sabato 26 luglio 2014

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: LA LABIOVELARE SORDA SEMPLIFICATA

Richiamo l'attenzione su alcune parole latine: QUINQUE, COQUERE, TORQUERE, LAQUEUS. Le forme italiane evolute da questi vocaboli sono rispettivamente CINQUE, CUOCERE, TORCERE, LACCIO, tutte con consonante palatale. Neppure tra gli stolti si trova una sola persona che oserebbe attribuire una consonante affricata ai lemmi latini in questione: è della massima evidenza che anche coloro che utilizzano la pronuncia ecclesiastica per leggere i classici usano in questi contesti una consonante labiovelare /kw/ identica a quella dell'italiano quando.

Coloro che con somma arroganza pretendono di retrodatare la pronuncia ecclesiastica all'infinito nel tempo, non possono ovviamente spiegare come questo mutamento sia potuto avvenire. Siccome per questi individui, data la loro totale mancanza di conoscenza e di metodo, il suono palatale non sarebbe il prodotto di un'evoluzione fonetica, ma qualcosa di connaturato alla presenza di una vocale anteriore seguente, ecco che non sono in alcun modo in grado di comprendere il fenomeno sopra esposto.

La spiegazione è invece molto semplice e comprensibile: a un certo punto nel latino volgare si è realizzata una semplificazione della labiovelare sorda /kw/, in alcuni casi dovuta a processo di dissimilazione o ad analogia, che ha portato a realizzare le parole in questione come /'kinkwe/, /'kokere/, /'torkere/, /'lakius/. In quinque si è avuta dissimilazione: delle due labiolvelari sorde si è mantenuta soltanto la seconda. In coquere è possibile l'effetto di coquus "cuoco", pronunciato /'kokus/, che ha dato origine per analogia a un genitivo /'koki:/ e di qui a /'kokere/, e via discorrendo.

In laqueus la semivocale -e- ha contribuito a rendere muto l'elemento labiale; in torquere un fenomeno simile è partito dalla prima persona singolare torqueo, estendendosi poi per analogia all'intera coniugazione (il che deve aver anche favorito il cambiamento del paradigma, da torqueo /'torkweo:/, torques /'torkwe:s/, torquere /tor'kwe:re/ a *torco /'torko:/, *torcis /'torkis/, *torcere /'torkere/).

Una volta prodottasi una semplice occlusiva velare seguita da vocale anteriore (e, i), ecco che questa consonante ha cominciato ad essere intaccata e a diventare prima k', poi t', quindi ts' e infine in alcune regioni della Romània (es. Italia centrale e meridionale, Dacia), il suono palatale che ancora abbiamo in cinque, cuocere, torcere, laccio. Questo indica senza dubbio che il processo di palatalizzazione ha cominciato ad agire dopo l'epoca classica, giungendo a compimento in epoca tarda. Se i suoni affricati fossero stati primitivi, un tale processo non sarebbe stato possibile ed avremmo ancora una consonante velare in tale contesto fonetico. Questo dimostra al di là di ogni dubbio la fallacia e l'antiscientificità degli argomenti sostenuti dai propugnatori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno: le loro idee si collocano nell'ambito della pseudoscienza.

domenica 20 luglio 2014

MUHAMMAD AL-IDRISI, LEONE L'AFRICANO E IL LATINO D'AFRICA

La lingua latina è stata parlata a lungo nell'Africa Settentrionale, e nel corso dei secoli si è evoluta in una varietà di lingue romanze, non diversamente da quanto è avvenuto in Europa. Anche se queste sono state sommerse dalle lingue berbere e dall'arabo, si può dedurre la loro esistenza analizzando diversi dati di fatto. 

I Normanni durante la loro conquista del Regno di Tunisi nel XII secolo hanno ricevuto aiuto dalle comunità cristiane che ancora sopravvivevano. Alcuni storici, come Vermondo Brugnatello, hanno ipotizzato che tali Cristiani parlassero ancora una lingua romanza, derivata dal latino d'Africa, e tale proposta è più di una semplice supposizione. Nel XIII secolo il geografo nordafricano Muḥammad al-Idrīsī ha scritto che gli abitanti di Gafsa (latino Capsa), nel meridione della Tunisia, si esprimevano in una lingua non araba e non berbera, da lui chiamata al-lisān al-laṭīnī al-ifrīqī, ossia la lingua (neo)latina d'Africa. Infatti la parola araba latini serviva per descrivere sia il latino che le lingue romanze.

A questo proposito Muḥammad al-Idrīsī riporta le seguenti notevoli informazioni:

"I suoi abitanti sono berberizzati, e la maggior parte di loro parla il latino d'Africa." (1)

Egli fornisce persino una parola di questo idioma:

"Nel mezzo della città c'è una sorgente chiamata Ṭarmīd." (2)

La glossa è chiaramente derivata dalla radice del latino thermae. È possibile che si tratti di un adattamento arabo di un romanzo *termìle, dato che il toponimo è noto al giorno d'oggi come Ṭarmīl. Con tutta probabilità il geografo ha registrato male la consonante finale, scambiando la -l- originale per -d-, non è dato sapere se a causa del suo udito o dell'imperfetta realizzazione da parte del suo informatore.

È interessante notare che a quanto Al-Idrīsī afferma, la città era berberizzata, ossia che nel secolo in cui i Banū Hilāl si stavano diffondendo rapidamente in Tunisia e in Libia, la cultura dei Berberi era abbastanza prestigiosa da poter essere adottata da membri di altre culture, in particolare dalle rimanenti città romane. Nell'area di Gafsa attualmente si parla arabo ma persisteva l'uso del berbero in molti villaggi nel XIX secolo, e in due di essi - Sened e Madjoura - ancora nel XX secolo. 

In un altro luogo della sua opera, lo stesso geografo definisce gli abitanti della Sardegna Romani africani "selvaggi" (ossia "inselvatichiti") e mutabarbarūn (ossia "berberizzati") (3). Non è del tutto chiaro se mutabarbarūn debba essere inteso come berberizzati in senso culturale o linguistico, oppure se debba significate piuttosto "barbari". Siccome però i Sardi non parlavano berbero, e Al-Idrīsī afferma invece che essi parlavano il latino d'Africa, risulta evidente che erano i loro costumi a suggerirgli l'uso di quella parola. L'accostamento tra latino d'Africa e la lingua sarda si trova anche, come abbiamo già visto, nell'importante testimonianza dell'umanista Paolo Pompilio, che attesta la sopravvivenza dell'idioma romanzo proprio nella stessa regione nel XV secolo. 

Esiste una fonte posteriore ad Al-Idrīsī e allo stesso Pompilio: si tratta di Leone l'Africano, noto anche come Leo Africus (Granada 1485 - Tunisi 1554). Egli compose in italiano una descrizione dell'Africa, Della descrittione dell'Africa et delle cose notabili che iui sono, pubblicata a Venezia nel 1550. In quest'opera afferma che alcuni nordafricani mantenevano l'uso della loro lingua anche dopo che erano stati conquistati dagli Arabi, che questa lingua proveniva dai Romani ed era un tipo di italiano: in epoca successiva, i contatti con gli Arabi avevano contribuito a far divergere sempre più questa lingua da quella parlata in Italia. Dato che Leone l'Africano viaggiò a lungo in Nordafrica, sembra verosimile che il romanzo d'Africa fosse ancora vivo nella regione di Gafsa ai suoi tempi, o che ne permanesse almeno un qualche ricordo.

