giovedì 20 settembre 2018

IL PRURITO DEL DRAGO
(Parte Seconda)
 

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IV

Garm si risvegliò con un grido. Kavàla, che gli riposava accanto, si voltò a guardarlo.
  - Che ti prende?
  - Ho avuto un incubo. Un gatto mi inseguiva.
  - Non mi sembra un sogno tanto sconvolgente.
  - Il gatto era grosso come un vitello.
  - E ti metti a gridare per una sciocchezza simile?
  - Fai presto tu a dire così: sono in un bagno di sudore.
  - Lasciami dormire, và, e vedi di non scoreggiare troppo.
Kavàla si girò su un fianco, volgendo la schiena a Garm che, sudato fradicio, esalava vapori quanto un letamaio a dicembre. Per sua fortuna, nelle immediate vicinanze sorgeva un’intera colonia di phallus impudicus – miceto noto per il profilo falliforme e il fetore pestilenziale che emana. Il lezzo che quei funghi spandevano  all’intorno era così forte da coprire ogni altro odore in un raggio di svariate decine di metri.   
La ragnanza andava disfacendosi, mentre il lucore all’orizzonte annunciava l’approssimarsi dell’alba. Tremolavano gli  esili steli delle calpurnie purpuree, e il verdurame si aggrappava, intirizzito di rugiada, alle radici delle isverdie.
Nonostante tutto, si fece giorno.
Garm giaceva mollemente disteso sull’erba, come un escremento di vacca appena deposto.
Accanto a lui sedeva  Kavàla.
  - A cosa stai pensando? - gli chiese.
  - Mi domandavo per quale ragione Firlfrind abbia scelto proprio me. Non ho doti particolari, e non brillo certo per coraggio - rispose Garm dopo una pausa di silenzio.
  - L’ho notato. Sei sempre sul chi vive. Hai uno sguardo da animale braccato.
  - La paura mi segue come un’ombra, sin da quando ero ragazzo.
  - Non dovresti parlare così. Le donne non amano i pavidi.
  - Ma è la verità.
  - E allora? Mica va raccontata per forza, la verità.
  - Tanto prima o poi viene a galla comunque.
  - Ma se eviti di metterla in piazza tutta quanta, forse è meglio, ti pare? Garm, devi imparare a dissimulare le tue emozioni. Lo dico per il tuo bene.
  - Non capisco. In passato mi son sentito rimproverare per il motivo opposto: mi è stato detto che devo esprimerle, le emozioni, non tenere tutto dentro.
  - Tira fuori il buono che c’è in te, e i miei occhi mi dicono che c’è del buono, e tieni nascosto il resto.
Kavàla passò una mano fra i capelli di Garm, rivolgendogli uno sguardo che avrebbe liquefatto un ghiacciaio.
  - Trovi davvero che ci sia del buono in me? - le chiese, rapito.
  - Sì.
  - E vuoi che lo tiri fuori?
  - Oh sì.
Nel preciso istante in cui Garm si accingeva a soddisfare la richiesta di Kavàla, il cielo si fece color pece. Nubi temporalesche, trasportate da un vento impetuoso, riversarono sulla zona torrenti di pioggia. I due giovani cercarono riparo nel folto del bosco, sotto le ampie fronde di una quercia, ma non vi era modo di sfuggire alla pioggia che cadeva a secchiate. Dello sgrinz non vi era traccia, a parte una gran boassa in cui Garm sprofondò sino alle caviglie. Quando la speranza stava ormai per abbandonarli, i due fuggitivi scorsero l’ingresso di una grotta che si apriva nel fianco di un tozzo promontorio. Una raffica di vento aveva rimosso la copertura di rami che ne ostruiva l’ingresso. Vi si infilarono senza esitare un solo istante, e non appena varcata la soglia un senso di meraviglia si impadronì di loro: l’interno della grotta pullulava di farloni, specie di pinnipedi dimoranti nelle regioni boschive dell’emisfero meridionale.
  - Mamma mia non ho mai visto tanti farloni tutti assieme - sussurrò Kavàla.
  - Manco io.
  - E com’è che dormono tutti quanti?
  - E chi lo sa. Che facciamo, restiamo?
  - Guarda, se ne sta svegliando uno!
  - E’ meglio che usciamo.
  - Ma aspetta un attimo almeno!
Il farlone, accortosi dei due estranei, si stiracchiò per benino, e dopo essersi scrollato di dosso la sabbia del pavimento rivolse loro la parola.
  - E voi chi siete?
  - Il mio nome è Kavàla, lui è Garm. Siamo diretti a Elissinia. La tempesta ci ha sorpresi e abbiamo cercato rifugio nella vostra grotta. Vi chiediamo ospitalità finché non avrà smesso di piovere, dopo di che ce ne andremo immediatamente.
  - Prego, accomodatevi pure.
Si sedettero in un cantuccio, facendo attenzione a non disturbare i dormienti. Il fatto che un pinnipede fosse dotato di favella non li aveva turbati: si erano convinti, ormai, che il bosco racchiudesse ogni sorta di magie.
  - Elissinia non è lontana. Io però non ci ho mai messo piede, e mi guarderò bene dal farlo anche in futuro - il farlone sottolineò la frase con un peto. - Gli elissini ci danno la caccia e con la nostra pelle rivestono le poltrone. Toglietemi una curiosità, cosa vi spinge in città?
  - Il mago Firlfrind mi ha affidato questo incarico.
Il farlone spalancò tanto d’occhi e fece una capriola.
  - Firlfrind?
  - Lo conosci?
  - Certo che sì! Firlfrind ci ha guariti da un’affezione fastidiosissima, una forma acuta di prurito inguinale. Siate dunque i benvenuti!
Garm diede di gomito ad Kavàla.
  - Visto?
Il farlone aprì un armadietto e ne trasse fuori una bottiglia e tre bicchieri. Li riempì sino all’orlo di un liquido di colore ambrato, che emanava un intenso profumo di malto.
  - Un brindisi a Firlfrind!
  - Per tutte le fave, ma è una delizia! Cos’è mai questa bevanda?
  - Eh eh, avete appena assaggiato la nostra specialità. E’ una bevanda inebriante, ma ha delle controindicazioni.
  - Quali?
  - Ve lo spiego subito. Un giorno me ne stavo tranquillo a riposare all’ombra di un cespuglio quand’ecco che vedo apparire Euforione.
  - E chi sarebbe mai?
  - Il proprietario del bosco.
  - Non sapevo che il bosco avesse un proprietario - osservò Kavàla.
  - Ce l’ha. Euforione, appunto. Era lì, ci separava solamente il cespuglio. Parlava da solo, lo udii bofonchiare qualcosa a proposito di rogiti notarili, mappali e particelle catastali.
  - Garm, di che va farneticando questo pinnipede? - bisbigliò Kavàla.
  - Dev’essere l’effetto della bevanda.
  - Insomma, statemi a sentire! Euforione torreggiava a un passo da me, e io non sapevo che fare. Fuggire? Restare nascosto?.
  - Allora?
  - Rimasi nascosto. Trascorso un po’ di tempo, Euforione se ne andò.
  - Tutto qui?
  - E vi sembra poco? Non conoscete Euforione! Quell’uomo è capace di tutto.
  - Mi sfugge il nesso fra il racconto e la bevanda.
  - Quel giorno avevo alzato il gomito. Ecco perché mi assopii incautamente all’aperto.
  - Bene, è tutto chiaro, non bisogna abusare di questo liquore.
  - Esatto! Ora, se mi date un attimo di tempo, vado a svegliare un mio amico che conosce la città e potrà darvi qualche dritta.
Il pinnipede dopo una breve ricerca si ripresentò in compagnia di un farlone dall’aria assonnata.
  - Elissinia… Sì, la conosco bene, ci ho vissuto.
  - Ci ha vissuto da prigioniero!
  - E ne sono fuggito per miracolo. Ma per voi due non sarà difficile entrarci. Siete giovani, e la città pullula di studenti della vostra età.
  - Cos’è uno studente?
I farloni si guardarono l’un l’altro, increduli.
  - Davvero non sapete cosa sia uno studente?
Kavàla e Garm allargarono le braccia.
  - Questa poi. Come posso spiegarvelo? Lo studente iscritto all’accademia ha un’età compresa fra i 18 e i 35 anni, ed è riconoscibile dall’andatura dinoccolata e da una certa espressione del viso.
  - Cosa fanno gli studenti?
  - Studiano. Imparano cose scritte sui libri.
  - E i libri, cosa sono i libri?
  - I libri sono fatti di tanti fogli di carta rilegati insieme, su cui sono scritte delle parole. Parole, come quelle che stiamo pronunciando ora. Possibile che non ne abbiate mai visto uno? Eppure vi esprimete con proprietà di linguaggio.
  - A cosa servono i libri?
  - A trasmettere la conoscenza - esclamò il primo farlone, compiaciuto.
  - E non solo - riprese il secondo. - Gli umani, e in special modo gli eruditi, hanno una paura folle della morte, e si inventano ogni sorta di trucchi per metterla a tacere.
I libri, quelli buoni, almeno, sopravvivono ai loro autori. E questa è precisamente la speranza di ogni singolo scrittore: lasciare una traccia che duri oltre la propria morte.
  - E’ questa la ragione per cui scrivono?
  - Una delle ragioni principali.
  - E gli studenti imparano le parole scritte sui libri?
  - Le imparano solo il tempo necessario per poter superare gli esami, dopo di che se le dimenticano.
  - Esami?
  - L’esame funziona così: lo studente si presenta in un giorno stabilito davanti al professore, che lo interroga per accertarsi che lo studente abbia letto dei libri, scritti solitamente dal professore medesimo o da un suo parente stretto, e ne abbia appreso il contenuto.
  - Insomma tutto ruota intorno alle parole scritte su quei fogli di carta.
  - Già.
  - E per entrare in città noi dovremmo diventare studenti?
  - Questo non è un problema. Non tutti gli studenti sono studenti per davvero.
  - Ossia?
  - Non tutti gli studenti studiano: molti di loro non fanno che bighellonare, tirar tardi la sera, passare da un festa all’altra cercando di abbordare le studentesse un po’ brille.
  - Sembra divertente - osservò Kavàla.
  - Lo è certamente di più che lavorare in miniera.
  - E vanno avanti così per sempre? - domandò Garm.
  - No, un bel giorno si laureano.
  - Che vuol dire?
  - Che diventano dottori. Prendete Euforione, il padrone del bosco: lui è dottore in giurisprudenza. Conosce a memoria un paio di libroni mal scritti pieni zeppi di articoli di legge, e si fa pagare profumatamente per spiegarne il contenuto agli altri.
  - Elissinia è proprio uno strano posto - disse Garm. - Firlfrind me l’aveva pur detto.
  - Riuscissimo almeno a trovarla.
  - Siete più vicini di quanto non immaginiate. Quando uscirete di qui, incamminatevi in direzione della grande quercia. Lì troverete un sentiero che conduce in città.
  - Così faremo!
  - Adesso noi ci rimettiamo a dormire. Buon viaggio, siate prudenti!
Kavàla si chinò ad accarezzare i due animaletti.
  - Siete così gentili. Buona fortuna anche a voi!
Garm diede un’occhiata all’esterno. Aveva smesso di piovere.
Appena fuori, accatastarono dei rami abbattuti dal vento dinanzi all’ingresso, così da ripristinare la copertura che lo celava, prima, alla vista. Il temporale aveva fatto sì qualche danno, ma nulla di grave, e il bosco stava già ritornando alla vita di sempre.
  - Guarda!
Kavàla, in piedi al centro del sentiero, indicava qualcosa dinanzi sé, in lontananza.
  - Dove? - chiese Garm.
  - Là, dove la vegetazione si dirada.
  - Un cavallo!
  - Ma quale cavallo:  è un mendicante, non vedi?
  - Eppure nitrisce.
  - Ma non è un cavallo!
Il mendicante, un uomo magro come uno stecco, parlava da solo e ridacchiava. Si avvide della presenza dei due giovani solo quando fu a pochi metri da loro.
  - Salve, chi sono io?
  - Come sarebbe? Se non lo sa lei!
  - Se lo sapessi non ve l’avrei domandato.
  - Garm, assecondalo per carità, è un pazzo.
  - No miei cari, non sono pazzo, almeno non ufficialmente, purtroppo. Se lo fossi, avrei una scusa plausibile e socialmente accettata per le mie piccole eccentricità. Ora però, dovete scusarmi, ma ho altri impegni più urgenti. Vi devo lasciare.
Il mendicante prese a restringersi, e dopo pochi istanti si ridusse alle dimensioni di un bambolotto.
  - Allora, ditemi, chi di voi è Euforione?
I giovani si scambiarono sguardi allibiti.
  - E dagli con Euforione! Nessuno dei due! - esclamò Kavàla.
Il mendicante non pareva del tutto convinto. Rimpicciolì ulteriormente.
  - Dov’è finito?
  - Eccolo, non è più grande di una lumaca!
  - Sta dicendo qualcosa.
  - Non lo vedo più, è scomparso del tutto.
  - Si è dissolto nell’aria.
  - Come la scimmia di tuo nonno.
  - Non possiamo continuare in questo modo, dobbiamo uscire dal bosco al più presto. E’ una gabbia di matti.
  - Per di qua, ragazzi!
Il vocione dello sgrinz, sbucato all’improvviso dal folto,  li fece sobbalzare. Garm per poco non si cagò addosso.
  - Non vi ho abbandonati. Devo tener fede alla mia promessa: ho detto che vi avrei portati ad Elissinia, e lo farò. Salite in groppa, su.
I giovani non si fecero pregare. Il soffice tappeto erboso, zuppo d’acqua piovana, rallentava l’andatura del massiccio quadrupede, appesantito dal carico umano.
Aggrovigliato nella verduranza, emetteva sbuffi di vapore dalle froge, arrancando sotto il duplice gravame.
  - Ti davamo per disperso. Dove ti sei rifugiato mentre tempestava?
  - In un grande albero cavo. E voi, dove vi eravate nascosti?
  - Siamo finiti in una grotta piena di strane creature.
La boscaglia si andò sempre più diradando, sino a scomparire. A un tratto, l’orizzonte si presentò dinanzi a loro come una distesa piatta e spoglia, coperta di risaie.
In quel panorama tristemente uniforme si aggirava come un invasato un personaggio dall’aspetto sinistro. Lo accompagnava un cane, feroce quanto lui. Un cane addestrato ad aggredire “a prescindere”.  L’uomo era il proprietario delle terre coltivate. Il suo nome era Macronio. Tutta la terra, sin dove giungeva lo sguardo, gli apparteneva. Ogni granello di sabbia, ogni singolo filo d’erba, era cosa sua.
Con le sue mani robuste, aveva abbattuto tutte le piante, tutti gli arbusti, tutte le siepi che un tempo non lontano crescevano ai margini dei campi, poiché – così diceva – “la loro ombra impedisce al riso di crescere”. I suoi compaesani avevano plaudito a questa decisione giudicandola saggia.
Quando le piantine di riso emergevano dal suolo, Macronio perdeva ogni freno. Lo si vedeva vagare giorno e notte, urlando, per scacciare gli uccelli dai campi. Disponeva trappole a centinaia per passeri e colombi. Non un solo chicco di riso doveva andare perduto!
L’epoca del raccolto significava per Macronio rinuncia al sonno e al cibo. A bordo di una macchina mostruosa, una trebbiatrice a vapore di dimensioni colossali, lavorava come un forsennato per giorni e notti intere, senza sosta. Faceva tutto da solo, “per risparmiare”.
Giungeva infine il momento tanto atteso: quello in cui il prezioso cereale, dopo trattative sanguinose, si tramutava in denaro.
Ma sino ad allora, per Macronio ogni essere vivente era un nemico.
Lo sgrinz prese la parola:
  - Sarà meglio girare alla larga. Quell’individuo ha un’aria minacciosa, e così pure il suo cane. Potrei sbarazzarmi di entrambi facilmente ma la mia religione me lo vieta.
Il saggio proposito dello sgrinz si rivelò impraticabile: Macronio, avvistato il terzetto, si dirigeva a passo di corsa verso di loro, urlando a squarciagola.
Kavàla osservò con stupore la fisionomia dell’individuo: fronte bassa, occhi infossati, membra tozze, movenze antropoidi. Un essere spaventoso.
Lo sgrinz, che sino a quel momento si era dimostrato la creatura più placida del mondo, parve trasfigurarsi.
  - Scendetemi di groppa - intimò ai due giovani.
I suoi occhi ardevano come braci. Partì alla carica, incarnazione di forza scatenata. Il cane di Macronio – un robusto esemplare di mastino – nel vedersi piombare addosso due tonnellate di furia distruttrice scartò bruscamente e si diede alla fuga spetazzando. Lo sgrinz decise di risparmiarlo, e si volse verso Macronio.
L’uomo seguitava a lanciare grida disarticolate, mulinando un bastone. Lo sgrinz lo investì con una spallata e lo mandò lungo disteso in un fosso.
Macronio piombò a terra come un sacco di patate. Lo sgrinz arrestò la sua carica.
Torreggiando sull’uomo, ruggì come mai, prima di allora, i due giovani l’avevano udito fare.
  - Potrei ridurti in poltiglia. Ma non lo farò, perché così mi ha insegnato Mahāvira, un uomo di cui tu non sei neppure degno di pronunciare il nome. Bada a te, tuttavia: se solo oserai ancora aggredirci, ti punirò come meriti.
Il latifondista fece un cenno d’intesa.
  - Potete risalire - disse lo sgrinz ai due giovani. - Si riparte.
  - Guardate lassù - esclamò Garm.
Kavàla e il quadrupede alzarono gli occhi al cielo e videro quella che pareva una nube avvicinarsi da Nord a grande velocità. Ma non era una nube: si trattava di un gigantesco stormo di uccelli di varie specie che volavano in formazione serrata. Dalla nube si staccò un magnifico esemplare di garzetta dal candido piumaggio che venne a posarsi proprio di fronte al loro.
  - Salve a voi! La notizia della sconfitta di Macronio si è diffusa in un baleno. Siamo qui per lui. Vi chiediamo di consegnarcelo.
  - Che volete farne? - domandò lo sgrinz.
  - Per causa di quell’uomo abbiamo assai sofferto. Molti di noi sono morti per mano sua.
Lo porteremo lontano da qui, in un luogo dove forse potrà rinsavire e ritrovare la propria umanità.
  - Dove, precisamente?
  - Lo condurremo a Sud, nel Grande Deserto.
  - Siete così numerosi da oscurare il sole. Perché non lo avete fermato quando cominciò a nuocervi?
  - Era scritto che solo uno sgrinz avrebbe potuto sconfiggere Macronio e decidere del suo destino.
Lo sgrinz lanciò un’occhiata alla figura umana distesa nel fosso.
  - E’ vostro.
La garzetta chinò il capo in segno di riconoscenza, poi lanciò un grido verso lo stormo che ruotava alto nel cielo.     
Se ne distaccò un gigantesco esemplare di airone cenerino. Planò al suolo, sull’uomo disteso nel fosso. Lo rigirò supino, quindi lo afferrò saldamente per le ascelle, e si levò in volo reggendo quel pesante fardello.

