venerdì 14 agosto 2020

ETIMOLOGIA DI PUNK

La parola punk, a tutti ben nota, indica un seguace di un movimento di protesta nato sul finire degli anni '70 del XX secolo in Inghilterra e negli States, caratterizzato da feroce anticonformismo. Indica anche un genere musicale nato in quello stesso periodo, caratterizzato da testi dissacranti, strumentazione essenziale e rifiuto delle linee melodiche. A quanto ho potuto constatare, ben pochi si chiedono quale sia l'etimologia di punk. Orbene, questa parola è di origine incerta e molto problematica. Si può dire che sia una crux della scienza etimologica della lingua inglese.
 
Pronuncia (in caratteri IPA)
Regno Unito: /pʌŋk/
Stati Uniti d'America: /pəŋk/ 

In Italia pochi sanno che in inglese punk ha una serie di significati che vanno da "legna marcia polverulenta" a "cosa priva di valore". Analizzare il quadro della situazione non si presenta come un'impresa facile.
 
L'ipotesi più accreditata è che la catena di slittamenti semantici sia stata questa: 
 
punk "legna marcia usata come esca per il fuoco" => 
punk "cosa priva di valore" => 
punk "persona indesiderabile"  
 
Nel senso di "legna marcia (secca e sbriciolata)", punk è attestato per la prima volta nel 1678. 
Nel senso di "cosa priva di valore", punk è attestato per la prima volta nel 1869.
Nel senso di "persona indesiderabile", punk è attestato per la prima volta nel 1908.  
 
 
 
In realtà la semantica di punk (sostantivo, pl. punks, informale punx) è molto più complessa.  
 
i) punk "prostituta": sinonimo di prostitute, harlot, strumpet (attestato dal 1575, nella ballata Old Simon the King);
ii) punk "giovane omosessuale passivo usato da un uomo più anziano": sinonimo di catamite (attestato dal 1698);
iii) punk "omosessuale passivo effeminato": sinonimo di bottom
iv) punk "ragazzo che accompagna un vagabondo, specie se usato per il sesso": sinonimo di gunsel (attestato dal 1893);
v) punk "omosessuale (attivo o passivo)": sinonimo di faggot (attestato dal 1933);
vi) punk "uomo costretto a una relazione omosessuale, specie in prigione": sinonimo di bitch (attestato dal 1946); 
vii) punk "persona senza valore": sinonimo di worthless person (attestato dal 1904 secondo Wikipedia in inglese, dal 1917 secondo Etymonline);
viii) punk "persona, compagno": sinonimo di fellow (attestato dal 1904);
ix) punk "teppista, delinquente giovanile": sinonimo di petty gangster, hoodlum (attestato dal 1906 secondo Wikipedia in inglese, dal 1904 secondo Etymonline); 
x) punk "dilettante": sinonimo di amateur (attestato dal 1923);
xi) punk "lavoratore o animale non addestrato" (nel gergo circense, attestato dal 1926); 
xii) punk "giovane senza esperienza": sinonimo di beginner, novice; xiii) punk "sciocchezza": sinonimo di nonsense, foolishness.  

Esiste anche un uso aggettivale di punk (comparativo punker, superlativo punkest): 

i) punk "cattivo, mediocre": sinonimo di bad, substandard
ii) punk "criminale, criminoso": sinonimo di thuggish, criminal
iii) punk "in cattiva condizione, in cattiva salute": sinonimo di unwell, poorly, sickly
iv) punk "inesperto": sinonimo di inexperienced
v) punk "vile, codardo": sinonimo di cowardly

Data l'estrema flessibilità grammaticale della lingua inglese, esiste anche un verbo to punk

i) to punk "agire da lenone; far prostituire": sinonimo di to pimp;
ii) to punk "costringere a subire sesso anale" (in genere il soggetto passivo è un ragazzo, ma l'azione può essere inflitta anche a una ragazza); 
iii) to punk "ingannare, fregare": sinonimo di to prank
iv) to punk out "cedere, darla vinta": sinonimo di to act as a wimp

Analizzando questa mole di materiale, la prima cosa che notiamo è che punk "prostituta" è attestato prima di punk "legna marcia usata come esca per il fuoco". Non è chiaro se la catena di slittamenti semantici sopra riportata sia davvero valida. Esiste la possibilità che si tratti di due parole diverse e omofone. In questo caso, l'odierna accezione di punk sarebbe il punto terminale di un lungo processo di evoluzione semantica partito da punk "prostituta".  
 
punk "prostituta" => 
punk "omosessuale passivo" => 
punk "cosa priva di valore" => 
punk "persona indesiderabile"  
 
Anche l'origine di punk "legna marcia polverulenta" è molto controversa. Esistono due possibilità: 
 
1) punk deriva dall'algonchino (Lenape o Delaware) punkw "polvere, cenere" (pron. /puŋkʷ/; riportato come ponk da Etymonline; forma proto-algonchina ricostruibile: *penkwi);
2) punk è una forma alternativa di spunk "esca per accendere il fuoco", a sua volta dal gaelico spong "esca per accendere il fuoco" < "spugna", in ultima analisi dal latino spongia (prestito dal greco σπογγιά (spongiá), formato da σπόγγος (spóngos) "fungo"). 
 
Tra i modi di dire tipicamente americani si cita to fight like punk "lottare fino all'estremo" (New Jersey Gazette, 1782), ma la sua connessione con la parola Lenape mi pare incerta. Esiste anche rotten as punk "marcio come la legna sbriciolata" (Vermont Phoenix, 1837). Resta il fatto che nella parola Lenape punkw non mi risulta esista connessione con la putrescenza. Esiste il verbo  punxe /'punχe/ "mettere legna sul fuoco", ma non sono affatto sicuro che sia formato dalla stessa radice. Tanto per dare una vaga idea della complessità della questione. 
 
A complicare le cose, esiste anche il termine gergale funk "legna marcia", sinonimo di punk, che pone gravi problemi, dal momento che l'alternanza tra /p/ e /f/ non è tipica dell'inglese. Ci occuperemo in altra sede dell'etimologia di funk, che non è meno complessa di quella di punk. Notiamo infine punk "incenso cinese", attestato dal 1870, chiaramente un termine gergale formato a partire da punk "legna marcia polverulenta". Un altro significato secondario di punk, strettamente connesso ai precedenti, è "combustibile usato per accendere o ravvivare il fuoco".  