Altri autori hanno ipotizzato che l'estinzione del romanzo di Gafsa sia avvenuta in epoca ancora più tarda, addirittura nel XVIII secolo. Virginie Prevost si mostra scettica a questo proposito, evidentemente ignorando le testimonianze di Pompilio e di Leo Africus di cui sopra. L'abstract della sua opera Les dernières communautés chrétiennes autochtones d’Afrique du Nord (Le ultime comunità cristiane native dell'Africa del Nord) riporta quanto segue:

"Per molti secoli dopo la conquista araba, alcune comunità di Cristiani nativi rimaserno nella parte meridionale della Tunisia, senza ricevere assistenza esterna per far mantenere viva la loro fede. Le oasi di Jarîd e Nafzâwa, controllate da Musulmani Ibaditi, certamente cotituirono l'ultimo rifugio per questi Cristiani nordafricani. Molti storici contemporanei ritengono che essi potessero vivere fino al XIV secolo o addirittura fino al XVIII secolo. L'analisi delle fonti arabe che essi interpretano mostra che tali testi non ci danno evidenza di una così estrema longevità. È più che probabile che i Cristiani scomparissero dalle oasi verso la metà del XIII secolo, alla stessa epoca degli Ibaditi a cui il loro destino era strettamente legato." 

Questa è la riprova del fatto che gli esperti di una data materia di studio spesso non hanno accesso a tutte le fonti sull'argomento: la Scienza minaccia di disperdersi in rivoli tra loro eternamente separati. In quanto autore del Connettivismo, interpreto il significato della parola secondo l'originale semantica e ritengo della massima importanza darsi da fare per portare nuovi flussi informativi dove è in corso un processo di inaridimento.  

(1) وأهلها متبربرون وأكثرهم يتكلّم باللسان اللطيني الإفريقي.

(2) ولها في وسطها العين المسماة بالطرميد.

(3) وأهل جزيرة سرادنية في الأصل روم أفارقة متبربرون ومتوحشون من أجناس الروم وهم أهل نجدة وحزم لا يفارقون السلاح.‏

sabato 19 luglio 2014

GLOSSOLALIA E XENOGLOSSIA SONO DUE COSE DIVERSE

Anni fa mi capitò di sentire a una trasmissione televisiva i discorsi di un esorcista della Chiesa di Roma, che sosteneva una patente assurdità: a parer suo la xenoglossia sarebbe un fenomeno diffusissimo, consistente nella perfetta capacità di articolare lingue ben note ma sconosciute al posseduto. Riportava il caso di uno sciamano di una tribù dell'Amazzonia, forse gli Yanomami, che sarebbe stato in grado di parlare fluentemente l'arabo antico durante i suoi stati alterati. Mi permetto di dubitare dell'affermazione dell'esorcista: quello che gli è stato comunicato sarà piuttosto un caso di glossolalia. Intanto dubito fortemente che nel villaggio amazzonico in questione ci fosse qualcuno in grado di intendere l'arabo del Corano e di attribuire un senso compiuto delle parole dello sciamano. Con tutta probabilità l'uomo-medicina aveva trovato il modo di comporre semplici frasi seguendo una struttura di certo strana per un parlante amerindiano, con una sonorità che può ricordare quella dell'arabo. Per costruire ciò basta avere un sistema fonetico di partenza e poche regole fonotattiche.

Vocali:

a i u (brevi)
a: i: u: (lunghe)

Consonanti:

t k b d g f  χ (kh) h γ (gh) 
m n r l j (y) w
s š (sh) ts z 

Prendiamo alcune strutture tipo usate per formare le parole, dove V è una vocale, C è una consonante e ' indica che l'accento cade sulla vocale successiva:

CV:C 

du:m fi:r gha:r ra:n ru:m 

CVCC

fakht khalb  lurm nirf rams 

CV'CV:C

a'di:m ba'la:r na'mu:r
ri'ghu:n
u'la:m 

'CVCCVC

'bimkhal 'dibdam 'khamsar 'mastab
'ukhtar

CVC'CV:C 

bak'bu:r ham'ta:r kham'si:r mak'ta:b
ud'bi:r

'CVCCV

'akhnu 'bakhmi 'lighma 'nukhta
'rakhra 

CV'CVCV

a'nura gha'mina na'rukhi sha'mira u'limi

Connettiamo ora alcune di queste parole usando monosillabi tipo come questi:

an, am, al, ar, ma, mu, na, nu, etc.

Si può immaginare quindi che lo sciamano intoni con una cantilena monotona frasi pseudo-arabe:

ham'ta:r nu mak'ta:b an 'khimsir
akh'ta:r am ma'nu:r na 'ghaktab

Il risultato ingannerebbe chiunque. Inoltre uno studioso di arabo o un parlante di tale lingua potrebbero benissimo riconoscere parole dotate di senso. Non si tratterebbe però del senso eventualmente attribuito loro dallo sciamano, ma di semplici "falsi amici". In altre parole, lo sciamano non parla arabo coranico, ma utilizza un codice che potrebbe anche essere pseudolinguistico: avrebbe in tal caso imparato ad articolare tali suoni per fare effetto su uomini e donne del suo clan e rafforzare così la sua autorità di Uomo degli Spiriti, senza avere la benché minima idea del contenuto delle sue produzioni glossolaliche. Se le cose stessero così, si tratterebbe di contenitori senza contenuto conoscibile, ossia di pseudoparole. Potrebbe invece essersi dilettato ad attribuire un nome a ogni cosa e aver formato così una lingua vera e propria, ossia una conlang o lingua costruita. Sarebbe improprio parlare di possessione diabolica o simili: in tal caso si tratterebbe di una costruzione consapevole che non implica contatto alcuno con spiriti in grado di conoscere e di trasmettere i suoni della lingua del Corano.

Esempio di vocabolario:

ab'sha:r = formica nera
a'ni:m = donna
a'nu:kh = incendio
'atbakh = nero
ba'kha:r = uomo
'bukhmi = uovo
da'mira = mano
fa'nu:m = ventre
ga'di:l = pioggia
gha:n = acqua
khans = piede
khi:r = roccia
'laftur = tronco
lamkh = bambino
lams = aria
ma'ghura = piranha
'mukhtir = tartaruga
ni:r = vulva
'nibghar = caimano
'rakhtum = rosso
ru:m = fuoco
'rukhma = giaguaro
'sakhtar = cane
silb = formica bianca
si'ru:n = vento
ta'muna = giallo
zim'za:l = pappagallo ara 

Veniamo ora alla xenoglossia. Perché si dimostri che una persona è xenoglossa, bisogna innanzitutto dimostrare che essa articola frasi in una lingua che non soltanto non conosce, ma che è invece ben nota ad altri. Una persona potrebbe anche apparire glossolalica, ma dover essere classificata come xenoglossa una volta provato che la lingua utilizzata è una lingua nota. Così se una donna di un paese veneto proferisse parole in lingua maya yucateca, gli astanti la riterrebbero glossolalica, mentre in realtà sarebbe xenoglossa: la sua xenoglossia potrebbe essere dimostrata soltanto da qualcuno in grado di riconoscere la lingua da lei usata, ad esempio se si imbattesse in uno studioso o in un missionario che la ha appresa. Cose simili però non avvengono, non sono documentate con sicurezza. Se lo fossero, a questi fatti si darebbe la massima propaganda per motivi religiosi, e anche la Scienza avrebbe già trovato modo di trarne un immenso giovamento. Immaginate le possibilità di conoscenza che potrebbe dare uno xenoglosso in grado di parlare etrusco! Invece non si trova nulla di utile. Tempo fa il famoso Milingo, all'epoca arcivescovo della Chiesa Romana, aveva portato un povero handicappato a una trasmissione, esibendolo come un fenomeno da Circo Barnum. Questo ragazzino dagli occhi sbarrati diceva senza sosta "spreke dotch spreke dotch". Milingo voleva farlo passare per un caso di xenoglossia da possessione diabolica. Ora, la cosa sarebbe stata di certo impressionante se il bambino in questione si fosse messo a recitare brani di Così parlò Zarathustra articolandoli in un tedesco classico e perfetto. Inutile sperare tanto. 

