sabato 30 aprile 2016

GIULIO CESARE A CENA DA VALERIO LEONE: MEMI E SINGOLARI CONTRADDIZIONI

Leggendo la Storia di Milano di Pietro Verri, mi sono imbattuto in un brano in cui è ricordato un episodio bizzarro occorso a Caio Giulio Cesare mentre si trovava a Milano. Questo è quanto riporta l'illuminista meneghino: 

Pompeo, Crasso, Cesare furono in Milano. Cenando quest'ultimo in Milano da Valerio Leone, osservò che gli eleganti Romani erano offesi in vista d'una mensa rustica e senza atticismo, e già cominciavano a deridere l'albergatore, il quale ne provava confusione; ma Cesare giocondamente prese a mangiare quelle rozze vivande, e seriamente rivolto a' Romani fece loro la questione, se fosse più rozzo e barbaro chi ospitalmente presentava i cibi alla foggia del suo paese, ovvero chi insultava l'albergatore.  

Plutarco, nelle Vite Parallele, ci riporta questo:

A dimostrare quanto poco esigente fosse in tema di cibo, si cita di solito questo episodio: un suo ospite, presso cui mangiava a Milano, Valerio Leone, mise in tavola degli asparagi conditi con mirra, anziché con olio. Cesare li mangiò tranquillamente e rimbrottò i suoi amici che si sentivano offesi. “Bastava, disse, che coloro a cui non piacevano non se ne servissero. Chi si lamenta di una zoticaggine come questa, è uno zotico anche lui”.

Questo è il testo greco originale: 

τῆς δὲ περὶ τὴν δίαιταν εὐκολίας κκεῖνο ποιοῦνται σημεῖον, ὅτι τoῦ δειπνίζοντος αὐτὸν ἐν Μεδιολάνῳ ξένου Οὐαλερίου Λέοντος παραθέντος σπάραγον, κα μύρον ντ'λαίου καταχέανtος, ατς μν φελῶς ἔφαγε, τος δ φίλοις δυσχεραίνουσιν πέπληξεν· «ἤρκει γὰρ" φη "τ μ χρῆσθαι τος παρέσκουσιν· ὁ δ τν τοιαύτην γροικίαν ἐξελέγχων ατς ἐστιν ἄγροικος».

Questa è la traduzione latina ad opera di Isaac Casaubon, citata in calce nella stessa opera di Verri (l'introduzione è omessa): 

invitatus Mediolani ad coenam, hospite Valerio Leone, qui asparagum apposuerat, atque olei loco infuderat unguentum, ipse simpliciter comedit, et indignantes increpavit amicos. Satis enim, inquit, abstinere iis a quibus abhorrebatis: nunc eam rusticitatem qui deprehendit, ipse est rusticus.

Non ho trovato menzione dell'episodio nell'opera di Svetonio.

De gustibus non disputandum est

Secondo Wikipedia, sarebbe stato Plutarco (che scrisse in greco!) ad attribuire a Cesare il detto "de gustibus non disputandum est" in occasione della portata con i fatidici asparagi. Tuttavia, in Plutarco non si trova menzione nemmeno di un'equivalente frase in lingua ellenica.

"Secondo Plutarco la frase de gustibus non disputandum est fu pronunciata da Giulio Cesare davanti a un piatto di asparagi al burro serviti nella casa Milanese di Valerio Leone. Ai generali Romani la pietanza non piacque affatto; i Romani infatti erano abituati all'olio e il burro era considerato un alimento "barbaro". Allora Cesare, di fronte all'imbarazzante situazione, placò gli animi con la soprascritta frase."

Ma proprio sopra si dice:

De gustibus non est disputandum[1][2] – talvolta reso anche con De gustibus non disputandum est oppure De gustibus et coloribus non est disputandum, o anche nella forma abbreviata De gustibus non disputandum – è una locuzione latina molto diffusa di origine non classica.

[1][2] Le due note che compaiono nel testo di Wikipedia rimandano al sito www.taccuinistorici.it, che non cita le fonti del detto attribuito abusivamente a Cesare. A quanto pare è un sito con attendibilità prossima a quella dei fumetti di Paperinik.

Le due cose non combinano! O la frase è di Cesare - e in tal caso è classica - oppure è apocrifa - e in tal caso è non classica. Non può essere entrambe le cose. I wikipediani che hanno composto la pagina devono aver avuto le idee confuse.

Il punto è che la frase non è classica e non fu detta da Cesare. Inoltre, a pensarci bene, non avrebbe avuto alcun potere calmante e risolutore in occasione di un banchetto compromesso dalla mancanza di educazione degli ospiti. Sarebbe come se qualcuno dicesse all'albergatore: "Quello che ci hai servito è oggettivamente merda, ma sui gusti non si discute"

Burro e mirra

Plutarco parla di mirra o comunque di un olio profumato, non di burro. In lingua greca, la parola che il Casaubon traduce con unguentum e che il Verri interpreta con "burro" è μύρον. La traduzione dello studioso calvinista è senza dubbio ineccepibile: μύρον significa, oltre che "mirra", anche "olio profumato" o "unguento". Non indica però mai il burro, che in greco è chiamato βούτυρον. Plutarco non avrebbe mai confuso i due concetti. Il fatto che a Roma il burro fosse usato come unguento e cosmetico non implica che unguentum debba necessariamente indicare il burro.

Proliferazione memetica

La prima volta che mi sono imbattuto nella storia di Cesare e di Valerio Leone è stato quando ero un giovincello. Leggendo la Settimana Enigmistica, sono rimasto colpito da un breve aneddoto (credo che fosse nella sezione "Forse non tutti sanno che"), che però parlava di uova al burro anziché all'olio. Cesare avrebbe fatto onore a una portata di uova fritte col burro, che avevano fatto storcere il naso ai suoi commilitoni. Degli asparagi non si faceva menzione. Dai fatti asciutti e stringati esposti da Plutarco sono pullulate innumerevoli varianti ed estensioni. In un forum la cena da Valerio Leone (ribattezzato Leonte o Leonzio perché fa più figo) si trasforma addirittura in uno sketch comico, in cui Giulio Cesare e il suo ospite sono ridotti a macchiette. Il condottiero romano, ridotto a guitto, prende in disparte il suo ospite chiedendogli informazioni sulla natura di quel "maleodorante unguento", sentendosi rispondere che è prodotto col latte delle floride vacche cisalpine.

La Storia si usura e si arrugginisce

Ogni cosa sembra perdere i suoi contorni e scolorare nell'irrealtà, a causa del flagello del contagio memetico. Come prioni della mente, i memi inquinano ogni cosa, fanno sì che la Storia perda di sostanza fino a ridursi a qualcosa di sfocato, di estemamente confuso. Alla fine diventa davvero difficile stabilire cosa davvero è accaduto. Tuttavia, per quanto sia arduo districarsi in mezzo a queste rovine in disgregazione, grazie alla Logica e al duro impegno è ancora possibile impedire che tutto si perda nel rumore di fondo.  