Nell'inglese gergale del Regno Unito esiste spunk "sborra", ben attestato in una canzone da bevute nota come The Good Ship Venus e Friggin' in the Riggin', di cui è celebre l'interpretazione dei Sex Pistols. In un suo verso si evoca un mare di sborra (a sea of spunk). La catena di slittamenti semantici più probabile è questa: 

spunk "esca per accendere il fuoco" =>
"stato di eccitazione sessuale" =>
"orgasmo" =>
"prodotto dell'orgasmo" =>
spunk "sborra" 
 
Ora, punk nel senso di "prostituta" è attestato in un'opera di William Shakespeare datata al 1603 o al 1604, Misura per Misura (Measure for Measure). Questo si legge nell'Atto V, Scena I: 
 
"My lord, she may be a punk; for many of them are neither maid, widow, nor wife."  

Questa attestazione precoce potrebbe porre qualche problema all'ipotesi di una derivazione di punk "prostituta" da punk "legna marcia", qualora si sostenesse che quest'ultimo vocabolo sia un omofono di origine algonchina. 
 
Potrebbe anche valere questa catena di slittamenti semantici: 
 
spunk "esca per accendere il fuoco" =>
"stato di eccitazione sessuale" =>
"orgasmo" =>
"ciò che causa l'orgasmo" =>
spunk "prostituta" 
 
Oppure l'inverso, a rigor di logica: 
 
spunk "prostituta" =>
"ciò che accende l'eccitazione sessuale" =>
spunk
"esca per accendere il fuoco"
 
Come si può vedere, ci sono problemi a non finire, al punto che dubito si possa risolvere una volta per tutte la questione. In ogni caso, analizzando il materiale fornito, si può ben comprendere l'uso della parola punk in un particolare contesto musicale. Ho trovato interessanti informazioni su un articolo di J.P. Robinson, The Rotten Etymology of Punk
 
 
In tale scritto si fa allusione a una musica "punk" nel Kansas di fine XIX secolo. Solo per fare pochi esempi, una "punk orchestra" sarebbe stata attestata a Emporia (1898), una "punky band" a Waverly (1899) e una "punk band" a Hutchinson (1902), oltre a un "punk concert" a Iola nel 1901. Non sono riuscito a validare questi dati, che riporto comunque per stimolare la curiosità di eventuali lettori. 
 
Alcune mortificanti considerazioni 
 
Nell'epoca pre-Internet un trattatello come questo sarebbe stato difficilissimo comporlo, per via dei gravi ostacoli nel reperire e controllare le informazioni (i libri non hanno link). Immaginatevi un topo di biblioteca intento a spulciare migliaia di giornali americani sepolti in archivi polverosi, senza nessun aiuto! Anche cercare una sensata e completa bibliografia su un argomento tanto specifico sarebbe stato assai arduo. Va però detto che anche nel Web sussistono criticità non da poco. Se da una parte non è facile orientarsi ed estrarre informazioni di qualche valore, dall'altra ci si scontra con le onde grigiastre dell'Oceano dell'Oblio, che tutto inghiotte e nulla restituisce. Dallo stesso mondo accademico giungono ben pochi riscontri e purtroppo anche questi spesso non generano alcuno sviluppo degno di nota.

mercoledì 12 agosto 2020

LA SETTA COPROFAGA DEGLI AGHORI

Un carissimo amico, L., mi chiese un giorno, a bruciapelo: "Esistono tribù coprofaghe?" La domanda non è affatto banale. Uno dei principali argomenti usati dagli psicologi per etichettare la coprofagia come un "comportamento aberrante" o una "parafilia" è proprio questo: sono noti episodi di singoli individui della specie umana con il costume di mangiare escrementi, propri o altrui, ma sembra che non si diano casi di coprofagia sociale. Spesso i bambini si mettono in bocca le feci. A quanto pare non si avrebbe invece documentazione di gruppi di bambini che si ritrovano per mangiare escrementi. Dissento fortemente da queste opinioni, in larga misura dettate dall'ignoranza e dal preconcetto. I compagni di merde esistono. Com'è ovvio, indagare questi comportamenti non è molto facile, per il fatto che vengono tenuti nascosti. Solo per fare un esempio, è stato scoperto un gruppo di abitanti di Tbilisi (Georgia, Caucaso) che si trovavano per ingurgitare materia fecale umana. L'articolo, molto interessante, è purtroppo sparito presto dal Web e non sono in grado di fornire gli estremi per la sua identificazione, così non insisterò oltre. Mi soffermo invece su un caso ben più documentato: quello degli Aghori dell'India. 
 
 
Il nome degli Aghori deriva dal sanscrito ghora "tenebra, oscurità, ignoranza" e dal suffisso privativo a- "non". Così il suo significato è "luce, illuminazione, conoscenza". Il concetto espresso è quello di assenza di odio, paura, disgusto e discriminazione. In parole povere ma abbastanza pratiche, essi sono gli equivalenti indiani dei Satanisti. Rifiutano ogni categoria morale e hanno fama di maghi neri in grado di scagliare terribili maledizioni. 

La dottrina degli Aghori, chiamata Aghor, è molto semplice e coerente fino all'estremo. Può essere definita una forma di monismo radicale, al di là di ogni limite concepibile. Essi affermano che Shiva è Perfezione, essendo onnipotente, onnisciente ed onnipresente. Essendo Shiva il possessore di ogni causa e di ogni effetto nella Creazione, tutto ciò che esiste è considerato come sua opera. Tutto, anche la merda. Quindi se si defeca e si mangiano gli escrementi, propri ed altrui, si partecipa semplicemente all'opera di Shiva. Nella merda è insita la sacralità dell'Essere Supremo. L'Essere Supremo è nella merda, è nell'impurità, è nelle pratiche sessuali più estreme, è nella carne putrefatta dei cadaveri e nella sua ingestione! Anzi, l'Essere Supremo è tutte queste cose! Nei loro riti, stranamente simili a Messe Nere, il celebrante copula con una donna impura, mangiandone le feci e bevendone l'orina. Gli Aghori non praticano l'ascesi così tipica della maggior parte delle sette induiste: mangiano carne, bevono alcolici in quantità industriale, si drogano fumando hashish e cannabis, hanno contatti col mestruo, che lappano e ingeriscono avidamente. La loro ascesi non si basa sul concetto di purezza, ma sul suo esatto opposto. Conducono spaventose esistenze nei luoghi di cremazione, rovistando tra le ossa dei morti, attorniati da cani macilenti e da sciacalli scheletrici. Meditano usando i cadaveri come altari. 
 
