martedì 12 luglio 2016

BASTA COL BUONISMO: I PUFFI DOVREBBERO CHIAMARSI STRONFI


Il nome originario dei Puffi è Schtroumpfs /ʃtrumpf/, parola dalla sonorità tedesca, usata da Peyo per trascrivere un verso gutturale da lui emesso non sapendo come indicare una saliera, in occasione di un pranzo con gli amici. Così disse qualcosa come "Passe-moi le... 'Schtroumpf'!" Quella strana vocalizzazione piacque e ne nacquero le simpatiche creature azzurrine dotate di evidenti simbolismi mithraici. Anzi, si tratta di una vera e propria comunità di fedeli di Mithra in berretto frigio, col Grande Puffo come Pater Patrum. Sui significati esoterici di questo singolarissimo fumetto torneremo in altra occasione.

Si capisce che il nome italiano dei Puffi avrebbe dovuto essere Stronfi, dal semplice adattamento fonetico di Schtroumpf. Tuttavia, data l'assonanza di Stronfi con stronzi, si dovette trovare un nome diverso, una sorta di eufemismo. Questa sostituzione di "Stronfi" con "Puffi" è uno dei tanti effetti deleteri del buonismo. I censori della Repubblica erano terrorizzati all'idea che i bambini di tutt'Italia cominciassero a usare la parola "stronfo" a ogni piè sospinto, inquinando l'aere. Ogni assonanza fecale andava stroncata sul nascere. Così qualche burocrate della Censura esercitò la sua pressione e un geniale traduttore pensò di prendere a prestito dal francese il vocabolo pouf /puf/ - che indica uno sgabello o poggiapiedi interamente costituito da imbottitura - dando così origine al fortunato nome dei Puffi.

Sarebbe un errore credere che il buonismo sia stato introdotto in Italia dai neocomunisti. Sue manifestazioni esistevano già in varie nazioni europee. Ad esempio aveva una tradizione radicata nella Germania Nazionalsocialista: la propaganda di Goebbels può ben essere definita a tratti come buonista. L'esempio più innocente di meme goebbelsiano buonista è il mito di Hitler astemio e vegetariano (in realtà il Cancelliere faceva i suoi assaggi di vino e amava il piccione arrosto di Amburgo). Simili trovate non sono che mezzi per nascondere la realtà e presentarla sotto il manto dell'ideologia. Nell'uso di questo strumento Goebbels deve essere considerato un dilettante: è nell'attuale regime democratico che si hanno i suoi esiti più aberranti e paradossali. In Italia, prima della fine dei PCI e della nascita di mostruose entità politiche come l'Ulivo, seguito dall'ancor più deleterio PD, il buonismo assumeva soprattutto l'aspetto del tabù verbale. Certe parole non si potevano pronunciare. Così i piedi dovevano essere chiamati "pioti" o "estremità"... e gli Stronfi dovevano essere chiamati Puffi.

domenica 10 luglio 2016

L'ETIMOLOGIA GENUINA DI ULM E ALCUNI FALSI TENTATIVI DI SPIEGAZIONE

Mi sono imbattuto, sempre negli angiporti del Web, in qualcosa di veramente insensato. Si tratta di un tentativo ridicolo di interpretare il nome della città tedesca di Ulm, che diede i natali ad Albert Einstein e che visitai molti anni fa, ritenendolo un acronimo della locuzione latina ultra limites militiae, ossia "oltre i confini della milizia". Ulm si trova nel Baden-Württemberg ai confini con la Baviera, e in effetti in epoca antica doveva essere un villaggio danubiano proprio poco oltre i limiti dell'Impero Romano. Questo però non significa che il suo nome avesse traesse da ciò la sua origine. Nel corso dei secolo sono state proposte altre simili fanfaluche fondate su fantomatiche sigle latine, come ad esempio l'abbreviazione di V Legionis Mansio o di V Legio Manlii. Quest'assurda e puerile moda di interpretare per mezzo di acronimi tutto ciò che non si conosce dovrebbe finire una volta per tutte: è una figlia indecorosa dell'ignoranza più crassa e belluina del volgo.

Il toponimo Ulm in realtà ha un'origine che non è davvero molto elevata: in protogermanico la radice *ulm- significava "fango, sozzura". Questi sono i dati riportati da Sergei Starostin nel benemerito sito The Tower of Babel (starling.rinet.ru):

Proto-Germanic: *ulm=
    Meaning: mould
    Norwegian: dial. ulma `schimmeln'
    East Frisian: olm, ulm `Fäulnis, bes. im Holz',
       ulmen `verfaulen',
    Middle Low German: ulmich `von Fäulnis
       angefressen'
    Middle High German: ulmic 'faulig, von fäulnis
       angegriffen'

Nelle lingue baltiche esistono paralleli coi significati di "percolato cadaverico", "acqua insanguinata", "siero sanguigno" e "pus"

Lithuanian: al̃mēs, dial. el̃mēs `aus dem Körper
     fliessende Materie, Blutserum, Blutwasser';
     almuõ `Eiter'

Esiste anche la proposta di derivare Ulm dal nome tedesco dell'olmo, che attualmente suona Ulme (f.), ed è riportato che tale pianta è comune nella zona (come in molte altre). Va però fatto notare che le forme più antiche per indicare l'olmo in alto tedesco avevano un diverso vocalismo, il che fa pensare che da un antico elm- (ben attestato) si sia dapprima formata una variante *olm- per arrotondamento della vocale, e che in seguito da questa si sua prodotta la forma Ulme, che si è poi generalizzata soltanto dopo l'epoca del medio tedesco. Una variante protogermanica *ulmo:(n) è ricostruita su basi abbastanza fragili. La radice ha la stessa origine indoeuropea del latino ulmus. Questo è quanto riporta Starostin:

Proto-Germanic: *ilma-z, *alma-z, *ulmō(n)
    Meaning: elm
    Old Norse: alm-r m. `Ulme; Bogen'
       Norwegian: alm
       Swedish: alm
       Danish: elm
    Old English: elm (ellm), -es m. `elm, elm-tree',
       ulm-trēow n. `id.'
    Middle Dutch: olme
       Dutch: olm m.
    Middle Low German: elm
    Old High German: elmo (um 800), elm (Hs.
        12.Jh.), ëlmboum (10.Jh.), ilma (Hs. 12.Jh.);
        ulm-boum (Hs. 12.Jh.)
    Middle High German: ëlm(e) st. f. 'ulme'
       German: Ulme f., frünhd. Ulme, Olme

L'estrema instabilità fonetica del fitonimo, unitamente all'assenza di suffissi (chiamare "Olmo" un luogo in cui gli olmi abbondano mi sembra poco soddisfacente), mi spingono a respingere questa etimologia.

La più antica attestazione della città di Ulm in un documento di Ludovico II il Germanico (854 d.C.) riporta la forma Hulma, con una h- spuria dovuta a ipercorrettismo, sicuramente da espungere. Ulma è la forma corretta, ben documentata, da cui l'attuale nome della città discende direttamente.

Esistono poi due toponimi formati dalla stessa radice *ulm- "putredine": Ulmach (antico Ulmaha) e Ulmau (antico Ulmauua), entrambi riportati nello Schwäbisches Wörterbuch mit etymologischen und historischen Anmerkungen di Johann Christoph Schmid, risalente al 1844. Ulmach significa "Fiume di Putredine", mentre Ulmau significa "Isola di Putredine" (il termine "isola" poteva anche indicare un campo interamente circondato da corsi d'aqua). La stessa fonte riporta le voci olm, olmig, olmerig, glossate faul, ossia "putrido", e il verbo olmen, glossato faulen, ossia "imputridire".

