Una luce di un pallido color malva filtra maligna da una finestra. Ma pensandoci bene, quella sarebbe una finestra? No, è soltanto una feritoia di aerazione scavata nelle pareti di un sepolcro pieno di putredine. Chi mai può aver messo in quell’angusta stanza una lampada capace di emanare un lucore tanto innaturale? Distolgo il mio sguardo e lo estendo sull’intero edificio, cercando invano qualcosa che non mi trasmetta prostrazione. Inutile. Ovunque si estende un untuoso velo che degrada il noumeno in fenomeno. Vedo continenti sterili sui muri lebbrosi, disegnati dall’umidità corrosiva. Alcune finestre nere come cancrene mi sembrano macchie di marciume nei denti cariati di un gigante senza memoria. Le luci giallastre della notte gelida tracciano ombre deformi sull’intonaco, rendono netto ogni dettaglio dello sfacelo. Mentre aspetto che qualcuno si faccia vivo, mi risuona in testa uno stupido motivetto di un cantante famoso di cui non ricordo il nome. Ha un ritornello ossessivo, che in origine diceva: “Com’è bella la città”. Le parole però si trasformano nelle caverne del mio cranio, diventando altro da sé. “Com’è fredda la città, com’è buia la città, com’è ostile la città, come puzza la città”. Pazienza. Ma perché diavolo non si vede nessuno? Se resto ancora appostato qui finirà che mi prendono per un prostituto. E poi per che cosa sopporto tutto questo? Per cenare in quel locale cadente e polveroso, più buio di un antro dell’Erebo. La padrona è sempre così stizzosa e tutte le volte fa storie se per caso c’è qualcuno in più, quasi avesse le porzioni contate. Ho addosso lo sporco della giornata, sento che mi si è formato dello smegma. Mi desta prurito ma non posso grattarmi in pubblico. Non sono come gli altri della compagnia, che abitano in questo ammasso urbanoide e in un attimo arrivano a destinazione, magari dopo essersi riposati a casa ed essersi fatti una doccia. A me tocca girare per questi angiporti, per questa dannata qasba, fino a sera tarda, perché abito fuori città. Merda. E se l’ultimo treno avesse un guasto o se venisse soppresso, mi toccherebbe passare la notte tra i clochard.
Fremo dal nervosismo. Non è ancora arrivato nessuno, eppure l’ora dell’appuntamento è passata da un pezzo. Forse ho capito male e quelli si sono trovati da un’altra parte, lasciandomi qui come un idiota ad aspettare invano. Rivolgo di nuovo l’attenzione alla finestra che diffonde il lucore violaceo. Vedo un’ombra muoversi nell’appartamento, proprio vicino al vetro. Che diavolo è quella cosa? Non può essere un adulto, penso. Troppo piccola. Non può neanche essere un gatto. Troppo grande. Forse un bambino? Sì, dev’essere un bambino. Cos’altro potrebbe mai essere? Ma che figura storta, gobba, deforme. Sembra arrancare sul pavimento a quattro zampe. Un bambino-gatto? Quando la figura scompare alla mia vista, mi rendo conto di uno strano senso di terrore che mi avvolge. Quella cosa non era neanche un bambino. Il ridicolo processo razionalizzante imposto dal cervello di fronte a simili percezioni crea sempre uno stupore caratteristico e inconfondibile, perché quello che i processi logici vorrebbero e quello che i sensi trasmettono sono due cose nettamente distinte. Tanto più discordano, tanto più questo stupore è paralizzante. È ovvio che non posso parlarne con anima viva. Secondo le idee materialiste dei compagni del cineforum, ogni percezione alterata non può che avere origine nella neurochimica. Ogni ombra, ogni spettro, ogni distorsione della realtà, per loro non è che la conseguenza del cattivo funzionamento di una molecola. Quando cerco di far intravedere loro una realtà più vasta, fallisco in modo misero. Sembra che la loro esistenza sia un fatto puramente masticatorio. Riempire e vuotare lo stomaco, come diceva Seneca. In quest’ottica, tutta l’architettura del lavoro e della politica non sarebbe altro che una giustificazione dell’incessante processo di riempimento e di svuotamento gastrico. Squallore infinito. Ricordo