Tempo fa mi capitò di reperire un'informazione di un estremo interesse. Negli ultimi anni del X secolo o nei primi del XI (non ricordo l'anno esatto), il Vescovo di Aosta, Anselmo, durante un viaggio nella sua diocesi si imbatté in un simulacro di Giove Pennino, che era ancora adorato dagli abitanti di una valle impervia. La lettura mi era rimasta impressa per via dell'epoca molto tarda del ritrovamento. L'Anno del Signore poteva essere il 999 o il 1001, la mia memoria non riesce a decidere quale delle due date sia quella esatta; Anselmo, che morì ad Aosta nel 1026, non deve essere confuso col famoso omonimo che formulò la prova ontologica dell'esistenza di Dio. Ero convintissimo di aver letto di questi fatti mirabili nel libro di Riccardo Taraglio, Il Vischio e la Quercia. Spiritualità celtica nell'Europa Druidica (1a ed. 1997). Eppure quando ho ripreso in mano il volume, ad anni di distanza, purtroppo non sono stato in grado di ritrovare la preziosa menzione. Le pagine erano molto ingiallite per il tempo trascorso. Non mi è andata meglio con la versione online dell'opera, nonostante le ripetute ricerche; riporto il link, nel caso qualcuno volesse cimentarsi. Forse giungerà un internauta più fortunato di me.
Se poi un giorno il link si romperà, amen. Non posso perdere altro tempo. Google non mi è stato di alcun aiuto nel mio studio su Giove Pennino, anzi, mi ha seriamente ostacolato. Se anche questa scoperta del Vescovo Anselmo si trovasse in qualche sito, è di certo nascosta da migliaia di siti insostanziali con un migliore posizionamento nel Web. Sono convinto che un giorno ritroverò la documentazione, peraltro abbastanza stringata. Intanto pubblico queste note. Quello che mi aveva colpito è che in un'epoca così tarda fosse stata trovata una reliquia pagana così ben conservata. Mi sono domandato se per caso non fosse sopravvissuta, magari in forma residuale, anche una lingua celtica poi estinta, sommersa dal mondo romanzo circostante. La cosa non è poi così improbabile. Già Johann Ulrich Hubschmied aveva supposto che fossero sopravvissute in Elvezia isole alloglotte celtiche in epoca molto tarda, traendo evidenze della sua tesi dalla toponomastica.
Una divinità preromana adorata dai Salassi e da altre genti alpine è stata assimilata nel Pantheon di Roma come Iupiter Penninus. Il teonimo Penninus /pen'ni:nus/ è di chiarissima origine celtica: in gallico abbiamo PENNO- "testa; sommità, vetta", ben documentato nel materiale onomastico e toponomastico. Si tratta di un sostantivo neutro, che nelle Gallie doveva suonare *pennom, *pennon, e in epoca più tarda *penno. La sua derivazione è da un protoceltico *QUENNO-, la cui origine ultima permane sconosciuta: c'è chi ha ipotizzato un artificioso protoindoeuropeo *KP-ENNO-, postulando la stessa radice del latino caput "testa", ma la costruzione è alquanto artificiosa, con apofonia aberrante, suffisso sconosciuto e via discorrendo. In antico irlandese la protoforma celtica *QUENNO- ha dato cenn "testa" (irlandese moderno ceann "testa"): proprio da questa radice ha avuto origine il cognome Kennedy. In gallese la forma protoceltica ha dato pen "testa", con consonante labiale come in gallico. In buona sostanza, Iupiter Penninus significa "Giove della Vetta". Accanto alla pronuncia /pen'ni:nus/ ne esisteva un'altra più volgare, /pe:'ni:nus/ (vocale breve più consonante doppia => vocale lunga più consonante semplice). Si trova chiara traccia di ciò nella variante ortografica Iupiter Peninus. Si è generata quindi una grafia ipercorretta Iupiter Poeninus, giustificata anche da una falsa etimologia, già stigmatizzata da Tito Livio, che associava la divinità ai Cartaginesi e all'impresa di Annibale: il ben noto etnonimo Poeni /'poeni:/ "Fenici", pronunciato dal volgo /'pe:ni:/, è proprio la causa dell'equivoco.
