonio da tutelare, e che non saranno certo le baggianate dei radical shit e dei politicanti a impedirci la conoscenza delle nostre origini! 

A questo punto allego un po' di documentazione, e si badi bene che non è tratta da siti di complottismo. Non sarà difficile al navigatore approfondire questi argomenti e studiare su testi scientifici immuni dalla contaminazione della politica.  

"Modern African population were found to contain genetics from a now extinct archaic species that split away from the ancestors of all anatomically modern humans over 700,000 years ago"

Michael F. Hammer et al. (27 July 2011) "Genetic evidence for archaic admixture in Africa". PNAS 














sabato 6 dicembre 2014


TABÙ - GOHATTO 

Titolo originale: Gohatto 
Regia: Nagisa Oshima
Produzione: GB/Jap/Fra
Anno: 1999
Genere: Drammatico
Durata: 100'


Interpreti:
 Takeshi Kitano: Capitano Toshizo Hijikata
 Tadanobu Asano: Samurai Hyozo Tashiro
 Shinji Takeda: Tenente Souji Okita
 Ryuhei Matsuda: Samurai Sozaburo Kano
 Yoichi Sai: Comandante Isamu Kondo
 Koji Matoba: Samurai Heibei Sugano
 Tomoro Taguchi: Samurai Tojiro Yuzawa
 Jiro Sakagami: Tenente Genzaburo Inoue
  Masa Tommies: Ispettore Jo Yamazaki
 Masato Ibu: Agente Koshitaro Ito
 Zakoba Katsura: Wachigaya
 Kei Sato: Narratore

Doppiatori italiani: 
 Mattia Sbragia: Capitano Toshizo Hijikata
 Simone Crisari: Samurai Sozaburo Kano
 Oreste Baldini: Tenente Souji Okita
 Roberto Draghetti: Samurai Hyozo Tashiro
 Massimo Corvo: Comandante Isamu Kondo
 Pino Ammendola: Tenente Genzaburo Inoue
 Mario Bombardieri: Samurai Heibei Sugano
 Stefano De Sando: Ispettore Jo Yamazaki
 Alvise Battain: Agente Koshitaro Ito
 Massimo Lodolo: Samurai Tojiro Yuzawa
 Saverio Indrio: narratore

Sceneggiatura: Nagisa Oshima
Fotografia: Toyomichi Kurita
Scenografia: Yoshinobu Nishioka
Montaggio: Tomoyo Oshima
Costumi: Emi Wada
Musiche: Ryuichi Sakamoto

Il carissimo 7di9 scrisse una splendida recensione, già pubblicata a suo tempo sul blog Esilio a Mordor e da lungo tempo scomparsa dal Web. Per contrastare l'Oblio che assedia e sommerge ogni cosa, la ripropongo senz'altro in questa sede:    

La decadenza serpeggiante nell’ambiente dello shogunato viene accelerata dall’arrivo di Kano, giovane samurai dai tratti femminei, arruolatosi alla corte dello shogun locale per il solo gusto di uccidere. Il dubbio che tutte le concessioni fatte a Kano siano frutto di un’attrazione generale provata nei suoi confronti non è mai enunciato, ma solo sussurrato, spesso con ironia, soprattutto attraverso le didascalie che sottolineano i passaggi della storia. Per tutta la durata del film si assiste a una contrapposizione continua tra l’austerità e la quasi perfezione formale degli ambienti e delle consuetudini, delle regole samurai e delle gerarchie, e il veleno biologico che incrina la patina appariscente ma vuota della superficie visibile. Il personaggio di Kano è una figura malefica, porta in sé i germi dell’apocalisse, giunge tra i puri per corromperli, motivato solo dal desiderio di vederli perire ai suoi piedi, come navigatori alla corte di una sirena. Kano assomiglia al male assoluto, perché chiunque lo sfiora, con lo sguardo, con le dita, ne è attratto, rapito, condannato. Il tema dell’omosessualità non è certamente primario nell’economia della pellicola, costituendosi piuttosto come metafora di qualcos’altro: la Bellezza, questa forza ammaliante dinanzi alla quale nemmeno il più valoroso dei guerrieri riesce a resistere. Dinanzi alla caduta dei samurai, consumata al di fuori di un sistema bellico rigido quanto fragile, il regista racconta la lenta disgregazione del regime dello shogunato di fronte all’avanzata meccanica dell’Occidente e delle forze aliene che vengono dal mare. Kano è anche un fantasma, lo spettro di carne di quell’Occidente temuto ma ammaliante, che porta in sé il germe della distruzione. Il capitano Hijikata, interpretato da un perfetto Takeshi Kitano, si muove sulla scena con fluidità, sospeso tra il proprio ruolo diegetico e la funzione di narratore. Con abilità, il regista Nagisa Oshima, decostruisce la struttura dei dialoghi e delle situazioni, così come lo spettatore lo recepisce, ora affidando il compito disvelatore ai pensieri di Hijikata, ora concentrando la potenza del messaggio nella splendida scena finale: il taglio di un ciliegio in fiore, quale sfogo di un sistema morale che non riesce più – ma è stato mai realmente in grado di farlo? – ad affrontare e abbattere le tentazioni della carne e del degrado dei costumi. 
 
Considerazioni: 
Aggiungo all'intervento di 7di9 alcune note, soprattutto di carattere antropologico.