V

Le anime sensibili amano passeggiare in riva ai fiumi. La loro inquietudine trova di che placarsi, sia pure per pochi istanti, nella contemplazione della natura. Garm nella sua breve ma tormentata esistenza aveva guadato fiumi, torrenti, ruscelli, rigagnoli. Pochi uomini al mondo conoscevano come lui le insidie delle correnti, dei gorghi e dei mulinelli che improvvisamente afferrano il bagnante incauto e lo trasportano a decine di miglia di distanza, deponendolo esanime su un ghiaione, alla mercé degli uccelli rapaci. All’apparir del Nìtico, il fiume che bagna Elissinia, Garm fu colto da un viluppo di emozioni confliggenti, gran parte delle quali inesprimibili a parole. Avrebbe voluto balzare su Kavàla e possederla immediatamente, tanto era il suo entusiasmo.
Kavàla, dal canto suo, sfrigolava come una bistecca sulla griglia.
Unico a mantenere un contegno impertubabile, lo sgrinz, onesto quadrupede. Procedeva ad andatura costante, concentrando tutta la sua attenzione sul ritmo dei propri passi e del proprio respiro.
  - Tutte le cose periscono - ripeteva a se stesso, e recitando questo mantra avanzava, saldo e sicuro, verso la meta che si era prefisso.
Giunti a pochi metri dalla riva si accorsero che l’acqua del fiume era perfettamente immobile. Non credendo ai propri occhi, Garm balzò a terra per osservare da vicino lo straordinario fenomeno.  Si inginocchiò sulla sabbia e immerse le mani nel Nitico.
  - L’acqua non scorre. Com’è possibile?
  - Forse un’ostruzione a valle, una diga? - domandò a sua volta Kavàla.
  - Lo escluderei. E’ come se il fiume si fosse fermato di propria iniziativa.
  - Sia come sia, dobbiamo trovare un ponte. La acque al centro sono di certo profonde e se dovessero rimettersi in moto mentre stiamo tentando di guadare, la corrente ci travolgerebbe.
  - Lo sgrinz ha ragione, Garm.
Si rimisero in marcia. Il ruminante sollevava l’arto anteriore sinistro e contemporaneamente l’arto posteriore destro, flettendoli in avanti, quindi li abbassava calcando il terreno a 40 cm circa dalla posizione di partenza, per poi ripetere la stessa sequenza di gesti, questa volta però con l’arto posteriore destro e il posteriore sinistro. Eseguita in modo fluido e costante per un ragionevole lasso di tempo, questa complessa catena di azioni produceva un risultato sorprendente: l’animale mutava di luogo.
  - Cosa distingue un essere vivente da una roccia? L’essere vivente si muove. Dunque, se una cosa si muove, vuol dire che è viva. Ma una pietra che rotola lungo il crinale scosceso di un monte non può dirsi viva, benché sia in movimento. Il moto, in se stesso, non è pertanto un criterio sufficiente.
Così andava ragionando Kavàla, fanciulla incline alla meditazione.
  - Tutto si muove. Il pianeta su cui abitiamo, l’universo stesso che ci contiene: tutto è in perenne movimento - disse, volendo rendere partecipe Garm dei suoi pensieri.
  - E con questo che vorresti dire?
  - Anche se io mi fermassi qui, e restassi immobile a lungo, non per questo il sangue nelle mie vene cesserebbe di circolare. Né la terra, su cui poggiano i miei piedi, smetterebbe di ruotare intorno al sole.
  - Sì, il moto è una proprietà dell’esistente.
  - Direi che ne rappresenta l’attributo principale!
  - Ebbene?
  - Questo stato di cose cozza contro la nostra aspirazione alla permanenza.
  - Tutto ciò è molto triste, lo so.
  - E’ la causa della nostra infelicità.
  - Ammesso e non concesso che noi si meriti di durare per sempre.
Lo sgrinz aveva ascoltato la conversazione fra i due giovani senza intervenire, sino a quel momento, almeno.
  - Il vostro colloquio mi fa ricordare un episodio. Tempo fa incontrai un tale, un professore, che sosteneva a spada tratta la teoria della permanenza dell’essere e della natura puramente illusoria del divenire. Accadde un incidente curioso: stavamo discutendo in riva a un torrente in piena, all’improvviso parte della sponda cedette e il professore fu inghiottito dalle acque, scomparendo in pochi istanti fra i gorghi.
  - Ed ecco dimostrata l’impermanenza del professore! - esclamò Kavàla.
Dopo il temporale, il cielo appariva di un azzurro splendente, punteggiato qua e là da rimasugli di nuvole dal colore lattiginoso. Lentamente, molto lentamente, quasi non volesse disturbare la moltitudine di libellule intente a deporre le uova sugli steli delle piante acquatiche, il fiume riprese a scorrere. Una poiana, appollaiata in cima ad un’acacia, spiccò il volo lanciando un grido acuto.
Garm vide tutto e pensò che una magia potente doveva abitare quei luoghi.
Cullato dal dondolio ritmico della groppa dell’animale e dal suono prodotto dalle acque del fiume contro i tronchi affioranti, il giovane si addormentò.