Il secondo membro del composto Ulmaha è l'equivalente alto tedesco del gotico ahva "fiume", che corrisponde al norreno ǫ́ "fiume" (scritto á dopo che la vocale /a:/ si è labializzata e confusa con /ɔ:/). Fuori dal mondo germanico, la parola ha il suo chiaro parallelo nel latino aqua.

Il secondo membro del composto Ulmauua è l'equivalente alto tedesco del norreno ey "isola". La forma gotica è *auja /'ɔ:ja/, gen. *aujos, n. pl. *aujos /'ɔ:jo:s/. Non è attestata nei brani della traduzione scritturale di Wulfila a noi giunti, ma è documentata da Iordanes nella sua opera De origine actibusque Getarum. Due sono i toponimi riportati da quell'autore che contengono questa radice: 

1) Oium (nome gotico del paese degli Sciti), sta per
     *Aujom /'ɔ:jo:m/ "Alle Terre Fluviali" (dat. pl.)
2) Gepidoios (isole alla foce della Vistola), sta per
    *Gaipidaujos
/'gɛpiðɔ:jo:s/ "Le Isole dei Gepidi".

La forma Oium documenta l'uso di forme al dativo in toponomastica ed è davvero notevole. È un vero peccato che finora i filologi non abbiano dedicato neppure un attimo di riflessione alle possibili consequenze di questo fatto.

mercoledì 6 luglio 2016

LA CHIESA GOTICA DI SVEZIA: UN FALSO STORICO



Sulla Wikipedia in inglese si trova la pagina dell'Arcidiocesi dei Goti e delle Terre del Nord, che traduco in questa sede a beneficio dei lettori: 

L'Arcidiocesi dei Goti e delle Terre del Nord è una Chiesa Ortodossa Orientale affiliata alla Vera Chiesa Ortodossa Russa (anche nota come "catacombista", un gruppo "deviato" che non deve essere confuso con la Chiesa Ortodossa Russa). È stata fondata nel 1994 a Mosca da Aleksey Sievers, che era stato ordinato arcivescovo col nome di Amvrosij (Ambrogio). È stata un corpo ecclesiastico e religioso registrato in Svezia a partire dal 2008.[1] 

Ambrogio ha ordinato "Vescovo di Gotland" in Svezia Teodorik Sutter nel dicembre 2011.
Rivendica successione apostolica tramite la Vera Chiesa Ortodossa Russa, e la gurisdizione territoriale derivante dal Metropolitanato di Gothia e Kaphas, la Chiesa dei Goti di Crimea nel Principato di Theodoro. Il Metropolitanato di Gothia era sotto la giurisdizione del Patriarca Ecumenico fino al 1783, quando, in conseguenza alla conquista russa della Crimea, fu trasferito alla Chiesa Ortodossa Russa.[2] La cattedra del vescovo fu lasciata vacante dal 1786. L'Arcidiocesi dei Goti rivendica anche la giurisdizione territoriale del Götaland, in Swezia, basandosi sulla storia della cristianizzazione della Scandinavia. 

Rivendica anche di essere la più antica autorità ecclesiastica in Scandinavia, con una presenza anteriore alla missione di Ansgario, presumibilmente con la chiesa di San Lorenzo nell'isola di Gotland, ora diroccata.[3][4] 

Secondo Aleksey "Ambrosius" Sievers, la Cristianità sarebbe giunta ai Goti precocemente, nella metà del I secolo ad opera di un viaggio missionario dell'Apostolo Andrea, molto prima della loro conversione all'Arianesimo sotto l'episcopato di Wulfila. "La giurisdizione ecclesiastica 'orientale' nel Västergötland, nell'Östgötaland e in Gotland era così ovvia a chiunque all'epoca, che persino Roma inviò il suo vescovo missionario, Sant'Ansgario, nello Svealand, dove il Cristianesimo al confronto era relativamente debole in quei tempi. E' abbastanza realistico parlare di inflenza gotica (bizantina) e celtica (poco dopo anglosassone) in Svezia, anziché di influenza romana [...]".[5] 

Queste rivendicazioni vanno contro il generale consenso degli storici del XX secolo, ma c'è qualche ricerca più recente che sembra corroboralre l'idea che il Cristianesimo possa essere stato presente in Svezia prima di quanto finora creduto, a partire dall'VIII o dal IX secolo, tramite trasmissione bizantina.[6] Questo presunto contatto culturale riflette l'espansione svedese ad oriente durante l'Era Vichinga (IX secolo), in cui fu stabilito il cosiddetto Khaganato di Rus' ai margini della sfera d'influenza bizantina.[7] 

Riferimenti (farlocchi?)

[1] I december förra året erkändes Gotiska Ärkestiftet som trossamfund i Sverige av Kammarkollegiet Marc Abramsson, Nationell Idag möter Katakombkyrkans gotiske ärkebiskop, Nationell Idag (2009)
[2] Demetrius Kiminas, The Ecumenical Patriarchate: A History of Its Metropolitanates with Annotated Hierarch Catalogs, 2009 p.19
[3] Gotlands allehanda, "Landsortskyrkor i fokus", 31/5-2010
[4] Bysantiska traditioner i Gotlands konst under 1100-talet, Svetlana Vasilyeva, 2009, Fornvännen 104 (PDF)
[5] Marc Abramsson, Nationell Idag möter Katakombkyrkans gotiske ärkebiskop, Nationell Idag (2009)
[6] Rhodin, Leon; Gren, Leif; Lindblom, Verner (2000). Liljestenarna och Sveriges kristnande från Bysans (PDF) 95. Fornvännen.se.
[7] e.g. Alfred Nicolas Rambaud, 'History of Russia', 1878.

A queste note aggiungo il link a un documento esteso reperito nel Web, in formato pdf, che raccoglie ogni genere di deliri, tanto che non so se classificarlo come testo ucronico oppure onirostorico:


Questa è l'iscrizione in caratteri runici riportata sull'emblema della Chiesa Gotica di Svezia e traslitterata:

Ufaraibiskopei Goþansk jah Norþlandsk

Il significato è questo:

Arcivescovado dei Goti e della Terra del Nord

Peccato che non si tratti di gotico di Wulfila, e nemmeno della lingua nota come gotico di Crimea. Inoltre si noterà che contiene diverse gravi inconsistenze.