Si sono dati casi di pseudoxenoglossia, in cui frasi articolate in una lingua non conosciuta al parlante hanno un'origine non banale ma perfettamente determinabile. Riporto il caso di un carissimo amico che nell'adolescenza parlava estesamente nel sonno una varietà di tedesco. Un suo zio riteneva che egli fosse posseduto e strepitava per far giungere un prete, ma fu presto appurato che i sorprendenti discorsi notturni avevano una loro causa non soprannaturale: l'amico aveva appreso il dialetto bernese dalle suore al Kindergarten in Svizzera, poi con gli anni l'aveva dimenticato - o almento così pensava. Si è dato un caso ancor più strano, di un americano che era in grado di parlare il russo alla perfezione senza ricordarsi di averlo mai studiato. Dopo molte ricerche fu appurato che da piccolo aveva vissuto in una stanza dalle pareti di cartongesso che lo separava dall'appartamento di un inquilino russo che per pagarsi l'affitto dava lezioni della sua lingua madre. Al di fuori di simili occorrenze di falsa xenoglossia, possiamo dire che gli xenoglossi non articolano grandi discorsi e che la loro produzione è piuttosto limitata. Non solo: essa è condizionata dal contesto in cui i presunti xenoglossi sono vissuti. Così un prete della Chiesa Romana parlava di un ragazzo che si sarebbe rivolto a lui in "perfetto latino". Dubito però che abbia usato il latino di Cesare e di Cicerone: alla fine potrebbe anche scoprirsi che il presunto indemoniato si era limitato a chiedere al sacerdote: "Quo vadis?" 

Perché i testi non sono registrati e trascritti? Perché nessuno li studia? Perché nessuno li diffonde nel Web? Semplice: perché non c'è molto da trascrivere, studiare e diffondere. Dalle evidenze disponibili, si potrebbe addirittura negare il fenomeno e attribuirlo alla malafede di psicologi, parapsicologi ed esorcisti.

VALENTINA NAPPI E I PARADOSSI DEL METALINGUAGGIO 

Tempo fa mi è capitato di imbattermi in un articolo polemico scritto dalla pornodiva Valentina Nappi, nota per il suo impegno sociale e politico. Il testo in questione, non più disponibile nel sito dell'attrice, recava scandalo ai lettori affermando che "la mafia è cultura". Cosa intendeva dire la Nappi? Questa è in sintesi la sua tesi: il fenomeno mafioso avrebbe origine nella tradizione del rispetto ai superiori tipica del Meridione d'Italia, e in particolare nella figura del Professore, l'uomo di condizione superiore che nessuno può permettersi di sfidare o di mettere in burletta. Questa eredità spinge a ritenere una gravissima offesa la mancanza di rispetto, che la Nappi chiama con vocabolo greco hybris, ossia "arroganza", dando origine quindi a quelle misure che gli psicologi evoluzionisti conoscono come "deterrenza credibile". In poche parole, l'offesa e il mancato rispetto dei ranghi gerarchici sono comportamenti puniti con la morte come al giorno segue la notte, proprio perché la hybris in tale società è più temuta di ogni altra cosa. La Nappi non si limita a questo: dà del fenomeno mafioso una sorprendente definizione: "sistema memetico". Fedele alla sua impostazione behaviorista, la pornodiva vede in ogni essere umano una tabula rasa priva di una natura innata, e tende ad attribuire ogni fenomeno a cause esterne all'individuo, come la società e la cultura - convinta che affermare una natura innata implichi per necessità il razzismo e la discriminazione.

Un blogger, Giuseppe Scano, si è inalberato cercando di contraddire le affermazioni della Nappi, e lo fatto riportando il suo post tal quale con il titolo "Cara Valentina Nappi la mafia non è cultura è merda". A prescindere dal fatto che le due cose non si escludono affatto a vicenda - ossia che la cultura in ogni sua accezione può anche essere merda - l'indignazione del blogger è nata da un problema semantico.

1) La Nappi intende la parola "cultura" come traduzione del tedesco Kultur, lingua in cui questa accezione è comparsa per la prima volta. La si trova negli intellettuali tedeschi del XVIII secolo, prendendo corpo fino a trovare compimento nelle parole dell'antropologo F. Boas: "La cultura può essere definita come la totalità delle reazioni e delle attività psichiche e fisiche che caratterizzano, collettivamente e individualmente, il comportamento degli individui componenti un gruppo sociale in relazione all'ambiente naturale, ad altri gruppi, ai membri del proprio gruppo, nonché di ogni individuo in relazione a se stesso. Include anche i prodotti di queste attività e il loro ruolo nella vita dei gruppi. La semplice enumerazione di questi vari aspetti della vita, però, non costituisce la cultura. Essa è molto di più, perché i suoi elementi non sono indipendenti, hanno una struttura". In questo senso si parla di "cultura della droga" per indicare il complesso mondo dei tossicomani e delle loro interrelazioni. Oppure in etnologia si parla di "cultura degli Jivaro" o "cultura degli Yanomami" parlando della caccia ai crani in vigore tra tali popoli e delle aumentate possibilità di accoppiamento per chi uccide più nemici in guerra.   
2) Lo Scano invece sembra intendere la parola "cultura" in senso più limitato: "Manifestazione elevata dello spirito e della società umana, quale le filosofia, la letteratura, la musica e le arti figurative".

Naturalmente, è ovvio che intendendo la parola nel secondo modo, l'affermazione della Nappi appare mostruosa: tale significato implica infatti un'accezione unicamente positiva della cultura. Nel sentire della Nappi, l'etichetta "cultura" non è un semplice vocabolo della lingua italiana, ma un complesso codice metalinguistico, una sorta di stenografia concettuale - e in quanto tale è moralmente neutra, implicando una vasta serie di possibilità. Lo Scano ha scambiato il metalinguaggio nappiano per linguaggio, e a causa di questo equivoco si è destata in lui una grande furia.  

Quello che sfugge a entrambi è tuttavia un fatto molto semplice: col nome "Mafia" si intende una vera e propria società segreta con propri riti di iniziazione, una propria dottrina esoterica, proprie origini mitologiche e una propria visione del mondo. Non si tratta quindi di un mero fenomeno politico, sociale o culturale, o di una mentalità italiana - come certuni sostengono - ma di una setta che ha avuto la sua origine in un ben preciso momento storico con ben precise finalità. Il Prefetto Cesare Mori aveva già capito tutto questo alla perfezione, mentre l'opinione pubblica ancora confondeva mafia e brigantaggio.

Questo dice ancora la Nappi: "Abbiamo capito, quindi, che nel loro significato più profondo e autentico, “mafioso” e “comunitario” sono perfetti sinonimi, sono termini perfettamente intercambiabili, non c'è fra loro alcuna differenza: l'uno vale esattamente l'altro, e viceversa."
Come ogni teorema, perché sia riconosciuto valido occorre fornirne una dimostrazione secondo i princìpi della logica, che deve essere ineccepibile. Quando una simile dimostrazione manca, è sufficiente riportare un controesempio per invalidare la tesi. Partiamo da alcuni dati di fatto. Sicuramente "mafioso" implica sempre "comunitario". Non vale però il contrario: non tutto ciò che è "comunitario" è "mafioso". In altre parole, non tutte le comunità hanno evoluto organizzazioni criminali con un proprio esoterismo e propri rituali, capaci di espandersi nei contesti più diversi. La Spagna ancora nel XIX secolo aveva tutte le potenzialità per generare una società segreta simile Cosa Nostra o alla 'Ndrangheta. Gli elementi c'erano tutti: latifondo, signorotti tirannici, una casta di intendenti, guardiani e aguzzini, una popolazione contadina sfruttata ed oppressa. Come mai dunque la Spagna non generò un fenomeno mafioso autoctono? Semplice: perché mancava l'elemento settario, esoterico, che nel Meridione d'Italia si è invece formato e irrobustito nel corso dei secoli.