La necessità del Connettivismo

Di fronte a questa incertezza intrinseca delle informazioni - e non soltanto di quelle reperibili nel Web - reputo necessaria l'istituzione di una nuova figura nel mondo scientifico, quella del Connettivista. Proprio come il joat di cui parlava Philip José Farmer nel suo romanzo di fantascienza Gli Amanti di Siddo, il Connettivista deve assumersi il compito di far parlare tra loro mondi che hanno perso la capacità di comunicare. Confrontando le informazioni e sottoponendole a un attento vaglio, farà emergere criticità e confuterà errori anche inveterati. Combattere fraintendimenti e falsità tramite il flusso di informazioni è un dovere. Solo in questo modo si potrà impedire il tracollo della Scienza, visto che l'Accademia è sempre più minacciata dalla cecità e si divide ormai in tronconi autoreferenziali.

venerdì 29 aprile 2016

IL PANETTONE: ORIGINE ED ETIMOLOGIA


Quando si indaga sull'origine di uno dei simboli di Milano, il panettone (in meneghino panatton /pana'tun/), ecco che ci si imbatte in narrazioni leggendarie quanto inverosimili.

Il "Pan del Toni"

La più comune è all'origine di una falsa etimologia, che vuole il panettone derivato da Pan de(l) Toni, dal nome del fornaio che l'avrebbe inventato.
Questo è quanto riportato da Wikipedia (29/04/2016):

Il cuoco al servizio di Ludovico il Moro fu incaricato di preparare un sontuoso pranzo di Natale a cui erano stati invitati molti nobili del circondario, ma il dolce, dimenticato nel forno, quasi si carbonizzò. Vista la disperazione del cuoco, Toni, un piccolo sguattero, propose una soluzione: «Con quanto è rimasto in dispensa – un po' di farina, burro, uova, della scorza di cedro e qualche uvetta – stamane ho cucinato questo dolce. Se non avete altro, potete portarlo in tavola». Il cuoco acconsentì e, tremante, si mise dietro una tenda a spiare la reazione degli ospiti. Tutti furono entusiasti e al duca, che voleva conoscere il nome di quella prelibatezza, il cuoco rivelò il segreto: «L'è 'l pan del Toni». Da allora è il "pane di Toni", ossia il "panettone".

La storiella apocrifa del "Pan del Toni" è confutata dalla costumanza medievale e rinascimentale di servire i dolci cotti al forno come antipasto. Così in narrazioni più estese di quella riportata da Wikipedia si descrive il cuoco in ansia perché dopo un banchetto tanto sontuoso gli ospiti si aspettavano un dolce altrettanto eccezionale. Lo sconosciuto inventore di tale favola ha semplicemente proiettato nel passato l'uso a tutti noi ben noto, e ritenuto inveterato, di servire i dolci unicamente a fine pasto.

Questo racconta invece Pietro Verri nella sua Storia di Milano, descrivendo un lauto banchetto svoltosi nel 1524:  

Lavate  prima  le  mani  con  acqua  nanfa,  posto  in  tavola primamente focaccine fatte col zuccaro et acqua rosata, e marzapani et offellette e pane biscotto; lo scalco portò poi fegati arrostiti di capponi, galline, et anitre, aspersi con sugo di aranci, e lattelli di vitello,  e  cotornici  e  tortore molto grasse, arrostite nello spiedo;  terzo,  furono  portati  pavoni  e conigli arrosto, e varii piattelli di carne di manzo trita, condita con zenzevero, canelle e garofani; da poi capponi  e  lonze  di  vitello  a  rosto,  con  piattelli  di  carne di  caprioli, con uva in aceto composta. Poi petti di vitello, capponi a lesso, con tortellette di formaggio e cinamomo, coperte con bianco mangiare, ovvero sapore composto con mandorle, zucchero e sugo di limone;  poco da poi teste di vitello condite con passule e pignoli, e gran pezzi di carne di manzo, con senape e ulive; da poi  colombi, anatre, lepretti acconci con pere, limoni e aceto. D'indi a poco furono portati porcelletti arrosto intieri, coperti di salsa verde; poco appresso papari grassi, cotti con cipolle e pepe; dopo lo scalco fece portare i latticini e fritelle fatte a modo tedesco; e cose fatte di cacio di molte sorti. Ultimamente si posero mirabolani, citrini, kebuli, e corteccie di cedro e zucche confettate. Ho tralasciato il pane bianco come neve, e vini bianchi e rossi, al nettare o all'ambrosia non cedenti, di che i Tedeschi maravigliosamente se ne godevano e con grande stupore. V'erano molti cantori e suonatori di varie sorti con trombe e tamburi, che rallegrarono molto i convitati, nel qual  mangiarono  certamente  più  di  trecento  uomini.

Come si vede, nel banchetto citato - che è piuttosto tipico - a inizio pasto sono stati serviti marzapane, pandolci e biscotti, mentre a fine pasto comparivano agrumi canditi e zucche confettate. Non si può dire vi fosse un'associazione biunivoca tra la fine del pasto e i dolciumi.

Il dolce a fine pasto e una locuzione pseudolatina 

Esiste anche un'altra cantonata legata all'ingannevole certezza dell'eternità del costume del dolce a fine pasto. La tipica espressione dulcis in fundo non è latina, con buona pace di quanti lo credono. È semplicemente latino maccheronico. Intanto, il vocabolo latino per indicare il dolce (sostantivo) sarebbe un neutro, dulce, anche se nell'antica Roma il concetto sarebbe stato espresso diversamente, ad esempio con lucunculus. Notiamo poi che fundus indica soprattutto un campo, un podere. Nessun parlante latino avrebbe detto "in fundo" per significare "alla fine". Così "dulcis in fundo" è una frase latina perfettamente accettabile solo se la si traduce con "la persona dolce nel podere", che a conti fatti non significa assolutamente nulla.

Un'altra storiella apocrifa

Una diversa origine del mito del Pan del Toni è riportata da Wikipedia (29/04/2016):

Messer Ulivo degli Atellani, falconiere, abitava nella Contrada delle Grazie a Milano. Innamorato di Algisa, bellissima figlia di un fornaio, si fece assumere dal padre di lei come garzone e, per incrementare le vendite, provò a inventare un dolce: con la migliore farina del mulino impastò uova, burro, miele e uva sultanina. Poi infornò. Fu un successo strabiliante, tutti vollero assaggiare il nuovo pane e qualche tempo dopo i due giovani innamorati si sposarono e vissero felici e contenti.