VI

Quando Laetitia si fu allontanata, il Catafratto aprì il cassetto della scrivania. Era pieno da scoppiare. Mettere ordine in quel groviglio di carte avrebbe richiesto ore di paziente lavoro. Sarmand, prudentemente, lo richiuse. Per alcuni lunghissimi minuti rimase immobile a sbirciare dalla finestra una nuvola solitaria i cui contorni andavano sfilacciandosi nel cielo azzurro pallido. Infine si decise a lasciare l’ufficio. Gli sguardi di almeno una decina di gechi seguivano ogni sua mossa.
  - Vi lascio la porta socchiusa, così potete uscire.
In fondo al corridoio, una coppia di donne delle pulizie era intenta a discutere animatamente. Ammutolirono non appena si accorsero della presenza del Catafratto. La più anziana delle due, una donna magra e nervosa dallo sguardo spiritato, si mise carponi e prese a strofinare freneticamente il pavimento con uno straccio sporchissimo. Sarmand la scavalcò come si scavalca un oggetto inanimato. Svoltato l’angolo, vide una specie di pupazzo vestito a festa emergere da dietro una tenda: il direttore dell’ufficio affari generali.
  - Eccellenza - esclamò il nano in tono mellifluo.
  - Che c’è ancora?
  - Il funerale di Baronzio, domani pomeriggio
  - Non se ne parla nemmeno, non con questo caldo.
  - Ma certo, volevo solo avvisarla che il sosia si è rimesso in salute.
  - Benissimo. A che ora è la cerimonia?
  - Alle tre.
  - Sarò lieto di non presenziarvi. Piuttosto ditemi: la vedova?
  - Baronzio era scapolo.
  - Ci vuole sempre una vedova. Ingaggiatene una posticcia.
  - Ci sarebbe la pseudovedova di Valterius. E’ una delle ultime sopravvissute della da voi disciolta scuola di arte drammatica. Ha solo un difetto: è zoppa.
  - Meglio.
  - E il discorso?
  - Cos’ha che non va il discorso?
  - L’abbiamo già utilizzato sei volte senza cambiare una virgola.
  - E con ciò?
  - Il pubblico potrebbe accorgersene.
  - Non se ne accorgerà nessuno. I partecipanti a questo genere di cerimonie hanno in mente una cosa sola: tornarsene a casa il più presto possibile. Chi vuole che presti attenzione al discorso? E ora non mi faccia perdere altro tempo!
Il nano si prostrò ai piedi del Catafratto e scomparve nel buio.
Venne dunque il giorno delle esequie del professor Baronzio. Uomo dottissimo, di sconfinata erudizione, la cui esistenza era stata costellata da un susseguirsi di inspiegabili disgrazie. In gioventù, la perdita di una mano; a trent’anni quella di un orecchio, quindi di un piede. Infine, più umiliante di tutte, la perdita del membro virile. In nessun caso, la separazione di queste parti anatomiche dal resto del corpo poté essere attribuita a cause traumatiche o a patologie note alla scienza medica. Si erano, semplicemente, distaccate da Baronzio per andare chissà dove. La ragioni di questo strano fenomeno andavano forse ricercate nello stile di vita austero del professore. Per sessant’anni Baronzio non aveva fatto altro che decifrare pergamene antichissime ridotte in condizioni miserande dal trascorrere dei secoli: consumate da muffe tenaci, rosicate da ogni genere di insetti, macerate, sbriciolate. Da quei rimasugli, Baronzio aveva ricavato con sovrumani sforzi di immaginazione informazioni dettagliatissime sugli usi e costumi delle tribù barbariche insediatesi nella valle del Nitico in epoca precedente l’edificazione del Tempio della Nube Purpurea. Il dipartimento di letteratura ahrimanica, feudo personale di Baronzio, aveva conosciuto una progressiva espansione, sino a contare decine di ricercatori e ricercatrici, tanto altezzosi quanto improduttivi.
Finché non sopravvenne l’elezione di Sarmand alla suprema autorità accademica. Su ordine del Catafratto, nel giro di sole otto ore l’edificio fu svuotato di ogni presenza umana. Bidelli, bibliotecari, specializzandi, ricercatori: tutto il personale, docente e non docente, fu caricato a bordo di carri piombati e deportato, si dice, verso un’isola lontanissima, situata nel Mare Settentrionale. Un’isola su cui sorgeva un tempo un monastero, riadattato a prigione.
Baronzio, invece, fu costretto ad assistere quello stesso giorno, in un cortile interno dell’accademia, al rogo delle pergamene alla cui decifrazione aveva dedicato l’intera sua esistenza. Quindi fu trascinato nei sotterranei e rinchiuso in una cella orribilmente tetra, a meditare sulla vanità delle cose terrene. Non sopravvisse che un mese al trauma. Lo trovarono riverso sul pancaccio, gli occhi sbarrati, un’espressione di terrore dipinta sul volto. Appena ricevuta la notizia del decesso, Sarmand diede disposizione affinché sul cancello principale dell’accademia fosse affisso un necrologio così concepito:
“Si è spento alla veneranda età di 85 anni l’illustrissimo professor Timoteo Pamphilo Baronzio, Direttore del Dipartimento di Letteratura Ahrimanica. Figura di altissimo profilo morale e intellettuale, padre e sposo esemplare, lascia nel cuore di chi lo conobbe un vuoto del tutto corrispondente allo spazio che vi occupò da vivo. Il Consiglio Magistrale Superiore e le maestranze tutte, ossequienti, si stringono commossi intorno alla sua bara disadorna.”
Il rito funebre fu celebrato nel cortile delle statue, che doveva il proprio nome alla presenza di grandi sculture itifalliche provenienti dall’Alto Egitto. La temperatura si aggirava sui 36 gradi, con un tasso di umidità dell’80%. Il pubblico all’interno del cortile era schierato secondo un rigido ordine gerarchico. In piedi sotto il sole cocente, ausiliari, portieri e personale tecnico – la massa damnationis – ad arrostirsi le cervella. All’ombra del colonnato, comodamente seduti su una tribuna montata per l’occasione, gli alti gradi della burocrazia accademica e i colleghi del defunto con le proprie amanti, per lo più segretarie d’istituto.
Sarmand trascorse il pomeriggio lanciando palline di pane ai gechi.

VII

Un solo essere vivente rimaneva all’interno dell’Accademia nelle ore notturne: Sarmand.
Il Catafratto non ne usciva mai.
Al calare dell’oscurità,  spettri e fantasmi prendevano silenziosamente possesso delle aule e degli uffici occupati durante il giorno dai vivi. Sarmand aveva il potere di scorgere queste entità, invisibili agli elissini, e di parlare il loro linguaggio.
Quella notte il Catafratto notò un insolito viavai di spettri. I corridoi immersi nel buio pullulavano di spiriti inquieti. Tra essi parve a Sarmand di riconoscere il profilo grifagno del professor Frugulis, deceduto dieci anni prima dopo una lunga vita inoperosa. Frugulis aveva ricoperto per quasi mezzo secolo la cattedra di scienza della divinazione e, parallelamente, l’incarico di Rettore del Collegium Niticensis, una famigerata residenza per studenti dediti a orge e gozzoviglie. La sua morte era avvenuta in circostanze del tutto particolari: mentre si aggirava per un prato con la sua bacchetta da rabdomante, il professore era precipitato in una crepaccio profondissimo, e il suo corpo non era stato mai più ritrovato. Una perdita da cui l’accademia si riebbe con difficoltà, nel volgere di poche ore. Lo spirito del professore, tuttavia, non riusciva a distaccarsi dai luoghi in cui aveva dottamente discettato, per decenni, di tiptologia e coscinomanzia dinanzi ad annoiate platee studentesche.
  - Ebbene, cos’è questa caciara? Che vi prende stanotte?
Al richiamo imperioso di Sarmand, il fantasma si mise sull’attenti.
  - Una riunione straordinaria, in aula magna!
  - Quale riunione?
  - Avevo qui l’ordine del giorno, dove l’ho messo?
Frugulis fece per frugarsi nelle tasche ma si interruppe, non avendo tasche in cui frugare.
  - Allora? -  lo incalzò Sarmand spazientito.
  - E’ una riunione importantissima! Stanno affluendo spiriti da tutte le provincie del regno. Si voterà una mozione!
  - Di che andate farneticando?
  - Vogliamo tornare!
  - Tornare dove?
  - Tornare in vita! Riprendere il posto che ci spetta, le cattedre che ci sono state sottratte.
Sarmand osservò il fantasma con un’espressione disgustata.
  - Non avete dunque imparato nulla? Neppure la morte è riuscita a smorzare le vostre smanie di protagonismo? Mi fate sinceramente pena.
Senza aggiungere altro, Sarmand volse le spalle al professore e si diresse verso la scala che conduceva ai sotterranei dell’accademia. Il Catafratto si muoveva nelle tenebre più fitte con la sicurezza di un pipistrello. Niente e nessuno era in grado di intimorirlo: né i vivi, né i morti, né i demoni. I sotterranei erano il solo luogo dell’imponente edificio in cui si sentisse davvero a suo agio. Vi si recava ogni notte. Laggiù, in quell’antro tenebroso, i fantasmi dei professori non osavano neppure far capolino. Solamente uno spettro vi dimorava: quello di un suicida, rifugiatosi nei sotterranei in cerca di tranquillità. Tra Sarmand e lo spettro si era  instaurato un rapporto improntato al mutuo rispetto: ciascuno badava ai fatti propri senza interferire nelle occupazioni altrui. Il suicida trascorreva il proprio tempo immerso nella lettura di antichi volumi polverosi. L’occupazione del Catafratto consisteva nell’attingere alla riserva di vini pregiati salumi e formaggi custodita in un locale a volta appositamente attrezzato. Sarmand vi aveva fatto collocare una poltrona, un tavolino e uno sgabello per appoggiare i piedi.
Tagliati un paio di cacciatorini e una generosa porzione di gorgonzola, il Catafratto estraeva dalla tasca del soprabito una micca di pane, stappava una bottiglia di vino rosso e si dedicava alla manducazione.
L’eccentricità del personaggio si appalesava in questa consuetudine del pasto notturno in un ambiente che certo non conciliava l’appetito.
I sotterranei ospitavano infatti un ossario, di cui gli elissini ignoravano l’esistenza: migliaia di teschi, tibie e clavicole – i resti mortali del personale docente e non docente avvicendatosi nel corso dei secoli all’interno dell’accademia – giacevano ordinatamente disposti nelle nicchie ricavate lungo le pareti. Servendosi degli scheletri meglio conservati, un artigiano aveva allestito, su incarico di Sarmand, una macabra messa in scena. Su un fondale teatrale raffigurante un paesaggio bucolico si stagliavano le sagome di una dozzina di scheletri abbigliati di tutto punto, ciascuno in una posa sua propria. Da una parte, uno scheletro in abiti da curato, il breviario stretto al petto, rivolgeva un gesto benedicente a due braccianti col cappello in mano, dall’altra una contadina coglieva more da un cespuglio.
I sotterranei esercitavano un fascino irresistibile sui demoni infernali. Accadeva non di rado che alcuni di essi si materializzassero accanto a Sarmand, per ammirare la sua straordinaria collezione di teschi e il suo teatrino della morte. Vi era, fra loro, una magnifica diavolessa di nome Lucretia. Le medaglie appuntate sulla sua cotta di maglia attestavano che si trattava di una guerriera intrepida. La conversazione con Sarmand era per lei fonte di sollievo. Quell’uomo così avulso dalla vita e dalle cure terrene le si rivolgeva sempre in tono garbato e affettuoso, quasi paterno, facendole dimenticare per un poco le proprie tristi incombenze quotidiane, il suo ruolo di tormentatrice di dannati.       
Il Catafratto, dal canto suo, traeva piacere dalla presenza di quell’indomita combattente. Come un vampiro, si nutriva della sovrabbondante vitalità di quella creatura diabolica. Lucretia si mostrava felice come una bambina ogni qual volta Sarmand le faceva dono di un teschio, o di una collana di vertebre.
Ma quella notte, sin dalla prima occhiata, la diavolessa intuì che l’umore di Sarmand era insolitamente cupo. Il Catafratto si accingeva a stappare la seconda bottiglia.
Turbata, Lucretia gli si rivolse così:
  - Voglio raccontarti una cosa. Non l’ho mai detta a nessuno.
Sarmand ripose la bottiglia sulla rastrelliera.
  - Agli inizi, quando presi servizio nella X Legio Infernalis, tutto era più semplice.
Ero motivata. Avevo un dovere da compiere, e lo svolgevo al meglio delle mie possibilità, con entusiasmo. Ora non più. Assolvo i miei compiti, sì, ma senza intima convinzione.
  - Capita a molti - sospirò Sarmand.
  - Ma non credevo sarebbe capitato a me, Lucretia, il flagello delle anime dannate.
Credevo di essere immune da certe debolezze, una macchina da guerra che niente e nessuno avrebbe potuto scalfire.
Sarmand portò il bicchiere alla bocca e lo svuotò a brevi sorsi.
  - Non ho più notizie del Re del Nulla - sospirò. - Temo l’abbiano ucciso.
Lucretia ebbe un fremito.
  - Il Re è vivo! - esclamò.
Sarmand la fissò negli occhi.
  - Dove si trova in questo momento?
  - Prigioniero in un pozzo, a centinaia di metri di profondità nel sottosuolo di Elissinia.
Sarmand posò la bottiglia e il bicchiere sul tavolino.
  - Dobbiamo liberarlo!

Pietro Ferrari, 2010  

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IL PRURITO DEL DRAGO
(Parte Prima)

  - Credo di non essere mai esistito per davvero.
  - Infatti non esisti.
  - Lo sapevo, l’ho sempre sospettato.
  - Ne parli come se fosse un male.
  - Lo è.  La vita è bella. Vorrei solo poterla assaporare per qualche istante.
  - Sciocco: la vita, come le sabbie mobili, non ti lascerà più andare. Stanne fuori, finché puoi.
  - Ma io voglio provare!
  - Lo desideri proprio?
  - Sì!
  - Eccoti accontentato.
 