La Liberazione (moksha), così sostengono con fede incrollabile, si ottiene liberando l'essere dall'illusione dell'ego, il sé personale, che è un inganno generato dal Velo di Maya. Il ribrezzo verso la materia decomposta e verso i contatti impuri è proprio il frutto di tale prigione, da cui è necessario liberarsi per porre fine al ciclo delle rinascite. Devo ammettere che il sistema filosofico e religioso degli Aghori è consequenziale alle proprie premesse. Non vi si scorgono incoerenze logiche o segni di sincretismo tra visioni dell'universo tra loro incompatibili. Ogni singola affermazione giunge fino in fondo, traducendosi in pratica, fino alla merda, per l'appunto. Qui in Occidente è tutto un pullulare di gente che parla dell'Uno, poi però non arrivano a masticare gli stronzi! Non solo: basta che sentano l'odore sgradevole del sudore o di un peto, e subito si abbandonano a crisi isteriche! A quanto pare soltanto Nietzsche, che scrisse del "grande sì alla vita", arrivò per questo a cibarsi di feci; nessuno però lo considera un esempio, visto che si trovava in condizioni di demenza terminale. C'è un insegnamento profondo che si può trarre dallo studio degli Aghori. Chi vede il Divino ovunque realizza l'Incubo, perché questo Divino non è il Signore Puffoso del Mondo dei Puffi! Proprio come me, questi sadhu indiani perseguono l'Estinzione, anche se lo fanno partendo da presupposti molto diversi.
 
Il lessico religioso degli Aghori è sanscrito. La coppa ottenuta da un teschio umano è chiamata kāpala. Se contiene carne di cadaveri putrefatti è detta mamsakāpala. Se invece contiene sangue è detta aśrakāpala. Esiste anche un nome specifico, sempre composto con -kāpala, per indicare una coppa contenente feci e orina, ma non sono riuscito a reperirlo.

Un'interessante testimonianza 
 
Riporto alcuni link a fonti che reputo molto istruttive. Consiglio vivamente a tutti l'attenta consultazione del materiale che ho trovato nel Web. 
 

Le cose sono andate così: Reza Aslan, reporter della CNN, è stato tra gli Aghori a Benares e si è sottoposto a pratiche raccapriccianti. Prima è stato cosparso sulla faccia con le ceneri di cadaveri cremati, poi ha bevuto alcol in un teschio umano e mangiato una sostanza che, come gli è stato rivelato in seguito, era cervello umano. Il guru della setta, un individuo violento e collerico, lo ha minacciato con un coltello, dicendogli che lo avrebbe decapitato se avesse parlato troppo. Fatto questo, il guru si è messo a mangiare i propri stronzi e ne ha gettato i resti sul povero reporter, annichilito dall'obbrobrio. A quanto pare questi fatti hanno destato immenso scandalo tra le comunità induiste degli Stati Uniti, che hanno tumultuato a lungo, temendo di essere associate agli odiatissimi e impuri Aghori. 


Echi di Aghor in Occidente? 

Mi sono imbattuto in un portale stravagante in cui si riporta notizia della presenza di seguaci delle dottrine degli Aghori in Europa, in America e persino in Russia. 
 
 
Queste sono le parole del  gestore del blog: 
 
"Alcuni seguaci del culto sono presenti anche in America, Australia, Russia e paesi europei come Germania e Italia, nello specifico a Mezzago, in provincia di Monza e Brianza, dove risiede una tranquilla comunità dedita al culto di Baba Kinaram."
 
Se  devo essere sincero, sono piuttosto scettico su queste affermazioni. Dubito che in un paese occidentale si possano praticare i costumi degli Aghori senza dare nell'occhio e senza attirare l'attenzione delle autorità sanitarie - oltre che delle forze dell'ordine! Il rischio di subire un TSO e di finire in psichiatria è abbastanza elevato. Ho esplorato in lungo e in largo il sito della sedicente comunità Aghori di Mezzago, non rinvenendo altro che una setta induista affine a quella degli Hare Krishna, del tutto priva di elementi estremi. Raccontano le solite cose sul controllo della mente sul corpo. Tutto il contrario dei sadhu che reputano anche l'impurità un'emanazione di Shiva e la accolgono. Secondo me il sito di Mezzago è una pataccata che di Aghori ha soltanto il nome. Non posso credere che tutte quelle persone ben pulite ed eleganti, immerse in un'atmosfera dolciastra e New Age, poi mangino le feci e la carne umana putrescente dei cadaveri. Se qualcuno di loro si facesse avanti per smentirmi, invocherei l'ordalia e gli direi: "Fai davanti ai miei occhi ciò che fanno gli Aghori! Soltanto allora crederò che tu sia un Aghori!" 
 
Conclusioni 
 
Alla domanda dell'amico L. posso rispondere con fermezza. Sì, esistono tribù coprofaghe! E siano sempre benedette!   

lunedì 10 agosto 2020

I GARAMANTI, UN POPOLO MELANOLIBICO

I buonisti fautori del politically correct cercano di cancellare il passato facendo becero revisionismo, impegnandosi con ogni mezzo per far passare per verità cose che sono soltanto crasse e sudicie bugie. Ogni tanto salta fuori da qualche angiporto un decostruzionista postmoderno con una folle idea da imporre, pena essere considerati "razzisti" o addirittura "suprematisti bianchi". Così accade qualcosa di portentoso: in quel che resta della Settima Arte, Achille, Heimdall e Anna Bolena diventano nativi dell'Africa subsahariana. Secondo alcuni "studiosi", l'Impero Romano sarebbe stato retto da persone dalla pelle più scura del carbone e del fumo delle fucine. A detta loro sarebbero stati neri persino Romolo e Remo. Non ci sono limiti a questa bramosia di riscrivere la realtà. Andando avanti di questo passo, faranno un film sul III Reich in cui Heinrich Himmler sarà ritratto come "colorato". 
 