La parola per "vescovado" dovrebbe alla meglio essere aipiskaupei /ɛ'piskɔpi:/, con la prima -p- non lenita. Sarebbe ben comprensibile un passaggio da -p- a -b- nel corso dei secoli. Un mutamento simile a quello che ha portato dal latino volgare all'inglese bishop e al tedesco Bischof "vescovo" - ma si noterà che la forma aipiskaupei (f.) è dotta e non trova corrispondenti. Non è inoltre detto che il suffisso ufar- "sopra" sarebbe stato usato per la traduzione della parola "arcivescovado". Più probabilmente sarebbe stato preso a prestito il prefisso greco ἀρχι- "primo, capo", come avvenne in altre lingue con mediazione latina, dando *arkiaipiskaupei. Un'altra alternativa è quella di usare la locuzione aipiskaupei hauha, ossia "alto vescovado", con paralleli anglosassoni (antico inglese hēah biscop "arcivescovo"). Vediamo invece che la forma goþansk è del tutto assurda. Innanzitutto, non presenta concordanza: dovrebbe avere un suffisso femminile. Poi il termine per indicare il concetto di "Goti, gotico" è guta-, gut-. Se si fosse trovato scritto Arkiaipiskopei Gutane, sarebbe stato decisamente più credibile. Il termine per indicare il nord dovrebbe scriversi *naurþr- /nɔrθr/, non *norþ-, essendo -o- il carattere che indica la vocale chiusa e lunga. Possiamo anche ammettere che nel tempo il suono aperto /ɔ/ della lingua di Wulfila si sia chiuso in /o/, ma dubito che sarebbe stato scritto usando il carattere che indica storicamente il suono lungo e chiuso /o:/.
"Arkiaipiskaupei Gutane jah Naurþralandis" sarebbe una denominazione ben plausibile, e Teodorico il Grande l'avrebbe capita alla perfezione.

Detto questo, la fantomatica organizzazione religiosa si fonda su pretese prive di fondamento e appartiene alla vivace galassia delle Chiese fondate dai cosiddetti Vescovi Vaganti. Se anche fosse dimostrata una labile presenza in Scandinavia del Cristianesimo Orientale giunto precocemente da Bisanzio qualche tempo prima della missione di Ansgario, questo non implicherebbe affatto che il signor Aleksey Sievers abbia titolo di proclamarsi Vescovo della Chiesa Gotica di Svezia e via discorrendo. Tra le due cose, ossia tra un fatto storico che potrebbe anche un giorno essere provato e un uomo del nostro secolo ordinato vescovo per corrispondenza, non sussiste il benché minimo nesso logico, né esiste una qualsiasi continuità. 

Nel Web si trova menzione del fatto ben singolare che questo Aleksey Sievers sarebbe riuscito a far riconoscere i Goti come minoranza linguistica in Svezia. Se così fosse, dovremmo ammettere che le autorità svedesi siano di un'ingenuità davvero degna dei Puffi, del tutto prive di consulenti competenti in grado di valutare la fondatezza delle rivendicazioni del primo stravagante che sorga dalla massa ignorante. Del resto cosa potremmo aspettarci da una nazione cieca che fa crescere una galassia di emirati islamici al suo interno pensando che il jihadismo non sia un problema? 

Il sito di tale Chiesa è linkato dalla pagina di Wikipedia:


Tuttavia si nota che questo url corrisponde oggi a uno squallido blog americano che tratta di politica, occupandosi di questioni relative ai massimi sistemi, come il fatto che Hillary Clinton si rifiuta di praticare la fellatio, e altre simili amenità. 

martedì 5 luglio 2016

GLI AQUITANO-RENANI: UNA COMUNITÀ AQUITANA TRAPIANTATA IN GERMANIA

Hagenbach è una piccola città della Renania-Palatinato (Rheinland-Pfalz), in Germania. In apparenza un centro abitato come tanti, che attualmente conta circa 5.300 abitanti. L'importanza di Hagenbach è tuttavia immensa per via dei reperti archeologici che vi sono stati scoperti. Si tratta di un gran numero di iscrizioni funerarie e votive di epoca romana, incise su placche d'argento (palmae argenteae). Sono state ritrovate durante i lavori di dragaggio di un ramo morto del fiume. La cosa di per sé non sarebbe così eccezionale, se non fosse che i nomi dei dedicanti che si leggono su molte di queste lamine sono tipici di un'area molto lontana da quella che all'epoca dell'Impero era la Germania Superiore. Infatti per trovare il luogo di provenienza ultimo di quegli antroponimi dobbiamo andare fino in Aquitania: sono riconoscibili a colpo d'occhio le radici basche della lingua aquitana, senza la minima possibilità. Il vasconista Joaquín Gorrochategui, dell'Università del Paese Basco (Universidad del País Vasco), ha dedicato uno studio all'argomento:   

J. Gorrochategui (2003), “Las placas votivas de plata de origen aquitano halladas en Hagenbach (Renania-Palatinado, Alemania)”, Revue Aquitania 19, 25-47.

So quanto il Web possa mostrarsi avaro di informazioni, a dispetto dell'opinione corrente: in non pochi casi gli accademici si rifiutano di rendere pubbliche conoscenze che appartengono per diritto all'intero genere umano, forse per una loro sordida e meschina indole, simile a quella del Gollum che rimirando l'anello continua a biascicare: "Il mio tessoro!" 
Lungi da me l'idea di attribuire nello specifico questa inclinazione proprio al valido Gorrochategui, ma sta di fatto che quando un navigatore cerca qualcosa di concreto, spesso si trova nell'impossibilità di ottenere risultati concreti ed è costretto a vagare da un sito insostanziale a un altro, trovando solo riferimenti. Per fortuna esiste un sito che riporta, nel corpus delle iscrizioni aquitane, anche le iscrizioni di Hagenbach: 


Nulla è stabile in questo mondo: si sono dati molti casi di siti Web venuti meno all'improvviso e mai ripristinati. Così raccolgo le iscrizioni che ho potuto reperire e le pubblico in questa sede: 

DOMINO / MA<R>TI AVG(usto) / IVLIAN-/NVS BIOXXI / FILIVS / DONVM SOLVIT / (Votum) S(oluit) L(ibens) M(erito)  

D(omino) MARTI / BEREXE / SEMBI / FILIA / vac / V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito)  

D(omino) MAR-/TI AVG(usto) / IVLIA-/NVS BIOX-/XI FILIVS / V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito)  

D(omino) M(arti) / AND-/OS | LEVRI-/SI / vac / vac / vac / V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito)  

D(omino) M(arti) / XALI-/NVS / SALI-/XI / vac / vac/ vac / V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito)  

VERECV[N]-/DV(s)  BELE-/XI  

D(omino) M(arti) / AND-/OSSVS / OBBELLEXXI   

D(omino) M(arti) / XEM-/BVS / BAM-/BIXXI / V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito)  

MARTI / VOTVM  rev.: CIVRXOS / DOXXI  

V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito) / D(omino) M(arti) / BAM-/BIX-/XVS / SEM-/BEOC-/CI  

SEVE-/RVS IVALLIS 

D(omino) M(arti) / BONXV(s) SE-/MBEDO-/NIS // IVLI / L  

SILIXIV[S] / CARER-/DONIS / D(omino) | M(arti) / V(otum)  

XEMB-/ESVS / HISSI / D(omino) M(arti) / [---] V(otum) S(oluit) L(ibens) / M(erito)   

DOMINO / MA<R>TI | A<V>GVSTO / [I]VLIVS / BONN-/OXVS / vac / V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito) 

D(omino) MAR-/[TI] A<V>GV(sto) / BONXV(s) / [-]ONNI / [F]ILIVS/ [V(otum) S(oluit)] L(ibens) M(erito)  

CERE-/CO TE-/SSEB-/ARI / V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito)  

IVLIANA HANDOS DOMINI M(arti) V(otum)  