Ha tutta l'aria di una fiaba tipo Cenerentola o Biancaneve, ancor meno credibile della leggenda del banchetto di Ludovico il Moro.

Il "pane di tono"

Sembra decisamente più plausibile la descrizone attribuita da Wikipedia a Pietro Verri (29/04/2016):

Pietro Verri narra di un'antica consuetudine che nel IX secolo animava le feste cristiane legate al territorio milanese: a Natale la famiglia intera si riuniva intorno al focolare attendendo che il pater familias spezzasse "un pane grande" e ne porgesse un pezzo a tutti i presenti in segno di comunione. Nel XV secolo, come ordinato dagli antichi statuti delle corporazioni, ai fornai che nelle botteghe di Milano impastavano il pane dei poveri (pane di miglio, detto pan de mej) era vietato produrre il pane dei ricchi e dei nobili (pane bianco, detto micca). Con un'unica eccezione: il giorno di Natale, quando aristocratici e plebei potevano consumare lo stesso pane, regalato dai fornai ai loro clienti. Era il pan di scior o pan de ton, ovvero il pane di lusso, di puro frumento, farcito con burro, miele e zibibbo.

Va detto che foneticamente il passaggio da pan de ton /pan de 'tɔn/ a /pana'tun/ è impossibile proprio come l'origine dal summenzionato Pan del Toni: una -o- aperta /ɔ/ non può evolvere in una vocale chiusa /u/. Si tratta chiaramente di una paretimologia, anche se più dotta rispetto a quella suggerita dalla leggenda del fornaretto milanese.

Un inaspettato pacchetto memetico

Un problema non indifferente è che non sono riuscito a trovare menzione nell'opera del Verri di quanto riportato in Wikipedia. Non ho cercato in tutta la sua produzione, è chiaro. Mi sono limitato alla Storia di Milano, sia perché in altri siti la storia del "pane di tono" è attribuita in modo esplicito a tale opera, sia perché difficilmente il Verri avrebbe potuto parlare del panettone nel suo Dei delitti e delle pene o nei suoi scritti di economia. Questo è un link che permette lo scaricamento e la consultazione della Storia di Milano, opera non coperta da diritti d'autore.   


Questo è l'unico brano che ho trovato sulla preparazione del pane nella città lombarda in riferimento all'uso della farina di puro frumento:

Generalmente si mangiava in Milano pane di mistura; e l'anno 1355 vi era in tutta la città un forno solo che fabbricasse il pane bianco di puro frumento; pane che allora era di lusso; e questo forno privilegiato chiamavasi il prestino dei Rosti, ed era vicino  alla  piazza  dei  Mercanti.

Altrove si dice che a Milano nel 1288 esistevano ben quattrocento fornai che cuocevano il pane e mille taverne per la vendita del vino. Se il pane di puro frumento era una tale rarità da essere prodotto da un unico fornaio ancora nel XIV secolo, si pensa che sia una fanfaluca l'idea che il giorno di Natale tutti quei fornai producessero panettoni di puro frumento à gogo per tutta la cittadinanza.  

Questo poi è l'unico brano che ho trovato sull'uso di pani grandi in occasione del Natale:

Nella vigilia del Santo Natale si faceva ardere un ceppo ornato di frondi e di mele, spargendovi sopra tre volte vino e ginepro; e intorno vi stava tutta la famiglia in festa. Questa usanza durava ancora nel secolo decimoquinto, e la celebrò Galeazzo Maria Sforza. Il giorno del Santo Natale i padri di famiglia distribuivano, sin d'allora, i denari; acciò tutti potessero divertirsi giuocando. Si usavano in quei giorni dei pani grandi; e si ponevano sulla mensa anitre e carne di maiale; come anche oggidì il popolo costuma di fare.

Come si vede, non si fa menziona al pane di lusso o "pane di tono", e neppure si dice che col passar dei secoli da una grande forma di pane si è giunti al panettone fatto e finito, con tanto di miele, burro e zibibbo. Anzi, sembra che il Verri affermi che ancora ai suoi tempi il giorno di Natale le famiglie del popolo consumassero forme di pane semplice, di mistura, ma soltanto più grandi del consueto. 

L'origine del testo riportato da Wikipedia e da altre fonti nel Web non mi è chiara, in ogni caso ho il sospetto che si tratti di una fabbricazione, di un pacchetto memetico fabbricato da una singola persona e in seguito propagatosi. Se mi fossi sbagliato nella mia analisi delle fonti e qualcuno lo dimostrasse, me ne scuserò pubblicamente - anche se dubito che questo accadrà. 

Maggior credibilità delle fonti in inglese

Più sobria è la Wikipedia in inglese (29/04/2016), che comunque menziona le leggende sul panettone ma dà anche la corretta etimologia della parola, un semplice accrescitivo di panetto, come anche un alunno delle scuole elementari potrebbe ben comprendere.  

In Italy the panettone comes with an often varied history, but one that invariably states that its birthplace is in Milan. The word "panettone" derives from the Italian word "panetto", a small loaf cake. The augmentative Italian suffix "-one" changes the meaning to "large cake".

Dopo aver accennato a una dubbia continuità con tradizioni dell'Impero Romano, si fa comunque cenno al problematico "pane di tono" (vedi sopra):

The origins of this cake appear to be ancient, dating back to the Roman Empire, when ancient Romans sweetened a type of leavened cake with honey. Throughout the ages this "tall, leavened fruitcake" makes cameo appearances in the arts: It is shown in a sixteenth-century painting by Pieter Brueghel the Elder and is possibly mentioned in a contemporary recipe book written by Bartolomeo Scappi, personal chef to popes and emperors during the time of Charles V. The first recorded association of panettone with Christmas can be found in the writings of 18th century illuminist Pietro Verri. He refers to it as "Pane di Tono" (luxury cake). 

Conclusioni 

Quanto discusso in questo articolo fa riflettere su un paio di cose:
1) Ogni informazione reperibile è soggetta a distorsioni, che ne possono compromettere in modo grave l'attendibilità;
2) Aspetti della nostra vita quotidiana che a noi paiono ovvi, hanno nella maggior parte dei casi un'origine incerta, che è estremamente difficile poter determinare.

martedì 26 aprile 2016

ULTERIORI PROVE DELLA DEMENZA CHE SCONVOLGE GLI ATENEI

Tra gli accademici decerebrati e i divulgatori più ignoranti dei somari, non so davvero quale sia la piaga peggiore. Un ricercatore ha una grande responsabilità, perché se fa passare per serio lavoro scientifico quelle che sono autentiche stronzate, a soffrirne sarà la Scienza medesima. Anche il divulgatore scientifico avrà la sua parte di responsabilità, perché se a causa della propria ignoranza distorcerà i risultati dei ricercatori, arrecherà all'intero genere umano un grave pregiudizio. 