Detesto la politica e ho in abominio i media che deformano anziché informare. Vediamo come stavano davvero le cose. Vediamo come sono documentate e cosa possiamo dedurne. Nell'Antica Roma le persone che oggi sono chiamate "di colore" erano considerate simili alle ombre del Tartaro. Il loro colore della pelle e i loro tratti somatici erano associati a Caronte e all'Ade. Non siamo di fronte a quello che i moderni chiamano "razzismo", perché non esistevano le stesse categorie concettuali, eppure era un odio ancora più forte di quanto possiamo immaginare. Si pensava che i neri portassero sventura, dato il legame che veniva loro attribuito con gli Inferi. Durante una parata, Settimio Severo nel corso di una campagna in Britannia fece nascondere un militare di colore perché era convinto che fosse un sicuro presagio di sconfitta (Historia Augusta, cap. 22). Proprio quella Britannia che i giornalisti del Fuffington Post considerano un avamposto dell'Africa. Qualcuno fa notare che Settimio Severo era nato in Libia. Vero, ma la sua famiglia era di origine romana, anche se aveva adottato da tempo la lingua numidica. Non è lecito dipingerlo come un Obama del mondo antico! 

Ecco il testo dell'Historia Augusta, tanto per avere un'idea: 

Signa mortis eius haec fuerunt: ipse somniavit quattuor aquilis et gemmato curru praevolante nescio qua ingenti humana specie ad caelum esse raptum; cumque raperetur, octoginta et novem numeros explicuisse, ultra quot annos ne unum quidem annum vixit, nam ad imperium senex venit. cumque positus esset in circulo ingenti aereo, diu solus et destitutus stetit, cum vereretur autem, ne praeceps rueret, a Iove se vocatum vidit atque inter Antoninos locatum. die circensium cum tres Victoriolae more solito essent locatae gypseae cum palmis, media, quae ipsius nomine adscriptum orbem tenebat, vento icta de podio stans decidit et humi constitit; at quae Getae nomine inscripta erat, corruit et omnis conminuta est; illa vero quae Bassiani titulum praeferebat, amissa palma venti turbine vix constitit. post murum apud Luguvallum visum in Britannia cum ad proximam mansionem rediret non solum victor sed etiam in aeternum pace fundata, volvens animo quid ominis sibi occurreret, Aethiops quidam e numero militari, clarae inter scurras famae et celebratorum semper iocorum, cum corona e cupressu facta eidem occurrit. quem cum ille iratus removeri ab oculis praecepisset, et coloris eius tactus omine​ et coronae, dixisse ille dicitur ioci causa: "Totum fuisti, totum vicisti, iam deus esto victor". et in civitatem veniens cum rem divinam vellet facere, primum ad Bellonae templum ductus est errore haruspicis rustici, deinde hostiae furvae sunt adplicitae. quod cum esset aspernatus atque ad Palatium se reciperet, neglegentia ministrorum nigrae hostiae et usque ad limen domus Palatinae imperatorem secutae sunt.
 
Questi sono alcuni versi tradizionalmente attribuiti al poeta africano Publio Annio Floro (detto anche Lucio Anneo Floro o Giulio Floro, 70/75 d.C. - 140 d.C.), che descrivono uno schiavo nero come "feccia dei Garamanti": 
 
Faex Garamantarum nostrum processit ad axem
et piceo gaudet corpore verna niger,
quem nisi vox hominem labris emissa sonaret,
terreret visu horrida larva viros.
dira, Hadrumeta, tuum rapiant sibi Tartara monstrum:
custodem hunc Ditis debet habere domus. 

Traduzione: 
 
"La feccia dei Garamanti è giunta alla nostra parte del mondo e lo schiavo nero gioisce del suo corpo del color della pece,
terribile fantasma che spaventerebbe col suo aspetto, se solo il suono delle sue labbra non allontanasse gli uomini. 
Hadrumeta, lascia che l'oltretomba porti via questo mostro: egli dovrebbe far la guardia alla casa del Dio degli Inferi." 
 
Questi versi sono contenuti nell'Anthologia latina, un'opera composta verosimilmente nel VI secolo d.C.; il loro autore è denominato Floro. Non è scontato che si tratti proprio di Lucio Anneo Floro. Per alcuni i due autori sono ben diversi e quello dei versi sui Garamanti deve essere considerato ignoto. Se passiamo al contenuto, notiamo subito che il significato letterale di faex è "merda". Un insulto ben violento. Va detto che in ogni caso non esistevano lavori o incarichi per principio interdetti agli Africani dalla pelle scura. 
 
Dall'analisi delle fonti emerge un forte disprezzo misto a paura verso i Garamanti (in latino Garamantes, Garamantae, in greco Γαράμαντες). Eppure si parla di un popolo glorioso, che costruì un impero nel Sahara, caratterizzato da avanzate opere di ingegneria idraulica. I Garamanti erano considerati da un'antica tradizione gli inventori dell'apicoltura e con ogni probabilità anche dell'idromele, che di tale arte nobilissima costituisce il miglior frutto. Coltivavano uva, fichi, orzo e frumento, che costituivano la base della loro alimentazione. Lucio Cornelio Balbo li sottomise nel 69 d.C., per punire una loro spedizione contro Leptis Magna. Da allora furono clienti di Roma.  

 
Le fonti dell'Antico Egitto del Medio Regno ci parlano dei Libi come di un popolo dalla pelle chiara, con capelli rossicci. Questo non contraddice il fatto che i Garamanti avevano un aspetto molto diverso, come tra l'altro è ben attestato dall'iconografia di epoca romana. Esistevano popoli Leucolibici, con pelle, occhi e capelli chiari, e popoli Melanolibici, con pelle, occhi e capelli scuri. I Garamanti erano per l'appunto Melanolibici. La cosa piacerà molto poco ai fautori del politically correct, eppure la devo riportare: i neri Garamanti, che usavano i carri da guerra, davano la caccia ai Trogloditi, anch'essi scuri di pelle, li riducevano in schiavitù e ne facevano mercato, vendendoli ai Romani. La triste verità è questa: un sistema sociale complesso edificato in un ambiente sommamente ostile necessita di manodopera per poter sussistere. Si può capire con facilità che questa manodopera non può essere prestata volontariamente e con gioia, potendo essere soltanto il frutto di una feroce coercizione. 
 