Introduzione

Ci sono luoghi sulla terra in cui si vorrebbe vivere, metter su casa e famiglia, e poi vendere l’una e l’altra al miglior offerente. E infine c’è, o per meglio dire c’era, la città di Elissinia. Elissinia sorgeva sulle rive di un fiume, e fin qui nulla di strano. Solo che non si trattava di un fiume qualsiasi: per ragioni sconosciute, l’acqua vi scorreva in direzioni diverse, persino nell’arco della stessa giornata, creando qualche imbarazzo ai barcaioli. La vegetazione che cresceva lungo le rive non assomigliava a nessun’altra: un intrico di alberi sghembi, le cui radici affioravano dal suolo come viluppi di serpi, aggrovigliandosi nel sottobosco pullulante di specie fungine dalle dimensioni abnormi. Le spore del zorites caperatus germinavano sul tappeto muschioso dando vita a funghi bitorzoluti, di consistenza gommosa, lunghi talvolta sino a quaranta centimetri e oltre. In città se ne faceva grande uso, e non solo per scopi alimentari. Accanto ai zorites proliferavano miceti più piccoli: fra questi i pleurotus (già panati) e il boletus foetidus, giunto dalle Indie orientali e mai più ripartito.
Smisurata avidità ed avarizia costituivano i tratti peculiari degli abitanti di Elissinia. I bambini venivano educati al culto dell’oro, ma solo pochi di essi, una volta diventati adulti, potevano godere dei privilegi legati al possesso di grandi quantità del prezioso metallo: agli altri non restava che rassegnarsi a svolgere mansioni servili scarsamente retribuite. La frustrazione provata da migliaia di individui sconfitti nelle competizioni gerarchiche, esseri condannati a un destino di subordinazione, creava intorno alla città una cappa di energie negative fitta e opprimente quanto una nube di gas intestinali. Elissinia ospitava un’antica accademia, edificata dall’Arconte Fabius IV sulle rovine del tempio di Ahriman. La città contava una popolazione di centomila abitanti, sui quali regnava Sarmand, il rettore dell’accademia. Sarmand era privo di un arto, sebbene non fosse mai riuscito a stabilire quale: soffriva di una “sindrome dell’arto fantasma” di carattere metafisico. Si aggirava zoppicando vistosamente per i corridoi dell’accademia circondato da uno stuolo di servi zelanti pronti ad eseguire, anzi a prevenire, ogni suo più piccolo desiderio. Disprezzava profondamente quei galoppini, e correva voce che ne avesse soppressi a decine, sacrificandoli alle divinità ctonie durante abominevoli cerimonie notturne. Ciò nonostante, i vuoti nella schiera dei sotto-uscieri venivano puntualmente colmati, anno dopo anno, da altri appartententi ai gradi più infimi della gerarchia, attirati dal miraggio di un avanzamento di carriera. Molti di essi erano stati, in gioventù, allievi dell’accademia. La caratteristica saliente di questa antica, esecrabile istituzione consisteva, a detta dei suoi stessi reggitori, in un processo di selezione negativa, in base al quale ad emergere erano i soggetti con le peggiori attitudini. Ammesso che sia possibile stabilire una graduatoria nella scelleratezza, i peggiori fra i peggiori confluivano puntualmente nella congrega dei compilatori dei codici destinati a regolamentare ogni più piccolo aspetto della vita degli abitanti di Elissinia. Il sintomo più evidente della stortura mentale dei compilatori era rappresentato dalla forma dei loro scritti, concepiti in un gergo di straordinaria bruttezza, intellegibile ai soli addetti ai lavori. Ciò aveva fatto proliferare, in città, un’intera classe di individui – per lo più affiliati secondari alla congrega dei compilatori - la cui professione consisteva nel tradurre i codici e i regolamenti in una lingua comprensibile agli abitanti di Elissinia, dietro lauto compenso. In sostanza, caso raro in natura, una specie parassita – quella dei compilatori – ne aveva generata un’altra: quella dei decifratori di codici. Il malvagio Sarmand regnava su questo tenebroso abisso di  umana abiezione in cui, nel corso dei secoli, mai era era riuscita a penetrare una scintilla di luce. Si sbaglierebbe a giudicare questa una semplice immagine metaforica: l’esistenza di un’accademia sotterranea era un fatto certo, benché noto a pochissimi. Il sottosuolo della città sul fiume celava una rete di gallerie scavate da servitori non umani del consiglio magistrale superiore. Gallerie che si intersecavano creando ambienti più vasti, teatro di riti innominabili.
Tutto ciò che sappiamo di Elissinia lo dobbiamo a uno scritto anonimo custodito presso la Biblioteca Nazionale Centrale della capitale dell’Impero, Veltronia. Della città, infatti, non rimane più traccia, tanto che alcuni studiosi dubitano persino che sia mai esistita. Il libro, un pesante volume rilegato in legno, cesellato a sbalzo con incisioni a bulino, reca il titolo “De natura hominum”. La traduzione del testo, il cui stato di conservazione è tale da scoraggiare anche le tarme, procede con difficoltà ma senza soste. Quella che qui vi proponiamo è la prima versione autorizzata in veltroniano moderno dei capitoli compiutamente tradotti.

DE NATURA HOMINUM

I

Come ogni mattina, i servitori erano intenti a lucidare le teche di vetro che custodivano i cadaveri imbalsamati dei Catafratti, massimi detentori della suprema autorità magistrale. Il corridoio centrale dell’accademia, su cui si affacciavano le aule principali, ospitava venti di queste teche. I volti dei rettori defunti erano orribili a vedersi: vi si leggeva ancora la cupidigia che aveva ispirato ogni singolo gesto della loro esistenza. Dinanzi alle salme dei Catafratti, sfilavano a capo chino gli allievi dell’accademia, prima di recarsi a lezione.  
La porta del rettorato si aprì ed entrò un nano. Era il direttore dell’ufficio affari generali dell’accademia, un individuo temutissimo dai suoi sottoposti, e per questa ragione fatto oggetto della più bieca adulazione. Si narrava che fosse entrato nei ruoli del personale non docente dell’accademia dal grado più basso, quello di vice-portiere addetto allo spolvero delle teche, ed avesse costruito la sua prodigiosa carriera sulla delazione e il ricatto.
  - Eccellenza, il rapporto settimanale.
Sarmand sedeva sulla poltrona accanto alla finestra, tutto preso ad osservare l’andirivieni degli studenti nel cortile sottostante.
  - Posi il fascicolo sulla scrivania e mi faccia un sunto veloce, che non ho tempo da perdere con le scartoffie.
Il nano sapeva benissimo che Sarmand avrebbe letto ogni riga del rapporto, per verificarne la corrispondenza con quanto si accingeva ad esporgli, e si dedicò a riassumerlo con la massima precisione.
  - Sì eccellenza. Il professor Valterius è stato inghiottito da una voragine profondissima apertasi improvvisamente nel manto stradale.
  - Fin qui le buone notizie. E le cattive?
  - A dir il vero oggi non ne sono giunte.
  - Continui.
  - Sì eccellenza, devo segnalarle l’avvenuto decesso del docente emerito di cripto-glottologia, Parvenio, spirato dopo lunga e straziante agonìa. Pensi: il poveretto aveva perso l’uso di entrambi i mignoli delle mani!
  - Ed è morto per così poco?
  - Il resto del corpo era già paralizzato da tempo. Infine, ho raccolto alcune testimonianze che potrebbero inchiodare il professor Euforione. Le ho qui nella borsa.
  - Faccia vedere!
Il nano con uno scatto felino porse a Sarmand un robusto plico.
  - Il pervertito! - disse con maligna soddisfazione il Rettore, scorrendo la documentazione.  - Non l’ho mai potuto sopportare. Ma adesso basta. Quant’è vero Ahriman, stavolta lo ridurrò in polvere. Non intendo solamente distruggerlo, voglio sentirlo squittire come un topo stretto all’angolo.
Il nano non battè ciglio, ma avvertì dentro di sé un brivido di piacere profondissimo.
Sentiva di aver appena contribuito a segnare la sorte di un uomo che lo aveva pubblicamente umiliato in più di un’occasione.
  - Eccellenza.
  - Che altro c’è?!
  - Oggi pomeriggio, in aula magna… la cerimonia per il conferimento della laurea honoris causa  a Calvertius.
  - Calvertius! Quel miserabile saltimbanco! Avete affisso gli annunci?
  - Da un settimana, eccellenza.
  - E gli avvisi sulla Gazzetta dei Sottomessi?
  - Sono in pubblicazione da ieri.
  - Faccia vedere.
La Gazzetta dei Sottomessi era un foglio a stampa, il solo notiziario pubblicato a Elissinia. Ospitava apologie degli accademici e, più in generale, encomi di chiunque ricoprisse una posizione di potere, qualunque essa fosse, anche la più infima. Ovviamente, la lunghezza dei testi apologetici variava in relazione all’importanza del soggetto: i vice-sotto-delegati della commissione incaricata di sovrintendere alla pulizia delle abitazioni dei Presidi di facoltà ricevevano sì e no tre righe di elogi al mese. Solo i Docenti Emeriti potevano contare su un articolo encomiastico di lunghezza superiore alle trenta righe. I collaboratori della Gazzetta davano il peggio di sé in occasione dei funerali dei potenti: lodi sperticate, ritratti celebrativi talmente enfatici da sconfinare nel ridicolo. 
Gli autori di questi testi erano il prodotto migliore del processo di selezione negativa attuato dall’accademia. Alcuni di essi erano solo in parte umani, altri non lo erano affatto. Il direttore era un pupazzo di legno mosso da un ventriloquo (ma questo era un segreto noto solo a Sarmand).
  - E’ previsto che io tenga un discorso?!
  - Sì eccellenza.
  - Non ci penso neanche. Mi sostituirà il sosia.
  - Il sosia è afono, ha preso freddo.
  - Come sarebbe a dire? Come ha fatto a prendere freddo?
  - La cantina in cui lo  teniamo rinchiuso è umida.
  - Trovategli un'altra collocazione!
  - Senz’altro. Ma per il momento è afono.
  - Ho capito, dovrò intervenire di persona. Provveda lei a stilare un discorso per l’occasione.
  - L’ho già preparato.
  - Posi lì e se ne vada.
- Eccellenza.
Il nano si inchinò e così facendo sfiorò il pavimento con la fronte. Uscito dall’ufficio del Grande Catafratto si stropicciò le mani per la soddisfazione.
Non appena il nano se ne fu andato, ampie volute di fumo cominciarono a levarsi da un’anfora posata su un tavolino d’angolo. Il fumo disegnò i contorni di una figura femminile. Sarmand, per nulla sorpreso, stette ad osservare il fenomeno: in breve, dinanzi a lui venne a stagliarsi la sagoma di una giovane donna, avvolta in un mantello. I suoi occhi risplendevano come braci ardenti, e da tutto il suo corpo emanava una specie di bagliore, quasi il riflesso di un incendio. La voce della donna alata aveva un timbro sepolcrale.
  - Perché mi hai evocata, Sarmand?
  - Questa città poggia su quattro pilastri: avidità, paura, invidia e odio. Da questi quattro elementi trae alimento il mio potere. Come potrei dominare su decine di migliaia di uomini e donne, se costoro non fossero dominati dalle peggiori passioni? Sono come cani rabbiosi, sempre pronti a sbranarsi a vicenda. Rispettano solamente la forza. Ricordi il mio predecessore? Era un vero animale, eppure tutti lo riverivano. Ancora oggi viene ricordato come un benefattore, e una piazza di Elissinia porta il suo nome.
  - Non hai ancora risposto alla mia domanda. Perché mi hai evocata?.
  - Avverto un pericolo. Una minaccia sospesa sul potere dell’accademia, che io incarno.
  - La minaccia di cui parli  ci è nota, da giorni ne seguiamo l’evolversi.
  - E non siete intervenuti a sventarla? - domandò timidamente Sarmand.
  - Saremo noi a decidere il quando e il come. Ma ti ho già dedicato sin troppo tempo, affari più urgenti mi attendono.
E così dicendo la creatura si dissolse nell’aria, lasciando dietro di sé un aroma di baccalà. 