Il caso dello studio sulla popolazione dell'Isola di Pasqua ad opera della sciagurata Università di Binghamton non è stato sufficiente. Con immensa sorpresa mi sono imbattuto in un articolo ancor più deprecabile ed inverecondo, pubblicato da ANSA.


Cancellato anche il DNA dei popoli precolombiani.
Non è sopravvissuto nemmeno un gene.

Udite udite! 

"Nessuna traccia, nemmeno l'ombra di un gene: delle antiche popolazioni precolombiane non è rimasto più nulla, sono state completamente cancellate dai colonizzatori spagnoli. A indicare quanto l'arrivo dei Conquistadores sia stato devastante è la mappa del Dna prelevato da 92 fra mummie e scheletri che risalgono al periodo compreso fra 500 e 8.600 anni fa.
Pubblicata sulla rivista Science Advances, la ricerca è la più vasta mai condotta su un Dna così antico ed è stata coordinata dall'Università australiana di Adelaide. Vi hanno partecipato l'Università della California a Santa Cruz (Ucsc) e quella di Harvard."

E ancora: 

"E' sorprendente, ma in nessuna delle linee genetiche trovate nei circa 100 resti umani che abbiamo esaminato indica che ci siano dei discendenti nelle popolazioni attuali", ha osservato il coordinatore della ricerca, Bastien Llamas, del Centro australiano per l'analisi del Dna antico (Acad) dell'università di Adelaide. "Questa separazione - ha aggiunto - sembra essersi stabilita circa 9.000 anni fa ed era completamente imprevista".  

La demenza nelle università colpisce ancora! Un'epidemia sempre più spaventosa. Questa volta sono coinvolti atenei davvero illustri e insospettabili, come l'Università di Larvard.

Secondo questi pazzi drogati, le mummie da loro analizzate implicherebbero una delle seguenti alternative:

1) Gli attuali nativi amerindiani sarebbero scaturiti dal nulla; 
2) Gli attuali nativi amerindiani proverrebbero dalla Spagna;
3) Gli attuali nativi amerindiani avrebbero origini non genetiche.

Quanto affermato da Bastien Llamas, secondo cui "in nessuna delle linee genetiche trovate nei circa 100 resti umani che abbiamo esaminato indica che ci siano dei discendenti nelle popolazioni attuali", parrebbe far propendere per la soluzione 3): a detta sua è possibile che un figlio non erediti alcun gene dai suoi genitori. Magari potrebbe tornare a scuola a studiare gli esperimenti di Mendel sui piselli. Sembra invece che i suoi colleghi preferiscano la soluzione 2): provenienza dalla Spagna. I nativi dell'America Latina si sarebbero in realtà formati dalla popolazione preromana della penisola Iberica. Al momento non mi sono ancora imbattuto in decisi fautori della soluzione 1). 

Il problema non è la scoperta di resti umani il cui genoma non ha corrispondenza con le popolazioni moderne, ma la conclusione indebita che ne è stata tratta. Che numerose linee genetiche siano scomparse senza lasciare traccia nel corso dei secoli è una cosa del tutto normale. Questo non significa affatto che tutte le linee genetiche presenti prima della Conquista siano state spazzate via. Non ci sono poi soltanti i geni: le antiche popolazioni hanno lasciato le loro lingue, che in molti casi sono sopravvissute. Il fatto è che per questi imbecilli l'intera molteplicità delle lingue native del Sudamerica avrebbe le sue radici nella penisola iberica! I Cahuapana, gli Itonama e gli Yanomami si sarebbero formati nel distretto di Siviglia. I Messicani che tuttora parlano idiomi di ceppo Azteco e Maya sarebbero in realtà Catalani. I milioni di parlanti Quechua proverrebbero direttamente dalla stessa Estremadura che ha dato i natali a Hernán Cortés, a Francisco Pizarro e a Pedro de Valdivia, e identica provenienza avrebbero i Mapuche. Anzi, Valdivia si sarebbe portato i Mapuche con sé da casa. Mi fermo qui, visto che le genti non comprendono il concetto stesso di sarcasmo.

Reduce dalla lettura dell'articolo, sono rimasto in preda all'ira e di malumore per diverse ore. 

Se diamo un'occhiata alla versione in inglese del deleterio articolo, pubblicato su The Telegraph, sembra che il testo sia più soft. Evidentemente gli articolisti di ANSA ci hanno messo del loro, anche se compare comunque l'idea folle della completa distruzione della popolazione amerindiana (disease carrying Europeans really did wipe out Native Americans). Questo è il link: 


In realtà la mancanza di corrispondenza tra genomi antichi e moderni aveva già trovato la sua spiegazione in un altro studio, in cui si parlava di derive genetiche occorse in tempi relativamente brevi.


Yucatan (TMNews) - Lo scheletro di una 15enne vissuta 12mila anni fa ha risolto un mistero lungo decenni e ha fatto luce sulle origini dei nativi americani. Naia, così è stata battezzata, è stata trovata dagli archeologi al largo della penisola dello Yucatan, in Messico, in una grotta sommersa dopo lo scioglimento dei ghiacciai, in cui la ragazza probabilmente è caduta mentre cercava dell'acqua. "Naia è lo scheletro più antico e completo che ha ci ha dato la possibilità di fare studi ad altissimo livello", spiega l'archeologa Pilar Luna Erreguerena. Il suo dna infatti è preziosissimo: gli studiosi non erano mai riusciti a spiegarsi perché i primi abitanti del continente, detti paleoamericani, e i nativi americani contemporanei fossero così diversi fra loro. Per anni si è pensato che fossero due gruppi distinti arrivati con ondate migratorie diverse. Ora invece il dna di Naia dimostrerebbe che entrambi i gruppi hanno lo stesso codice genetico e derivano dalle popolazioni arrivate nel continente americano attraverso lo Stretto di Bering. Le differenze fra le due popolazioni sarebbero causate dunque solo da un'evoluzione molto rapida. 

lunedì 25 aprile 2016

LA PESTE DEL PENSIERO ALTERNATIVO

Viviamo in un'epoca terribile in cui prevalgono le potenze del Marasma. Non è mai stata così forte la reazione contro il pensiero scientifico e più in generale contro lo stesso concetto di Logica. Si è formata e consolidata una fitta rete di adepti del cosiddetto "Pensiero Alternativo" che come un contagio inarrestabile divora le nazioni. Combattere contro i cospirazionisti e contro le loro aberrazioni non è impresa facile, perché sono soggetti completamente insensibili a qualsiasi principio di razionalità. Per arginare l'infezione sarebbero più efficaci le punizioni medievali come lo spezzamento sulla ruota, ma vivendo in tempi di diritti umani inviolabili, bisogna per necessità affidarsi ai soli strumenti forniti dall'intelletto.