Etimologia del nome dei Garamanti 
 
Ebbene, i Garamanti traevano il loro nome da quello della loro capitale, Garama (l'odierna Germa, 150 km a ovest di Sebha). Questo stanziamento aveva sostituito un nucleo abitato più antico, denominato Zinchecra, che comunque non era situato molto lontano. Il toponimo Garama trova corrispondenza nel proto-berbero. Nelle attuali lingue berbere è tuttora vivo il vocabolo iγerman "castelli, fortezze". Certo, questa radice potrebbe anche essere entrata in proto-berbero da una lingua perduta parlata in precedenza.  

L'antica lingua perduta dei Garamanti
 
Come ci ricorda Roger Blench (2014), sono note numerose iscrizioni attribuibili ai Garamanti. Sono scritte in caratteri berbero-libici, eppure soltanto poche sono comprensibili. Il perché è presto detto: sono redatte in una lingua non berbera. Si può ipotizzare che si tratti di una lingua nilo-sahariana, anche se potrebbe essere una lingua isolata e perduta. La traduzione delle iscrizioni dei Garamanti è stata indicata dallo stesso Blench come una priorità per il mondo scientifico. Purtroppo ho fondate ragioni di dubitare che il suo appello sarà raccolto. 
 
 
Epigoni 
 
I discendenti dei Garamanti sono le genti del Fezzan (in italiano anche Fasania), il cui aspetto è ben compatibile con quanto affermato dalle fonti antiche sopra esposte. La loro lingua è berbera. A quanto ho appreso su un manuale della lingua araba parlata in Libia (Griffini, 1913), nel Fezzan si produce una birra fatta coi datteri - o almeno la si produceva in tempi non troppo lontani dai nostri.

sabato 8 agosto 2020

L'ETNONIMO SHARDANA E UNA SUA SOPRAVVIVENZA IN BASCO

Si è molto parlato dei valorosi Shardana, i guerrieri che invasero l'Egitto, divenendo le guardie del corpo del Faraone Ramses II il Grande, il Ramesse di cui narrano le Scritture. Pur essendo di per sé evidente l'identità tra questi Shardana e i Nuragici della Sardegna, come ci mostra anche l'iconografia, ci sono sempre accademici che cercano di negarla con ogni mezzo. I motivi di un simile atteggiamento non sono chiari, anche se il sospetto è che in qualche modo abbiano la loro origine nella politica. 
 

 
In egiziano l'etnonimo era trascritto usando come di  costume le consonanti, ma aggiungendovi alcuni segni che possono essere considerati matres lectionis e fornire una rudimentale indicazione della pronuncia delle vocali. La traslitterazione comune è Šrdn o Šrdn.w (essendo w il suffisso che forma il plurale dei sostantivi maschili, spesso omesso). Più corrette sono le varianti Š³rd³n³ e Š³rdyn³, che presuppongono una pronuncia /ʃar'da:na/ o /ʃar'danna/. Il suono /d/ non si trovava in parole egiziane native e veniva trascritto usando lo stesso carattere geroglifico che trascriveva la dentale sorda enfatica /ṭ/ (quello che sembra una mano rattrappita). Con buona pace di alcuni studiosi wikipediani, in egiziano non avevano valore distintivo le vocali atone nella sillaba precedente quella accentata - anzi, già nel Medio Regno dovevano suonare indistinte, come /ə/. L'uso della mater lectionis ³ (il geroglifico che rappresenta un rapace) doveva servire a suggerire ai parlanti egiziani il valore di una vocale piena e distinta, /a/
     

 
Abbiamo anche trascrizioni dell'etnonimo in lingue semitiche del Medio Oriente.
Ugaritico: Šrdnn(m), Trtn(m)
Accadico: Še-er-ta-an-nu 

Queste forme mi fanno propendere per la pronuncia /ʃar'danna/, con una nasale forte. Una variante /ʃer'danna/ è certo possibile, anche se credo che non ci fosse una gran differenza: la vocale /e/ presupposta dalla trascrizione accadica era dovuta all'influenza del suono palatale iniziale. È anche possibile che fosse una vocale /æ/ molto aperta, in pratica una via di mezzo tra /a/ e /e/. Trovo incredibile e meritevole di scherno l'idea di Bartoloni (2004), riportata dai genialoidi wikipediani, secondo cui "una sostituzione di vocale avrebbe mutato completamente il significato della parola". Questo significa ignorare completamente ogni elementare principio di fonotattica dell'antico egiziano e delle lingue semitiche. Una parola come Šrdn era riconoscibile all'istante come straniera, proprio come noi tutti comprendiamo all'istante che non sono germogliate nella Firenze di Dante parole come gangster, gangbang, blowjob, snuff movie, etc. Non sarebbe ora che gli archeologi la smettessero di pretendere di occuparsi di linguistica? 
 

 
Il fatto è a quanto pare ignorato dai vasconisti, che non lo commentano nemmeno, ma esiste in basco la parola sardana, che ha un duplice significato. Come aggettivo significa "audace, coraggioso" (glossa spagnola "osado, atrevido"), mentre come sostantivo indica una particolare danza circolate tipica della Catalogna, che si crede importata dalla Sardegna. Ebbene, all'origine del vocabolo basco sardana "audace, coraggioso" sta chiaramente l'etnonimo Shardana. Ne consegue che tale etnonimo è ben fondato e ben pronunciato. In basco la consonante s trascrive un suono apicale, che sembra quasi una via di mezzo tra /s/ e la palatale /ʃ/.
 
La forma protobasca ricostruibile è *sardaNa "audace, coraggioso" (< "sardo") con una consonante nasale forte (per facilità si potrebbe scrivere *sardanna) e una sibilante apicale.
 
Stando ai suoi residui toponomastici, in paleosardo questo vocabolo doveva essere pronunciato *SÀRDANA e avere un plurale *SÀRDARA, che è effettivamente attestato come nome di paese: Sardara (in sardo Sàrdara), nella provincia del Sud Sardegna, ex Medio Campidano. 