una sera, mentre si parlava della morte di un famoso cantante, un mito che aveva fatto un’epoca. “Adesso è libero”, commentai. Ecco allora che M. mi guardò storto e reagì in malo modo alla mia affermazione, che non aveva neppure compreso. Per tali esseri la vita non è dolore, non la percepiscono così. Non sono molto diversi dai bruchi e dalle blatte. Consistono soltanto del loro accrescimento cellulare e dello smaltimento delle scorie. Per loro la morte è terrore, perché sono convinti che sia la fine di tutto. Ma anche ammesso questo, che ogni cosa finisca davvero, non sarebbe questo ciò che di meglio si può desiderare? Così avevo ribattuto a M., che l’intera esistenza terrena consta di dolore, fatica e umiliazione e che anche lo stesso annientamento definitivo dell’essere, posto che sia questo il nostro destino, comporterebbe la liberazione da ogni fastidio, da ogni sopportazione, da ogni incombenza. Ma vaglielo a far capire, per quei sacchi mangianti esistono anche cose piacevoli, cose belle. Così affermano, che la vita non è solo brutta. Quando ho compreso che nulla avrebbe potuto colmare l’abisso che ci separa, ho anche rinunciato ad ogni tentativo di comunicare loro qualcosa. Vivo in un continuum diverso dal loro, non ci sono dubbi.
Cerco di non sentire il freddo che mi attanaglia. Decido così di percorrere la via e poi di tornare verso la polverosa trattoria toscana. Passo davanti a un kebab. Osservo quel loculo che sembra interamente scavato nella plastica candida, resa abbacinante da un’illuminazione eccessiva. Il kebabbaro sta lì, ora dopo ora, giorno dopo giorno, anno dopo anno, incastrato in quel piccolo inferno lucente. Di colpo ho una visione dell’umanità simile all’Inferno di Dante. Capisco con spaventosa lucidità che bolge e gironi sono una realtà, un dato di fatto, solo che non hanno nulla a che fare con l’oltretomba, come immaginato dal poeta fiorentino: l’Inferno è la Terra. Proprio sulla scabra e muffosa superficie di questo infelice pianeta vengono punite masse di dannati, incatenati a una sottoesistenza annichilente. Se mi lamento della mia condizione, sono poi costretto a riconoscere di esser stato collocato dalla mia nascita in un luogo che non è troppo penoso. Resta invece la nitida visuale su tutta una massa di vite distrutte, orribili, tanto che il solo pensiero mi mette profonda tristezza. Avrebbe potuto toccare a me restare rinchiuso in quella nicchia di plastica dove si vendono kebab, con il neon negli occhi. O peggio, avrei potuto essere immerso nel fango di una grande fossa in cui migliaia di garimpeiros annaspano per estrarre poche pagliuzze d’oro. Dovunque mi guardo, scorgo soltanto abominio e desolazione. Anche sul mondo del lavoro è così. Se io sono un collaboratore a progetto con un discreto contratto a termine, altri languono nella più cupa disperazione, essendo costretti a capestri e a schiavitù. Per quanto mi sforzi, il baratro mi pare senza fondo. Torno indietro e raggiungo la fila di lampioni davanti al grande palazzo cadente in cui spicca la finestra che diffonde la sua luminescenza corrotta, simile a petali di malva sbiadita. Contemplo un’ipotetica Pangea composta dalla macerazione. È incredibile come i percorsi occulti di flussi acquosi possano dar origine ai contorni di terre e di oceani, disseminando arcipelaghi e placche tettoniche su pareti altrimenti banali. Forse il Funesto Demiurgo si ispira a tali forme casuali per plasmare i continenti dei mondi da lui eletti a luoghi di dannazione degli esseri senzienti. L’idea mi ossessiona, eppure quando passo ad esplorare con il pensiero e con l’immaginazione ciò che si nasconde dentro quelle tombe non posso far altro che inorridire. Malattie, paralisi, demenza, lebbra, deformità, tutto questo è chiuso negli appartamenti mefitici scavati nelle viscere di quel complesso. Ogni vittima urla, e i lamenti incolori di tante vite torturate ed annientate istante dopo istante risuona nel mio cranio fino a portarmi alla follia.