Nel paese degli Umbri, sulle falde del monte Catria, esisteva un importante santuario dedicato a Iupiter Apenninus. Situato nei pressi della Via Flaminia, il luogo di culto distava 135 km dall'Urbe. Il territorio in cui sorgeva apparteneva alle città Iguvium (attuale Gubbio) e Luceoli. Ebbene, questo Iupiter Apenninus è ora della fine la stessa identica divinità di quella vista nelle valli dei Salassi. Il vocabolo apenninus /apen'ni:nus/, da cui deriva l'italiano appennino, Appennini, è di origine ligure e ha la stessa identica radice vista sopra per il celtico PENNO-. Evidentemente si tratta di una formazione indoeuropea con un antico prefisso AD-, ben noto anche al latino e al celtico, anche se la radice *PENN- non ha paralleli esterni credibili. In ogni caso *AD-PENN- ha formato APENNINUS. A quanto mi consta, nessuna forma derivata mostra una lenizione; nell'italiano appennino si deve vedere l'esito dello scontro tra la consonante finale del prefisso AD- e la consonante iniziale della radice *PENN-, anche se in latino si trova soltanto una -p- semplice.
Taraglio menziona nel suo libro le battaglie condotte da San Bernardo contro il paganesimo popolare, drammatizzate dagli agiografi come scontri diretti contro Giove e altre divinità dell'antica religione romana, o meglio celtica romanizzata. San Bernardo, che ha dato il nome al Gran San Bernardo, dove esisteva proprio un santuario dedicato a Giove Pennino, secondo una diffusa tradizione sarebbe stato di nobile famiglia e nativo di Mentone (attuale Menthon-Saint-Bernard, vicino ad Annecy, da non confondersi con Mentone in Costa Azzurra). In realtà è molto probabile che il suo luogo d'origine fosse proprio Aosta. In precedenza il Gran San Bernardo era chiamato Mons Iovis, da cui deriva l'attuale denominazione dell'ospizio fondato dal santo, Mont-Joux, situato sul versante svizzero della montagna.
In realtà anch'io ho visto l'idolo di Giove Pennino, proprio come era successo al Vescovo di Aosta mille anni prima. Naturalmente non si tratta dello stesso manufatto, visto che le genti del luogo hanno sempre provveduto a costruirne di nuovi, per quanti ne fossero abbattuti dalla foga degli zelanti predicatori o dall'inclemenza degli elementi. Nel settembre del 2013 ho pubblicato queste mie memorie, in cui è menzionata la scoperta:
Storia del declino e della caduta dell'Impero Americano
In un rifugio, tra le montagne che furono di Salassi e Graioceli, mi sono imbattuto in alcune ragazze americane dai modi incredibilmente volgari. Le loro parole avevano il suono dello starnazzare di papere e oche, una vera e propria cacofonia assordante. Il significato dei discorsi che mio malgrado sono stato costretto ad ascoltare era a dir poco nauseante. Una di queste americane ha detto di aver avuto moltissimi amanti francesi, tedeschi e della Sierra Leone, e di essere stata una volta persino con un cinese a cui non lo ha succhiato perché gli puzzava di formaggio. Si è quindi esibita in una serie di lazzi in cui derideva questo suo amante etichettandolo come "Chinese Cheese", sghignazzando di continuo. Poi ha aggiunto di ritenere quelli della Sierra Leone "i migliori per scopare". Ovviamente non ha considerato il fatto che in tale orrido Feudo di Satana germoglia l'AIDS. La sua amica ha detto di amare i falli giganteschi, ma se si imbatteva in un esiguo falletto scoppiava a ridere e non le riusciva di combinare niente perché in genere l'uomo si offendeva o si imbarazzava. Dopo alcuni giorni ho marciato fino al confine con la Francia, giungendo in un luogo dove qualcuno aveva eretto un idolo fatto di pietre ammucchiate, avente sembianze di un omino rudimentale. Un'americana si è allora staccata dalla sua comitiva e starnazzando ha chiesto a gran voce come mai l'omino ce l'avesse così piccolo. Si è quindi fatta fotografare a braccetto del simulacro, urlando qualcosa che si può traslitterare così: "This is my small dick boyfriend". Dovunque vadano, le americane si esibiscono in oscenità di ogni genere, tanto che i loro discorsi sono pieni zeppi di parole come "suck", "suck it up", "sucking", "fuck", e via discorrendo. Pensano soltanto a fellare e a copulare, ed è una cosa impressionante: solo se hanno con sé figli piccoli si astengono dall'usare un linguaggio pornografico. Di fronte a tutto questo, comprendo i sentimenti di Nerone nell'atto di suonare la lira mentre Roma ardeva: se avessi davanti a me un pulsante per mandare in combustione l'intero pianeta, non esiterei un solo istante a premerlo, l'importante è che tutto bruci senza la minima possibilità che qualcosa sopravviva tra le ceneri. Sarebbe deprimente pensare che questo porcaio possa durare ancora a lungo, tanto da permettere a un futuribile emulo di Edward Gibbon di scrivere un'opera in più tomi intitolata "Storia del declino e della caduta dell'Impero Americano".