Quello che gli adepti della setta complottista non capiscono è che non esiste una procedura logica universalmente valida che permetta di risolvere tutte le proposizioni concepite da mente umana. Non esiste neppure un misterioso nesso tra tutto ciò che una persona o un gruppo di persone afferma, tale da permettere di dire: "Tutto ciò che il tizio dice è falso, perché si è scoperta nelle sue parole una singola falsità". Il fatto che ogni singola proposizione debba essere trattata separatamente dalle altre è una cosa che questi decerebrati non possono nemmeno lontanamente concepire. I risultati di questo modo di vedere le cose sarebbero persino comici, se non fosse che hanno risvolti tragici, come la ricomparsa di malattie da tempo debellate, solo per citare un caso tra tanti.    

Illustrerò alcuni esempi concreti della demenza degli adepti del "Pensiero Alternativo", tratti dalla mia esperienza diretta nel Web. Ogni loro asserzione è inficiata da tutta una serie di gravi fallacie logiche. Bisogna parlare di "asserzione",  perché "ragionamento" è una parola grossa, essendo ogni parola uscita dalla bocca di un complottista ben lontana dai princìpi elementari della razionalità. 

1) Non sequitur 
Se si trova un video falso sul terrorismo, ne consegue per i complottisti che il terrorismo non esiste ed è un falso. Una persona di buonsenso direbbe che quel video è falso, e la sua conclusione sarebbe giusto quella. Un complottista invece astrae dalla falsità di quel singolo video la falsità del fenomeno in esso descritto. Quindi se si trova un video falso sul cancro, il cancro non esiste. Uno dei dogmi che più si circolano è il seguente: "Se un bambino che è stato vaccinato è autistico, allora la vaccinazione provoca l'autismo". Che è come dire: "Se un bambino che gioca con l'orsacchiotto è autistico, allora gli orsacchiotti provocano l'autismo". Sarebbe troppo pretendere che questa mala genia possa distinguere un sillogismo valido da un paralogismo. 

2) Osservazione selettiva
Se tuttavia un video falso riguarda un dogma complottista, allora dalla sua falsità il complottista non dedurrà affatto l'inesistenza del fenomeno: dirà che si tratta di un "false flag", di un depistaggio, di una fabbricazione architettata dal Sistema (ossia dai Rothschild, dagli Illuminati, dai Rettiliani, etc.) per gettare discredito. Così se prendessimo il filmato falso sul terrorismo e gli alterassimo la traccia audio, mettendo la parola "scie chimiche" dove c'era "terrorismo", lasciando inalterato tutto il resto, e mostrassimo il reperto ai fanatici fuffologi, la loro reazione sarebbe d'ira sfrenata.  

3) Inconsistenza delle prove addotte 
Un video contraffatto e insostanziale è sufficiente come prova a ogni complottista. Così qualche anno fa mi è stato mostrato un video stupidissimo prodotto nel Mid West, in cui si vedevano queste tre cose: uno sceriffo corpulento e rimbambito, un paio di automobili sfregiate da un vandalo con un temperino, un moccioso biondiccio che aveva disegnato un grosso lucertolone verde e bipede. Se un tribunale accettasse simili prove in un caso di omicidio, chiunque potrebbe essere dichiarato colpevole.
Allo stesso modo si deve trattare il video sui mirabolanti motori del fuffologo Dottor R., sedicente "ricercatore indipendente" inglese: io nel video vedevo soltanto dei blocchi metallici avvolti nella stagnola da cui si levavano esili esalazioni di vapore biancastro. Per un complottista quella era invece una prova autoevidente. "Funziona!", esclamava in preda alle convulsioni e agli sputacchi. Ma funziona cosa?! 

4) Assenza di consequenzialità
Ad ogni minima obiezione, il complottista non risponde con argomenti. Non abbozza neppure l'ombra di un ragionamento. Risponde inviando un quantitativo impressionante di link a siti di fuffologia pura ed applicata, come se queste fossero prove inconfutabili, incontrovertibili e di per se stesse evidenti dei suoi sproloqui. Lo schema fisso è questo:
  a) Azione: critica del dogma complottista;
   
 b) Reazione: invio di pacchetti di link, già pronti per l'occasione; 
 c) Pretesa della conversione dell'interlocutore, come se le pagine dei siti complottisti avessero il potere di folgorare chiunque, di colpire e produrre una trasformazione, proprio come è accaduto a San Paolo sulla via di Damasco.

5) Completa perdita del senso della realtà
Per illustrare il rapporto che i complottisti hanno coi dati di fatto nudi e crudi, basterà riportare il caso dei motori a combustibili alternativi. A causa di alcuni provocatori (Grillo, Fo Jr. et alteri), si diffuse anni fa l'idea superstiziosa secondo cui ogni motore a scoppio potrebbe essere alimentato anche col semplice olio d'oliva. Secondo questi guru, il combustibile ideale per qualsiasi automobile sarebbe l'olio per friggere i calamari. Conseguenza: migliaia di persone, anche laureate in discipline scientifiche (ricordo una mia ex collega ingegnere), fecero incetta di tale olio da frittura nei supermercati, immettendolo tal quale nel serbatoio della loro automobile e causando danni immani al motore. Anni dopo, l'idea dell'olio per friggere i calamari si ripresentò negli ambienti complottisti. Ricordo che uno di questi infelici riteneva che in caso di blackout globale e di cessazione delle forniture di petrolio, sarebbe stato in grado di far funzionare la sua macchina rifornendosi al supermercato con l'olio da frittura. Ho cercato di dirgli che tale olio per poter essere usato come carburante necessita di un trattamento chimico industriale chiamato "esterificazione". Niente da fare. Nemmeno gli sfiorava la mente l'idea che nessun supermercato sarebbe in grado di assicurare una fornitura sufficiente a muovere anche una sola auto. Nemmeno gli sfiorava l'idea che in caso di crollo tecnologico gli stessi supermercati sarebbero devastati e saccheggiati, e non potrebbe sussistere nel caos alcuna rete di rifornimento. Qualcuno dirà che riporto il caso di un soggetto estremo. Tuttavia si vedono moltissime persone, all'apparenza ragionevoli, che credono fermamente di poter sopravvivere al tracollo della società coltivandosi un orticello, senza tener conto che in tali condizioni il loro misero appezzamento sarebbe calpestato dalle folle sconvolte dal panico - e loro stessi diverrebbero preda di improvvisati cannibali.