II

Garm avanzava guardingo sul sentiero illuminato dalla luce argentea della luna piena. Il bosco alle sue spalle si stagliava maestoso: vera e propria fortezza arborea, capace di infondere timore anche nei cuori più impavidi. Non un alito di vento scuoteva le fronde degli alberi secolari. Il giovane estrasse dalla bisaccia l'amuleto donatogli, molto tempo prima, da Firlfrind, il mago, e se lo passò più volte sotto le ascelle e nel solco inguinale, come gli era stato insegnato. Guardò dinanzi a sé: il sentiero proseguiva in linea retta attraverso la brughiera butterata di acquitrini. Riprese il cammino, non senza aver prima lasciato partire un peto fragoroso che rimbombò nel silenzio della pianura come un tuono. Erano giorni che si nutriva di bacche e la cosa cominciava a fare i suoi effetti. Giunto in prossimità di uno stagno, Garm avvertì una sgradevole sensazione: qualcuno, o qualcosa, dal profondo del bosco lo stava fissando.  “Devo far finta di nulla”, pensò. Ma il suo intestino non seguì questo saggio proposito. Un peto, ancor più violento del primo, crepitò paurosamente rimbombando fra gli alberi. Lo spostamento d’aria fu tale da proiettare Garm ad alcuni metri di distanza.
Immediatamente, dal folto della foresta, sbucarono dei guerrieri con dei curiosi copricapi a forma di turacciolo, lanciando urla belluine. Garm si diede a una fuga precipitosa, non certo per sottrarsi al combattimento, ma per pura e semplice codardia. 
Corse come corre una volpe inseguita da un branco di segugi, distanziando i propri inseguitori che non cessavano di rivolgergli improperi. Sfruttando la propulsione fornita dalle emissioni intestinali guadagnò ulteriore terreno. Raggiunse una specie di argine, in cima al quale si arrestò, finalmente, a riprendere fiato. Si volse a guardare indietro, rallegrandosi nel constatare come i suscettibili abitanti della foresta avessero desistito dal braccarlo. Nella sua mente balenò il ricordo della terra natìa, la valle di Gyelheim, da cui un destino avverso lo aveva strappato, forse per sempre. Gli apparve il volto angelico della bella Fringa dalle lunghe trecce dorate e dai seni grandi come meloni. Fringa che mai lo aveva degnato di uno sguardo. Un pigolìo scosse Garm dai suoi pensieri, facendolo sobbalzare più e più volte. - Pulcini! - esclamò, sentendosi perduto. Mancava ancora molto all’alba e la luce del disco lunare pareva suscitare sinistre entità dal suolo coperto di muschi e radici putrescenti. Dove trovare scampo? La foresta pullulava di indigeni ostili, e la brughiera… la brughiera celava ogni sorta di insidie! Non restava che cercare rifugio nella palude, che si estendeva a perdita d’occhio ai piedi dell’argine. Di nuovo il pigolìo risuonò minaccioso nella notte, questa volta ancor più vicino. Garm non esitò oltre e discese nell’acquitrino, rabbrividendo al contatto con l’acqua tiepida. Vi affondò fin sopra il ginocchio e si inoltrò fra la vegetazione. Avanzò fra le canne, finchè l’eco dei pigolii non si affievolì alle sue spalle. La vegetazione palustre dopo un centinaio di metri prese a diradarsi, ed allora Garm scorse delle luci risplendere dinanzi a sé. Provenivano da un villaggio edificato su un’isola, protetta dal canneto. Garm si avvicinò guardingo a una capanna, da cui proveniva una voce cantilenante, e sbirciò all’interno. La capanna era vuota! Ma allora da dove proveniva la voce misteriosa? Forse dalla capanna accanto. Garm, tremando come una foglia, si avvicinò con circospezione al tugurio, da cui ora giungeva un vero e proprio concerto di voci, frammiste a belati, latrati, muggiti, ruggiti, guaiti, bramiti. Troppo per il povero Garm, che stava già per fuggire quand’ecco che la porta della capanna si aprì.
  - Che fai lì, straniero? Entra.
A rivolgergli questo invito era una giovane donna, straordinariamente bella, che lo osservava dalla soglia. Indossava una corta tunica di lino che lasciava scoperte le cosce tornite. Garm si tolse il lungo cappello a cono, dono del generoso Firlfrind, e salì i gradini della capanna. 
  - Il mio nome è Kavàla - esclamò la donna. - Vivo nella palude e mi annoio terribilmente. Tu chi sei?
  - Il mio nome è Garm. Provengo da Gyelheim, non so se hai presente.
  - Veramente no.
  - E’ una valle ubertosa, resa fertile dalle acque di due grandi fiumi alimentati, secondo la leggenda, dalle mammelle di Gea.
  - Molto interessante. Cosa ti porta in questi tristi paraggi?
  - Non dovrei dirlo ma sto svolgendo un’importante missione da cui dipende il destino del mio popolo.
  - Però! E in cosa consiste questa missione?
  - Non potremmo sederci? Sono stanchissimo.
  - Ma certo, entra, anzi scusami se ti ho trattenuto fuori dall’uscio. L’aria della palude è così insalubre. Ecco, siedi pure per terra, su quello straccio bisunto.
  - Grazie, sei molto gentile.
  - Allora, questa missione?
  - Mi spiace ma non posso entrare in particolari: è una missione segreta. Posso però rivelarti che la mia meta è la città stregata di Elissinia.
Kavàla trasalì, scuotendo la sua bella chioma a caschetto.
  - Elissinia è un luogo pericolosissimo! Hai idea dei rischi a cui ti esporrai? E poi come pensi di cavartela da solo? No, no, è una follia bell’e buona, credimi… Una soluzione però ci sarebbe.
  - Quale?
  - Potresti prendermi con te. In due si ragiona meglio! E poi io so fare un sacco di cose: imito le voci degli animali e so contraffare quelle degli esseri umani, alla perfezione.
Così dicendo, Kavàla si mise a quattro zampe e prese ad abbaiare, dimenando il sedere.
Garm, giovane ingenuo, in tutta la sua breve esistenza non aveva concepito un solo pensiero peccaminoso. Ma, alla vista di quelle natiche perfettamente modellate, fu colto da una specie di vertigine.
  - Aria, ho bisogno d’aria! - esclamò, levandosi in piedi. Prim’ancora che la donna della palude potesse accennare una reazione, il giovane sgaiattolò dalla finestra.
Tutt’intorno a lui gracidavano le rane. Il gracidìo era così intenso che Garm, provato dalle troppe emozioni, svenne.
Si risvegliò a giorno inoltrato. Giaceva nella capanna, disteso su del pagliericcio.
Kavàla sedeva, accanto a lui, su uno sgabello rivestito di pelle di sgrinz, un animale erbivoro simile allo yak, che all’inizio della primavera si disfa della sua pelliccia invernale per indossare una  livrea più adatta alla stagione mite.
Garm si stupì nel constatare come le ascelle di Kavàla fossero perfettamente depilate. La terra da cui proveniva era abitata da donne selvagge, di cui tutto si poteva dire tranne che avessero familiarità con il sapone. Kavàla non emanava alcun afrore ferino, anzi, sapeva di pulito. La sua pelle era liscia come seta, e sul suo viso non si scorgeva traccia di baffi. Persino gli insetti parevano restii ad aggredirla, mentre invece si tuffavano con voracità sull’irsuto Garm, come su un’esca succulenta.
  - Bentornato. Hai dormito a lungo.
  - Non so cosa mi ha preso, mi dispiace.
  - Mentre riposavi ti ho procurato del cibo.
La donna porse a Garm un vassoio con delle ciambelle e una ciotola di latte.
  - Mangia che ne hai bisogno, sei così pallido.
Garm divorò tutto quanto con appetito.
  - Ora dimmi: cosa pensi di fare? mi porterai con te?
Garm annuì.
  - Fantastico! Sono già pronta  a partire.
  - Ci servirà una provvista di cibo.
   - Ho preparato tutto. E qui fuori c’è uno sgrinz sellato. Ci stiamo in due comodamente. Pronti?
  - Andiamo. Ma non devi salutare nessuno, prima? I tuoi parenti?
  - No, il villaggio è disabitato.
  - Cosa? Vivi qui sola?
  - Già, tutta sola.
  - Che fine hanno fatto gli altri?
  - Li hai sentiti poco prima di svenire. Si sono trasformati in rane, un paio di anni fa.
  - E com’è successo?
Un’ombra di tristezza si posò sul volto di Kavàla.
  - Un giorno arrivò al villaggio un viandante e chiese ospitalità al consiglio degli anziani. Lo ricordo come fosse ieri. Era un bell’uomo, alto, ma di altezza variabile.
  - In che senso?
  - Che la sua altezza variava. Si allungava e si accorciava.
  - Ma si allungava tutto o solo in parte?
  - Tutto si allungava. A volte invece si restringeva e diventava piccolo piccolo, un vero nano. E in quei momenti mi faceva paura. I nani sanno essere terribili.
  - E poi?
  - Il viandante mi faceva una corte spietata. Si appostava sui rami degli alberi e mi spargeva petali di fiori sui capelli mentre passavo di sotto. Scriveva poesie e me le faceva trovare al mattino, affisse sulla porta della capanna. Un brutto giorno me lo vidi spuntare davanti lungo lungo ed ebbi la cattiva idea di mettermi a ridere, ma mica volevo prenderlo in giro, ero proprio imbarazzata dalla sua lunghezza. Fatto sta che lui s’infuriò, raccolse le sue cose e mentre si allontanava scagliò una maledizione sul villaggio. Tutti coloro che lo abitavano, tranne me, si trasformarono in rane! Ormai ho rinunciato a sperare che possano ritornare umani. L’unica soluzione è che ritrovi quel disgraziato e lo costringa a disfare il sortilegio.
  - Entrambi andiamo alla ricerca di qualcosa o qualcuno, e non sappiamo se lo troveremo.
  - Ora però basta parlare, partiamo - disse Kavàla, e balzò in groppa allo sgrinz.
L’animale cacciò una scoreggia che investì in pieno viso il povero Garm scompigliandogli i capelli. Il giovane barcollò semintontito.
  - Ti ci dovrai abituare. Queste creature si nutrono di vegetali che, fermentando, producono nei loro ampi stomaci quantità considerevoli di gas.
  - Bacche, scommetto.
  - Precisamente. Sali, dai. No, non dietro di me: davanti. Non mi dirai che non hai mai cavalcato.
  - Certo, cosa credi.
Garm mentiva spudoratemente: la sua pratica non andava oltre il cavallo a dondolo ricevuto in dono da bambino. Ma lo sgrinz, nella sua innata saggezza, venne in aiuto del giovane inesperto: si chinò così che Garm potesse salirgli in groppa, quindi si mise in movimento lungo il sentiero che si allontanava dal villaggio in direzione di un bosco di isverdie. Le isverdie, com’è noto, sono piante sempreverdi. Tranne che in un’occasione: quando si sentono osservate. In tal caso, infatti, le foglie assumono una colorazione rossastra. Per questa ragione la pianta è nota fra i botanici con il nome di isverdia timida.
  - In quel bosco vivono strane creature, caro Garm. E’ per questa ragione che non mi sono mai azzardata a recarmici da sola, specialmente di sera. Ma in tua compagnia, mi sento al sicuro.
  - Che genere di creature?
  - Io di persona non le ho mai viste, ma mio nonno mi raccontava che una volta vide sbucare da dietro un cespuglio una scimmia albina, con un cappello a cilindro calcato in testa. E la scimmia gli rivolse la parola!
Garm rabbrividì. Il bosco celava dunque minacce tanto orrende?
  - E poi, - proseguì Kavàla - la scimmia prese da terra un oggetto di forma quadrangolare, simile a un cristallo, recitò una formula incomprensibile e si dissolse nell’aria, come una bolla di sapone.
Il bosco, a quell’ora del giorno, risuonava dei canti di innumerevoli specie d’uccelli, alcuni dei quali estinti da migliaia di anni. L’eco dei loro cinguettii vibrava ancora fra le fronde delle isverdie! Lo sgrinz, con passo lento ma sicuro, si inoltrò nel folto. L’aria era densa di aromi e profumi, così penetranti da indurre un lieve stordimento. Kavàla si strinse ancor più a Garm, che sentì crescere dentro di sé un sentimento quale mai aveva provato prima. E cominciò ad allungarsi, ma non come il viandante: solo in parte.
Lo sgrinz, giunto nel frattempo a una biforcazione del sentiero, si bloccò in attesa di ordini.
  - E adesso dove si va? - riflettè il giovane. In quel mentre, una farfalla dalle ali azzurre venne a posarsi sulla criniera dello sgrinz, per poi levarsi in volo diretta verso il sentiero di sinistra. E fu proprio in quella direzione che Garm spronò la sua cavalcatura.
  - Garm, come faremo ad entrare a Elissinia?
  - Non me lo sono mai chiesto. Troveremo il modo, e poi sono convinto che Firlfrind verrà in nostro soccorso.
  - Speriamo, ma forse sarebbe il caso di preparare un piano di riserva, casomai il mago non potesse intervenire.
  - Hai ragione, faremo così. Quando saremo in vista delle mura della città, ci fermeremo a riflettere.
  - Potremmo farlo anche adesso.
  - Buona idea, comincia tu.
Kavàla si era accorta da un pezzo dello stato di eccitazione di Garm, e non sapeva che fare. Era attratta dal giovane, ma non voleva concedersi a lui troppo presto, almeno non prima del tramonto. A parte ciò, era sinceramente preoccupata per la sorte che li attendeva in città. Non si era mai allontanata dal suo villaggio di capanne, e, pur conoscendo alcune pratiche magiche elementari, non si sentiva certo in grado di rivaleggiare con i negromanti di Elissinia.
A distoglierla da queste considerazioni giunse un evento tanto improvviso quanto inaspettato: lo sgrinz si mise a parlare.
  - Ho viaggiato per mezzo mondo, valicato montagne, guadato fiumi… e ora comincio ad essere stanco di tutto questo andare. Un tempo ero affascinato dal paesaggio, mi incuriosivano le persone che incontravo. Oggi non più: di voi umani so tutto ciò che c’è da sapere, e, quanto al resto, sinceramente m’è venuto a noia. Tuttavia, siccome voi due mi state simpatici, vi porterò a destinazione. Adesso però, se permettete, vorrei sostare un poco.   
Ripresasi dallo stupore, Kavàla rispose allo sgrinz.
  - Ma certo, anche noi abbiamo bisogno di una pausa.
Garm non fiatò. Altre volte, in passato, aveva assistito ad episodi simili,  ma solo in sogno. Era dunque un sogno anche quello? Carezzò una coscia di Kavàla: quella pelle, liscia e calda, era reale. Anche il pizzicotto - lieve, a dire il vero – che ricevette dalla ragazza, lo era. Dunque non stava sognando. Lo sgrinz aveva parlato, e se così stavano le cose, tutto poteva accadere. 