La Nappi descrive molto bene una parte della realtà, ma nel farlo inverte il nesso causale, confondendo cioè gli effetti con la causa - quasi a dire che se un paziente ha la meningite, i meningococchi devono essere causati dalla malattia anziché il contrario. Delirante è poi la sua proposta per risolvere il problema. A sentir lei basterebbe formare una classe di missionarie del sesso libero in grado di distribuire pompini a tutti per far sparire organizzazioni criminali potentissime e determinate come se fossero neve al sole. 

Cara Valentina, caro Giuseppe, l'origine del Male non è culturale o sociale: è metafisica.   

mercoledì 16 luglio 2014


I GIGANTI DI ROMA
(1964) 


Altri Titoli: The Giants of Rome 
Genere: Storico - Avventura 
Anno di Produzione: 1964 
Durata: 95' 
B/N - Colore 
Distribuzione: Variety Film 
Produzione: Devon Film - Radius Production 
Regia: Antonio Margheriti (Anthony Dawson) 
Soggetto: Ernesto Gastaldi, Luciano Martino 
Sceneggiatura: Ernesto Gastaldi, Luciano Martino 

Interpreti: 
Richard Harrison: Claudio Marcello
Wandisa Guida: Livilla
Ettore Manni: Castore
Philippe Hersent: Druso
Rulph Hudson: Germanico
Nicole Tessier: Edua
Goffredo Unger: Varo
Renato Baldini: Druido
Piero Lulli: Pompeo
Alessandro Sperlì: Giulio Cesare
Aldo Cecconi: Briano
Maurizio Conti:
Alberto Dell'Acqua: Valerio
Jean Claude Madal:
Renato Montalbano:
Claudio Scarchilli:
Gianni Solaro: Cicerone


Doppiatori italiani:
Sergio Fantoni: Richard Harrison
Nando Gazzolo: Ettore Manni
Mario Pisu: Philippe Hersent
Mario Feliciani: Renato Baldini
Sergio Graziani: Rulph Hudson
Renato Turi: Goffredo Unger
Vittoria Febbi: Nicole Tessier
Giorgio Capecchi: Aldo Cecconi
Emilio Cigoli: voce narrante


  

Trama (http://www.comingsoon.it/):

Alla vigilia di sferrare l'attacco decisivo contro Vercingetorige, Giulio Cesare incarica Claudio Marcello ed altri tre suoi legionari di individuare e distruggere una grossa catapulta costruita dai Druidi. I valorosi sono però fatti prigionieri. Riescono comunque a fuggire e Claudio Marcello condurrà a termine la rischiosa impresa affidatagli, distruggendo la micidiale macchina proprio mentre i due eserciti avversari stanno per iniziare la battaglia. Dopo la vittoria dei Romani, elogiato da Giulio Cesare per il suo ardimento Claudio Marcello si recherà a Roma insieme con la donna che ama.
 
Recensione:
 

Un film grottesco oltre ogni limite, che con la realtà storica non ha proprio nulla a che vedere. Tutto è distorto dall'ideologia fino ad apparire irriconoscibile. Anche l'aspetto fisico dei popoli coinvolti è del tutto inverosimile, tanto da rasentare il ridicolo. I Romani sono giganti biondi dagli occhi azzurri, dai corpi gonfi di muscoli imponenti, che sembrano usciti dalle fantasie di un propagandista del III Reich. In pratica si insinua che gli Americani siano i diretti discendenti di Roma, una stirpe di superuomini destinati a dominare il mondo con pugno di ferro e randello. I Galli sono invece descritti come maligni asiatici rachitici, scuri di capelli, dagli occhi piccoli e neri come la pece, con la pelle itterica e untuosa, i corpi gobbi, malaticci e smagriti. I Druidi sono addirittura abitatori nel sottosuolo, definiti con infinito disprezzo "talpe", che aborriscono la luce del sole come i ratti, i nottoloni e i vampiri. Non contenti di questo scempio, gli ideatori della stravagante pellicola hanno fatto propria la dottrina di Origene secondo cui ogni anima ha il corpo che si merita. Così i Romani giganteschi e fieri incarnano il detto "mens sana in corpore sano": oltre ad avere nel cuore soltanto nobili sentimenti, non soffrono di malattie di sorta, non sono afflitti da alcun disturbo metabolico, mangiano e digeriscono anche i sassi, cagano liscio come l'olio stronzi perfetti che non lasciano traccia di sporco sull'ano, tanto da non abbisognare di carta igienica per pulirselo. Per contro i poveri Celti concepiscono unicamente sentimenti avvelenati e sono mossi in ogni loro azione da perversa, insensata crudeltà. Complottano nelle tenebre di cunicoli e spelonche come larve e fantasmi. Sono così perfidi perché puzzano come cadaveri e nessuna donna vuole avere contatti con loro. Stoltamente si rifiutano di riconoscere la supremazia dei Romani, che non sono invasori, ma portatori di bellezza e di salute, di bontà e di altruismo: la loro missione è quella di inondare le Gallie di pensiero positivo e di gioia di vivere. I giganti di Roma sembra l'incarnazione dei più deleteri stereotipi propagandistici bellici, stranamente rivolti contro le genti del ceppo celtico. Se si considera il film come storico non si può arrivare a capire le motivazioni di questo feroce quanto gratuito razzismo. Tutto diventa chiaro se si ammette che Antonio Margheriti - conosciuto anche con lo pseudonimo americano di Anthony Dawson - intendesse trasportare nel contesto dell'antica Roma una trama tipica di film di guerra americani, come ad esempio I cannoni di Navarone, senza nessun intento ostile nei confronti di popoli che neanche conosceva: se così fosse i Galli si sarebbero trovati come capri espiatori, il loro nome ridotto a mera etichetta di tutto ciò che esiste di turpe. Resta ben chiaro l'impianto americano dell'opera, tutta infarcita di stilemi tipici di oltreoceano. Basta guardare qualche scena per capire molte verità scomode. I cosiddetti "Liberatori" si nutrivano di un sottobosco fatto di suprematismo e di razzismo che nulla aveva da invidiare alle dottrine della Germania di Hitler, e nel dopoguerra lo hanno liberamente irradiato nella loro produzione cinematografica. Mentre i vertici del Partito Nazionalsocialista venivano processati a Norimberga e condannati a morte, ecco che i vincitori potevano continuare imperterriti a propagare tramite i media idee non troppo diverse da quelle che avevano deciso di estirpare con il ferro e con il fuoco, con buona pace dei decerebrati rimbambiti dalla propaganda scolastica che non sanno nemmeno riconoscerle quando se le trovano di fronte.

martedì 8 luglio 2014


DE REDITU - IL RITORNO
(Anno di uscita 2003) 

Genere: Drammatico
Durata: 100 - Origine: Italia


Inizio del V sec. d.C., crisi e decadenza dell'Impero. Cinque anni dopo il sacco di Roma ad opera dei Goti di Alarico, avvenuta nel 410 d.C., Claudio Rutilio Namaziano, un patrizio pagano che era stato Praefectus Urbis, decide di tornare nella natìa Tolosa, in Gallia, per verificare le condizioni della sua patria e dei suoi possedimenti dopo il passaggio dei Barbari. Rutilio decide di partire per mare, poiché la via consolare è divenuta impraticabile a causa delle devastazioni subite... 