6) Creduloneria e scetticismo estremo
Nella compagine del "Pensiero Alternativo" coesistono modi di vedere le cose che sono paradossali e tra loro contraddittori.
Quando si parla di salute e di alimentazione, ecco che i complottisti sono pronti a credere a qualsiasi cosa purché non sia la medicina figlia della Scienza. Se qualcuno dicesse loro che mangiare la merda fa bene e cura tutte le malattie, ci crederebbero subito. Si annoverano infiniti casi di persone andate in rovina per aver prestato fede alle baggianate di qualche ciarlatano che pretende di curare il cancro con una serie di rimedi che vanno dall'acqua fresca al bicarbonato.
Quando si parla di politica e d'informazione, ecco che subentra uno scetticismo ferreo. Così non è raro imbattersi in gente che crede fermamente nella natura irreale e simulata degli attentati terroristici, delle guerre in corso e persino delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. In un telegiornale dicono che c'è stato un incidente nucleare? Allora per questi dementi il cesio-137 e lo stronzio-90 sono innocui, anzi, fanno bene! 

Le opinioni dei complottisti sono eterodirette, proprio come i movimenti di un burattino si devono al puparo. Le loro affermazioni incredibilmente stupide sono come la programmazione di un robot: li condizionano totalmente. Essi non possono uscire da schemi ben precisi, così come una vespa continuerà a cercare sempre nello stesso punto la preda che le è stata sottratta. Non se ne trova uno, neppure uno, che sia capace di un pensiero proprio. Eppure molti si definiscono "risvegliati", pensano di aver avuto l'Illuminazione. Ne ricordo uno che urlava: "Sveglia! Sveglia! Sveglia! La causa prima del cancro è il latte!" 

Un tempo per gente che proferiva proposizioni oggi assai popolari c'era il manicomio, o nei casi più benigni il compatimento. Negli anni che furono girava per le vie di Milano un lunatico in bicicletta che cercava di convincere i passanti che la Terra è piatta. Raccoglieva soltanto irrisione e scherno, come un babbuino che avesse mostrato le chiappe. Nel frattempo le cose sono cambiate. Un po' di droga e di spazzatura online, ed ecco che la Terra piatta diventa un meme contagioso. Molti considerano la fede nella Terra piatta un'opinione come tante altre. In questi giorni di umanità terminale, in nome di un malinteso principio di libertà di parola e del relativismo cognitivo, diventa uno scandalo anche affermare che un triangolo non può avere più di un angolo retto o che un quadrilatero deve per necessità avere quattro lati. Su questo humus funesto sono così cresciuti funghi incredibilmente maligni, peggiori dell'Amanita phalloides, le cui spore contaminano l'aria e trasmettono la morte.

giovedì 21 aprile 2016

LA SCOMPARSA DELLE LINGUE DELLA PATAGONIA: IL PROBLEMA DELLE RELIGIONI NATIVE

Il concetto di “Dio”

Un altro capitolo di questo processo di assimilazione semantica è costituito dalla necessità del missionario di far assumere agli indigeni l'idea del dio giudaico-cristiano, obiettivo ultimo del suo paziente lavoro di comunicazione. Dai tempi dei primi contatti con i popoli amerindiani, molti missionari spagnoli e portoghesi seguirono la tattica evangelica di identificare a ogni costo la divinità cristiana con qualche entità autoctona, identificazione che serviva da punto di partenza per introdurre la nuova visione cosmologica. Tra i parlanti Nahuatl (1) del Messico il metodo sembrava promettente, perché avevano un concetto chiamato nientemeno che teo-tl, che somigliava da morire al termine greco Theos (2). Tuttavia il sistema non funzionò sempre così bene. In Patagonia non si incontrava nulla di assimilabile a Dio.
Gli indigeni dell'estremo sud dell'America sembravano “atei” in modo esasperante, per quanto l'esistenza di Dio fosse loro proposta dalle più diverse "necessità" della ragione naturale aquiniana.
Paul Hyades lo riassumeva così sul finire del  XIX secolo, riferendosi a quello che oggi si chiamano Yahgan (Hyades e Deniker 1891):

“Nous les avons observés bien attentivement à ce point de vue (...) pendant l’année que nous avons passée parmi eux: et jamais nous n’avons pu saisir la moindre allusion à un culte quelconque, ni à une idée religieuse.”

E il missionario Borgatello (1924), alludendo agli Shelk'nam (3) e ai Kawésqar:

“Ora che molti di loro, tanto Alakaluffi che Onas, conoscono lo spagnuolo e sanno esprimere chiaramente in questa lingua le loro idee, si è veramente in grado di avere notizie certe intorno alle loro antiche credenze.
Ho richiesto pertanto agli Onas se sapevano che esistesse un Dio o Essere Supremo, prima di essere fatti cristiani, se esistesse il Paradiso e l’Inferno, il Demonio, ecc.
Essi mi risposero:
- Nada saber nosotros de todo esto (cioè ‘nulla sapevamo noi di tutto questo’).
Così pure gli Alakaluffi mi diedero la stessa risposta.”

Le lingue patagoniche finirono tuttavia col dotarsi di parole per tradurre Dio. Il meccanismo, in cui secondo Tonelli (1926) si poteva notare chiaramente la mano dei missionari salesiani, fu tradurre qualche attributo teologico cristiano, e per sineddoche designare la totalità della divinità a partire da questo termine.
Così la parola Shelk'nam xowen ‘eterno, antico’ fu quella scelta nel lavori lessicografici del Beauvoir e della sua scuola nella missione di Candelaria. Altri missionari preferirono temaukel, perché questo termine Shelk'nam significava ‘parola’, ossia Verbum. Così gli Shelk'nam appresero che “In principio era Temaukel...” giusto quando stavano giungendo alla loro fine.

Miguel Peyró García (Università di Siviglia),
La desaparición de las lenguas de la Patagonia, 2005.
Traduzione del sottoscritto, 2016.


Note del traduttore:

(1) Peyró García ha "entre los náhuatl", il che è privo di senso, perché Nahuatl è il nome della lingua (significa "il giusto suono"). Avrebbe dovuto dire "entre los Nahuatlacas" o "entre los hablantes del Náhuatl".   

(2) La parola greca è θεός. Peyró García ha ispanizzato la sua ortografia in Teos, distorcendo il dato. È a parer mio molto dubbio che i missionari che convertirono i Messicani avessero una conoscenza anche rudimentale della lingua greca.  