Un sostrato cristiano

A un certo punto si nota un piccolo santuario buddhista, una sorta di edicola con una svastica. Lo Shogunato Tokugawa ha cercato di promuovere il Buddhismo con ogni mezzo per contrastare il Cristianesimo, che continuava ad essere praticato in segreto nonostante le misure repressive draconiane. Fu proprio l'inquisitore anticristiano Inoue Masashige (1585 - 1661), un omonimo dell'Inoue del film di Oshima, a ordinare l'edificazione di moltissimi templi buddhisti a Nagasaki e nelle aree vicine.

La penisola di Shimabara, descritta come pullulante di bordelli all'epoca della narrazione, era stata teatro di una ribellione cristiana, soffocata nel sangue dagli eserciti dello Shogunato, non senza ingenti perdite. Per scongiurare il riaccendersi delle braci della dissidenza religiosa, da allora in quel luogo sono state deportate popolazioni da ogni parte del Giappone.

La presenza di idee cristiane emerge in tutto il film. Ad esempio quando a Hijikata, capitano della milizia Shinsengumi, viene chiesto di desistere dalla persecuzione del clan Igo e gli viene ricordato che un samurai deve soprattutto essere misericordioso. Il punto è che questo concetto di misericordia è cristiano e del tutto estraneo alla tradizione nipponica.

Le ferree regole della milizia Shinsengumi sono volte ad evitare la corruzione. Così è fatto divieto ad ogni suo membro di dare o di ricevere denaro in prestito. La corruzione nell'antico Giappone era qualcosa di inconcepibile e di terrorizzante, perché vanificava il culto dell'onore. Il primo caso che emerse, destando un immenso scandalo, risale agli inizi del XVII secolo e fu subito notato che i soggetti coinvolti erano cristiani. Questo fece sì che la nuova religione, che già aveva moltissimi proseliti, fosse vista dalle autorità come un pericolo esistenziale per la stessa Nazione.   

I dialetti

Un agente del clan Igo viene identificato dal modo in cui parla, dal suo dialetto, a dimostrazione del fatto che esisteva una certa varietà linguistica, anche se la comprensione non era comunque pregiudicata. Molto probabilmente la differenza consisteva soprattutto nella collocazione e nella qualità degli accenti, più che non nell'uso di parole particolari.

Uno strano gioco di parole

Il vecchio Inoue racconta una storiella buffa a Kano, sperando di ottenere da lui sesso orale. Così comincia a parlare di ricordi d'infanzia e di un suo omonimo vissuto a quei tempi, Inoue, soprannominato Patata-uè perché era un appassionato coltivatore dei succulenti tuberi. In giapponese è tutto chiaro: il gioco di parole è tra Inoue e Imoue, dove imo significa "patata". I traduttori in italiano non hanno potuto mantenere la forma Imoue, che sarebbe risultata incomprensibile, così hanno pensato bene di renderla in qualche modo con un ridicolo Patata-uè.

Un'epidemia di effeminatezza

Il giovane Kano, concupito più o meno segretamente da tutti, si concede a un ufficiale e viene mostrato l'atto sodomitico. L'amante focoso penetra il giovane da tergo, gemendo di godimento mentre gli scarica lo sperma nell'intestino. Senza dubbio per questo motivo il film di Oshima è stato considerato problematico. 7di9 non ritiene l'omosessualità il fulcro della narrazione. Eppure le labbra carnose di Kano sono inquadrate di continuo, con estrema malizia, suggerendo un loro uso sessuale.

Sull'ufficiale pederasta che sodomizza Kano vengono fatte alcune considerazioni bizzarre: si dice che è tale perché proviene da un distretto isolato. Semplice: la religione cristiana non vi era mai penetrata. In epoca precedente alla cristianizzazione, sembra che la pederastia fosse ben considerata. Ad esempio Tokugawa Ieyasu aveva un harem di ragazzi effeminati e travestiti da geisha.

Un brago di gran lunga più turpe

Il capitano Okita, un samurai giovane come Kano, ambiguo e alla fine artefice della sua rovina tramite tradimento, lo fa eliminare proprio per via dell'omosessualità passiva. Tuttavia lui sguazza in un brago di gran lunga più turpe: quello della pedofilia. Quando va al fiume, ci sono alcuni bambini piccoli che pescano per lui. Si ha l'impressione che il suo interesse non fosse tanto per il pesce, quanto per i bambini. Simili abusi dovevano esistere e forse erano comuni.  

Il samurai, la sodomia e il ciliegio reciso

Hijikata, appresa l'uccisione di Kano, estrae la katana e recide con un colpo secco un bel ciliegio fiorito, restando poi immobile a meditare nella notte sulla giovane vita appena stroncata. Il film si conclude con questa immagine carica di significati occulti, di fatto un geroglifico della Morte dell'Essere. L'albero reciso rappresenta il samurai effeminato, che Hijikata considerava contaminato dal Male. Quello a cui assistiamo non è un semplice passaggio della morale cristiana nel pensiero giapponese. Il concetto cristiano di peccato viene ad assimilarsi a quello giapponese di kegare "colpa ontologica". Il peccatore non è tale per libero arbitrio e il peccato non viene a dipendere dalla volontà di chi ne è colpito. In questo modo, quando tra le genti di Nagasaki l'omosessualità è diventata peccato, è stata intesa come kegare. Proprio come l'essere colpiti dal fulmine, dalla miasi o dalla lebbra, tutte condizioni di impurità. 
   
Una sequenza memorabile

L'esecuzione di un militare della Shinsengumi ad opera di Kano, che senza esitare gli taglia la testa con la katana, facendo scaturire getti di sangue dal collo reciso.