III

Ventri gonfi come otri, teste pelate, guance cascanti, doppi e tripli menti: la platea di accademici radunati nella Sala delle Conferenze offriva allo sguardo un repertorio di corpi sfatti e deformi. Su quell’accolita di eruditi si stendeva già l’ombra della morte. Sarmand, nel fare ingresso in sala da un passaggio segreto, fu colto da sgomento alla vista dei colleghi, e soprattutto dall’odore di carne andata a male, che gli incensi profusi in gran quantità nel locale non riuscivano a cancellare. Scambiò un’occhiata con l’ultraottuagenario professor Ragades, aggrappato a un seggiolone in prima fila. Il rudere rivolse al Catafratto la parodia di un sorriso e, sollevandosi appena sui braccioli, esalò una peto fragoroso. Ritto in piedi dietro di lui, impassibile, l’assistente Gromius, candidato a succedergli alla cattedra di grafologia dei crittogrammi, saettava occhiate torve sui presenti. Smodata ambizione, superbia, volontà di rivalsa trasudavano da tutti i pori del nerboruto assistente, amatissimo dalle studentesse per il suo carattere tirannico, la sua arroganza e quell’aria da bruto irriducibile a qualsiasi tentativo di civilizzazione. Un vero animale, insomma, villoso per di più, e capace di battute incredibilmente volgari, che mandavano in brodo di giuggiole le sue ammiratrici.
Una coppia di portieri, scorto il Catafratto, corse ad inginocchiarsi ai suoi piedi. Sarmand li ignorò, e si diresse verso un capannello di docenti i cui neri mantelli facevano pensare a uno stormo di corvi radunati intorno a una carcassa da spolpare. La folla si aprì al suo passaggio, fra inchini, salamelecchi e sorrisi untuosi, e lasciò apparire il laureando, Calvertius. Era costui un saltimbanco, esibitosi per anni nelle fiere di paese. Divenuto in seguito giullare presso la corte del Proconsole Fistulòs, entrò nelle grazie del potente personaggio e da questi fu avviato a una brillante carriera teatrale. Decisiva fu, in seguito, la conoscenza dell’Archimandrita, Zoran. Con una repentina quanto inaspettata metamorfosi, Calvertius modificò radicalmente il proprio repertorio, fatto un tempo di battute salaci e irriverenti, e divenne “poeta”. Non perdeva occasione per esibire in pubblico questa sua nuova vena poetica, declamando versi, altrui, tesi a celebrare le meraviglie del creato e la benevolenza della Nube Purpurea. Una politica che gli guadagnò apprezzamento da parte dei potenti e consensi entusiastici da parte delle torme dei sottomessi, sempre grati a chi li conferma nelle proprie illusioni consolatorie.
  - Eccellenza! Quale onore, venga, si lasci abbracciare!
All’apparire di Sarmand, Calvertius esplose in una fragorosa esclamazione di giubilo. Il Catafratto si sottrasse all’abbraccio e raggiunse la poltrona riservata alla suprema autorità accademica, foderata in velluto rosso e dotata di soffici imbottiture atte a lenire i disturbi emorroidali cui Sarmand era cronicamente soggetto. Su un seggiolone poco distante, collocato ad un’altezza leggermente inferiore, l’Archimandrita Zoran, assicurato con cinghie robuste allo schienale, dispensava sorrisi melliflui e gesti benedicenti ai convenuti.
Il suono di un gong mise fine al cicaleccio disperdendo i crocchi degli eruditi, che guadagnarono immediatamente i propri posti. Ad un secondo colpo di gong, una botola situata giusto al centro della sala si spalancò, e ne uscì un vecchietto smilzo, con un altissimo cappello a cono ed un abito che pareva fatto di stracci cuciti alla bell’e meglio. Si trattava di Scrotulus, economo dell’istituto di geomanzia, incaricato di presiedere la cerimonia.
Gli era stato riservato una specie di pulpito ma sarebbe meglio dire una botte, agganciata in modo rudimentale a una colonna. Il vecchio vi fu issato con un argano da una coppia di portieri affetti da lordosi, che impiegarono quasi un’ora a compiere l’operazione, tra continue pause per riprendere le forze. Ed ogni volta, per lunghissimi minuti, l’economo restava appeso per le ascelle come un fagotto, le gambe penzoloni nel vuoto, avvolto nei suoi stracci colorati, un’espressione disperata dipinta sul volto. I portieri, madidi di sudore, gemevano per la fatica, ansimando come mantici, tra sinistri scricchiolii d’ossa e rumorose flatulenze, attirandosi i lazzi degli Ululanti seduti nelle ultime file (quella degli Ululanti era una conventicola di allievi dell’accademia accuratamente selezionati e addestrati in appositi serragli). Il pubblico assisteva compiaciuto all’umiliazione pubblica dell’economo, da tutti disprezzato per i suoi trascorsi di strozzino, e alle tribolazioni dei portieri. Il calvario dei tre meschini finalmente si concluse: l’economo fu adagiato nella botte e qui, dopo un’ulteriore, non breve pausa, Scrotulus attaccò il suo discorso.
  - Nel rivolgermi a questo almo consesso, desidero anzitutto ringraziare vivamente e sentitamente Sua Eccellenza il Rettore, nonché presidente della Società dei Catafratti: il mai sufficientemente lodato professor Nicolaus Sarmand, alla cui suprema autorità ci inchiniamo ammirati e riconoscenti; il reverendissimo Archimandrita Zoran, fonte inestimabile di ammaestramento morale, che ha voluto onorarci della sua presenza; i Diadochi Galvano, Labano e Carcarodonte, qui raffigurati in effigie; i membri del Consiglio Magistrale Superiore; il Proconsole Fistulòs e la sua diletta moglie, Isabella, la cui bellezza illumina come un raggio di luce questa sala prestigiosa.
Sarmand aguzzò la vista. Sedeva accanto al proconsole, in prima fila, una giovane donna molto attraente. Si stupì di non averla scorta prima: evidentemente, il viavai di docenti prima del gong l’aveva nascosta al suo sguardo. Il contrasto fra l’avvenenza di lei e lo sfasciume fisico del proconsole non avrebbe potuto essere maggiore. Fistulòs viaggiava verso i settantadue anni, e in lui restava ormai ben poco di umano. Come tutti i suoi sodali, aveva utilizzato il potere per accumulare illecitamente ricchezze enormi. Rimasto vedovo in seguito al suicidio della prima moglie, Fistulòs aveva messo gli occhi su Isabella, una donna di appena 26 anni. Appartenente a una facoltosa  famiglia di allevatori di lemming ridotta sul lastrico dall’irrefrenabile inclinazione al suicidio dei simpatici animaletti, Isabella aveva accondisceso al matrimonio con il laido proconsole per evitare ai genitori l’umiliazione del declassamento sociale. Era una donna d’animo fondamentalmente buono, una di quelle nature che, per ragioni insondabili, ritengono che la loro vita debba essere una continua espiazione.
L’attenzione del Catafratto tornò allo svolgimento della cerimonia. Scrotulus stava giusto pronunciando le ultime battute del suo discorso introduttivo, quando dal fondo della sala si levò un grido. Ampie volute di fumo sospinte da un’improvvisa corrente d’aria raggiunsero le prima file. L’uditorio esplose in un grido di terrore:
- Al fuoco!
Il professor Ragadès si cagò immediatamente nei pantaloni. Sarmand, unico fra tutti i presenti a non cedere al panico, osservava e taceva. Ad ardere erano le tende di un finestrone situato accanto all’entrata principale. Gli accademici si diedero a una fuga precipitosa, dirigendosi come una mandria al galoppo verso l’uscita collocata alle spalle del tavolo della presidenza.
Nella massa dei nerovestiti spiccava un individuo la cui deformità fisica superava ogni immaginazione: si trattava del redattore capo della Gazzetta dei Sottomessi, Demetrio Sileno. Era costui un essere del tutto privo di arti, che si trascinava utilizzando degli pseudopodi. Sarmand aveva pensato talvolta di esiliarlo, ma quell’abominio, così zelante nel proprio ruolo di servile scribacchino, gli tornava tutto sommato utile lì dove stava.
  - Guardali come scappano… come pulci da un cane morto.
Sarmand, fermo al proprio posto, osservava la scena con il distacco di un entomologo. Il principio di incendio fu domato da un squadra di ausiliari richiamati dai sotterranei della Biblioteca Centrale dove prestavano la loro opera di cacciatori di tarme.
All’interno del locale, ausiliari a parte, era rimasto il solo Sarmand, meditabondo.
  - Bene, cerimonia annullata - sospirò il Catafratto. Il pensiero di chi avesse appiccato l’incendio non lo sfiorava neppure. Avvertiva piuttosto un’acuta insoddisfazione per la rapidità con cui gli ausiliari avevano domato il fuoco.
Si decise ad abbandonare l’aula. Il corridoio che conduceva al rettorato era una specie di budello privo di finestre. In origine, le sue dimensioni erano più ampie, ma Sarmand aveva ordinato che fossero ridotte così da indurre angoscia nei visitatori. L’ufficio del Catafratto era, al contrario, molto spazioso. Vi regnava il disordine più assoluto, tanto che lo si sarebbe scambiato per il magazzino di un robivecchi. Refrattario alle sirene del piacere, Sarmand coltivava una sola passione: il Caos. Nessuno più di lui era capace di generare disordine, di inficiare il corretto funzionamento degli apparati amministrativi.
Sarmand aprì la porta con la consueta circospezione, sbirciò all’interno ed ebbe un tuffo al cuore. Sulla poltrona accanto alla finestra sedeva Laetitia, la più bella studentessa dell’accademia. Il Catafratto la convocava spesso nel suo ufficio per ammirarla come si ammira un’opera d’arte. Non si stancava di guardarla, sebbene la cosa fosse per lui estremamente faticosa: a causa di un difetto congenito, Sarmand non riusciva  fissare gli oggetti per più di un minuto, dopo di che la vista gli si appannava. Di qui il suo caratteristico sguardo  incessantemente mobile, l’impossibilità di concentrare l’attenzione su qualsiasi cosa che risiedesse al di fuori della sua mente.
  - Dimmi cosa vuoi che faccia per te - domandò il Catafratto a Laetitia. - Vuoi che dia fuoco all’emeroteca? Lo farò immediatamente. A che servono le emeroteche? Andrebbero distrutte, non fosse altro  per il nome che portano. 
  - Che bel sole c’è fuori.
Sarmand trasalì: la luce feriva i suoi occhi abituati alla penombra delle aule secolari, dei corridoi angusti, dei sottoscala dell’accademia. Luoghi insalubri, ricettacoli di polvere, sporcizia, nidi di ragni e individui affetti da malformazioni non sempre evidenti.
  - C’è troppa luce in questa stanza… dovrei far murare la finestra.
  - Tanto varrebbe seppellirsi vivi. L’accademia somiglia già sin troppo a una tomba.
  - L’accademia è una tomba. Ma tu non puoi capire.
La morte del vicedirettore della facoltà di numerologia, annunciata da giorni, si stava compiendo proprio in quell’istante, nelle catacombe dell’accademia. Per volontà di Sarmand l’anziano erudito, ormai agli stremi, era stato deposto in una delle cripte più tenebrose di tutto l’edificio, un sotterraneo dove persino i pipistrelli esitavano ad avventurarsi. I singhiozzi del povero vecchio, le sue inutili suppliche agli dèi, frammiste a ululati di terrore, risuonarono a lungo nell’oscurità, sino a trasformarsi in flebili lamenti, via via più fiochi. Com’erano lontani i giorni del potere, della gloria accademica! Niente più platee adoranti, ma lugubre silenzio e oscurità fittissima. Il vegliardo sollevò debolmente la mano destra - con cui tante volte aveva pizzicato il sedere alle donne di servizio – quasi  a cercare un appiglio cui aggrapparsi per sfuggire alla salda presa della morte. Ma le sue dita non incontrarono altro che il vuoto, ed emesso un ultimo rantolo, l’uomo spirò.
Nello stesso istante, come se un genio malefico gli avesse sussurrato la notizia in un orecchio, Sarmand sorrise soddisfatto.   
  - C’è un geco sulla parete - disse Laetitia.
  - Ho notato. E’ lì da stamattina.
  - E un altro, proprio qui, sul davanzale.
  - Ce ne sono parecchi, sì.
  - Da dove arrivano?
  - Dall’istituto di zoologia, immagino.
  - E non ti danno fastidio?
  - Perché mai dovrebbero? Sono creature pacifiche e silenziose.
  - Ma la stanza ne è piena.
  - Momentaneamente.
  - Perché, poi se ne vanno?
  - Sì, in genere prima che faccia buio. Ora sarà il caso che tu torni a studiare. Ho impegni urgenti di lavoro.
  - Come vuoi.
La camera da letto di Sarmand era stata ricavata, su suo espresso ordine, all’interno della Biblioteca Centrale, previa rimozione delle raccolte anastatiche della rivista di filologia “Mimesis”, fondata secoli prima dal professor Demophilo Cauto (la cui salma, imbalsamata, ammuffiva nello scantinato della Facoltà di Lettere). Sarmand aveva disposto lo sgombero del locale che ospitava le riviste, il loro trasporto nel locale caldaie e la loro immediata distruzione. Fra il crepitare delle fiamme erano così scomparse per sempre decine di migliaia di pagine fitte di note, indici, apparati bibliografici, frutto della fatica di generazioni di eruditi. Un gesto di cui Sarmand andava fierissimo.
Dunque, la camera da letto affacciava direttamente sulla Biblioteca. Da un oblò ricavato nella porta, il Catafratto poteva spiare il lavoro delle catalogatrici intente a compulsare tomi su tomi per produrre etichette recanti indicazioni vergate secondo le severissime regole del Catalogo Sistematico di Veltronia.
Sarmand, ogni notte, si divertiva a scambiare di posto le etichette applicate sui dorsi dei volumi durante il giorno, vanificando così l’operato delle catalogatrici e rendendo di fatto impossibile il reperimento dei libri da parte del personale addetto al servizio consultazioni e prestiti. Il danno arrecato alla veneranda istituzione in oltre vent’anni di sistematici sabotaggi era gigantesco. Un terzo del patrimonio librario della Biblioteca risultava ormai indisponibile.