CAST

Regia: Claudio Bondì 
Attori: Elia Schilton (Claudio Rutilio Namaziano), Rodolfo Corsato
(Minervio), Romuald Andrzej Klos (Socrate), Marco Beretta (Rufio), Caterina De Regibus (Sabina)

Soggetto: Claudius Rutilius Namatianus
Sceneggiatura: Alessandro Ricci, Claudio Bondi'
Fotografia: Marco Onorato
Distribuito da: Orango Film Distribuzione (2004)
Prodotto da: Alessandro Verdecchi per Misami Film


Note  
- Film riconosciuto di interesse culturale.


RECENSIONE 1

Io sono l’impudicizia

Così afferma la sacerdotessa di Elias, il Sole, che definitivamente cala sull’Impero Romano. Essa, questo film è l’impudicizia: immortalando un’epoca – anzi: l’Epoca - ne sviscera le indicibili vergogne, disegnando la fine della stessa. Altro che crollo: DE REDITU (un altro ritorno, ben altra cosa dall’omonimo veneziano) gironzola per le macerie, in punta di piedi per non calpestare frammenti di frammenti di statue, della Storia e del mondo. Ispirato dall’unica opera lasciata dal filosofo Namaziano, la pellicola è un diario di viaggio all’insegna della sottrazione, che si/ci diverte a spezzettare tabù: i gladiatori sono il contrario di Russel Crowe, ragazzini gracilini che si scannano in una fossa (incontri clandestini, in quanto all’epoca erano vietati) per il rivoltante vocio degli spalti – allora: chi sono i veri barbari? Il ritorno via mare di un sovversivo, (pazza?) figura solitaria che vuole rivoltare un declino ormai compiuto ed assimilato: un pagano inascoltato dagli amici e dagli dei, costretto a divincolarsi in una costellazione senza più credenza alcuna (il vecchio Protadio che dice: “mia moglie è cristiana, forse rinascerà”). Egli intraprende un happening decadente ed antiomerico (nonostante il mare…), dove incontrerà soldati sconfitti nell’animo, poveri diavoli come rematori (un ebreo armato dalla sua fede: ma pare un invasato), donne pronte a scoparselo, le truppe pretoriane che lo inseguono. Il film tesse il tranello di una dialettica soltanto immaginaria: il dissidio crollo-salvezza non esiste mai, neanche per un istante, già essendo emessa in partenza la condanna a morte. Ciò che conta è quindi raccontare un riverbero ammattito di esistenza umana, affannata nello spacciare virtù che non possiede (Namaziano cade nella corruzione della carne, se lo rimprovera, vi cade ancora) e millantare uno scopo anch’esso dubbio (ancora rivelatore Protadio: “Quando hai perso la tua donna hai intrapreso questa impresa disperata”). Al suo quarto lungometraggio Claudio Bondì, anche regista televisivo, confeziona un italiano moderno classicheggiante e misurato, relegando a Mel Gibson il sogno di girare in latino: egli conosce l’avvolgimento naturale come unica scenografia, uccidendo per scelta e per budget ogni ricostruzione di sorta (girato prevalentemente in Calabria, ma anche nella provincia laziale). Ne esce fuori un gioco di luci e colori (raggi solari increspati sulla vela dell’imbarcazione) ordinariamente filmato con spruzzate di handycam, che si ingabbia nella prima parte in una prigione dialoghistica da piccolo schermo, sfoderando qua e là qualche stereotipo del genere (il naufragio). Queste ed altre sparute macchioline galleggiano nel film (come la prova di Elia Schilton: perplesso/addolorato, ma alla lunga un po’ uguale a sé stesso), il quale mostra la sua criniera quando entra in scena il solito, immenso Roberto Herlitzka nelle vesti di Protadio (dopo Aldo Moro, un altro cadavere politico): il guizzo d’orgoglio nella desolazione, la sofferente consapevolezza della vecchiaia (i Romani) di fronte all’avanzare del nuovo (i Barbari). Egli distingue nitidamente le macerie ma per (im)pudicizia le nasconde: sotto un telo bianco c’è semplicemente il suo corpo che si suicida (anche le ceneri vanno nell’acqua), mentre il filosofo ed il film tutto sono imbrigliati a metà viaggio, dissolvendosi bruscamente, per regalare alla tetra fantasia un’esecuzione lasciata in omissis. DE REDITU esce nelle sale (si fa per dire, neanche dieci in tutta Italia) appesantito da una distribuzione sparuta e difficile, in picchiata verso un gustosissimo flop; in pochi vedranno questo ammirevole italiano che suona la cetra mentre Roma brucia, ma Protadio spiegherebbe anche questo: “Tutto secondo logica, senza pietà”.

Emanuele Di Nicola

RECENSIONE 2

Il saccheggio di Roma ad opera dei Visigoti di Alarico, avvenuto nel 410 d. C., secondo alcuni storici, ha provocato nella società romana un disorientamento paragonabile a quello prodotto dall'abbattimento delle Torri Gemelle. Cinque o sei anni dopo, Claudio Rutilio Namaziano, un patrizio pagano che era stato prefetto della città (carica equivalente a quella odierna di sindaco), decide di tornare nella Gallia Narbonese, sua terra d'origine, per verificare i danni delle scorrerie barbariche nei suoi possedimenti.
Siccome la via Aurelia è impraticabile a causa delle devastazioni e
insicura per la presenza di bande di briganti, Rutilio decide di partire per mare, tra autunno e inverno, nel periodo del cosiddetto mare clausum. A piccole tappe, e navigando di cabotaggio, risale lungo un'Italia che attraversa un difficile periodo di transizione, tra rovine, città abbandonate e nuovi stili di vita imposti dalle circostanze politiche (l'economia curtense) e religiose (il monachesimo), sostando presso amici o in locande, talvolta costretto a soste prolungate dal maltempo. Rutilio descrisse la cronaca di quel viaggio in una sorta di diario in versi che fu rinvenuto, incompleto, nel 1400 e chiamato De Reditu: Il Ritorno. Oggi è diventato un film che s'ispira liberamente a quel poemetto per assumere l'aspetto, più che del resoconto nostalgico di un viaggio di addio a un mondo felice, di una fuga dalle persecuzioni di un aristocratico incapace di accettare un mondo in piena trasformazione, un uomo in conflitto con la vitalità e l'arroganza di un potere che si fregia dei simboli della cristianità.
Infatti, lo sceneggiatore Alessandro Ricci e il regista Claudio Bondì,
documentarista già assistente di Rossellini, trascurano la parte più bella e poetica dell'opera, quella comunemente conosciuta come l'Inno a Roma, per privilegiare la dimensione epocale della vicenda, disegnando sì la nutrita galleria di persone, luoghi e ricordi mitologici, ma allo stesso tempo puntando maggiormente su temi come l'intolleranza religiosa e la paura della diversità, la confusione dei linguaggi e la difficoltà della comunicazione da essa generata. Il V secolo rappresenta per l'impero romano l'apice di quella parabola discendente che doveva portarlo alla dissoluzione: questo interessa al regista, il quale affida all'emblematica figura di Protadio (l'intenso Herlitzka), una specie di landlord alla Cincinnato, il compito d'interpretare il crollo delle illusioni. Albino, invece, il generoso ospite di Vada Volterrana, cerca di frenare l'impulso di Rutilio a combattere per "l'utopia di Roma", invitandolo, più realisticamente, all'attesa degli eventi, alla sicurezza di un'agricoltura chiusa e protetta da una milizia privata, preludio vero e proprio alla realtà socio-economica alto medievale.
Non scarseggiano in De Reditu le concessioni allo spettacolo tipiche del
peplum, come la scena del suicidio di Protadio, il combattimento dei gladiatori, praticato in clandestinità, o la sequenza finale dei cavalieri sulla spiaggia; né mancano le sentenze da scolpire sulla pietra, come quella suggestiva, ma anticristiana: "Un solo Dio per la ragione, molti dei per l'immaginazione", alla quale preferiamo di certo i versi di Namaziano (Libro I, vv. 63-67), omaggio a Roma e al valore universale della tolleranza:"Hai fatto di genti diverse una sola patria / la tua conquista ha giovato a chi viveva senza leggi: / offrendo ai vinti l'unione nel tuo diritto / hai reso l'orbe diviso unica Urbe."