AMOIII /// MATI  

ANDOSSVS BANBIXXI  

VICTORIS SEMBI // VICTORIS  

Gli accademici sono inclini a ritenere che queste lamine d'argento risalgano al III secolo d.C. e che siano originarie di Lugdunum Convenarum (nella regione pirenaica, oggi Saint-Bertrand-de-Comminges). Per spiegarsi la loro presenza in una regione tanto distante, ipotizzano che siano finite in Germania come frutto di un bottino di guerra predato nel corso di una devastante spedizione della popolazione alemannica in pieno territorio aquitano. Questa ipotesi è stata suggerita anche dal ritrovamento di un secondo tesoro a Neupotz, un luogo non distante da Hagenbach, e al fatto che numerosi oggetti mostrino una provenienza diversa, dalla Gallia Celtica alla Belgica e all'Elvezia. Nel tentativo di comprendere come mai le lamine argentee si trovassero sul fondo di un fiume, gli studiosi hanno fatto ricorso alla loro sfrenata fantasia: gli Alemanni fuggiaschi, inseguiti dai Romani, si sarebbero liberati dello scomodo tesoro - forse per paura di essere incriminati dall'Ispettore Clouseau :) 

Respingo senza indugio questa ricostruzione dei fatti. Senz'altro il III secolo fu per Roma un'epoca traumatica funestata da numerosi sconvolgimenti. Il regno di Gallieno è considerato da alcuni - ben a ragione - come il punto più basso della decadenza dell'Impero, in cui tutto era in procinto di rovinare. Proprio verso l'anno 260, all'incirca l'epoca in cui gli accademici collocano l'importazione delle lamine d'argento in Germania, avvenne un fatto molto significativo: l'abbandono degli Agri Decumates, che Gallieno non poté più difendere dalle continue incursioni degli Alemanni. Ci si dimentica tuttavia di un fatto: l'Impero Romano fu una realtà cosmopolita, e lo fu addirittura in misura maggiore dell'Europa moderna. Non è affatto necessario postulare eventi traumatici per spiegare reperti come quelli di Hagenbach. Gli Aquitani in Renania dovevano essere una comunità formatasi ben prima della decadenza di Roma, partendo dallo stanziamento di legionari. Una volta terminato il servizio, questi militari anziché fare ritorno nella loro terra d'origine, rimanevano in quella a cui erano stati destinati. Anziché prendere con sé donne locali, dovettero far giungere in Germania le loro famiglie, abitando in quartieri propri. La realtà che si costituì dovette durare a lungo e mantenere la propria identità. Trovare riferimenti storici precisi non è poi così difficile. In Germania Superiore era tutto un pullulare di militari la cui lingua nativa era aquitana: in quella terra abbiamo notizia della COHORS I AQUITANORUM BITURIGUM, della COHORS I AQUITANORUM VETERANA (attestata nel I secolo d.C. proprio in Renania-Palatinato), della COHORS II AQUITANORUM EQUITATA (attiva già nel I secolo d.C.) e di altre ancora. Negli stessi luoghi dovevano vivere anche immigrati dalla Celtica e dall'Elvezia, il che spiega la natura composita dei reperti. Ad esempio abbiamo attestazione della COHORS I HELVETIORUM. Se diamo un'occhiata ai movimenti e agli stanziamenti di coorti e legioni nelle varie parti dell'Impero, rimaniamo disorientati. Vediamo Taifali nella Gallia Celtica e in Britannia, Aquitani in Britannia e in Rezia, Asturi e Traci in Germiania Inferiore, Lusitani in Pannonia e in Palestina, Iberici in Dacia, Sardi in Mauretania e via discorrendo. La presenza di un fante della Cohors I Aquitanorum Veterana è attestata addirittura ad Ancyra (attuale Ankara)!  

Il fatto che il tesoro di Hagenbach fu trovato in un ramo morto del Reno non è poi così misterioso: doveva essere parte della dotazione di un tempio di Marte che finì con l'essere distrutto da folle di fanatici cristiani, che gettarono nel fiume ogni reliquia pagana. Non vale nemmeno l'obiezione di chi pensa che i profanatori del tempio avrebbero fuso l'argento e l'avrebbero riutilizzato: si sa che i Cristiani ritenevano contaminati i tesori dei templi pagani. Così si sono trovate monete sparse sul pavimento di mitrei devastati, che nessuno si sognava di raccogliere e di usare, dal momento che erano credute proprietà del Diavolo. In altre parole, sono esistiti partigiani della nuova religione che non attribuivano validità alcuna al detto pecunia non olet.

L'ENIGMATICA DEA NEHALENNIA. UN TEONIMO AQUITANO?


In alcune regioni settentrionali dell'Impero Romano era assai popolare il culto della Dea Nehalennia. Tradizionalente ritenuta di origine germanica, in quanto fiorente nella regione del Reno affacciata sul Mare del Nord, questa devozione era tuttavia diffusa anche nella Gallia Belgica, in particolare tra il popolo celtico dei Morini (dalla parola celtica more "mare"). La notorietà di questa divinità raggiunse regioni molto lontane, grazie ai marinai e ai mercanti che le affidavano le loro vite e le loro merci. Si sono trovati altari che riportano ex voto e dediche anche da parte di persone native della Gallia Celtica e della regione alpina, come ad esempio il marinaio Vesigonius Martinus, che era cittadino dei Sequani e viveva a Vesontio (oggi Besançon), il mercante Placidus figlio di Viducus, cittadino di Rotomagus (oggi Rouen), Publius Arisenius Marinus, liberto di Publius Arisenius e mercante in Britannia, e Marcellus da Augusta Raurica (oggi Augst, in Svizzera), che ricopriva la carica di sevir augustalis della città.

Nel territorio oggi conosciuto come Zelanda, alle foci del Reno, della Mosa e della Schelda, il culto sopravvisse alla caduta dell'Impero d'Occidente: ci è noto un santuario di Nehalennia che si trovava nell'isola di Walcheren e che fu distrutto da San Willibrord, nel 694 d.C. La scoperta dei suoi resti nel luogo oggi noto come Domburg avvenne dopo quasi un millennio, nel 1645, e fece scalpore.

L'iconografia della Dea Nehalennia è densissima di simboli e di significati esoterici, connessi senza dubbio con il suo ruolo di guida dei viandanti e di protettrice dai pericoli del mare. Era spesso rappresentata con in mano un remo e accompagnata da un cane benigno, che nelle credenze dei devoti doveva fungere da psicopompo: si pensa che si trattasse di un segugio. Si trovano spesso altri attributi nautici, come ad esempio la prora di una nave, oltre a un canestro pieno di mele, che presso i Germani erano connesse con l'idea della vita eterna. A volte al posto delle mele sono rappresentate delle pagnotte. Per associazione di idee, si pensa subito a una divinità ben conosciuta del pantheon nordico: la Dea Iðunn, che ha come principale attributo un cesto di mele, frutti a cui gli Asi devono la loro immortalità. Con ogni probabilità alla radice di queste figure femminili c'è uno stesso mito neolitico. 