(3) Selknam nel testo originale. A causa della notoria difficoltà dei parlanti ispanici a pronunciare il suono sh /ʃ/ (italiano sc di scena), le trascrizion nella loro lingua lo adattano a s

Una singolare contraddizione

A proposito del teonimo Shelk'nam Temaukel, dobbiamo riportare una singolare contraddizione. Questo è ciò che è scritto in Wikipedia in lingua spagnola a proposito di Temaukel (20/04/2016):

Temáukel, también conocido como Timáukel, Temáulk, Timáukl, Pemáulk, Temuakel, Pimaukel o Pimaujil, es el dios supremo del panteón selknam y haush. Las características de Temáukel lo asemejan bastante al Dios de las religiones abrahámicas. Es más, algunos selknam que tuvieron suficiente contacto con los europeos, consideraban al Dios de los cristianos equivalente a su propio dios supremo, Temáukel. Este reconocimiento del Dios cristiano no es excluyente de la existencia de Temáukel, es decir, serían equivalentes, pero de ninguna manera el mismo ser. En teoría, entre todas las deidades selknam, es el único que es considerado un Dios propiamente tal, puesto que las otras deidades son identificadas más bien como antepasados mitológicos.

Etimología
La palabra Temáukel tiene la característica de un nombre propio. Su origen era desconocido por los mismos selknam. Según Martin Gusinde, nadie fue capaz de darle un significado especial por ser, precisamente, un nombre propio.

Atributos
Temáukel guarda muchas semejanzas con el Dios de las religiones abrahámicas. Sin embargo, no es la única deidad dentro de las creencias selknam y, entre estas, es el único en ser identificado como un Dios propiamente tal, lo cual lo convierte en el ser supremo de una religión henoteista.

Como dios supremo, se le describen características de infinitud. Sin embargo, a diferencia del Dios abrahámico, no se trata de un ser omnipresente puesto que, de acuerdo a los relatos selknam, él nunca ha estado en el mundo terrenal. No obstante, es un dios infinito, por ser eterno, considerándose que siempre ha existido y siempre existirá.
Se le describe como un ser incorpóreo, ajeno a los sentimientos y deseos humanos. Temáukel es estricto en el cumplimiento de sus mandamientos. De acuerdo a las creencias selknam, el no cumplimiento de los mandatos entregados a través de Kénos suponían un castigo a quienes desobedecían, enviando muerte y enfermedades.

Culto
Temáukel, dios supremo del panteón selknam, era un ser respetado y temido, sin embargo no era malvado, sino severo. Los selknam rara vez pronunciaban su nombre y, jamás era usado en circunstancias triviales. Debido a este temor que los selknam tenían a su dios, se referían a él mediante el uso de circunloquios. Las formas habituales de referirse a él eran "so'onh haskán" (habitante del cielo) y "aiyemok so'onh haskán" (aquel que habita en el cielo) y "so'onh kas pemer" (aquel que está en el cielo).

Los selknam no tenían oraciones propiamente tal, pero las mujeres solían hablarle a su dios supremo cuando sus hijos estaban gravemente enfermos, para pedirle que no muriera injustificadamente. Por otro lado, se conocen dos tipos de ofrendas que los selknam realizaban a Temáukel. El primero de ellos era arrojar fuera de sus viviendas un trozo de carne cuando comían de noche, que lo ofrecían a su dios. El segundo consistía en un trozo de carbón ardiente que las mujeres arrojaban fuera de sus chozas, especialmente en la mañana.  

Mitología
Temáukel es un dios primigenio, por lo tanto, siempre ha existido. Habita en la Cúpula Celeste, en el Cielo Este o Wintek y nunca ha estado en la Tierra.
De acuerdo al mito, Temáukel es el creador de la Cúpula Celeste y la Tierra primitiva. A esta envió a Kénos con la misión de darle forma y crear a la humanidad.

I dati riportati da Peyro Garcia contrastano sensibilmente con quelli riportati dalla Wikipedia in lingua spagnola. Non è possibile che entrambe le descrizioni siano vere. Se Peyró García ha ragione, allora Wikipedia riporta falsità o dati male interpretati. Al contrario, se Wikipedia riporta dati fidedigni, allora l'articolo di Peyró García contiene falsità. Come verificarlo? Semplice. Si deve compiere un'indagine. 

Applicazione del Perpendiculum

La stessa pagina della Wikipedia sopra menzionata rimanda a uno splendido e dettagliato lavoro di Martin Gusinde sul mondo spirituale degli Shelk'nam. È consultabile e scaricabile gratuitamente seguendo questo link:


Quanto esposto è di una complessità incredibile. Giungo quindi alla conclusione che è semplicemente impossibile che un simile apparato mitologico possa essersi formato nel giro di pochi anni dall'influenza della predicazone dei missionari salesiani. Non risulta inoltre che Temaukel (con le sue varianti) sia la traduzione di "parola". Anzi, era considerato un nome tabù che non veniva mai pronunciato e che incuteva paura superstiziosa. Quindi le informazioni riportate dall'articolo di Peyró García a questo proposito devono ritenersi fabbricazioni o frutto di gravi distorsioni. Le possibilità sono due: 

1) L'autore si è fidato della propria memoria, riportando qualcosa di cui era erroneamente convinto senza prima verificarla (come può accadere a chiunque);
2) L'autore ha forgiato la glossa erronea temaukel "parola" a bella posta, cum dolo.

La falsa glossa temaukel "parola" deve essere in ogni caso considerata come un meme. In altre parole appartiene al regno della disinformazione. Per quanto riguarda il missionario Borgatello, le sue dichiarazioni potrebbero essere frutto di un fraintendimento, dovuto all'estrema riluttanza dei popoli della Terra del Fuoco a parlare delle cose a loro più sacre. In altre parole, le religioni dei Fueghini erano esoteriche.