Claudio Lugi  

Segnalo l'interessante post dedicato a De Reditu su Lankelot:


Aggiungo a questo punto alcune mie considerazioni:   

Quando ho cominciato ad interessarmi a questo film, nel 2004, non era affatto facile poterlo visionare, come se fosse scomparso in un buco nero. "Un caso di censura silenziosa, ma non per questo meno infame", così avevo scritto in più di un'occasione nella blogosfera di Splinder. La causa di tutto ciò era ovviamente la suscettibilità del Papato, in un'epoca in cui fervevano le polemiche sulle cosiddette radici cristiane dell'Europa. Era in corso una specie di guerra di religione: la Chiesa Romana cercava in tutti i modi di affermare il suo dominio sulle nazioni dell'Europa, operando con ogni mezzo per cancellare ogni traccia del mondo antico. Al Papato premeva infatti di rimuovere in modo chirurgico ogni testimonianza della violenza da cui la sua istituzione è nata e delle atrocità di cui si è macchiata nel corso dei secoli. Per merito degli amici Zoon e Nodens, che intendo in questa sede ringraziare di cuore, è stato alla fine posto in qualche modo rimedio all'oblio che aveva fagocitato l'opera di Claudio Bondì. Su Facebook esiste inoltre un gruppo dedicato al film De Reditu, anche se purtroppo non risulta più essere attivo. 

domenica 29 giugno 2014

UNA GLOSSA CIMBRICA DI ORIGINE CELTICA

Richiamo l'attenzione su un vocabolo della lingua degli antichi Cimbri, attestato da Plinio il Vecchio. Si tratta di un nome dell'Oceano Settentrionale, Morimarusa, che appare formato a partire da radici celtiche. Questa è la citazione: 

"Philemon Morimarusam a Cimbris vocari, hoc est, mortuum mare, usque ad promontorium Rubeas, ultra deinde Cronium." (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia 4.95)

"Filemone disse che è chiamato dai Cimbri Morimarusa, cioè Mare Morto, fino al promontorio di Rubea e dopo quello di Cronio."

Il vocabolo in questione è un chiaro composto delle radici celtiche *mori- "mare" (gallico more, mori-, antico irlandese muir, gallese môr) e *marwo- "morto" (gallico maruo-, antico irlandese marḃ, gallese marw), con l'aggiunta di un suffisso sigmatico. Il corrispondente germanico di *mori- è invece *mari- "mare" (gotico marei, marisaiws; norreno marr), con altro vocalismo, mentre la radice  indoeuropea di *marwo- non sussiste se non in forma molto diversa nel vocabolo *murθra-, *murθa- "omicidio" (gotico maurþr, longobardo morth, tedesco Mord, inglese murder).

A questo punto dobbiamo interpretare i dati di fatto, nel tentativo di formare un quadro coerente. Da quale fonte Plinio il Vecchio ha tratto la glossa? Alcuni pensano che l'informatore non fosse in realtà un cimbro, ma semplicemente un abitante delle Gallie. In tal caso però Plinio non avrebbe attribuito la glossa specificamente ai Cimbri. Si tratta di un vocabolo genuino prodotto da radici della lingua quotidiana dei Cimbri o piuttosto di un prestito dal gallico? Propendo per la seconda ipotesi. L'aristocrazia cimbra potrebbe aver utilizzato una forma di celtico come lingua di prestigio già nelle sue originarie sedi in Danimarca. Intensi contatti tra il mondo germanico settentrionale e quello celtico dell'area danubiana sono dimostrati da un reperto come il calderone di Gundestrup, che è stato ritrovato proprio nella regione dello Himmerland, in Danimarca: è precisamente l'area di origine dei Cimbri. Il manufatto è stato importato dalla Tracia ed è stato prodotto da artigiani di stirpe celtica, con ogni probabilità appartenti all'etnia dei Triballi. Le raffigurazioni di divinità celtiche come Cernunnos e Taranis provano la forte influenza religiosa e culturale esercitata dai Celti sui popoli settentrionali dell'Età del Ferro. 

sabato 28 giugno 2014

TOPONOMASTICA DEL TERRITORIO DEI SETTE COMUNI: CONFUSIONE E FALSE ETIMOLOGIE

Sull'origine dei Cimbri, minoranza linguistica germanica stanziata nel territorio dei Sette Comuni (provincia di Vicenza), nei Tredici Comuni (provincia di Verona) e in altre piccole aree, sono fiorite numerose leggende nate dall'omonimia con l'antico popolo proveniente dalla Danimarca. Si è parlato addirittura di una presenza vichinga in Italia. Wikipedia riporta il seguente sunto relativo alla toponomastica dei Sette Comuni: 

"È il caso ad esempio della montagna più alta dei Sette Comuni (il Monte Ferozzo) e della Val Frenzela (italianizzazione di Freyentaal), località dedicate a Freya, come pure il Monte Ferac (da Frea-ac, dimora della dea Frea); vi sono poi siti dedicati alla dea Mara come la Martaal (cioè valle di Mara, la valle che separa Rotzo da Roana) e la sorgente Marghetele (orticello di Mara); località dedicate alla pitonessa Ganna (come la Valganna) o al dio Thor (come il monte Thor nei pressi dell'Ortigara). La dea sassone Ostera è ricordata nello scoglio che sovrasta Pedescala, detto Ostersteela, e in Foza nella contrada chiamata appunto Ostera.
Il ricordo di altre divinità menzionate nell'Edda islandese è rimasto anche sull'Altipiano: Balder (ricordato dal folletto od orco Baldrich); Höðr (a cui è dedicata la collinetta ai cui piedi si trova l'ex stazione ferroviaria di Asiago e che una volta era detta Hodegart, ossia orto di Höðr); Synia (ricordata dal monte Sunio). L'Edda, fra le altre divinità, nomina anche una certa Skada, figlia del gigante Thiasse: questa dea è ricordata dal nome del paese di Treschè Conca di Roana, che un tempo in cimbro era chiamato appunto Skada."
Cfr. Antonio Domenico Sartori. Storia della Federazione dei Sette Comuni vicentini, ed. L. Zola, Vicenza, 1956: "L'antichità delle origini religiose sull'altopiano dei Sette Comuni" 

A una prima lettura testi di questo genere sembrano di certo suggestivi. Peccato che non reggano a un'analisi approfondita, rivelandosi pieni di anacronismi e di altre assurdità. Non dico che siano del tutto inutili, dato che in genere riportano molte informazioni di un certo interesse, ma devono essere attentamente vagliati. 