Pietro Ferrari, 2010

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lunedì 17 settembre 2018


MAIMO LO SCIMPANZUOMO 

Riporto a pubblica edificazione un brano molto significativo tratto dall'opera di San Pier Damiani (1007 - 1072), che tratta di un argomento della massima importanza: l'esistenza di accoppiamenti fecondi tra esseri umani e scimmie. L'opera omnia di questo interessante autore è consultabile sul Web, basta fare qualche ricerca in Google Books. Questo è il testo originale in latino: 

Sed et illud nunc subsequenter occurrit, quod mihi domnus Alexander papa necdum emenso, ut ita loquar, mense narravit. Ait enim quia nuper comes Gulielmus in Liguriæ partibus habitans marem habebat simiæ, qui vulgo maimo dicitur, cum quo et uxor ejus, ut erat impudica prorsus ac petulans, lascivius jocabatur. Nam et ego duos ejus filios vidi, quos de episcopo quodam plectibilis lupa pepererat; cujus episcopi nos exprimere nomen omittimus, quia notare quemlibet infamia non gaudemus. Cum igitur petulanti feræ mulier sæpe colluderet, ulnis astringeret, amplexibus demulceret, sed et ille nihilominus quædam libidinis signa prætenderet atque ad nudam illius carnem pertingere quibusdam gestibus anhelaret, dixit ei cubicularia sua: Permitte, si placet, quidquid vult agere, ut liquido pateat quid nititur attentare. Quid plura? permisit, et quod turpe dictu est, cum femina fera concubuit; deinde consuetudo tenuit, et commercium inauditi sceleris inolevit. Quadam vero dum se comes uxori conjugali more misceret, maimo protinus, tanquam zelotypo concitatus spiritu, super utrumque prosiliit; virum velut rivalem brachiis et acutis unguibus arpaxavit, mordicus apprehendit et irrecuperabiliter laceravit. Sic itaque comes exstinctus est. Innocens igitur homo dum fidem thalami servat uxori, dum animal suum quotidianis alit impendiis, nil ab utroque suspicatur adversi, nimirum qui clementiam præbebat officii. Sed, ah scelus! et femina turpiter jus conjugalii violat, et bestia in jugulum domini gladium vibrat.
Enimvero nuper allatus est præfato papæ, et simul et nobis grandiusculus quidam puer; et si jam, ut dicitur, vicennalis, tamen prorsus elinguis et maimoni forma consimilis, ita ut eodem vocabulo nincupetur. Unde sinistra posset oriri suspicio, si hujusmodo, non jam dicam ferinus, sed ferale portentum paterna tunc aleretur in domo.

(Petrus Damianus, De bono religiosi status, et variorum animantium tropologia, Caput XXVIII).

Il testo originale riporta a margine dei brevi titoli che sintetizzano la turpe vicenda nel suo progredire:

1) De Maimone ex Alex. II P.P.
2) Gulielmus Comes in Liguria
3) Execrandum mulieris facinus
4) Gulielmi Comitis mors
5) De puero, qui Maimoni similis erat

Questa è la traduzione in italiano:

Ma ciò che il Signor Alessandro, il Papa, mi ha detto appena un mese fa, se così posso dire, è accaduto in seguito.
Egli ha detto che recentemente, il Conte Gulielmus, che abitava in prossimità del mare nelle regioni della Liguria, possedeva una scimmia che la gente chiamava Maimo, con cui sua moglie giocava lascivamente, poiché ella era sfrenatamente impudica e lasciva. Io stesso ho visto due dei suoi figli che quella prostituta ha generato a un certo riprovevole vescovo, il cui nome ci tratteniamo dal menzionare perché non proviamo alcun piacere nell'evidenziare l'infamia di qualcuno.
Siccome la donna di cui sto parlando spesso usava giocare con quella bestia lussuriosa, abbracciandola e accarezzandola, mentre lei stessa mostrava segni di una lussuria non minore, e persino si eccitava per mezzo di certi gesti, concupendo le sue carni nude, il suo cameriere le disse: "Se ti fa piacere, lasciale fare ciò che vuole, così che stai cercando di fare diverrà chiaro". Serve aggiungere altro? La donna lasciò che la bestia trovasse la sua via e, cosa turpe anche solo a dirsi, una volta che la donna ha copulato con la bestia, ha perseverato in quell'abitudine, e si stabilì in un rapporto senza precedenti nella sua malvagità. Infatti, un giorno, essendosi il Conte unito a sua moglie in un rapporto coniugale, la scimmia immediatamente è balzata addosso all'uomo, perché il suo animo era eccitato dalla gelosia, e sopraffatto il marito con le sue braccia e artigli affilati, come se fosse un rivale, impossessandosi di lui con i denti e facendolo a pezzi, al di là di ogni possibilità di recupero.
Così il Conte è morto. Senza dubbio è irreprensibile colui che offre la gentilezza che è suo dovere offrire, finché egli è un uomo fedele al talamo nuziale della moglie, e nutre il suo animale a proprie quotidiane spese, mentre nessun atto ostile è sospettato da entrambe le parti. Ma - oh fatto orrendo! - la moglie viola oscenamente le leggi degli sposi, mentre la bestia brandisce una spada contro la gola del suo padrone.
Di recente, invero, è stato portato al suddetto Papa, e anche a noi, un ragazzo piuttosto grande che, anche se ha ormai venti anni di età, come si dice, è comunque assolutamente senza favella, e di aspetto simile al Maimo, in modo che egli è chiamato con lo stesso nome. Da ciò può sorgere il sospetto che, se egli è davvero di una tale ascendenza, non voglio più dire che una creatura selvaggia, ma piuttosto un mostro mortale, è attualmente nutrito in quella casa da una sinistra mano paterna.

Wikipedia in italiano cita da anni la storia narrata da Pier Damiani alla voce "Scimpanzuomo", ma ancora nel 2013 la sua versione conteneva un errore marchiano, nato evidentemente da una cattiva comprensione del testo in latino oppure da una traduzione dall'inglese all'italiano in cui il termine "ape", tradotto con "scimmia", è stato pensato in automatico come femminile. Ecco quanto scritto su Wikipedia al 14/10/2013:

"Nell'XI secolo, San Pier Damiani raccontò in De bono religiosi status et variorum animantium tropologia di Conte Gulielmus e di sua moglie, che sarebbe stata una scimmia dalle fattezze così umane tanto da essere considerata una donna. La storia tra i due finì tragicamente, infatti la creatura - che Damiani dice chiamarsi "Maimo" - uccise il marito per gelosia, dopo averlo visto a letto con un'altra donna." 

Questa narrazione era contenuta anche in numerosi altri siti, che hanno forse copiato da Wikipedia ma è di certo errata: come si evince dal testo latino, esistevano due diversi Maimo: il primo era una scimmia di sesso maschile che ha copulato con la moglie di Gulielmus, mentre il secondo era il figlio ibrido del primo e della moglie dello stesso Conte. Analizzando questa narrazione, si arriva alla conclusione che il Maimo padre dovesse per necessità essere uno scimpanzé - la scimmia con una maggior compatibilità genetica con l'essere umano, mentre il Maimo figlio era uno scimpanzuomo. 

Nel 2018 Wikipedia in italiano include la versione corretta dell'accaduto: 

"Nel corso della storia non sono mancati avvistamenti e rapporti sugli scimpanzuomini. Nell'XI secolo, San Pier Damiani raccontò in De bono religiosi status et variorum animantium tropologia di Conte Gulielmus e di sua moglie, che, spinta dalla lussuria, avrebbe copulato con un esemplare maschio di scimmia locale, chiamata "maimo", e partorito da esso un figlio ibrido."

Al 18/09/2018 resta la versione errata in una pagina di Stormfront.org e nel seguente sito: 

sabato 15 settembre 2018


AL TEMPO DEGLI ALIENI FALSI E BUGIARDI

Ancora sulla Luce Illusoria  

Il Raelismo fu fondato da Claude Vorilhon, un oscuro giornalista francese. Stando al suo racconto, Vorilhon fu contattato nel 1973 da entità extraterrestri immortali simili per forma ad esseri umani, che gli avrebbero imposto il nome di Rael, ossia Messaggero. Questi esseri, chiamati Elohim, in seguito lo avrebbero portato con sé sul loro pianeta di origine. Non sfugge a chiunque abbia qualche rudimento di lingua ebraica che Elohim è uno dei nomi dati al Dio nella Torah. Siccome è un plurale (la terminazione -īm indica infatti i plurali maschili), molti hanno pensato che questa fosse la prova di un originale politeismo degli Ebrei. In realtà questa forma sembra un semplice plurale maiestatis o un accrescitivo, in quanto vuole sempre il verbo al singolare, a meno che non sia usata per indicare divinità pagane, nel qual caso il verbo è al plurale. Il significato della radice è Dio. Le forme singolari sono El e Eloah, quest'ultima identica all'arabo Allah, che deriva da Al-Ilah, ossia "il Dio". Questo excursus linguistico è in realtà di fondamentale importanza, perché include la prova della non genuinità del movimento.

Gli Elohim avrebbero rivelato a Rael una dottrina materialista, atea e scientista. La si può riassumere in pochi capisaldi. L'universo è infinito e frattale: ciò che sta sopra è come ciò che sta sotto. Il mondo subatomico racchiude soli e pianeti come il nostro, e universi come il nostro costituiscono la base della struttura atomica di universi più grandi. Questa è senza dubbio un'idea molto originale. La vita nasce per panspermia cosmica, ovvero germinando sui pianeti ad opera di aminoacidi portati da comete e meteore. Tuttavia la sua evoluzione non porterebbe a molto senza l'intervento di un disegno intelligente, non ad opera di un qualche dio o altra entità trascendente al cosmo, bensì grazie all'azione di civiltà tecnologiche. Ogni civiltà tecnologica è stata creata in laboratorio da una civiltà tecnologica antecedente, e questa da un'altra, ad infinitum.

Tutto questo, insieme alla concezione ciclica della storia universale è alla base del simbolo dei Raeliani: una stella di David con una svastica all'interno. Siccome la svastica (molto simile a quella nazionalsocialista) poteva creare problemi, è stata in un qualche modo mascherata prolungandone i bracci e fondendola con i lati della stella, o addirittura trasformandola in una struttura simile a quella della galassia. C'è infatti qualcosa che Rael desidera ottenere da Israele, e l'uso di un simile simbolo (che pure in passato era noto ed usato tra gli Ebrei) sarebbe stato certo di impedimento. Il Movimento Raeliano si adopera per ottenere il permesso di costruire su suolo israeliano un'ambasciata per gli Elohim, che a tempo debito dovrebbero ivi mostrarsi all'umanità intera, ponendo fine alle guerre e ai problemi che ci affliggono, concedendo inoltre l'immortalità a coloro che ne sono degni.
Rael avrebbe però anche minacciato Israele, dicendo che nel caso si rifiutasse di ospitare l'ambasciata, il suo popolo sarà nuovamente colpito da genocidio e disperso tra le genti. A parte l'uso della svastica, motivi più seri impediscono il sogno dei Raeliani: la loro credenza che Yahvè sia un essere in carne ed ossa, dotato di corpo fisico, con la necessità di mangiare, di defecare e di emettere sperma, è ritenuta una grave bestemmia, oltre ogni immaginazione.


I princìpi dettati dagli Elohim sono pochi e semplici. Si possono enunciare nei seguenti punti:

1) Materialismo Essendo tutte le forme di vita intelligente del cosmo opera ingegneristica di altre intelligenze più avanzate, Rael afferma che l'essere coincide con il genoma ed è unicamente materiale. Quindi le religioni della terra non sono l'opera di divinità, ma rivelazioni date a uomini meritevoli dagli stessi Elohim per migliorare le condizioni dell'umanità. Tra questi uomini ci furono tra gli altri Akhenaton, Mosè, Elia, Ezechiele, Buddha, Giovanni Battista, Gesù, Maometto e Joseph Smith (mi piacerebbe sapere se vi è incluso anche Mani, ma c'è ragione di dubitarne).