Detto ciò, non esiste alcuna etimologia germanica plausibile per il nome di Nehalennia. Si è voluto connettere questo nome di divinità femminile al protogermanico *no:w-, *naw- "nave", presente ad esempio in norreno nór "nave", Nóatún "Recinto delle Navi" (dimora di Njǫrðr), naust "rimessa di navi", oltre che nell'anglosassone nōwend "marinaio" (-o:- è il naturale sviluppo germanico di IE -a:-). Tuttavia si vede bene che non quadra assolutamente né il vocalismo (non esiste alcuna variante indoeuropea in cui la radice compaia con -e-) né il consonantismo (se la -h- è etimologica, non si capisce come possa essersi formata in una lingua germanica, dato che dovrebbe risalire a indoeuropeo -k-). Dove è finito l'elemento labiale -w- che si trova in latino navis /'na:wis/ e in greco ναῦς? O si ammette una lingua indoeuropea del tutto diversa, con mutamenti fonetici del tutto peculiari, o si deve ritenere che la radice da cui Nehalennia ha formato il suo nome sia tutt'altra. Si deve menzionare anche il tentativo di derivare il teonimo da una radice germanica quasi omofona di quella che indica la "nave": si tratta di *naw- "morto, cadavere", che ha esiti in diverse lingue del gruppo (gotico naus, norreno nár, anglosassone nēo) ma che a mio avviso è un relitto di sostrato. Paralleli si trovano nelle lingue slave e baltiche. Le difficoltà già analizzate si ripropongono una per una. Se i germanisti hanno ipotizzato una connessione con le radici protogermaniche per "nave" o per "cadavere", è altrettanto vero che sono stati superficiali e frivoli, evitando di tracciare il quadro dei complessi (e inverosimili) mutamenti fonetici necessari.

Non hanno avuto maggior fortuna coloro che propongono un'origine celtica: si vede che Nehalennia può esser gallico come maccheroni è inglese. Oltre al fatto che la -h- sarebbe ben enigmatica anche in questo caso, al pari del vocalismo. Nelle lingue celtiche storiche un fonema aspirato /h/ non sussisteva affatto, e se ne trovava traccia soltanto nelle forme più antiche di questa varietà, dove deriva da indeuropeo /p/. Es. l'antico nome della Foresta Nera, Hercynia Silva, la cui radice celtica è dall'IE *perkw- "quercia", donde anche latino quercus (con assimilazione pkw). 

Varie etimologie-paccottiglia sono state elaborate non vano tentativo di spiegare il nome della divinità. Solo per fare un esempio, fu fatto il tentativo di identificare grossolanamente il nome con il greco Νέα Σελήνη (Nea Selene) "Nuova Luna", cosa impossibile già per motivi fonetici. Uno studioso secentesco olandese, Marcus Zuerius van Boxhorn, cercò addirittura di far risalire Nehalennia alla lingua degli Sciti, senza arrivare da nessuna parte, potendo contare su metodi filologici ben scarsi. Pur essendo stato tra i primi ad accorgersi della somiglianza tra il latino, il greco, le lingue germaniche, il persiano e altre - e il primo a postulare la loro origine da una lingua comune, che chiamò "scitico" - i suoi argomenti hanno un sapore decisamente prescientifico. Nehalennia per lui era semplicemente l'olandese "Nat Eiland", ossia "Isola Umida", e nella sua disquisizione grossolana cercava di dimostrare tra l'altro che il francese sarebbe stato una lingua germanica. Una gran congerie di confusione, dubbi ed errori. Non si trova nelle lingue indoeuropee della Persia alcun parallelo credibile.  

Il teonimo non ha l'aria di essere riconducibile a lingue indoeuropee attestate nella regione del Mare del Nord. I casi sono due: o è un relitto preceltico e pregermanico, che documenta una lingua locale più antica e sconosciuta, oppure è stato importato da fuori in epoca imperiale. Avanzo l'ipotesi che il teonimo sia aquitano e che derivi da una radice *ne(h)al- non sopravvissuta in basco, con un tipico suffisso genitivale in -eN che continua nel genitivo basco attale -en. Essendo i vocaboli baschi inizianti in n- ben rari già nella lingua antica, è ben plausibile che la radice sia entrata da una lingua di altro ceppo, il che renderebbe conto della sua stranezza. Tuttavia il suffisso ci indica che il teonimo ha la forma di un nome di possesso, che la radice deve essere il nome dell'oggetto posseduto o di una qualità, verosimilmente un attributo divino importante. A questo punto ipotizzo che *ne(h)al sia un antico nome protobasco che significa "giovinezza". In ultima analisi si tratta di un prestito dalla radice indoeuropea *new- "nuovo", che mostra un dileguo della -w- intervocalica, come accadeva in lusitano, una lingua indoeuropea preceltica affine al sorotaptico e a parer mio da attribuirsi al gruppo delle lingue liguri, ormai estinte. Solo per fare un esempio, in lusitano è attestata la parola OILAM "pecora" (all'accusativo), che deriva dalla stessa base indoeuropea del latino ovis, con dileguo della consonante. Giungo alla conclusione che la radice di Nehalennia sia quindi di una parola di origine ultima indoeuropea, ma assimilata da una lingua non indoeuropea. La consonante -h- sarebbe il ben noto separatore iatale del protobasco. Se la mia proposta trovasse conferma, sarebbe provata in modo inequivocabile l'identificazione di Nehalennia con la dea scandinava Iðunn, avendo i due teonimi lo stesso significato (cfr. antico alto tedesco itis "donna" e anglosassone ides "vergine, signora, donna", in origine "giovane donna").  

Anche se a quanto pare in pochi ne sono a conoscenza, esistono attestazioni di antroponimi aquitani in una regione percorsa dal Reno, anche se lontana dal mare: evidentemente alcune comunità sono state deportate sotto l'Impero o più probabilmente si trattava delle famiglie di legionari nativi dell'Aquitania che li hanno seguiti dando vita a una nuova enclave allogena tra i Germani che vivevano sotto Roma. Fenomeni di questo genere non erano affatto rari: sappiamo ad esempio della presenza di Aquitani in Sardegna. In tale regione remota furono dislocati probabilmente per via della somiglianza tra la loro lingua e quella dei Sardi, nel tentativo di favorire la pacificazione delle popolazioni native. Così penso che la spiegazione più plausibile di Nehalennia sia riconducibile a stanziamenti di Aquitani, e probabilmente addirittura a una singola persona che chiamò con un nuovo epiteto una divinità locale antica, dedicandole un ex voto per essersi salvato da morte certa nel corso di un naufragio. Il nome divino coniato da questo aquitano sarebbe piaciuto e si sarebbe così diffuso. 

sabato 2 luglio 2016


SULLA NATURA DEI CONNETTORI

Un universo casuale non ammette i connettori. Se la società umana fosse una rete casuale, nel modesto campione di 400 persone esaminate da Gladwell - con la sua media di circa 39 contatti sociali - anche l'individuo più connesso non raggiungerebbe i 118 contatti. E se il Web fosse una rete casuale, le probabilità che esista una pagina con 500 link dall'esterno sarebbero 10-99, ossia praticamente zero, a indicare che una rete casuale non contempla gli hub. L'ultima rivelazione del Web, invece, considerando un campione pari a quasi un quinto dell'intera rete, trovò 400 pagine con quelle caratteristiche, nonché un documento che aveva addirittura due milioni di link dall'esterno. Trovare un nodo di questo genere in una rete casuale è più difficile che localizzare un certo atomo in tutto l'universo. Se Holliwood fosse una rete casuale, Rod Steiger non esisterebbe, perché la probabilità che esista un attore con un così alto numero di collegamenti è all'incirca 10-120, una cifra talmente bassa che non ci sono metafore per renderla. Si spiega allora la nostra sorpresa quando, nelle nostre prime ricerche sulle reti del mondo reale, individuammo per la prima volta gli hub nel Web e nella rete di Holliwood. Non eravamo preparati a una scoperta del genere, perché nodi così connessi non rientravano né nel modello Erdõs-Rényi né in quello Watts-Strogatz. Semplicemente, la loro esistenza non era mai stata contemplata.
La scoperta che, sul Web, pochi hub si annettono la maggior parte dei link, inaugurò una ricerca frenetica in varie aree. I risultati furono stupefacenti: scoprimmo che Hollywood, il Web e la società umana non sono casi isolati. Come ora sappiamo, gli hub sono presenti anche nelle reti d'interazioni chimiche fra le molecole all'interno della cellula vivente.
Alcune molecole, come quelle dell'acqua o l'adenosintrifosfato (ATP), sono i Rod Steiger della cellula: partecipano a un numero enorme di reazioni chimiche. Su Internet, la rete che connette materialmente i computer di tutto il mondo, pochi hub svolgono un ruolo cruciale nel garantire il funzionamento della rete in caso di malfunzionamenti. Erdõs è il più grande hub della matematica, con ben 507 colleghi dotati d'un numero di Erdõs pari a uno. Secondo uno studio condotto dalla AT&T, una piccolissima parte dei numeri telefonici è responsabile di una frazione straordinariamente alta di chiamate inviate o ricevute. Chi ha un adolescente in casa potrebbe nutrire seri sospetti sulla reale identità di alcuni di questi hub telefonici, ma i veri colpevoli sono probabilmente le aziende di telemarketing e i numeri del servizio consumatori. Gli hub sono presenti in quasi tutte le grandi reti complesse studiate finora. Compaiono ovunque e sono uno dei mattoni fondamentali del nostro mondo complesso e intrecciato. 