Valganna e altri luoghi chiamati Ganna nel territorio dei Sette Comuni derivano il loro nome da un termine che indica la pietraia o il dirupo, attestato anche a Verona. La sua diffusione è estremamente ampia, tanto che lo si trova in Ossola (gana), e altrove con la variante ganda: nell'antica Liguria è attestato un fiume Gandobera "che porta pietre". L'origine di ganda / ganna è anteriore ai Celti e deriva dalle lingue affini all'etrusco che si parlavano in precedenza nelle regioni alpine, come ad esempio quella dei Reti. In etrusco esisteva la radice caθna-, da cui il latino ha tratto catinus, col senso di "vaso di pietra" e di "apertura della roccia, cavità". Tale radice, priva di origine indoeuropea, potrebbe essere attestata nel Liber Linteus (gen. caθna-l, loc. caθna-i), ma il contesto non è del tutto chiaro, ed esiste anche un omofono caθna- "unione", da cui latino catena. Assumiamo così che *kathna debba essere la protoforma da cui ganda e ganna sono derivati. I passaggi sono questi: *kathna > *gadna > ganda, ganna. Siccome la presenza di ganda e ganna nell'arco alpino è pervasiva, mentre non spiega nulla il ricorso alla profetessa Ganna vissuta tra i Semnoni nel I secolo d.C., la proposta di Sartori andrà rigettata. 

Per quanto riguarda Martaal, il ricorso a una dea Mara non è necessario. Più che un teonimo, mara è la parola norrena usata per indicare uno spirito maligno capace di possedere i viventi, da tradursi in latino con incubus. La sua radice, corrispondente germanico del celtico *mora:, riappare nel nome dei folletti della tradizione romanza, come il mazzamorello. L'amico Giacinto M. (R.I.P.) mi ha riportato che al suo paese in Friuli, vicino a Sacile, un simile demonietto è conosciuto come mathamoro. Quindi Martaal è la Valle dei Folletti, la Valle degli Incubi. È a mio avviso da scartarsi ogni connessione con il quasi-omonimo celtico *ma:ro- "grande", dato che Martaal è una valle piccola e stretta. Non si ravvisa in ogni caso alcuna necessità di postulare una corrispondenza diretta tra il toponimo e il materiale mitologico scandinavo, dato che credenze in spiriti immondi e malefici sono diffusissime in tutta la Romània e presso tutti i Germani.  

La gigantessa Skaði ha un nome di origine incerta. In norreno esiste un'omonima parola che significa "danno", che però è di genere maschile. Il paese di Treschè Conca di Romana ha più probabilmente tratto il suo nome da una forma affine al gotico *Skadwa, col senso di "Ombrosa"

L'orco Baldrich sarà da antico alto tedesco *Balde-rih, corrispondente al gotico *Balþareiks, "Re Audace" o "Re degli Audaci": la figura di Balder, attestata in Scandinavia (norreno Baldr) e in Germania (antico alto tedesco Balder) non si presta ad essere assimilata a quella di un folletto o orco, essendo un chiaro adattamento germanico della figura di Cristo. Il lemma norreno baldr significa "principe, signore", e corrisponde all'anglosassone bealdor, che era usato per designare Cristo. Theo Vennemann ha ipotizzato che l'origine ultima di questo epiteto sia il punico Baladdir, e pur non concordando con questo autore su altri argomenti, ritengo arguta e valida questa sua proposta. Bal Addir significa Signore Potente, essendo in punico bal non solo la parola generica per "signore" e "marito", ma anche il teonimo che conosciamo meglio come Baal. Il lemma addir si trova attestato anche da Agostino di Ippona e da altri autori nella parola abaddir (varianti abadir, abadier) ossia pietra (*aban) potente (addir), che indica un meteorite.  

Hodegart non è certo l'Orto di Höðr, perché il nome di tale divinità mostra una vocale che è il prodotto dell'Umlaut labiale. In altre parole, dove in norreno si trova la vocale trascritta con -ö-, ma più correttamente con -ǫ- (da pronunciarsi come o aperta), significa che un tempo vi era una vocale -a-, che è stata alterata a causa della presenza di una -u- o di -w- nella sillaba seguente. Così un tempo il teonimo sarà stato *Xaθuraz, che doveva significare "Uccisore": la radice ultima è la protoforma germanica *xaθuz "battaglia" (> norreno hǫð), di lontana origine celtica (cfr. gallico catu- "battaglia"). Il fenomeno della trasformazione di -a- in -ǫ- per influenza di una successiva -u- o -w- è tipico del norreno e non esiste in antico alto tedesco: Hode- non può in alcun modo corrispondere a Höðr.
Il nome di Freya, in norreno Freyja (pron. /frøyja/) non è un antenato plausibile dei toponimi citati dal Sartori. L'origine ultima risiede nella radice proto-germanica *frauja(n)-, che significa "signore": gotico frauja /frɔ:ja/ "signore", *fraujo /frɔ:j:o:/ "signora". L'equivalente tedesco di Freya è proprio la ben nota parola Frau: come si vede nulla che possa aver dato origine a Freyentaal. Mi azzarderei a ritenere Freyentaal una formazione recente e romantica, come tante altre sorte nell'ambito dei nazionalismi ottocenteschi, ma la scarsità delle informazioni in proposito mi suggerisce prudenza. Alcuni riportano le forme Frea-sele e Frea-taal in lingua cimbra (da non confondersi con la lingua degli antichi Cimbri), che sembrano più genuine. Non si tratterebbe quindi di un luogo dedicato alla dea Freya, ma alla dea Frigg, il cui nome longobardo era Frea (< proto-germanico *Frijjo:). Ferac e Ferozzo non hanno alcuna possibilità di derivare dalla radice di Freya o di Frigg per ragioni fonetiche. La formazione fantasiosa *Frea-ac riportata da Sartori non ha il minimo riscontro. 

Le contrade di Ostera e Ostersteela hanno sicuramente la stessa radice della dea Ostara, il cui nome viene dal germanico comune *Austro:. Non si può escludere a priori la presenza del culto della divinità in questione. Tuttavia si nota che la radice *austr- da cui è stato formato il teonimo significa "oriente", che pare un'accezione più plausibile quando si tratta di toponimi. Così i Longobardi e i Franchi chiamavano Austria la regione orientale dei rispettivi regni (tra i Franchi c'era anche la variante Austrasia). Per i Longobardi, l'Austria si estendeva dal corso dell'Adda al Friuli e corrispondeva grossomodo all'attuale Nord Est, mentre le terre ad occidente di quel fiume formavano la Neustria. Così Ostera potrebbe essere la naturale evoluzione di *Austria "Terra Orientale", e Ostersteela "Rupe Orientale", piuttosto che "Rupe di Ostara"

Il vero nome del monte Thor è Toro, che doveva essere noto come *Taurus in epoca romana, la cui radice riappare nel nome dei Taurini. La forma gotica per indicare il dio Thor era *Þunrs, quella antico alto tedesca Donar. In anglosassone era Þunor, e in longobardo il teonimo doveva suonare *Thonor. La forma d'origine era il proto-germanico *Θunraz. In norreno la nasale è scomparsa dopo aver mutato la u in una o lunga per compenso, dando Þórr. In antico irlandese il teonimo Þórr è stato preso a prestito come Toṁar, gen. Toṁair (pron. /tõ:r/), segno che all'epoca la vocale era ancora pronunciata nasale. Orbene, tutto questo ci mostra con la massima evidenza che per ragioni storiche il monte Toro non può trarre origine dal nome norreno della divinità dalla barba rossa, e che le altre forme germaniche per designarla non sono foneticamente adatte. 

