Il nome chicha è attribuito a una tipologia di bevande lievemente alcoliche prodotte dalla fermentazione del mais o di altri ingredienti, tipiche dell'America Latina e di origini precolombiane. Talvolta come sinonimo di chicha si usa birra di mais, anche se le somiglianze con la birra a noi ben nota sono scarse. In pratica stiamo trattando di un caso singolare di uso culinario della saliva. La più antica ricetta per la produzione della tradizionale bevanda degli Indios dell'America meridionale e centrale prevedeva una lunga masticazione del mais: il pastone ottenuto veniva sputato in un vaso che veniva sotterrato, per far sì che le forze vive della fermentazione alcolica agissero decomponendo gli amidi in zuccheri semplici, dando origine a molecole di etanolo e producendo un liquido torbido e denso. Questo veniva cotto, filtrato e lasciato riposare al buio per un certo periodo prima di essere pronto per il consumo. Non oso immaginare i retrogusti, ma è chiaro che nel contesto il pur blando effetto inebriante era molto più importante delle proprietà organolettiche. Dato il basso tenore alcolico (dall'1 al 3% in volume), l'unico modo per ottenere una bella sbronza consisteva nel bere quantità immani di questo intruglio. Si vede chiaramente che numerose ricette che si trovano nel Web sono in gran parte recenti e fantasiose, prevedendo l'utilizzo di ingredienti - come ad esempio lo zucchero di canna - che in tempi precolombiani non si potevano trovare su suolo americano. Approfondendo le nostre conoscenze sull'argomento, apprendiamo che nel corso dei secoli coloniali la masticazione è stata in gran parte sostituita da un processo più compatibile con i gusti degli Spagnoli: la germinazione, che trasforma il cereale in malto, seguita dalla bollitura. Esistono anche varianti non fermentate, come la chicha morada. Tuttavia si trova anche la prova inconfutabile che la ricetta antica non è del tutto caduta in disusso. Anzi, nelle regioni andine questa produzione casereccia è ancora abbastanza fiorente, pur essendo vietata dalla legge per motivi igienici. Esistono anche denominazioni specifiche per indicarla: chicha de muco, dove muco indica la farina di mais masticata (dal Quechua muku), oppure taqui (parola nativa ma non Quechua). Il procedimento tradizionale è descritto in una pagina del sito Soundsandcolours.com, in cui si vede una ragazza nell'atto di masticare la farina di mais per poi sputarla: si spiega che il prodotto di questa discutibile operazione acquista un sapore simile a quello dello yogurt, anche se trovo difficile credere che la questione sia così anodina.
Altre immagini esplicite si trovano in una sezione del sito ecuadoregno Planv.com, il cui titolo è Museo de la corrupción. Ne riporto una abbastanza significativa:
I Diaghiti, fierissimo popolo del Nordovest dell'Argentina, offrivano al dio uranico Kakanchig grandi quantità di liquori che i cronisti spagnoli definivano nauseabondi (asquerosos) per via del loro procedimento di lavorazione, che comportava masticazione della materia prima da parte di donne, che secondo la tradizione dovevano essere anziane. Con ogni probabilità era temuto il potere magico e maligno del mestruo, per questo il poco piacevole incarico non era dato a donne in età fertile.
En Santiago del Estero (1586) en el tiempo de la recolección de los frutos se reunían para adorar a Cacanchic- “á quien /.../veneraban, y ofrecían en sacrificio sus asquerosos licores y gran cantidad de aves muertas: llevabanle sus enfermos, para que los curasse y dedicaban a su servicio algunas doncellas de catorce, ó quince años, de quienes se aprovechaban para abominables torpezas los Hechiceros sus Ministros, por cuya boca sus oráculos, con palabras tan amphibologicas, que pudiessen rara vez convencerlos de engañosos. Apareciaseles á estos, en forma visible /.../”
(Hist.Comp., t.primero, lib.primero, cap.IV, p.16).
(Hist.Comp., t.primero, lib.primero, cap.IV, p.16).