Albert-László Barabási - Link, la nuova scienza delle reti
(Esilio a Mordor, 30/06/2007)

Si capisce bene come i connettori sono lo strumento dell'Artefice di questo universo maligno. I connettori pongono le subdole e inique basi della competizione, e la competizione è inseparabile dalla natura assassina della materia. Anche i più elementari meccanismi cellulari alla base dell'esistenza biologica riflettono questo esiziale orrore, questa turpitudine innominabile. Chi comprende a fondo i princìpi e le conseguenze dalla cibernetica non può che scorgervi la prova irrefutabile della realtà della Colpa Ontologica. È inutile che lo neghiamo: in ogni nostra cellula si celano manipoli di spietati killer, ogni nostra determinazione non può che soggiacere allo spietato, mortifero dominio delle Cose Composte. Finché non troveremo il modo di liberarci dal corpo, saremo soltanto onde quantistiche di delirio intrappolate in una buca di potenziale simile a un pozzo nero senza fondo.  

(Esilio a Mordor, 30/06/2007)

giovedì 30 giugno 2016


LA NATURA DEL CYBERSPAZIO
E L'AVVENTO DEI BORG 

Il cyberspazio incarna la più alta libertà di parola. Qualcuno potrà sentirsene offeso, altri potranno apprezzarlo, ma il contenuto di una pagina Web è difficile da censurare.
Una volta lanciato in rete entra a disposizione di centinaia di milioni di persone. Un diritto d'espressione così illimitato, con dei costi di pubblicazione così bassi, fa del Web una grandissima manifestazione di democrazia. Tutte le voci hanno pari opportunità di ascolto, o almeno così predicano tanto i costituzionalisti qualto le riviste d'affari. Se il Web fosse una rete casuale, potremmo anche essere d'accordo con loro. Ma non lo è. Il risultato più affascinante del nostro progetto di mappatura fu la scoperta di una totale assenza nel Web, di democrazia, equità e valori ugualitari. Imparammo che l'unica cosa che la topologia di questa rete permette di vedere sono il miliardo di documenti ivi contenuti.
Quando si considera il Web, la domanda fondamentale non è più se le nostre opinioni possono venire pubblicate: certo che possono e, una volta online, diventano accessibili a chiunque, in qualunque parte del mondo, con una semplice connessione Internet. Di fronte alla giungla di documenti che ci appaiono minuto per minuto, la domanda cruciale è piuttosto la seguente: se lancio un'informazione in rete, qualcuno la noterà? Per essere letti bisogna essere visibili: una banale verità che vale tanto per gli scrittori quanto per gli scienziati. Sul Web la misura della visibilità è il numero di link. Più link puntano alla vostra pagina Web, più siete visibili. Se ogni documento in rete avesse un link alla propria pagina Web in un attimo tutti saprebbero ciò che aveta da dire. Ma una pagnia Web ha in media non più di cinque-sette link che puntano ognuno a una delle migliaia e migliaia di pagine esistenti là fuori. Di conseguenza le probabilità che un documento crei un link proprio alla vostra pagina Web sono prossime allo zero.
Questa conclusione si applica perfettamente alla mia homepage, www.nd.edu/~alb. Secondo AltaVista, nel Web ci sono almento una quarantina di pagine che puntano a essa.
Francamente mi sembra persino troppo, considerato il mio limitato campo di interesse. Ma poiché il Web offre una scelta complessiva di circa un miliardo di pagine, le probabilità di scoprire la mia sono all'incirca quaranta su un miliardo. Vale a dire che, se navigate a caso giorno e notte in rete fermandovi non più di dieci secondi su ogni sito, vi occorreranno otto anni prima d'incontrare un link alla mia homepage.
Tutti abbiamo interessi, gusti e valori diversi. I link che creiamo sulla nostra pagina Web riflettono tali differenze. Stabiliamo connessioni con pagine di ogni tipo, dai siti sull'arte tribale africana ai portali di commercio elettronico. Considerando che possiamo scegliere fra oltre un miliardo di nodi, ci si aspetterebbe che la configurazione finale dei link sia abbastanza casuale, il che significherebbe il trionfo del modello Erdõs-Rényi. Un Web casuale sarebbe il massimo veicolo di uguaglianza, perché la teoria dei due studiosi garantisce un elevato grado di somiglianza tra tutti i nodi, tutti dotati all'incirca dello stesso numero di link dall'esterno.
Le nostre misurazioni, però, smentiscono queste attese. La mappa riportata dal nostro robot diede prova di un alto grado di disparità nella topologia del Web. Delle 325000 pagine esaminate nel dominio della Notre Dame University, 270000 - l'82 per cento del totale - avevano tre link dall'esterno se non meno. Mentre una ristrettissima minoranza, 42 pagine circa, ne aveva più di mille. Misurazioni successive su un campione di 203 milioni di pagine Web rilevarono uno spettro ancora più ampio: nella stragrande maggioranza - qualcosa come il 90 per cento del numero complessivo - i documenti avevano meno di dieci link dall'esterno, mentre pochissimi - non più di due o tre - ne avevano quasi un milione!
Così come nella società umana pochi individui, i connettori, conoscono un numero insolitamente ampio di persone, l'architettura del World Wide Web è dominata da pochissimi nodi altamente connessi, o hub. Questi hub, come per esempio Yahoo! o Amazon.com, sono estremamente visibili: ovunque ci si sposti, si trova sempre un link puntato verso di loro. Nella rete del Web tutti i nodi poco conosciuti, scarsamente visibili e dotati di un esiguo numero di link sono tenuti insieme da questi rari siti altamente connessi.
Gli hub sono la più netta smentita alla visione utipica di un cyberspazio ugualitario.
Certo, tutti abbiamo il diritto di mettere in rete ciò che vogliamo. Ma qualcuno lo noterà? Se il Web fosse una rete casuale, tutti avremmo la stessa opportunità di essere visti e sentiti. Collettivamente creiamo in qualche modo gli hub: sono i siti a cui tutti si collegano. Facilissimi da trovare, si possono rintracciare in qualsiasi punto della rete. Al loro confronto il resto del Web è praticamente invisibile. Per qualunque obiettivo concreto, le pagine linkate da uno o al massimo due altri documenti praticamente non esistono. Sono quasi impossibili da individuare. Persino i motori di ricerca sono maldisposti nei loro confronti e, quando viaggiano nel Web alla ricerca dei nuovi siti appena usciti, le ignorano.