Incredibile quanto queste parole siano trascurate dal mondo accademico. Larry Trask nel suo Etymological Dictionary of Basque (University of Sussex, 2008) non menziona neppure il vocabolo in questione, come se fosse fatto di aria sottile (made of thin air). Secondo lo studioso inglese, ormai deceduto, l'isolamento del basco sarebbe stato assoluto e tutto ciò che non rientrava in questi schemi era etichettato come "made of thin air". Ho trovato un post nel vasto Web in cui si parla dell'etimologia di sardana, ma soltanto nella sua accezione di "ballo circolare catalano" e per giunta usando un approccio che a mio avviso non è affatto scientifico.
  
 
Senza dubbio è una falsa etimologia: la formazione è incompatibile con la fonologia del protobasco e con la sua morfologia. 
Questa è la proposta etimologica dell'autore del testo, Antonio Arnaiz Villena:

SARTU (vasco)= agarrados, ensartados (castellano)
ANA (o ANAI, vasco)=hermandad (castellano)

1) sartu significa "entrare, inserire": è un infinito, non è un participio passivo col significato di "afferrati; tesi" e la semantica non quadra affatto;    
2) anai significa "fratello" e non fratellanza; la sua protoforma è complessa (Trask ricostruisce *aNanea); 
3) non si ha alcun caso di sartu come primo elemento di parole composte, ridotto a sard-: si ignora la fonotattica basca; la formazione è grammaticalmente erronea;
4) una simile paretimologia, sommamente improbabile, non spiega il nome degli Shardana, mentre al contrario il nome degli Shardana spiega il nome della danza. 

giovedì 6 agosto 2020

UN GERMANISMO PRECOCE IN LATINO: MELCA 'LATTE AROMATIZZATO CAGLIATO CON ACETO'

I Sardi chiamano merca un formaggio ottenuto da latte di pecora salato. Google ci fornisce qualche utile informazione su questo latticino: "Si presenta in forma di piccoli parallelepipedi del peso di circa 150 - 300 g. A lunga conservazione, veniva usato dai pastori nei lunghi inverni trascorsi lontano dalle proprie case. Viene impiegato in Sardegna per realizzare i culurgiones e una gustosissima minestra." 
Secondo la maggior parte delle fonti reperibili nel Web gli ingredienti sono soltanto due: latte ovino acido e cagliato, sale. Questo latte acido viene ottenuto aggiungendo caglio di agnello o di capretto (giagiu) al latte appena munto. Una fonte che non riesco più a reperire parlava invece di un miscuglio di latte fresco e di latte acido; forse si tratta di un'informazione distorta, in cui per latte acido si intende proprio il caglio. 
Questa merca è tipica del Nuorese, in particolare della zona di Ogliastra e della Barbagia. Non deve essere confusa con un'altra merca, che è invece un piatto a base di muggine, tipico dell'Oristanese (si tratta di un semplice caso di omofonia). 
Sicuramente si tratta di preparazioni antichissime. Si potrebbe pensare a una derivazione dal nome cananeo del sale (cfr. ebraico melaḥ "sale"), forse qualcosa come *melḥa "salata". Secondo questa interpretazione, tanto la merca ottenuta dal latte acido salato quanto il muggine salato avrebbero proprio il sale come elemento caratterizzante comune. Questo è senza dubbio possibile, ed è la tesi sostenuta da Giovanni Fancello. 
 

Lo stesso autore interpreta melca come "latte cagliato", in parziale contraddizione con quanto prima sostenuto, e riporta quanto segue: 

"In Sardegna il latte cagliato, tipica pietanza dei pastori ormai in disuso, assume diversi nomi a secondo della zona, con piccole  varianti nella preparazione: merca, melca, mer’a, preta, preta purile, frughe, frue, frua, cazadu, giuncata, migiuratu, gioddu, giagada.
 
A questo punto è necessario riportare un fatto sorprendente: in latino è documentata la parola melca, che indica un preparato di latte cagliato con aceto e aromatizzato con vari ingredienti, tra cui il pepe e il garum (la ben nota e pestilenziale salsa di pesce). In pratica doveva essere una specie di budino, secondo altri uno yogurt, molto popolare già in tempi abbastanza antichi. Il famosissimo cuoco Marco Gavio Apicio (vissuto a cavallo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.) ci fornisce una sintetica ricetta nella sua opera De re coquinaria libri decem. Si trova nel libro VII (Polyteles, ossia "cibi prelibati"), cap. XI, Dulcia domestica et melcae
 
Melcas: cum piper et liquamen, vel sale, oleo et coriandro. 
 
Si nota subito un'incoerenza grammaticale, oltre all'assenza di ogni menzione dell'ingrediente principale, il latte. La preposizione cum regge l'ablativo: Apicio non avrebbe scritto "cum piper et liquamen", ma "cum pipere et liquamine". L'ablativo lo ritroviamo più avanti (sale, oleo et coriandro), ma unito al segmento precedente da vel "o".  
Qualche editore ha così emendato la lettura, in modo tale da renderla grammaticalmente corretta: 

Melcas: cum pipere et liquamine, vel sale, oleo et coriandro. 

Mi domando se sia lecito procedere in questo modo. Si scopre che in passato erano diffuse letture corrotte, in cui i dotti cercavano di risolvere in vario modo un termine a detta loro incomprensibile, dando origine a forme fantomatiche come "mel castum" o "mel caseum". Forse i sistemi di Ivan il Terribile li avrebbero spronati a fare di meglio! Non è finita. Si trova anche un'altra lettura, seppur meno comune: 
 
Melca: Lac acidum, piper et liquamen, mel, sale, oleo et coriandro.

Sembrerebbe ben più verosimile: "Latte acido, pepe e garum, miele, con sale, olio e coriandolo". C'è però un problema di non poco conto. Dopo approfondite ricerche, ho scoperto che nel 1910 uno studioso, Janko, ho proposto di emendare Melcas: cum piper et liquamen in Lac acidum, piper et liquamen, sostuendo anche vel con mel. Quindi sparirebbe melcas dal testo, nonostante la presenza di melcae nel titolo del capitolo. C'è anche un'ulteriore difficoltà. Qualcuno - non si sa chi - ha pensato di sintetizzare la lettura di Janko e quella tradizionale, sommandole e dando origine a Melcas: Lac adicum, piper et liquamen. Questa lettura sincretica ha una discreta diffusione nel Web e si trova anche in alcuni libri. Ha un'origine che è evidentemente memetica, così deve essere rigettata. 