Lo storico Pedro Lozano riporta che Viltipoco, valoroso capo degli Omaguaca, popolo imparentato con le genti di Atacama e con i Diaghiti, donò a un prete un gran vaso di chicha, e l'ecclesiastico non ne voleva bere, perché riteneva tale bevanda impura (sucia). Questo non per astrusi pregiudizi religiosi, ma per un dato di fatto incontrovertibile, ossia perché era stata fermentata per mezzo della saliva. Come il prete vide che il collerico Viltipoco si offendeva, fu costretto a fare buon viso a cattivo gioco e a trangugiare il poco attraente beverone.
Viltipoco y los suyos llegaron a dominar gran parte del Tucumán, aislándolo del resto del virreynato del Perú. El padre Gaspar Monroy hizo esfuerzos para incorporarlo a la fe cristiana. Pedro Lozano, en su "Descripción Corográfica" narra un episodio entre el Padre Monroy y Viltipoco: "El cacique le ofrece un vaso de chicha al sacerdote y éste intenta rechazarlo por la (suciedad) que implicaba su fabricación, pero luego al ver que el indígena se ofendería, tomó el brebaje. Fue tal la alegría que sintió Viltipoco que a partir de aquí trocóse en otro hombre y se mostró más benigno".
Le bevande "sporche" sono ben note anche in Amazzonia, dove vengono preparate dalla masticazione della manioca o della frutta. In un caso se ne è visto il consumo in un film di grande popolarità. Sean Connery nel film Mato Grosso (Medicine Man) di John McTiernan (1992) - un autentico capolavoro - è uno studioso talmente alcolizzato da non potersi rassegnare alla sobrietà nemmeno per pochi giorni, finendo così con l'ubriacarsi alla festa della bevanda di palma, fermentata dalla frutta grazie alla ptialina contenuta nello sputo delle donne. Una cosa talmente disgustosa che renderebbe astemio più di un bevitore. Per ulteriori informazioni, si rimanda al sito di Giorgio Samorini, che è oltremodo interessante:
Note etimologiche
Oscurissima è l'etimologia della parola chicha. Si tratta di una parola della lingua dei Taino, di ceppo Arawak, la prima popolazione con cui Cristoforo Colombo è entrato in contatto. Insoddisfatti di una spiegazione tanto semplice, gli accademici continuano a brancolare nel buio, delirando senza sosta. Per la Real Academia Española (RAE) deriverebbe invece da un supposto vocabolo della lingua Kuna (Guna) di Panama, chichab "granturco" (non è in ogni caso Maya, come ho letto in un'occasione). La glossa è comunque poco attendibile, dalle risorse reperite risulta oba glossato "maíz" e sisa glossato "licor". Secondo Luis Cabrera chicha proverrebbe dal Nahuatl chichia (chichiya) "essere acido, aspro o amaro" e da atl "acqua". Questo Cabrera è definito studioso di cultura azteca e dovrebbe essere un esperto, anche se le informazioni non si trovano. Eppure dalle mie conoscenze della lingua Nahuatl, che ho appreso in gioventù, non risulta affatto che sia possibile un composto *chichiatl o *chichiyatl "acqua acida" a partire da un verbo e da un sostantivo. Stando a un gran numero di siti nel Web, anche un certo Don Luis G. Iza avrebbe approvato questa proposta etimologica. Non va però nascosto che di tale autore non si riesce a trovare notizia: i siti che riportano l'informazione copiano le stesse parole da un'unica fonte non recuperabile e sospetta di essere un fake. Anche di Luis Cabrera ce ne sono parecchi, si sospetta trattarsi di un pacchetto memetico. Altrettanto inattendibile è la derivazione da un supposto verbo *chichiani "sputare" riportato da Gonçalves da