Albert-László Barabási - Link, la nuova scienza delle reti
(Esilio a Mordor, 30/06/2007)

Dai tempi in cui scriveva l'autore ungherese molte cose sono cambiate. Zuckerberg è giunto, portando una nuova tirannia simile a quella dei Borg di Star Trek: la massa informe e pulsante che è Facebook ha assimilato centinaia di milioni di persone. Qualcuno dirà come al solito che questa "è fantascienza". Invece è la nuda e cruda realtà dei fatti, che non ha proprio nulla di fantastico. Ogni resistenza è inutile, l'Alveare è ormai esteso sull'intero pianeta e divora interi popoli. Sotto la pressione della mostruosità di Zuckerborg, la Rete come la conoscevamo si affloscia, perde vitalità e avvizzisce giorno dopo giorno, mentre l'Alveare si ingigantisce a dismisura. Già si parla di una Grande Estinzione che farà sparire i siti web personali e gli ultimi residui blogosferici, esiziale come la catastrofe che ha cancellato i dinosauri sul finire del Cretaceo. Quando il processo si sarà completato, esisterà un unico hub: Facebook.

martedì 28 giugno 2016


L'ESPLOSIONE DELLE INFLUENZE
NEL PICCOLO MONDO

Nonostante secoli di straordinario progresso della medicina e della biologia, non è, questo, un momento incoraggiante per la storia dell'umanità.
Non vi è motivo di essere ottimisti: vi è semmai motivo di temere epidemie globali. Come ha scritto il compianto Jonathan Mann, professore di epidemiologia e immunologia di Harvard: "Il mondo è assai più di prima soggetto allo scoppio e, peggio, alla diffusione ampia o addirittura globale di vecchie e nuove malattie infettive... Motore del fenomeno è il notevole aumento della mobilità di persone, merci e idee... Un individuo che ospita un microbo micidiale può facilmente salire su un aereo di linea e trovarsi in un altro continente al manifestarsi dei sintomi della malattia. L'aereo e il suo carico spesso conducono insetti e agenti infettivi in nuovi contesti ambientali".
Questa vulnerabilità è l'ovvia conseguenza del "piccolo mondo" e della rete internazionale del trasporto aereo che la sorregge.

Mark Buchanan - NEXUS
(Esilio a Mordor, 18/08/2008)

Quando il benemerito autore di NEXUS scriveva queste profetiche parole, l'attenzione della comunità scientifica era focalizzata soprattutto sulla pandemia di AIDS causata dal retrovirus HiV. Soltanto qualche anno dopo si sarebbe cominciato a parlare di una nuova catastrofe incipiente: la fine dell'Età degli Antibiotici. Un evento epocale capace di cambiare in modo significativo le nostre vite, che sta generando batteri virtualmente indistruttibili, contro cui i mezzi a disposizione dell'attuale scienza medica nulla possono. Con buona pace dell'immaginario collettivo, non esiste soltanto il contagio ad opera di microrganismi che si diffondono tramite l'aria, come ad esempio il virus dell'influenza. Conseguenze luttuose hanno anche gli agenti patogeni che si trasmettono per contatto diretto, come ad esempio i responsabili delle infezioni veneree. La mobilità di persone, merci e idee comporta in modo ineluttabile la moltiplicazione degli atti sessuali. I corpi umani sono giganteschi banchetti per agenti patogeni di ogni tipo e il contatto tra i fluidi corporei degli amanti è come un processo coloniale che porta alla conquista di nuovi continenti. Il pericolo non è soltanto la rete "piccolo mondo" del trasporto aereo, ma sopra ogni altra cosa la rete "piccolo mondo" dei contatti sessuali, che è molto più estesa e pervasiva. 

Ne sono sicuro e lo vado dicendo da anni: Nemesi è all'opera. Un giorno o l'altro scaturirà dagli orifizi della Nappi qualcosa che ci ammazzerà tutti. Seguiamo il percorso di questo messaggero di morte, la cui venuta al mondo è prossima: nato da infinite sessioni di sesso promiscuo e privo di barriere tra sangue e mucose di innumerevoli copulanti, questo microrganismo fatale è il prodotto di un'accurata selezione occorsa in tempi assai rapidi. Le generazioni di batteri e di virus negli orifizi durano ben poco in confronto alla vita umana, quindi svariate mutazioni genetiche inattese possono sorgere e propagarsi in modo tempestivo. Quelle cavità sessuali sono laboratori di terrorismo biologico e come tali andrebbero trattate. Una turca è molto più pulita e asettica della vagina, dell'ano e della bocca di una donna dedita a molteplici amplessi. Per tenere sotto controllo l'emergere di continue infezioni - spesso nemmeno batteriche - è deleterio costume dei moderni gaudenti riempirsi di antibiotici, cosa che sta portando alla fine dell'efficacia di tali farmaci. Le sequenze genetiche responsabili della resistenza superano le barriere tra le specie batteriche, rendendo esiziali anche patologie non veneree. Questa è soltanto una delle conseguenze. Si vede che nello stesso ambiente anche organismi drasticamente diversi come virus e batteri interagiscono tra loro, accelerando il mutamento in modo esponenziale: ne nascerà un morbo portentoso e funesto in sommo grado, pronto a diffondersi come un invincibile Male fuoriuscito dall'apertura del Vaso di Pandora.

LA MORTE DI PAN

Io ho sentito la storia di un uomo che non era né uno sciocco né un imbroglione. Alcuni di voi hanno ascoltato il retore Emiliano, che era figlio di Epiterse, mio concittadino e maestro di grammatica. Proprio lui mi raccontò che una volta si era imbarcato per l'Italia su un mercantile con molti passeggeri a bordo: alla sera quando già si trovavano presso le isole Echinadi, il vento cadde di colpo, e la nave fu trasportata dalla corrente fino a Paxo. Quasi tutti i passeggeri erano svegli, e molti, terminata la cena, stavano ancora bevendo. All'improvviso si sentì una voce dall'isola di Paxo, come di uno che gridasse il nome di Tamo. Tutti restarono sbalorditi. Questo Tamo era un pilota egiziano, ma quasi nessuno dei passeggeri lo conosceva per nome. Due volte la voce dell'uomo lo chiamò, e lui stava zitto. Alla terza rispose, e allora quello con tono più alto disse: "Quando sarai a Palode, annuncia che il grande Pan è morto". A queste parole, diceva Epiterse, tutti restarono sbalorditi, e si domandavano se fosse meglio eseguire l'ordine oppure non darsene cura. Allora Tamo decise che, se ci fosse stato vento, avrebbero costeggiato la riva in silenzio; se invece giunti là avessero trovato bonaccia, avrebbe riferito la notizia. Quando infine arrivarono a Palode, non un soffio di vento, non un'onda. Allora Tamo, sulla poppa, guardò verso terra e gridò: "Il grande Pan è morto". Non aveva quasi finito di dirlo che subito si levò un gran gemito, non di una persona sola, ma di tante, pieno di stupore.  