2) Umanismo
I Raeliani reputano la sofferenza un'abominazione, e ritengono necessario rimuoverla dal mondo in ogni sua forma. Hanno per questo sottoscritto una loro versione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo.

3) Libertà sessuale  Ritengono altresì che non esista nulla di impuro nel corpo e nella biologia, e che la sessualità vada vissuta in assoluta libertà (impongono però l'uso del condom in ogni rapporto, essendo terrorizzati dall'AIDS). Per favorire il piacere sessuale, è stata elaborata una complessa tecnica chiamata Meditazione Sensuale. Nei libri di Rael esistono molti riferimenti alle erotiche notti degli Eletti, che avrebbero a disposizione per i loro giochetti anche cloni plasmati secondo i loro desideri e disponibili per qualsiasi acrobazia. C'è da rimanere perplessi di fronte alle immagini grottesche evocate da queste descrizioni. Vi immaginate Madre Teresa che tiene negli armadi uomini di riserva? Non si capisce inoltre cosa potrebbe impedire a un eletto di plasmarsi giocattoli adatti a realizzare fantasie di natura pedofila.

4) Geniocrazia
Quando Rael fondò il MADECH (una sorta di comitato di accoglienza per gli Elohim), vide subito che non riusciva a venire a capo di nulla. In seguito, come narra in un suo libro, gli fu rivelato che ciò accadeva a causa della democrazia su cui si fondava l'organizzazione. La sostituì immediatamente con un nuovo principio, chiamato per l'appunto geniocrazia, secondo cui il diritto di voto è da attribuirsi unicamente a coloro che superano un certo quoziente di intelligenza.

5) Eugenetica È un punto particolarmente controverso. I Raeliani sostengono a spada tratta ogni forma di manipolazione e di ingegneria genetica, tra cui la clonazione riproduttiva e la sintesi di OGM. A detta loro la clonazione è la sorgente dell'immortalità, e sarebbe stata usata dagli stessi Elohim per vincere la morte. Nel 2002 si diffuse e fece scalpore in tutto il mondo la notizia della clonazione di una bambina, chiamata Eve, ad opera di una società legata al movimento, la Clonaid. Nessuno riuscì mai a verificare le sequenze genetiche della piccola per dimostrare la sua origine abiogenetica.
Gli OGM, in una simile semplicistica visione delle cose, sarebbero addirittura la panacea per risolvere i problemi della fame nel mondo. È negata alla radice qualsiasi possibilità di effetti collaterali come l'insorgere di allergie e di malattie prioniche.

Singolare è l'escatologia raeliana, le cui conseguenze sono almeno in parte implicite in ciò che è stato esposto. Non esistendo alcuna immortalità che non sia conseguita manipolando il genoma, dopo la morte di ogni persona sarebbero direttamente gli Elohim ad occuparsi della sua ultima dimora. Il dogma afferma che i meritevoli saranno ricreati e destinati a un giardino di delizie in compagnia degli Eletti e di innumerevoli inservienti sessuali, mentre i malvagi saranno ricreati su un infernale pianeta vulcanico e sulfureo, un po' come il Mustafar della Vendetta dei Sith. La stragrande maggioranza degli esseri umani invece, essendo composta da mediocri, non sarà ricreata e sprofonderà nel Nulla.

Tra le dottrine più stravaganti vi è quella della piastra craniale: tutto l'essere con i suoi ricordi, le sue emozioni e le sue doti di intelletto, sarebbe racchiuso in una sola cellula che avrebbe sede in un particolare punto dell'osso frontale. Così è ordinato a tutti i membri del movimento di farsi segare una porzione dell'osso frontale prima di essere sepolti o cremati, e di dare disposizioni perché questi macabri cimeli vengano raccolti in una sede di Rael, in attesa di essere inviati agli Elohim. Un'azienda di pompe funebri del Quebec, dove i Raeliani sono particolarmente diffusi, incorpora alle esequie l'asportazione della piastra, offrendo prezzi di favore.

La gestione economica ricorda quella della Chiesa di Roma nel medioevo: si basa sulle decime. Ogni membro accettato del Movimento Raeliano è tenuto a cedere almeno il 10% dei suoi introiti. I Raeliani cercano in tutti i modi di far destinare alla loro organizzazione le eredità degli adepti. Forse per questo motivo tendono a sfavorire le unioni legalmente riconosciute, e di certo hanno dichiarato la loro dottrina "religione" allo scopo di ottenere agevolazioni ed esenzioni fiscali.

Riporto un brano che avevo aggiunto alla voce "Movimento Raeliano" sulla Wikipedia, sperando invano che venisse conservato a lungo. Credo che sia di cruciale importanza farne conoscere il contenuto.

Rael ha fin dal principio affermato che gli Elohim (singolare Eloah) usano per comunicare tra di loro una lingua affine all'ebraico biblico, dunque appartenente al ceppo cananeo delle lingue semitiche. Ora, il vocalismo delle lingue di questo tipo ha subito a partire dall'epoca dell'Esodo un processo di trasformazione delle vocali chiamato rotazione vocalica cananea, che ha trasformato ad esempio la /ā/ lunga in /ō/. Così, ad esempio, all'arabo salām 'pace', corrisponde l'ebraico shālōm. Possibile che questo sia avvenuto indipendentemente sulla Terra e sul pianeta di origine degli Elohim? Si può inoltre scommettere che l'idioma extraterrestre abbonda di parole come shīr 'canto', che sono prestiti dal sumerico.
Le lingue semitiche non sono giunte da un mondo inconoscibile, ma sono derivate da un antenato comune che era diverso dagli esiti storici dei singoli idiomi. Per essere credibili, questi extraterrestri dovrebbero chiamarsi qualcosa come Ilahani, e la loro lingua dovrebbe essere affine al proto-semitico o all'afro-asiatico (visto che in una società ipertecnologica di immortali non ci si aspetta una grande evoluzione linguistica). Evidentemente il movimento non ha attratto molti archeolinguisti.

Opinione personale:

Inutile dire che il Raelismo è agli antipodi della mia concezione dualista anticosmica. Quello che evoca è il sopravvento dell'inferno materiale. Ho dimostrato con argomenti linguistici la falsità dell'esperienza di Rael, ma se il suo verbo fosse vero, riterrei privilegiati i mediocri destinati al Nulla.

Dedico questo post alla mia amica Daniela B., che in preda alla dismorfofobia non riusciva nemmeno a guardarsi allo specchio. L'ultima volta che la vidi si disse attratta dalla dottrina raeliana. Da allora non ebbi più sue notizie, come se d'un tratto fosse sparita per sempre dal consorzio umano.

mercoledì 12 settembre 2018


RAMTHA L'ILLUMINATO

Falsa Luce che inganna i viandanti 

Una sedicente medium americana nota come J.Z. Knight, il cui vero nome è Judith Darlene Hampton, sostiene di aver contattato un'entità di nome Ramtha servendosi delle tecniche di channeling. Questo Ramtha sarebbe un guerriero di Lemuria, che più di 35.000 anni orsono condusse una guerra contro gli Atlantidei. Secondo questa narrazione, Ramtha avrebbe guidato un imponente esercito di oltre due milioni di guerrieri reclutati in tutti i continenti, e sarebbe giunto a conquistare i due terzi delle terre emerse del globo. Nel periodo in cui visse come uomo, la Terra avrebbe attraversato un periodo di gravi catastrofi geologiche. Knight dice che Ramtha fu tradito e quasi ucciso, e che passò quindi sette anni in un luogo isolato, osservando la natura e sviluppando doti paranormali. Divenne chiaroveggente e in grado di muoversi fuori dal corpo. Avrebbe quindi raggiunto il suo esercito in India e dopo aver insegnato ai suoi uomini una nuova filosofia, sarebbe asceso in cielo.

Secondo un canovaccio ormai sperimentato a fondo, Ramtha avrebbe portato la sua conoscenza agli umani delle varie epoche fondando le civiltà che si sono succedute sulla Terra, a partire dagli Antichi Egizi. Tutto ciò che è ritenuto positivo nella storia, viene attribuito all'influenza di Ramtha, dagli insegnamenti di Socrate al genio di Leonardo da Vinci, dall'Induismo all'arte di Michelangelo.

Dalla rivelazione che Knight avrebbe avuto è stata fondata a Yelm nel 1987 la Ramtha's School of Enlightenment (Scuola di Illuminazione di Ramtha, RSE). La dottrina trasmessa da questa entità incorporea è di tipo panteista. Non riconosce una netta separazione tra spirito e materia, definendo la materia come la parte più densa di un universo che per sua natura è in ogni caso spirituale. In questo si oppone in modo radicale allo Gnosticismo. Il punto centrale dell'insegnamento di Ramtha è la cosiddetta Internalizzazione della Divinità, ossia l'idea di Dio come vivente in ogni individuo. Ogni essere umano sarebbe così Dio, e dovrebbe soltanto rendersi conto di ciò per accedere a un'esistenza superiore. È ancora la dottrina del Libero Spirito che riemerge prepotentemente in questo periodo storico di eclissi del Dualismo. Essendo impossibile comprendere e metabolizzare il Male da simili presupposti, questo sarebbe riconducibile a uno stato di semplice ignoranza. Per vincere il Male, quindi, sarebbe sufficiente sviluppare la propria consapevolezza interiore e riconoscendo la propria natura più profonda si influenzerebbe in modo positivo il destino. Un tocco di ottimismo psichedelico si rivelata spesso vincente.

Questi sono i princìpi fondamentali della filosofia di Ramtha:

1) L'affermazione "Tu sei Dio";
2) l'orientamento che permette di rendere noto l'ignoto;
3) il concetto che la consapevolezza e l'energia creano la natura della realtà;
4) la sfida a conquistare se stessi.


In teoria Ramtha dovrebbe comunicare usando la lingua di Lemuria, o almeno trasmettere a Knight la conoscenza di alcune parole significative di quel suo passato. Invece si esprime in un inglese corretto, il cui unico tocco esotico sarebbe un lieve accento indostano. Altra cosa che colpisce è la sua incapacità di comprendere alcune parole, come per esempio "carota". Davvero strano per un benefattore dell'umanità che dovrebbe conoscere ogni parola di ogni lingua terrestre, avendo egli vagato per la Terra ed essendo stato l'ispiratore dei più elevati intelletti umani. In netto contrasto con queste difficoltà linguistiche, Ramtha sarebbe ben informato su dettagli di politica mondiale. Anche solo da questi indizi si può comprendere che questo channelling non è genuino, ma le descrizioni della fauna e della flora di Lemuria sono ancora più assurde: quel continente scomparso sarebbe stato popolato esclusivamente da umani e - letteralmente - da lemuri, ossia da proscimmie.  

Ci sono state numerose controversie. Ritengo notevole il caso di un uomo sieropositivo che evitò di curarsi nell'assurda convinzione di poter essere risanato dalla sua fede in Ramtha, e quando si accorse di essere in fin di vita denunciò J.Z. Knight. Il colmo del paradosso è che quest'uomo si chiamava realmente Knight (il caso fu detto "Knight vs. Knight").

Grottesca e degna di irrisione è invece la regolare apposizione di copyright allo spirito guida decisa dalla medium per prevenire la proliferazione di veggenti plagiarie. Forse alcuni ufologi riterranno inquietante sapere che J.Z. Knight è nata proprio a Roswell, New Mexico.  

Etimologia di Ramtha

Cosa davvero singolare e sorprendente, il nome Ramtha si trova tal quale nella lingua degli Etruschi. In numerosissime iscrizioni è documentato il nome proprio di persona Ramtha, con le varianti arcaiche Ramatha e Ramutha. C'è però un piccolo particolare: l'antroponimo etrusco è femminile, mentre il lemuriano della Knight è di sesso maschile. Secondo la medium, nell'antica lingua di Lemuria la parola Ram significava "Dio", così Ramtha deve essere un suo derivato e significare qualcosa come "Divino". A dire il vero Ram "Dio" è la sola glossa fornita. Impossibile non pensare a Rama (Ram), divinità maggiore dell'Induismo! L'antroponimo etrusco è di incerto significato, ma somiglia alla parola hittita per indicare la luna, arma-, a parer mio di origine sconosciuta e non indoeuropea: potrebbe trattarsi proprio di un antico nome della luna, prima che il sinonimo tiv lo sostituisse. Non è improbabile che la Knight abbia tratto ispirazione proprio dalla lettura di alcune iscrizioni etrusche, magari traslitterate in un libro divulgativo, interpretando il nome servendosi del teonimo indiano Rama. Un'altra possibilità è che sia rimasta colpita dal nome della città giordana di Ar Ramtha (varianti Al-Ramtha, Ramtha, Ramoth, Romtha, Ermeith), dotandolo di una falsa etimologia. Date queste premesse, sembra inutile tirare in causa la glossolalia, anche se anni fa sono entrato in un sito di adepti della setta di Ramtha e mi sono imbattuto in alcune frasi in una lingua sconosciuta. Resta da capire se valga la pena approfondire oltre l'argomento.