Il luogo dove ho trovato Giove Pennino è il valico conosciuto come Col de la Seigne, proprio dove c'è il confine tra l'Italia e la Francia. Tornato in quello stesso sito due anni dopo i fatti appena descritti, nel 2015, vi ho trovato ancora un simulacro, anche se più piccolo e rudimentale di quello che vi avevo visto in precedenza. C'era una compagnia di israeliani molto allegri che vociavano di fronte al singolare manufatto, domandandosi cosa fosse e a cosa servisse. Invano ho cercato di spiegare loro che si trattava di un idolo, usando qualche parola in ebraico e poi continuando in inglese. Mi sorprendeva che considerassero con tanta futilità un oggetto che la loro religione avrebbe dovuto considerare offensivo. Non c'è stato verso che capissero il senso del mio discorso: quando ho fatto notare loro che a rigor di logica non avrebbero dovuto considerare divertente un'immagine di Baal, un vecchio mi ha guardato come se fossi un clown. "Why?", mi ha chiesto a un certo punto. Sono rimasto interdetto, ma poi ho pensato che fosse un ebreo laico (un "ammonita", come dicono in gergo) e che la cosa non doveva essere così strana. A questo punto mi sono accomiatato e ho cominciato a scendere a valle. Prima di volgere le spalle all'allegra comitiva, ho fatto in tempo a vedere un giovane israeliano, robusto e biondiccio, che poneva un piccolo sasso sulla sommità di Giove Pennino. Due valligiani con cui aveva parlato fino a poco prima, non appena si è allontanato, hanno rimosso la pietruzza appena collocata e l'hanno gettata a terra con disprezzo. Sentivo alcuni loro commenti in lontananza: "Ha detto di essere del Neghev", ha commentato uno. "Quanti palestinesi avrà ammazzato?", ha chiesto l'altro con voce sarcastica.
Mi è stato riferito dall'amico A., nativo del paese dei Salassi, che gli omini delle montagne sono manufatti di antichissima tradizione, presenti sui valichi montani e sulle vette da tempo immemorabile. Non mi stupirei se l'usanza risalisse al Neololitico, forse addirittura al Paleolitico. Esiste l'inveterata a tradizione di accrescerli con pietre e di ricostruirli
quando sono crollati: ogni passante pone un sasso, possibilmente piatto, sulla struttura, quasi seguendo un rituale istintivo, suggerito dal genius loci. Si dice che la funzione di questi strani cumuli di pietre consista nel segnare un sentiero poco definito, affinché il viandante non si smarrisca. Ho potuto constatare una specie di omertà diffusa tra la popolazione locale, che non ama affatto parlare di questo argomento coi forestieri. Sembra quasi che temano ancora oggi l'arrivo di un furioso Bernardo di Mentone abbattitore di idoli o addirittura di qualche inquisitore dei tempi della Caccia alle Streghe: non penso di poter essere ritenuto un folle se affermo che molti secoli di oppressione ecclesiastica devono essersi stratificati a livello di memoria epigenetica.