Lima (1990). Una parola chichiani in realtà esiste, ma indica una sorta reggiseno ("apollador de teta"). Nel senso di "sputare" è una fabbricazione a partire dal corretto verbo Nahuatl chicha, chihcha "sputare", che ha un'occlusiva glottidale, quasi un piccolo colpo di tosse, prima della seconda -ch-. Il sostantivo derivato da questo verbo è chichitl, chihchitl "sputo". Non solo fonetica inadatta, ma anche semantica inadatta: gli Indiani ritenevano sacra la bevanda, non l'avrebbero chiamata da un dettaglio della sua produzione. Questa è la caratteristica di quasi tutte le paretimologie: i loro fabbricatori ignorano la struttura delle lingue a cui si appellano per spiegare qualcosa. Tra l'altro la chicha non era (e non è tuttora) la bevanda tipica delle genti di lingua Nahuatl, che usavano un fermentato di succo d'agave chiamato octli /ukλi/: la locuzione octli poliuhqui /'ukλi pu'liʍki/ (dal verbo polihui "essere rovinato") indicava una bevanda troppo fermentata, donde ne derivò il ben noto pulque /'pulke/ (con accento retratto), tuttora molto diffuso in Messico. Esistevano ed esistono ancor oggi in Messico anche bevande a base di mais, ma a quanto pare erano già nell'antichità fermentate tramite i lieviti selvatici e non tramite la saliva. In Nahuatl si chiamava teooctli /teu:'ukλi/ "pulque divino" una forte bevanda prodotta dal mais e data alle vittime destinate ad essere immolate a Huitzilopochtli, allo scopo di intorpidirle. G. Edward Nicholson (ONU) ha scritto un articolo, Chicha Maize Types, and Chicha Manufacture in Peru, le cui prime due pagine sono consultabili al seguente sito:
Nell'opera in questione sono contenute diverse inconsistenze. Questo è un estratto:
«The origin of the word chicha is not clear, but it appears to be of Caribbean (Arawak) origin, as a derivation of chichal or chichiatl. In the latter case, the two voices, chichilia and atl mean "to ferment" and "water" respectively; while in the former case chi means "with" and chal means "saliva." and, together, "to spit" or "spit".»
Innanzitutto Nicholson confonde la lingua Nahuatl con le lingue Caribe e con quelle Arawak, cosa già di per sé assurda quanto deprecabile. Il verbo citato, chichilia, è in realtà transitivo: tlachichilia "inacidire qualcosa, renderla aspra o amara". Così si può dire: nicchichilia in atl "rendo aspra l'acqua". Quello che non si può fare con questo verbo è formare composti da cui la parola chicha sia derivata. Per quanto riguarda la forma chichal che lo studioso riporta, è un'alterazione del verbo Nahuatl chihcha (vedi sopra), ma la sua analisi è farneticante e incompatibile con la lingua degli Aztechi. Ancora più stravaganti sono le altre proposte etimologiche reperibili, fatte a partire dalla lingua Maya (quale delle tante derivate dal Maya classico?): autori sudamericani citano forme non verificate (es. chiboca "masticare", chichaá "riempire d'acqua", zicha "acqua fresca"), non attribuite con precisione e prive di una semantica attendibile. In pratica si tratta di fantalinguistica amerindiana. Emerge un fatto di per sé stupefacente: una lingua importante come il Nahuatl non è conosciuta nemmeno da persone che dovrebbero esserne specialiste. Anziché studiosi seri, troviamo labili menzioni di personaggi fantomatici come Luis Cabrera e Don Luis G. Iza. Manca il costume di cercare informazioni corrette, anche in questi tempi in cui il Web dovrebbe rendere le cose più facili rispetto al passato pre-Internet.