Plutarco - Il Tramonto degli Oracoli
(Esilio a Mordor, 19/12/2006)

Eventi come quello descritto da Plutarco segnano la fine di un'epoca e l'inizio di un'altra. Non sono soltanto dati di fatto, ma fungono da geroglifici che condensano in sé l'angosciante simbolismo della frattura col passato. Quando una tale rottura si è consumata, non è più possibile tornare indietro. Su questo non si mediterà mai abbastanza. Come insegna la termodinamica, nell'Universo esistono solo processi irreversibili. Tutto è senza rimedio: dalla lenta cottura di un uovo, in cui mutamenti microscopici sono responsabili del rassodarsi dell'albume e del tuorlo, alle ineluttabili forze che plasmano i popoli e le religioni. La cesura storica muta lo stesso sentire delle genti. Nulla è più riconoscibile: si ha la fortissima impressione di procedere verso l'Ignoto. Si arriva fatalmente al punto in cui tutto ciò che esiste appare all'improvviso estraneo, come se la sua stessa sostanza ontologica si fosse stemperata.

sabato 25 giugno 2016

IL MAGONE: UNA FALSA ETIMOLOGIA DA UNA STORIELLA SCOLASTICA

Girando nella Rete, che tanto ha contribuito a diffondere una forma contagiosa di ignoranza, mi sono imbattuto in un'assurda narrazione. Secondo non poche persone, la locuzione "avere il magone", che significa "essere triste", deriverebbe dal nome del generale cartaginese Magone. Per giustificare quest'insana fantasticheria, costoro citano fatti storici estratti a viva forza da qualche manuale scolastico, dando spiegazioni cervellotiche quanto vane. 

Sia ben chiaro, il magone non ha nulla a che spartire col nome del condottiero di Cartagine, fratello di Annibale. Si tratta di una mera assonanza o coincidenza fortuita, cosa non infrequente quando le parole hanno una struttura fonetica abbastanza semplice. 

Il termine magon /ma'gun/ indica nel Nord Italia il ventriglio degli uccelli, ossia il loro stomaco. La locuzione avegh el magon (milanese) ed equivalenti nei vari dialetti galloitalici significa alla lettera "avere il gozzo", quindi "avere un groppo in gola", da cui "essere triste". L'origine germanica del vocabolo è ben chiara. Il termine di partenza deve essere stato il longobardo *mago, gen. *magon, *magun "stomaco, ventriglio". Tuttora vi sono corrispondenze precise in lingue germaniche viventi. Tedesco Magen "stomaco". Inglese maw "ventriglio".

Eppure la vera etimologia è osteggiata in modo aperto e giudicata assurdamente un'etimologia popolare, mentre la paretimologia nata dall'assonanza è ritenuta autentica.

Questo è riportato da Sapere.it, che pure non è un sito di complottisti:


"Il modo di dire "avere il magone" è piuttosto antico e ci sono due possibili spiegazioni, una colta e l’altra popolare; la prima si riferisce a Magone Barca, che comandò la battaglia della Trebbia contro i Cartaginesi durante la II guerra Punica (218 a.C.). Petrarca narrò della morte di Magone, che avvenne durante il suo viaggio verso Cartagine dopo la distruzione di Genova, nel suo poema Africa. 
Ecco perché si è poi attribuito al sostantivo “magone” il significato di triste rimpianto, nodo alla gola che precede il pianto provocato da una brutta notizia."

Segue l'esposizione quasi rituale della spiegazione corretta del magone, giudicata invece come "popolare" e implicitamente come inaffidabile. Ma che affidabilità ha mai la spiegazione "dotta"? Per gli autori di Sapere.it, tutto sarebbe nato dalla poesia di Petrarca, Africa, talmente vivida che chi la lesse si immedesimò nelle genti di Cartagine sconvolte dal lutto per la perdita del loro condottiero. Come dire, quando Napoleone fu sconfitto a Waterloo, si diffuse tra le genti di Francia tale scoramento, che da allora per dire "essere triste" si diffuse una nuova locuzione: "avere il napoleone". Basterebbe il grottesco di una simile barzelletta per esporre la trovata al pubblico ludibrio. 

Assurdità dello stesso tenore, corredate da ulteriori dettagli e da una spiegazione un po' differente, si ritrovano in un articolo apparso sul sito Placidasignora.com


Anche in questo caso, la spiegazione genuina del magone è attaccata e giudicata "popolare", quindi frutto dell'ignoranza, mentre la fanfaluca del generale cartaginese viene osannata, difesa come "dotta" e le viene attribuita una specifica origine genovese. Al contempo, si condannano i dizionari della lingua italiana perché prendono per buona la spiegazione "popolare", per di più "senza dare spiegazioni". Secondo la Placida Signora, una vecchia conoscenza dei tumultuosi tempi di Splinder (ricordo ancora quel suo amico che mi soprannominava "Freikorps"), siccome Magone devastò Genova, avrebbe causato un indelebile trauma ai suoi abitanti, che avrebbero tramandato il suo nome come sinonimo di tutto ciò che è funesto. La logica è ancora una volta posticcia. Come dire, avendo le orde di Hulagu Khan raso al suolo Baghdad apportandovi una spaventosa distruzione, si diffuse tra i superstiti della città annientata un tale scoramento, che da allora per dire "essere triste" si diffuse una nuova locuzione: "avere l'Hulagu Khan". Ancora una volta un'assurdità patente.  

In realtà, eliminare la costruizione scolastica di un'origine da Magone e difendere il parallelismo con il tedesco Magen è una delle più semplici e sensate applicazioni del Rasoio di Occam. Anche se in non poche occasioni tale strumento logico si presta ad abusi, in questo caso la sua applicazione non presenta problema alcuno ed è del tutto legittima. Delle due spiegazioni, la più semplice tende ad essere quella giusta. Se poi si considera che l'origine del magone dalla storiella di Magone è difesa soprattutto da autori di Genova per motivi di fiero campanilismo, il resto segue: è stato un insegnante genovese a fabbricare la falsa etimologia e sono tuttora suoi concittadini a cercare di imporla, perché la sentono legata al patrimonio culturale della loro città. L'origine scolastica è ben chiara. Per essere eufemistici, è ben lecito nutrire seri dubbi sul fatto che i Genovesi ricordino sul serio per trasmissione diretta la distruzione della città ad opera di Magone. Genova non ricorda Magone più di quanto Milano ricordi il goto Uraia. Troppi secoli sono trascorsi, troppe cose sono cambiate. L'antica lingua ligure, di ceppo indoeuropeo e preceltica, che era parlata ancora all'epoca di Seneca, si è estinta ed è stata soppiantata dal latino volgare che si è evoluto in una varietà romanza nel corso dei secoli. 

Il nome del condottiero cartaginese, trascritto Mago /'ma:go:/ o Magon /'ma:go:n/ dai Romani e Μάγων dai Greci, viene chiaramente dal punico: magōn (scritto mgn) significava "scudo". La parola corrisponde in modo perfetto all'ebraico מגן māgēn "scudo". Spesso alla -e:- lunga ebraica il punico rispondeva con -o:- lunga. Così neopunico molchomor "sacrificio di un agnello" (creduto per errore una glossa di Agostino d'Ippona; attestato nelle iscrizioni di N'Gaous) - da pronunciarsi /molχo'mo:r/ - in cui omor /o'mo:r/ "agnello" corrisponde alla perfezione all'ebraico אמר immēr "agnello", accadico immeru "pecora"