Due fenomeni hanno contribuito a far proliferare nel Web materiale pieno zeppo di false etimologie e di fraintendimenti:  

1) L'assenza di interesse degli studiosi moderni verso le realtà locali;
2) I complessi meccanismi del copyright, che permettono la libera consultazione online di libri superati, in alcuni casi risalenti persino al XIX secolo, mentre rendono difficile il pieno accesso a materiale aggiornato. 

domenica 22 giugno 2014

UN'AMARA SCOPERTA

Perché il Connettivismo non è considerato a sufficienza per i suoi meriti letterari? Nessun connettivista lo sa dire? Nessuno lo ha ancora capito? Bene, dato che ho appena scoperto la ragione di tutto ciò, la esporrò senz'altro in questa sede. Il Connettivismo è avversato ferocemente dallo zoccolo duro dei lettori di fantascienza di vecchio stampo perché si presenta come Avanguardia e si ispira tra le altre cose al Futurismo (noi specifichiamo "sia di Marinetti che di Majakovskij", ma quelli Majakovskij non l'hanno mai sentito nominare). Per questo i detrattori del Connettivismo lo ritengono intrinsecamente fascista, etichettabile come estrema destra. Tutto viene fatto passare attraverso le lenti distorcenti di una sordida politica fatta di crassi slogan da scuola occupata. Che clima mortifero, che aria irrespirabile, funestata dai tanfi dell'Ignoranza! E poi qualcuno ancora si meraviglia se la fantascienza è in agonia! 

sabato 21 giugno 2014

UNA PERDUTA LINGUA NEOLATINA D'AFRICA

L’umanista italiano Paolo Pompilio (1455-1491) si imbatté in un uomo che gli recò notizia di una comunità nordafricana che parlava una lingua neolatina affine al sardo (Cfr. Charlet 1993; Varvaro 2000). Così scrisse nella sua opera (Notationes, Vat. lat. 2222, f° 120 r-v): 

Item ex libro tertio notationum. Latinum sermonem olim promiscuum fuisse.
Caput sextum.

«Venit nuper ad urbem mercator quidam exploratae fidei a Tunete, homo Gerundensis, nomine Riaria; quem cum multa de Aphrica interrogassem, rettulit se maximam illius partem peragrasse, idque spatio triginta annorum, vidisseque in agro Capsensi regionem multis pagis habitatam, cui nomen est arabice Niczensa, et in montanis Gibel Oresc, ubi pagani integra pene latinitate loquuntur et ubi voces latinae franguntur, tum in sonum tractusque transeunt sardinensis sermonis, qui, ut ipse novi, etiam ex latino est. Regio illa quinque diariis distat ab agro Carthaginensi, ubi Tunis nunc est, ex quo latini nominis fuit Africa. Idioma hic priscum servatum est et in insula, quamvis valde corruptum». 

Dal terzo libro delle osservazioni. La lingua latina un tempo era di uso comune.
Capitolo sesto. 

"Di recente è venuto in città da Tunisi un certo mercante di provata fedeltà, un uomo di Gerona, di nome Riaria; quando gli ho chiesto molte cose sull'Africa, ha risposto che l'aveva girata in massima parte nell'arco di trent'anni e che aveva visto nel territorio di Gafsa una regione abitata con molti villaggi, il cui nome arabo era Niczensa, come nelle montagne del Gibel Oresc, ove i villici parlano in una latinità quasi integra e quando le voci latine si interrompono, allora passano nel suono e nei tratti al linguaggio della Sardegna che, come so, è anch'esso dal latino. Quella regione dista cinque giornate di viaggio dal territorio di Cartagine, dove ora si trova Tunisi, da cui fu l'Africa del nome latino. Questo idioma ancestrale si è conservato anche in un'isola, per quanto molto corrotto." 

Lorenzini e Schirru riportano alcune considerazioni molto eloquenti in merito:

"Un’ultima considerazione: come avrebbe potuto Riaria inventarsi che l’afroromanzo somigliava al sardo? Che cosa fosse l’hanno sospettato gli studiosi moderni: TAVONI (1984, p. 301, nt. 2) cita giustamente WAGNER (1951, pp. 129-130) e TERRACINI (1957 [1936], pp. 128-131), cui si può aggiungere almeno FANCIULLO (1992). Come sarebbe potuta venire in mente a Riaria una parentela scientificamente così plausibile, se non avesse avuto esperienza diretta tanto del sardo che dell’afroromanzo?"
(Varvaro, 2000)

La domanda posta dal professor Alberto Varvaro è senza dubbio retorica: risulta evidente che l'informatore Riaria conosceva il sardo e aveva potuto notarne la grande somiglianza con l'afroromanzo. A cosa si deve questa somiglianza? Semplicemente a due fatti.

1) L'afroromanzo di cui parla Pompilio aveva un sistema vocalico comune al sardo: 

a breve (ă); a lunga (ā) => a
e breve (ĕ); e lunga (ē) => e
i breve (ĭ); i lunga (ī) => i
o breve (ŏ); o lunga (ō) => o
u breve (ŭ); u lunga (ū) => u 

2) L'afroromanzo di cui parla Pompilio conservava l'occlusiva velare /k/ davanti a vocali anteriori. 

A mio parere è ben possibile che altre caratteristiche arcaiche contribuissero a dare questa impressione di assonanza con la lingua sarda nella sua forma più conservativa, ad esempio i plurali in -s, derivati dall'accusativo plurale latino. Tuttavia, non avendo attestazioni dirette, siamo nel campo delle ipotesi.  

Così possiamo azzardarci a fornire un vocabolarietto e un paio di frasi della lingua neolatina d'Africa del territorio di Cartagine, etichettandola al momento come conlang in attesa di nuove scoperte che permettano di confrontarne i lemmi con parole reali.

aka
, acqua
asnu, asino
aurikla, orecchio
auru, oro
bakka, vacca
bobe, bue
boke, voce
deke, dieci
dekembre, dicembre  
Deu, Dio
diket, dice
dìkere, dire
domna, signora
domnu, signore
faket, fa
fàkere, fare
ghenuklu, ginocchio
ghenus, genere  

kartu, quarto
kastru, castello
kàttoro, quattro
kella, cella
kelu, cielo
kentu, cento
kinke, cinque
kintu, quinto
kista, cesta
koket, cuoce
kòkere, cuocere
kruke, croce
linnu, legno
luke, luce
mannu, grande
nabe, nave
nibe, neve
nuke, noce  
oklu, occhio
okto, otto
oktombre, ottobre
òmines, uomini
omo, uomo
pake, pace
pike, pece
piske, pesce
plumbu, piombo
porku, maiale
pullu, pollo
ribu, fiume
tauru, toro
turre, torre   

issos bobes traunt issu aratru, i buoi tirano l'aratro;
issos òmines bibunt issu binu, gli uomini bevono il vino.

Faccio infine notare che nello scritto di Pompilio i parlanti neolatini sono denominati pagani, parola che nel latino classico vale "villici, paesani", senza alcuna connotazione religiosa. Ho usato questa traduzione, perché appare la più semplice e credibile. Tuttavia sussiste una certa ambiguità, avendo Pompilio scritto in epoca cristiana ed essendo la parola passibile di indicare qualcosa di diverso dagli abitanti di un villaggio. Cosa intendeva davvero l'umanista? All'epoca nella Cristianità la religione islamica era chiamata "pagana", anche se tale etichetta è una pura e semplice assurdità. L'umanista voleva forse dire che tali popolazioni, seppur di lingua neolatina, professavano l'Islam? Se la risposta fosse affermativa, quelle genti sarebbero state in origine cristiane e la loro religione ancestrale sarebbe andata perduta, a differenza della lingua. Appare troppo remota la possibilità che i parlanti neolatini non fossero mai stati islamici né cristiani
, ma avessero una religione discendente in qualche modo dal paganesimo dell'antichità. A distanza di tanto tempo, è arduo capire cosa passasse per la mente dell'autore.