Il nome Quechua della chicha
La forma più antica documentata del nome Quechua della chicha è aswa. Era così che gli Incas pronunciavano la parola: /'aswa/, ovviamente con la sibilante /s/ sorda come in sale. Nelle varietà locali di Quechua si sono tuttavia prodotte alcune importanti evoluzioni: la sibilante /s/ a contatto con l'approssimante /w/ ha prodotto un suono aspirato /qh/, /x/ o /h/. Così vediamo che nella stessa lingua della città di Cuzco, que è ritenuta la più nobile e tradizionale varietà di Quechua, la chicha è attualmente chiamata aha o aqha. Questa è stata l'evoluzione fonetica:
aswa > aqha > aha
Alcuni autori di epoca coloniale usano ortografie singolari come aka e acca per trascrivere /aqha/, /aha/, ma occorre fare estrema attenzione, perché in Quechua esiste la parola aka /'aka/, che significa "merda, escremento umano" e che non deve dare origine a confusioni. La forma antiquata aswa non è del tutto estinta, probabilmente è stata reintrodotta come dottismo ed è la sola usata nel Quechua di Ancash (Perù settentrionale) e in quello di Imbabura (Ecuador). Nel Quechua di Huánuco è accaduta una cosa assai singolare: la radice nativa per indicare la chicha è scomparsa, rimpiazzata da chiicha, prestito dallo spagnolo, mentre la parola aswa significa "pus". Non sappiamo se si tratti di uno slittamento semantico o se sia un lemma di sostrato, omofono per puro caso. Propendo per la seconda ipotesi. Faccio poi notare che nel Quechua di Santiago del Estero (Argentina), noto come Quichua, ogni traccia della radice aswa / aqha è scomparsa.
In epoca incaica si chiamava yamur, o meglio yamur aswa, una chicha speciale che l'Inca offriva al Sole nel corso di una speciale cerimonia. A quanto mi risulta, questo vocabolo si è completamente estinto in tutte le varietà di Quechua attualmente parlate e non sono riuscito a risalire al suo significato originario.
Il composto aqhawasi "chicheria" (< aqha + wasi "casa") indica un locale dove si produce e si serve la chicha. Abbiamo poi aqhallanthu "indicatore di una chicheria" (< aqha + llanthu "ombra"): si tratta di un'insegna, di una bandierina o altro contrassegno posto in cima a un'asta che sporge dalla parete di una chicheria per permettere ai nativi di capire dove poter ingurgitare ettolitri di bevanda fermentata. Lo slittamento semantico deve essere stato "ombra" => "che fa ombra" => "tendina" => "insegna", cfr. llanthuna "parasole". Gli interessanti composti aqhawiksa e aqharapi significano entrambi "ubriaco", "ubriacone". All'epoca dell'Impero esisteva un ufficiale incaico chiamato aqhapaq kuraka, letteralmente "signore della chicha". Il nome strumentale aswana significa "pentola di chicha" nel Quechua di Imbabura. Nel Quechua di Huanca aswap ñawin è la prima chicha estratta dall'anfora in cui è fermentata. Infine abbiamo il verbo aqhay "produrre la chicha", con la variante asway. Tramite un comune suffisso si forma poi nella lingua di Huanca il verbo aswakuy "produrre la chicha". Non mi risultano formazioni simili dalla variante aqha diffusa in altre varianti della lingua.
La lingua Aymará non mostra alcuna concordanza col Quechua sul nome della chicha: la bevanda è chiamata k'usa (scritto anche kusa). Questo vocabolo, si noterà, è riportato erroneamente da G. Edward Nicholson come *kufa per un fraintendimento ortografico: una -s- allungata è stata da lui letta come -f-, errore non da poco. Si noti che in Aymará non esiste il suono /f/. Nella lingua dei Mochica, purtroppo ormai spenta, la bevanda era chiamata kuiċho (trascrizione di Ernst Wilhelm Middendorf, 1892). Così abbiamo attestate le seguenti frasi: tiñ mān kuiċho "io bevo la chicha"; ako eiš funo, mananchi llollek villōs kuiċho "dopo il pasto bevono un vaso di chicha". Forse l'idea che la forma Aymará e quella Mochica discendano da una protoforma comune non è poi così peregrina, o forse si tratta di un antichissimo prestito culturale.
Una citazione nell'opera di Houellebecq
La chicha è citata da Michel Houellebecq nel romanzo Sottomissione, con riferimento a un tè alla menta servito nel bar di una moschea di Parigi. Questa bevanda aromatizzata è ritenuta abominevole dall'autore, che considera la parola chicha, pronunciata a denti alti, come se fosse un'onomatopea per indicare lo sputo. Una schifiltosità alquanto strana da parte di un autore che nello stesso volume descrive un atto di sodomia su una prostituta magrebina, senza protezione alcuna, seguito dalla fellatio del membro sporco di residui fecali.