Mi volto verso la grande chiesa in mattoni rossi, con annesso un oratorio. Le sbarre di ferro arrugginito del cancello proiettano ombre inquietanti, che ricordano strutture meccaniche simili a immensi organi. In fondo al cortile dal pavimento lastricato di porfido riesco a scorgere cumuli di rifiuti metallici e una rampa di scale che scende nel sottosuolo. Probabilmente il basso edificio grigio da cui parte la scala è una specie di cinema parrocchiale. A giudicare dal degrado penso che la struttura sia in disuso da molti anni. La mia attenzione si rivolge alla porta di vetro smerigliato dell’ingresso principale dell’oratorio. Attraverso la superficie scabra di quel vetro riverberano i gialli riflessi di una lampada spettrale. Colgo un movimento di ombre dense, che presto rivela la sua natura, quando il battente si apre. Vecchie traballanti e meste escono dal corridoio simile a un tunnel infero, come tante proiezioni di larve dell’Ade. Pompa funerea, processione di parvenze i cui volti sono coperti dalla polvere. Morti che camminano, avvolti in cenci vetusti e odoranti di tomba. Non sono abiti quelli che indossano, sono sudari. Ognuna di quelle forme è una specie di Nachzehrer, un cadavere deambulante masticatore del proprio sudario. Persino la luce che filtra dall’interno dell’oratorio attraverso la porta aperta ha qualcosa di grigio, gli stessi fotoni che compongono quella radiazione si sono ammalati di corruzione e sono sbiaditi, incapaci di far giungere ai nervi ottici la percezione di qualcosa di vivo. Dietro le cariatidi ecco arrivare il prete. Un uomo stanco ed obeso, dall’epa prominente e dal volto corrugato, avvolto in un abito talare consunto. Avanza flaccido, a guardarlo non sembra neanche che sia mai stato un essere dotato di una propria volontà. Un prete-zombie, ecco cos’è. I suoi occhi sono fatti di polvere e non possono vedere nulla. Procede per riflesso, è anch’egli un cadavere dotato di una certa mobilità, come le carampane che lo precedono. Per ultimo esce un istruttore laico dai capelli ingrigiti e dall’aspetto ancor più polveroso, se possibile, di tutte le altre figure della turba mortuaria. Una faccia da pedofilo. Occhi piccoli e spenti, a malapena visibili nelle carnosità in cui sono affondati. Pelle gonfia e tesa, sottile, pallida come quella di un malato di leucemia in fase terminale. Una vecchia rimane indietro e scambia con l’istruttore laico alcune parole che non arrivano alle mie orecchie. Non capisco se è perché sono troppo lontano, oppure se sono come le parole dei morti nei sogni, che non escono dalle labbra, e se pure riescono ad uscire non raggiungono il cuore. Riesco a percepire un’atmosfera ammorbante che emana da quegli esseri, perché sarebbe troppo definirli umani. Anni di frustrazioni e di lavaggio del cervello, la prigionia in un carcere dell’anima, tanto lunga da far dubitare che possa esistere ancora uno spirito rinchiuso in quella carne marcescente. Mi volto dall’altra parte, distogliendo gli occhi dallo spettacolo e fissando l’insegna della trattoria toscana. Un’insegna color verde scuro, tanto usurata che a stento riesco ad indovinare cosa rappresenta il disegno. Un grappolo d’uva. Mi impongo di aspettare ancora per un po’ gli amici che non verranno mai, mentre i fantasmi dell’oratorio si allontanano, disperdendosi nella foschia.