Fortunatamente esistono diverse altre attestazioni del vocabolo, come mostrato da Isabella Andorlini nel suo lavoro Edizioni di papiri medici greci (2018, Le Monnier).

A pagina 62 del suddetto testo si legge che la prima attestazione di melca compare in  un  testo  poetico del  I  d.C., che appare sull'affresco  dell'Antiquarium  Comunale di Roma:

Priapus  /  ...  ea  melca  datur

Sia Columella (4 d.C. - 70 d.C.) che Plinio il Vecchio (23 d.C. - 79 d.C.) parlano del proficuo uso dell'aceto per cagliare il latte, utilizzando la parola greca oxygala (alla lettera "latte acido") per indicare il prodotto chiamato melca da Apicio. 
 
Quindi ci viene fornita dalla Andorlini un'altra informazione importante: il termine melca compare nell'opera del medico Galeno (129 d.C. - 201 d.C.). Queste sono le citazioni:  

ἐν οἷς ἐστι καὶ ἡ μέλκα, τῶν ἐν Ῥώμῃ καὶ τοῦτο ἓν εὐδοκιμούντων ἐδεσμάτων, ὥσπερ καὶ τὸ ἀφρόγαλα· τοῖς δ' αὐτοῖς τούτοις καὶ τὰς ψυχρὰς κατὰ δύναμιν ὀπώρας ὁμοίως ἀποψύχων ἐδίδουν·
(De methodo medendi libri XIV, vol. VII) 
 
καὶ σικύου δὲ καὶ πέπονος οὐ πολὺ προσενέγκασθαι τηνικαῦτα, καὶ μηλοπέπονος, ἔτι τε τῶν πραικοκίων ὀνομαζομένων ἢ Περσικῶν ἐγχωρεῖ, καθάπερ γε καὶ τῆς καλουμένης παρὰ Ῥωμαίοις μέλκης ἐψυχρισμένης, ἀφρογάλακτός τε καὶ τῶν διὰ γάλακτος ἐδεσμάτων, ὁποῖόν ἐστι καὶ τὸ καλούμενον ἀργιτρόφημα· καὶ σῦκα δὲ ὁμοίως ψυχρὰ καὶ κολόκυνθαι τοῖς οὕτω διακειμένοις ἐπιτήδειοι.  
(De rebus boni malique suci, vol. VI) 
 
Secoli dopo, Antimo (511 d.C. - 534 d.C.) scrive nella sua opera De observatione ciborum epistula
 
oxygala vero graece quod latine uocant melca (id est lac) quod acetauerit. 
 
Essendo vissuto alla corte di Teodorico il Grande, Re degli Ostrogoti, oltre che tra i Franchi, ad Antimo era chiaro che la parola melca doveva avere la sua origine in una lingua germanica e avere il significato originale di "latte" - mentre Apicio e Galeno non sembravano consapevoli della natura straniera del termine.  
 
Alcune note etimologiche  
 
Non ci sono dubbi sull'origine germanica di melca, come procedo a dimostrare. In altre parole, si tratta di un germanismo precoce in latino, molto anteriore alle migrazioni conosciute come "invasioni barbariche"
 
Si capisce subito che la radice di melca è la stessa del verbo latino mulgeō, mulgēs, mulsī, mulctum, mulgēre "mungere"; per motivi fonologici non può tuttavia trattarsi di una parola latina nativa. Deve essere giunta a Roma da una lingua indoeuropea con  ben precise caratteristiche. Non può provenire dal greco, che ha il verbo ἀμέλγω (amélgō) "mungo", chiaro parente del latino mulgeō. La protoforma indoeuropea ricostruita è *(a)meleg'-.
 
Vediamo che melca non può essere un prestito dal celtico, sempre per via del suo consonantismo.
 
Antico irlandese: 
    mligim "io mungo"
    do-om-malg "io munsi" 
    mlegun "mungitura" 
    melg n- "latte" 
    bó-milge "del latte di mucca"
    mlicht, blicht "latte" 
Gallese: 
    blith "lattante"  
 
Può soltanto trattarsi di un prestito da una lingua germanica, su cui ha agito la legge di Grimm, che trasforma il fonema indoeuropeo /g/ in /k/

Protogermanico: *meluks "latte"
Gotico di Wulfila: miluks "latte" 

A tutti sono ben noti alcuni esiti della forma protogermanica: basti pensare all'inglese milk e a tedesco Milch.
 
Gli studiosi russi, come Sergei Starostin, hanno optato per una scelta a mio avviso non condivisibile, spinti da una bizzarra forma di nazionalismo. Visto che il protoslavo ha *melko "latte", donde deriva il russo молоко (molokó), con una consonante sorda /k/ come quella del germanico, esistono due alternative: 
 
1) La forma protoslava è un prestito da una lingua germanica o da altra lingua IE non identifica con /g/ > /k/;
2) La forma protoslava proviene da una radice IE diversa da *(a)meləg'- e postulabile come *melk-
 
I russi sostengono la seconda soluzione, fittizia e politicizzata, giungendo all'assurdo di ritenere nativo il termine melca di Apicio. Vediamo chiaramente che il protoslavo *melko "latte" non è parte del lessico ereditario, essendo un prestito. Non significa nulla il fatto che non si riesca a tracciare storicamente questo prestito. Il fatto che i dettagli siano andati perduti non significa che si debba ricostruire una radice protoindoeuropea fantomatica. Vediamo anche che melca ha l'aspetto di una parola latina come gangster ha l'aspetto di una parola dell'idioma di Dante.  
 
Conclusioni 
 
Il vocabolo sardo merca, indicante il noto latticino acido, deve essere il naturale esito di un germanismo precoce giunto da Roma e molto anteriore la dominazione dei Vandali. Non è quindi possibile considerarlo, come si potrebbe pensare a prima vista, un prestito dal germanico orientale. Come è giunta la melca a Roma? Forse non lo sapremo mai, ma sono convinto che si tratti del frutto di una complessa serie di interscambi culturali tra il mondo germanico e quello romano. Non dimentichiamoci che i mercanti romani frequentavano i Germani, portando loro vino e altri prodotti. Non è improbabile che in questo ambito sia nato e si sia diffuso un nuovo tipo di latticino.

martedì 4 agosto 2020

UN IMPORTANTE VOCABOLO VANDALICO IN SARDO: GRISARE 'ECLISSARE'

Nel corso dei miei studi solitari ho scoperto che oltre al verbo grisare "schifare", in sardo esiste anche un omofono (o quasi omofono) grisare "eclissare". Questo vocabolo merita di certo qualche considerazione. 
 
Informazioni di estremo interesse si trovano sul dizionario online di lingua e cultura sarda (Ditzionàriu in línia de sa limba e cultura sarda), della Regione Autonoma della Sardegna: 
 
 
grisài, aggrisare, crisare, grisare 
traduzione italiana: cambiare colore; eclissare; mutare, oscurarsi 
sinonimi in sardo:
   nau mescamente de su Sole e de sa Luna; 
   fàere iscuru, giare prus paga lughe candho Terra e Luna che 
   arresurtant unu ananti de s’àteru e si faent umbra; 
   iscumpàrrere, coment'e cuandhosi, essire de sa vista, fintzes 
   serrare is ogos; 
   assicare, aumbràresi, salargiare; 
   nau de animale fémina, sentire de angiare; 
incrisare, irgrisire / aclisare 
citazioni:
1) candho l'ant a cantare "A porta ínferu" paris si ant a grisare sole e luna prontu abberindhe sa porta Lucíferu! 
2) si est grisada sa luna e no apu pótziu isparai a sirboni, a s'orbetu. 
3) oh tempus, fis tandho e ses como chena acamu, debbadas ti apo pessighidu, ma tue, lascinosu che colora, ti ses grisadu!
(F. Murtinu)
4) su fumu grisat su colore asulu de s'aera.  
5) sos ojos as grisadu e as lassadu trummentos in sos coros.  
grisau ti fiast, chi no ti apu biu prus? 
6) is brebeis si funt grisadas comenti ant biu a margiani. 
7) una note sos anzones in s'annile si sunt grisaos e su pastore at pessau chi fit mariane.
proverbi: 
onzi cadhu lantadu a sa sedha si grisat 
glossa francese: assombrir, éclipser 
glossa inglese: moon darkening
glossa spagnola: obscurecerse el sol o la luna, obscurecer
glossa tedesca: sich verfinstern 

L'origine è chiaramente germanica e risale per l'esattezza alla dominazione dei Vandali, la cui lingua era una varietà di germanico orientale, proprio come il gotico di Wulfila.

Protogermanico:
      *uz-gri:s(j)anan "diventare grigio, oscurarsi"
Corrispondente atteso nel gotico di Wulfila:
      *uzgreis(j)an /uz'gri:s(j)an/ "diventare grigio, oscurarsi"

La preposizione uz- deve aver lasciato tracce alterate nelle forme sarde incrisare, irgrisire, aclisare
 
Si coglie subito l'allusione al mito del sole e della luna divorati da lupi mostruosi. Per maggiori dettagli sulla radice protogermanica, rimando a un altro mio contributo alla Scienza: 
 
 
Confutazioni delle tesi dei romanisti: 
Il vocabolo sardo in questione non può essere un derivato dell'italiano eclissare o un'eredità diretta di un latino tardo eclipsare (eclypsare), per via della sibilante semplice, che non può essere un esito del gruppo consonantico -ps-. Si noterà che la forma verbale eclipsare non sempbra appartenere all'Antichità classica, che conosceva soltanto il grecismo eclipsis /e'kli:psis/, prestito dotto dal greco ekleipsis. Nel Glossarium mediae et infimae latinitatis (Du Cange et al.) sono forniti ulteriori dettagli: 
 

domenica 2 agosto 2020

UN IMPORTANTE VOCABOLO VANDALICO IN SARDO: GRISARE 'SCHIFARE'

Nella Cloaca Maxima di Facebook mi sono imbattuto in un flame il cui argomento era il formaggio sardo chiamato casu marzu, caratterizzato da infestazione di larve della mosca Piophila casei, avvezza a frequentare i cadaveri. L'amica Lina S., nativa della Sardegna, difendeva il bizzarro prodotto gastronomico, affermando che i vermi in esso brulicanti sarebbero "fatti di formaggio" e del tutto innocui. In tono di sfida, citava il fatto che i pastori sardi sono notoriamente assai longevi. Il suo commento ironico era qualcosa come: "Hanno più di cent'anni e il casu marzu l'hanno sempre grisau, vero?" - quindi aggiungeva la glossa: grisau = schifato. Qualcosa in me si è illuminato. Ho infatti compreso che il vocabolo in questione è un residuo della dominazione dei Vandali, che in Sardegna è durata circa ottant'anni. Credo che sia una cosa importante farlo notare, alla faccia dei romanisti che vorrebbero cancellare ogni eredità germanica dalla faccia della Terra. Del celebre formaggio verminoso, eredità neolitica, parleremo in un'altra occasione.
 
Informazioni di estremo interesse si trovano sul dizionario online di lingua e cultura sarda (Ditzionàriu in línia de sa limba e cultura sarda), della Regione Autonoma della Sardegna: 
 
 
grisai, grisare, crisare 
traduzione: schifare, provare ribrezzo 
sinonimi in sardo:
   provare ischifu, abborrèschere, afeai, ascamare, aschiai,
   ghelestiare, ischifare, ispucire 
glossa francese: éprouver du dégoût
glossa inglese: to loathe 
glossa spagnola: sentir asco, repugnar 
glossa tedesca: verschmähen. 

Nel suo vocabolario, Spano riporta le forme meridionali grìsu "ribrezzo; paura" e grisòsu "che ha ribrezzo".

Non è difficile risalite all'etimologia genuina di questi vocaboli. 
 
Protogermanico:
      *gri:sanan
"essere atterrito;
provare orrore
Corrispondente atteso nel gotico di Wulfila:
      *greisan /'gri:san/ "essere atterrito; provare orrore"
 
Corrispondenti in germanico occidentale:
Antico inglese: 
       âgrîsan "rabbrividire; temere" 
Antico frisone:
       gryslic "spaventoso" 
Medio olandese: 
      grîsen "rabbrividire"
Medio basso tedesco: 
       grisen, gresen "rabbrividire"; greselîk "spaventoso"
 
Non ho trovato in giro brillanti idee dei romanisti, tali da poter fornire materia di discussione e di confutazioni, così concludo qui la mia trattazione.