LA SCOMPARSA DELLE LINGUE DELLA PATAGONIA: I PRESTITI INGLESI IN YAMANA

Il processo di assimilazione linguistica

Vista in generale, la scomparsa delle lingue patagoniche fu una conseguenza diretta della dispersione e dell'estinzione delle loro comunità di parlanti. Tuttavia nel breve lasso di tempo di questa tragedia, dal primo stanziamento permanente degli occidentali nella regione fino alla scomparsa delle società indigene, le lingue hanno avuto il tempo per soffrire un brutale processo di distruzione semantica e funzionale, correlativo linguistico della liquidazione delle forme di vita autoctone. Gli studi sul campo compiuti dai linguisti nel XX secolo raccolgono le lingue in questo stato terminale, non solo per quanto riguarda la loro vitalità in numero di parlanti, ma anche riguardo alle loro caratteristiche strutturali. Molte delle distinzioni semantiche autoctone si erano già perdute, e solo un minuzioso studio etimologico ci permette di ricostruirle oggi a partire dai dati conservati. Il nuovo mondo occidentale era penetrato in tutte le sfere della vita, incluse quelle simbolico-comunicative. Non senza motivo i missionari avevano considerato il lavoro linguistico come una parte sostanziale dell'attività evangelica: non solo per poter comunicare con i nativi, ma anche e soprattutto per introdurre nelle loro lingue (ossia nel loro mondo) i fondamenti della visione cosmologica occidentale della realtà, ciò che Bartolomeu Melià, in un altro contesto sudamericano, ha denominato creazione di lingue cristiane indigene.
Il processo di assimilazione linguistica è il primo passo verso la scomparsa delle lingue in quanto tali. In una prima fase, il parlante indigeno interiorizza nella sua lingua - mediante metafora, calco semantico o prestito diretto - le strutture cognitive della lingua dominante. In una seconda fase, il parlante abbandona progressivamente la sua lingua in favore della lingua che esprime tutto in un modo più coerente e semplice, la lingua dominante, che è anche un importante segno di prestigio del nuovo ordine sociale.
La sua lingua comincia a diventare inutile ai suoi stessi occhi, perché alla fine viene ad esprimere le stesse cose della lingua dominante, però con gravi carenze (le distinzioni non interiorizzate) e con inutili remore (i resti nella grammatica e nel lessico delle antiche distinzioni, che hanno cessato di essere operanti), senza dimenticare le connotazioni sociali che va acquisendo il suo uso preferenziale.
Lo studio di questo fenomeno nel caso delle lingue patagoniche è lungi dall'essere concluso. Per portarlo a termine disponiamo soprattutto, come già detto, di materiale raccolto proprio durante il processo di distruzione culturale e linguistica.
Segnaleremo giusto alcuni aspetti di ciò. In yahgan o yamana, la lingua dei canoisti che soffrirono gli esperimenti missionari degli angliscani nel XIX secolo, il numero di prestiti dall'inglese finì con l'essere molto importante. Sia Guerra (1995) che Poblete y Salas (1997), che fecero indagini linguistiche tra i suoi ultimi parlanti, registrarono un buon numero di termini inglesi incrostati nella lingua, termini che si conservavano anche nell'ambiente ispanofono in cui questi ultimi informatori si muovevano da decenni. Risulta significativa la distribuzione di questi termini inglesi per campo lessicale.
Un certo numero di questi pare inevitabilmente vincolato alle nuove realtà introdotte dagli inglesi: glas ‘vetro’, naif ‘coltello’, nísel ‘ago (di acciaio)’, sit ‘seme’, ti ‘tè’, túra ‘porta’, bred ‘pane’, plánket ‘coperta (di fabbrica)’, powt ‘barca’, kuk ‘cucina’. In questo gruppo sono inclusi i nuovi animali e le loro nuove parti: kiáta ‘gatto’, sip ‘pecora’, xorn ‘corno’. Allo stesso modo le nuove realtà umane derivate dal contatto con gli europei: lam-a ‘ubriaco’ sembra procedere dall'inglese rum, che sarebbe anche la base del gününa küne lam ‘vino’ e del tehuelche lama ‘essere ubriaco’ e laam ‘bevanda alcolica’.
Tuttavia in altri casi l'adozione di elementi inglesi parrebbe superflua, visto che sarebbe logico aspettarsi l'esistenza di termini autoctoni: rótna ‘marcio’, fáta ‘grasso’, mílik ‘latte’, fláwers ‘fiore’, rut ‘cammino’, péipi ‘bebè’. La spiegazione per l'incorporazione di questi elementi può fondarsi solo nel fatto che designavano nuovi usi culturali di queste realtà, ad esempio un nuovo ruolo sociale dei bambini piccoli a partire dal concetto europeo di infanzia, un nuovo uso alimentare del latte e del grasso (a partire dallo sfruttamento del bestiame), etc.
Di particolare interesse è il termine raccolto da Guerra (1995) usato dagli stessi indigeni per designarsi: intjan (dall'inglese Indian), termine integrato con elementi autoctoni in vari vocaboli derivati: intjan-kuta ‘la lingua yahgan’, wata-intjan ‘gli antichi yahgan’. Gli indigeni hanno adottato il termine che gli europei usavano per designarli perché essi stessi già cominciavano a vedersi attraverso nuovi occhi, accettando così in qualche modo il ruolo che era stato loro assegnato nella nuova società bianca.

Miguel Peyró García (Università di Siviglia), La desaparición de las lenguas de la Patagonia, 2005.
Traduzione del sottoscritto, 2016.

lunedì 18 aprile 2016

ALCUNE NOTE SUL CULTO DEL PORCO TRA GLI ANTICHI CELTI

Un antico zoonimo usato dai Celti e dai Liguri è tuttora vivo nelle lingue celtiche superstiti. Si tratta della radice *mokko- "maiale, porco". Non si trovano paralleli credibili in altre lingue indoeuropee, così è molto probabile che si tratti di una voce indigena, presa da un sostrato neolitico estinto da epoca preistorica. Il significato più antico dovrebbe essere "cinghiale". Queste sono le attestazioni degli esiti di *mokko- nelle lingue britanniche e nel gaelico:

Gallese moch "maiale" 
Bretone moc'h "porcello" 
Cornico mogh "maiali" 
Gaelico muc "maiale" (f., gen. muice),
  da una variante femminile *mokku:-,
  gen. *mokkja:s.

Se l'epiteto "porco" conferito alla divinità suona oggi come bestemmia, all'epoca dei Celti era invece un segno di fecondità, di robustezza e addirittura di regalità. Si deve notare che a quei tempi il maiale era ancora poco distinto dal suino selvatico, il cinghiale. Più che la sua sporcizia, erano la sua aggressività e la sua natura fiera a colpire l'immaginazione. Infatti nella Gallia Transalpina ci è ben noto un MERCURIUS MOCCUS, attestato al dativo come MERCVR(IO) MOCCO in un'iscrizione (CIL XIII : 5676, Civitas Lingonum, più anticamente Andematunnum, attuale Langres). Non dobbiamo dimenticarci che Mercurio è un'interpretazione romana di Lugus, che aveva come attributo proprio un cinghiale. Nel territorio dei Leponzi, nell'attuale Crevoladossola, è stata trovata un'iscrizione dedicata a TINCUS MOCCUS. Anche nell'onomastica celtica dell'epoca romana questa radice era ben diffusa: abbiamo attestati antroponimi sia maschili che femminili come ad esempio Moccus, Mocius, Mocca, Mocia, Mocceius, Moccia, Mocco, Mocus. L'onomastica dei Liguri mostra Mocco o Moco, che sopravvive nell'odierno toponimo Mocònesi.

Al giorno d'oggi la venerazione del maiale è stata ripresa in forma degenerata e travisata da alcune conventicole settarie della Wicca, che hanno dato origine a obbrobriose tregende in cui donne e uomini si accoppiano con i porci. In Inghilterra è tale la tolleranza per queste malsane attività di bestialismo erotico che The Telegraph ha dedicato un articolo all'argomento, mostrando l'immagine di una coppia in rivoltante promiscuità con un suino in visibile stato di eccitazione. Questo schifo abietto è stato etichettato con la scritta "So romantic". Non ci credete? Seguite questo link: