sabato 21 febbraio 2015

LONGOBARDO RICOSTRUITO: UNA FORMULA PER GUARIRE UN CAVALLO DAI VERMI

Testo in longobardo (ricostruito):

GANG UZ, NASSIO, MIT NIUN NASSINCHLINON, UZ FRAM THEMO MARCHE IN THAZ PAIN, UZ FRAM THEMO PAINE IN THAZ FLAISC, UZ FRAM THEMO FLAISCHE IN THAZ FIL, UZ FRAM THEMO FILLE IN THIZ STRAL!

Trascrizione fonologica (semplificata): 

/'gang 'u:ts 'nassjo mit 'niun 'nassinkhli:non 'u:ts fram θɛmo 'marke in θats 'pain 'u:ts fram θɛmo 'paine in θats 'flaisk 'u:ts fram θɛmo 'flaiske in θats 'fil 'u:ts fram θɛmo 'fille in θits 'stra:l/

Traduzione:

Vai fuori, verme, con nove vermicelli, fuori dal midollo nell'osso, fuori dall'osso nella carne, fuori dalla carne nella pelle, fuori dalla pelle in questa freccia!

Questo è il primo testo di partenza, in antico alto tedesco del IX secolo (con notazione delle vocali lunghe):

Pro Nessia. 

Gang ûz, Nesso, mit niun nessinchilînon, ûz fonna marge in deo âdra, fonna den âdru in daz fleisk, fonna demu fleiske in daz fel, fonna demo velle in diz tulli.
Ter Pater Noster. 

Questo è il secondo testo di partenza, in antico sassone (con notazione delle vocali lunghe):

Gang ût, nesso, mit nigun nessiklînon, ût fana themo marge an that bên, fan theme bêne an that flêsg, ût fan themo flêsgke an thia hûd, ût fan thera hûd an thesa strâla. Drohtîn, uuerthe sô.   

LONGOBARDO RICOSTRUITO: UN INCANTESIMO PER GUARIRE LE SLOGATURE

Testo in longobardo (ricostruito): 

SUASO PLODRANCHI, SUASO PAINRANCHI, SUASO FLAISCRANCHI, SUASO LIDERANCHI, PLOD ZO PLODE, PAIN ZO PAINE, FLAISC ZO FLAISCHE, LID ZO CALIDIN, SUASO CALIMIDA SIN.  

Trascrizione fonologica (semplificata): 

/'swaso 'plo:drankhi 'swaso 'painrankhi 'swaso 'flaiskrankhi 'swaso 'lidirankhi 'plo:t tso: 'plo:de 'pain tso: 'paine 'flaisk tso: 'flaiske 'lit tso: ka'lidin 'swaso ka'li:mida 'si:n/.

Traduzione: 

Sangue a sangue, osso a osso, carne a carne, membro a membro, così siano riparati. 

Simili formule erano molto comuni tra gli antichi popoli germanici. Ciò che riporto è a fini di conoscenza e non deve essere inteso come invito ad abbandonare la medicina e a confidare nella magia.

Testo di partenza in antico alto tedesco (seconda formula magica di Merseburg):

Sôse bênrenki, sôse bluotrenki, sôse lidirenki: bên zi bêna, bluot zi bluoda, lid zi geliden, sôse gelîmida sîn! 

Il longobardo era più conservativo: manteneva gli antichi dittonghi, non aveva la trasformazione di -a- in -e- causata da una -i- seguente (Umlaut), non dittongava -ô- in -uo-

domenica 15 febbraio 2015

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: GLI ESITI ROMANZI DI DIGITUS

Il vocabolo latino digitus è andato incontro a diversi mutamenti. Una forma sincopata dictum (acc.) è riportata da Nonio Marcello ("non vituperamus, cum scimus dictum praecidi oportet", De compendiosa doctrina, citazione di Varrone). Questa variante è attestata in Gallia (Rydberg, 1896), dove è prevalsa. Altrove la sincope non ha avuto luogo e si è avuto un indebolimento di /g/ diventando /*'digjitu/ in latino volgare, evolvendosi in /*'dijitu/ e quindi in /*'di:tu/, che ha dato infine l'italiano dito. La vocale lunga presupposta dall'italiano /i/ è sorta per contrazione. È lampante che simili sviluppi non sarebbero mai stati possibili se la pronuncia dell'originario digitus avesse da sempre avuto un suono palatale /dʒ/, come invece i nostri avversari sostengono. In altre parole /gj/ ha dato /j/ e si è dileguato prima di poter divenire /dʒ/. Vediamo ora gli sviluppi di digitu(m) in altre lingue romanze: 

Sardo logudorese: didu 
Francese: doigt* /dwa/
Spagnolo: dedo 
Lingua d'oc: deit /deit, detʃ/ 

*L'ortografia mostra un nesso -gt finale che è opera degli eruditi e meramente etimologico.  

Si nota che la forma spagnola mostra una -e- che è normale evoluzione della vocale latina i breve. La forma /*'dijitu/ non si è contratta in /'di:tu/ come è avvenuto in italiano, ma ha dato /*'deitu/ e quindi /*'detu/, la cui consonante /t/ si è regolarmente lenita in /ð/.

Diverso è lo sviluppo che si è avuto nella lingua d'oc, in cui la forma originaria era il dictus attestato nell'antichità: /digitu-/ > /diktu-/ > /*deitu/ > /deit/ > /*detj/ > /detʃ/.  

In antico francese (lingua d'oïl) lo sviluppo è stato simile a quello visto per la lingua d'oc abbiamo attestata le forme dei (nominativo deis) e deit (nominativo deitz, deiz), e accanto a queste anche doi (nominativo dois) e doit (nominativo doitz, doiz). È chiaro che a un certo punto /dei(t)/ è diventato /doi(t)/, che poi è giunto a pronunciarsi /dwa/ in francese moderno.

Siamo sempre alle solite. Il punto è che esiste disponibilità di una vastissima documentazione, di un patrimonio di dati che aspettano soltanto di essere esplorati. Eppure vediamo che sono numerose le persone che non ne tengono conto, chiudendosi con pervicacia in un mondo proprio privo di contatti con l'esterno: quando enunciano un'idea fallace, poi pretendono di farla valere come se potesse dimostrarsi da sé e non compiono il benché minimo sforzo per documentarsi. Come dice un proverbio, non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire.   

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: GLI ESITI ROMANZI DI FRIGIDUS

Nell'Appendix Probi è riportata la seguente raccomandazione: frigida non fricda. In Lucilio troviamo frigdaria per frigidarium. La sincope di frigidus in *frigdus è all'origine della forma italiana freddo, che mostra chiaramente una consonante doppia /dd/ come risultato dell'assimilazione di un precedente nesso /gd/. È lampante che un simile sviluppo non sarebbe mai stato possibile se la pronuncia dell'originario frigidus avesse da sempre avuto un suono palatale /dʒ/, come i nostri avversari sostengono. In italiano la parola freddo deriva da /*'frigdu-/ con vocale tonica breve, mentre la forma classica frigidus aveva vocale lunga /'fri:gidus/.  

Vediamo ora gli sviluppi di frigidu(m) in altre lingue romanze: 

Sardo logudorese: frittu
Francese: froid /fRwa/
Spagnolo: frío
Lingua d'oc:
freg /fretʃ/, freit

Cos'è accaduto in spagnolo? Semplice: la forma di partenza è /'fri:gidu-/ con vocale tonica lunga, che ha dato per palatalizzazione /*'fri:jidu/ e non /*'fri:dʒidu/, ossia la /g/ è divenuta /gj/ e quindi /j/, poi si è indebolita fino a sparire. In antico spagnolo si ha frido, donde la forma moderna. Ancora una volta, un simile sviluppo sarebbe stato impossibile se la pronuncia originaria avesse avuto un'affricata /dʒ/

Per la lingua d'oc la forma di partenza è stata /*'frigdu/ come per l'italiano, ma anziché aversi il passaggio da /gd/ a /dd/ si è avuta una lenizione che ha portato alla formazione di un dittongo: /*freidu/ > /freit/. Si è quindi avuta la palatalizzazione di /t/: /*fretj/ > /fretʃ/. Lo stesso identico sviluppo si è avuto in diversi dialetti galloitalici. In Lombardia è diffusa la forma frecc /frɛtʃ/, femm. fregia /'frɛdʒa/. In altri dialetti, come nel ligure di Genova, si è mantenuta la forma /'freidu/, in cui la /d/ non si è palatalizzata. Questi mutamenti sono paralleli a quelli che hanno portato alla palatalizzazione di -ct-, ad esempio in Brianza nocte(m) > *noite > nocc /nɔtʃ/: penso che non sia esagerato dire che si trovano nella maggior parte dell'area continentale in cui un tempo si parlavano lingue celtiche.  

Nella lingua d'oïl la forma freid (nominativo freitz), che pure è attestata, è diventata froit (nominativo froitz, froiz) tramite un regolare sviluppo del dittongo /ei/ in /oi/, e l'esito in francese moderno è pronunciato /fRwa/

Come si può ben vedere, non esiste un solo esito compatibile con la pronuncia ecclesiastica del latino. Mentre la Scienza ci permette di capire i mutamenti che hanno portato al passaggio dal latino volgare alle lingue romanze, le sparate dei genialoidi che si improvvisano filologi hanno lo stesso valore delle opinioni di un sarto che pretendesse di dire la sua sulla progettazione di una centrale nucleare. 

giovedì 12 febbraio 2015

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: CAENUM - COENUM - INQUINARE - CUNIRE

Una cosa i nostri avversari che sostengono la pronuncia ecclesiastica ab aeterno sembrano non volerla capire. Ogni alternanza tra i dittonghi ae, oe e la vocale e in parole latine va trattata separatamente dalle altre: non basta citarne una per risolvere il problema e per capire la causa di questo fenomeno.

Consideriamo ad esempio le seguenti parole latine:

coenum "fango, sozzura"
   
varianti attestate: caenum, cenum 
cunire "defecare" (glossa di Festo)
inquinare "sporcare, insozzare"

Cominciamo subito a chiarire che la forma cenum senza dittongo è secondaria e di origine rustica: è attestato che i burini dell'epoca classica avevano una vocale e lunga e chiusa dove la lingua urbana aveva il dittongo ae - e di questo discuteremo con dovizia di particolari in altre occasioni. 

Come si può ben vedere, le alternanze riportate presentano non poche difficoltà e non possono essere facilmente spiegate in termini di eredità indoeuropea. La radice *kain- / *koin- a cui queste voci risalgono è chiaramente un prestito da un'altra lingua, penetrato in latino in epoca molto antica. La variante *koin- è quella più produttiva: il suo dittongo -oi- ha dato origine a -u- /ku:'ni:re/, ma anche irregolarmente a -ui- /iŋkwi'na:re/. Nel primo caso si tratta dell'alternanza tra dittongo oe e vocale lunga u già vista in doppioni come murus - pomoerium o Poeni - punicus. Per quanto riguarda inquinare, si confronti invece l'evoluzione fonetica che dal greco ἄγκοινα "drizza" ha portato al latino anquina /aŋ'kwi:na/ tramite un intermediario etrusco *anχuina. Non è quindi possibile affermare che si scrivesse caenum, coenum o cenum semplicemente perché la pronuncia sarebbe stata -e- dovunque già in epoca antica, come sostengono i fautori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno: i dati sopra riportati dimostrano che la situazione doveva essere un tantino più complessa. 

Per quanto riguarda l'origine ultima di *kain- / *koin-, ipotizzo che si tratti di trasposizioni di una radice etrusca attestata nell'antroponimia con diverse varianti secondarie: troviamo infatti i gentilizi Caini, Ceinie, Keina (DETR 82, 231), Χainu (DETR 438), Cuinui (DETR 120). Pittau cita alcuni gentilizi romani paralleli a quelli etruschi: Caenius, Caenonius, Coenius. Evidentemente Caenius ha la stessa origine di Caini e simili, Caenonius va con Χainu, mentre Coenius va con Cuinui. La formazione e l'originaria semantica dei gentilizi in questione non dovrebbero stupire più di tanto: esistono anche cognomi italiani come Sozzo, Sozzi, Sozzoni. L'alternanza -ai- / -ui- non mi è al momento nota in altri vocaboli etruschi ed è quindi abbastanza problematica. Forse la forma più antica era *kwain-, il che potrebbe spiegare sia il passaggo da -ai- a -ui- che la presenza di una variante con occlusiva aspirata come Χainu. Per ora non possiamo spingerci oltre, dato che non comprendiamo ancora in profondità l'intero lessico etrusco.

Per quanto riguarda possibili paralleli esterni, a dire il vero ho trovato qualche possibile parallelo esterno per le parole di cui ci stiamo occupando: si tratta del norreno hvein (f.) "terreno paludoso" (< proto-germanico *xwaino:). Per quanto riguarda le lingue celtiche, troviamo antico irlandese cóennach "muschio", una forma abbastanza problematica. Si tratta in ogni caso di parole marginali, di cui non si riesce a ricostruire la storia causa esiguità di dati. Non esito a ritenere questi termini come relitti non indoeuropei adottati: appare evidente che un'originaria forma indoeuropea *k(')wain- qual è ricostruita ad esempio da Starostin non avrebbe perso in latino la labiovelare risultando in caenum, se la parola avesse fatto parte del lessico ereditario. Sarebbe auspicabile la fine della prassi abusiva quanto comune di ricostruire forme indoeuropee a partire da lessemi problematici come questi, o addirittura da una singola parola attestata in una singola lingua.

domenica 8 febbraio 2015

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: L'ALTERNANZA TRA DITTONGO OE E VOCALE U

Le conoscenze scientifiche ci permettono di appurare che il dittongo oi del latino arcaico, eredità indoeuropea in diverse parole del lessico di base, con il tempo è diventato oe. Orbene, i soliti fautori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno affermano che questo dittongo oe era puramente grafico e che fin dal suo apparire valeva /e/ come pronunciato nelle scuole. Questo non è proprio possibile. Nel latino classico si scriveva oi fino al II secolo a.C., poi si è affermata la grafia oe, che in epoca classica si è conservata soltanto in un numero abbastanza piccolo di parole: nella maggior parte dei casi questo oe è diventato invece una vocale lunga u /u:/. Questo è possibile dimostrarlo con evidenze incontrovertibili, perché è un dato di fatto. Analizziamo alcune occorrenze del dittongo oe etimologico ridotto a u:

1) Latino cura "preoccupazione" deriva da *coira, che è una forma arcaica, deducibile a partire dalla radice verbale coira-. A sua volta questa forma arcaica discende per rotacismo da *koisa, ed è presente anche in osco e in sabellico senza rotacismo (in un'iscrizione peligna troviamo coisattens = curaverunt, in osco abbiamo coisatens). Il verbo coirare per curare è attestato in numerose iscrizioni. Le voci coeravit per curavit e coeraverunt per curaverunt sono frequentissime. Siccome i sostenitori della pronuncia ecclesiastica pronunciano la sillaba coe- come /če-/, l'assurdo delle loro idee è subito messo nella massima evidenza già da questo singolo esempio.  

2) Latino ludus "gioco" (ma anche "burla; inganno") deriva da *loidos. La forma loedus è attestata. Il greco possiede il verbo λοιδορέω "io insulto; io rimprovero", che potrebbe essere correlato; la radice, non indoeuropea, sarebbe in tal caso giunta alle due lingue classiche dal sostrato tirrenico in tempi e in modi diversi, il che spiegherebbe anche la differenza nella semantica.

3) Latino moenia "obblighi, doveri" alterna con munia id., munus (gen. muneris) "obbligo, dovere; carica; dono votivo", munis "riconoscente, servizievole", municipium "municipio", communis "comune, pubblico" e immunis "ingrato; esentasse; libero". La forma antica di municipium è attestata come moinicipio-, e si ha anche comoinem per communem (CIL i. 196 - del 186 a.C.). I dati di altre lingue indoeuropee confermano l'esistenza dell'antico dittongo: gotico gamains "comune"; antico irlandese moíni "regali".

4) Latino murus "muro" viene da *moiros. La forma moerus è ben attestata, ed esiste anche il ben noto composto pomoerium "spazio di terreno esterno e intorno alle mura della città", che conserva il dittongo -oe- ancora in epoca classica: deriva proprio da post e da moerus.

5) Latino mutuus "prestito" e muto "io cambio" avevano l'antico dittongo -oi-: si trovano chiare corrispondenze in altre lingue indoeuropee, come il greco siciliano μοῖτος "favore" e gotico maiþms "dono". In ultima istanza la radice è la stessa della serie di parole moenia, communis, etc.

6) Latino unus "uno" viene dall'arcaico *oinos: la forma attestata oenus è il diretto antenato di unus. Abbiamo anche oenigenos per unigenitos (Paul. Fest. 225. 2 Th.). Le attestazioni della radice indoeuropea *oino- "uno" sono di una tale imponenza che si potrebbe anche fare a meno di riportarle: proto-germanico *ainaz "uno", donde gotico ains, norreno einn, tedesco ein, inglese one; antico irlandese óen, oín; greco antico οἴνη "asso, uno sui dadi"

7) Latino plus "più", pl. plures, deriva da una forma con oi, *plois-. Ad esempio è attestata la forma avverbiale PLOIRVME. Questo *plois- doveva risalire a sua volta a una protoforma d'origine più complessa che doveva suonare *ple:io:s, dato che una forma plurale pleores è attestata nel Carmen Arvale e in Cicerone.

8) Latino poena "pena" alterna con punio, punis, punire "punire": entrambe le forme sono da un originario *poina (cfr. greco ποινή). Così il derivato impunis è attestato nella forma impoene in Catone. 

9) Latino Poeni "Cartaginesi" alterna con punicus "cartaginese". Si vede chiaramente che la forma di origine è la stessa del greco antico Φοίνικες "Fenici" e Φοινίκη "Fenicia". In Lineare B si scriveva PO-NI-KI-JO. Queste forme a loro volta discendono dall'antica lingua dell'Egitto, in cui è noto il termine Fnkhw, tradotto con "Siriani": la pronuncia era con ogni probabilità /fai'ni:χu/. In etrusco abbiamo l'antroponimo Puinel e i gentilizi Puina, Puine. Reputo che la parola Poeni sia giunta al latino tramite un intermediario etrusco. 

10) Latino utor "io uso", utilis "utile": in antico latino abbiamo le attestazioni oeti per uti (CIL i. 603. 6. 8.) e oitile per utile (CIL i. 201. 9.). In peligno troviamo oisa che traduce il latino usa; in osco abbiamo úittiuf, che traduce il latino usio, gen. usionis "utilizzo"

Per approfondire la questione dei dittonghi e delle loro origini, fornisco un link per lo scaricamento di un'interessante opera del prof. W. M. Lindsay dell'Università di Oxford, in cui ogni dettaglio della fonetica latina è trattato in modo esauriente: si intitola The Latin Language, An Historical Account of Sounds, Stems and Flexions. Un volume datato ma robusto, potente, direi una lettura indispensabile.


Questo invece è un corpus di iscrizioni latine arcaiche:


Che conclusioni possiamo trarre da questo panorama? Semplice: solo in quei casi in cui l'antico dittongo /oi/ si è conservato divenendo /oe/, si è avuta poi la riduzione in /e:/ attraverso una fase intermedia /ö:/. I casi molto più numerosi in cui l'antico /oi/ ha dato /u:/ provano che non si può proiettare indietro all'infinito la pronuncia ecclesiastica di oe come e.
Q.E.D.

A quanto pare i nostri avversari sono caratterizzati dall'idea di avere il controllo sulla realtà e di poterla modificare a piacimento, al punto di negare l'esistenza stessa del latino arcaico, che pure è documentato da numerose iscrizioni. Possono essere paragonati ad alchimisti che cerchino di imporre le teorie di Paracelso e di cancellare ogni principio della chimica moderna. Mentre nel campo delle scienze esatte non c'è molto spazio per simili attacchi, la linguistica evidentemente presenta ancora ampie possibilità di essere contaminata dalla pseudoscienza.

sabato 7 febbraio 2015

LA DIFFERENZA TRA DITTONGO OE E IATO OË IN LATINO O L'ARGOMENTO DELL'UOMO DI PAGLIA

Come disse Emil Cioran, un nemico è utile quanto un Bodhisattva. Certo, non mi entusiasma avere avversari che non leggono le mie argomentazioni per partito preso e che mi accusano di non portare argomentazioni, come se la mole delle parole da me scritte fosse nullità.

Non mi entusiasma neppure avere avversari che a quella che al massimo potrebbe essere definita "insinuazione di disonestà intellettuale" rispondono con ingiurie da osteria, anche di natura sessuale - e poi mi accusano di "offendere" se affermo a ragione che non è lecito confondere il latino con l'umbro o utilizzare il sanscrito per "dimostrare" una certa pronuncia del latino classico.

E che dire se questi danno prova di non capire i concetti della linguistica e di travisare, accusandomi poi di non capire, di travisare o addirittura di inventare? Che dire se questi inquinano e mi accusano di inquinare, se rovesciano su di me ogni errore che caratterizza la loro attività online?

La risposta è semplice: quello che i miei detrattori pensano di me è qualcosa a cui attribuisco minor valore di un pupazzetto di smegma, e me ne strafotto di tutte le ingiurie grossolane che mi possono vomitare addosso. Del fatto che non mi leggano, non me ne può fregar di meno - anzi è meglio, così non contaminano il mio portale con i loro sguardi.

Continuo tuttavia a scrivere e a controbattere per pubblica utilità, perché certe argomentazioni fallaci sono perniciose e possono trarre in inganno i navigatori, così vanno esposte in dettaglio, affinché appaiano per quello che sono: risibili.  

Il dato di fatto, a mio avviso incontrovertibile, è che ai miei argomenti non sono opposte proposizioni sensate, ma le strategie dialettiche così ben descritte da Schopenhauer nella sua famosa opera L'arte di ottenere ragione (Eristische Dialektik - Die Kunst, Recht zu behalten).


Prima fase. Alcuni farfugliamenti in risposta alle mie argomentazioni: 

"“Coito” è stato introdotto in italiano come voce colta, esattamente come “ceto”. Sia coitus che coetus hanno la stessa origine da cum-eo(coëo), ma significati, scritture e pronunce diverse già in latino. Non ci sarebbe nulla di particolare neppure nell'avere diversi significati in due parole omofone o quasi, come ne esistono in ogni lingua. Nessuno confonde il miglio (pianta) con il miglio (misura), o la fiera (belva o mercato) se c'è un contesto. A me bastano le varianti cetera/caetera/coetera."

Ecco diversi passi in questa prima fase:

1) L'avversario riconosce che coitus e coetus hanno la stessa origine ma pronunce diverse; 

2) L'avversario si contraddice subito dopo affermando che potrebbe invece trattarsi di omofoni e paragona la situazione delle due forme in analisi al caso di vocaboli dal suono identico con significati ed etimologie del tutto dissimili.

Deduzioni dalle proposizioni 1) e 2):
Le due affermazioni si contraddicono e non seguono un filo logico, ergo si tratta di farfugliamenti.

3) L'avversario non è in grado di spiegare in alcun modo perché le parole coitus e coetus avessero "scritture e pronunce diverse già in latino", e non sembra interessato ad enunciare ipotesi in proposito. 

Conclusione sulla prima fase. Un'analisi di quanto detto dall'avversario mostra che con le sue parole non giunge ad affermare alcunché di utile. In altri termini, quanto da lui esposto ha lo stesso valore dello spam

Fase seconda. Agisce la fallacia logica, quella che in linguaggio tecnico è chiamata argomento dell'uomo di paglia:

"Non so cosa pensa d'aver trovato, forse è convinto che il latino “poeta” venga tradizionalmente letto “peta”".

Ecco messa a nudo la sua procedura.

Premessa: visto che la pronuncia palatale della c- di coetus è incompatibile con la sua origine riconosciuta da cum e da eo, si cerca di nasconderla, di affermare che la pronuncia ecclesiastica in questo caso non ha alcuna palatale.

Tuttavia la parola coetus è pronunciata proprio /'četus/ nella tradizione ecclesiastica e non /*'koetus/ o /*ko'etus/, forme inesistenti. Tra l'altro è scritto anche cœtus con il carattere œ e per contro non si trova scritto *coëtus.

Per distrarre l'attenzione da tutto questo, ecco una nuova serie di paralogismi:

1) Mi si attribuisce una cosa falsa e ridicola, che non ho mai sostenuto - ossia la fantomatica pronuncia /*peta/ per poëta nel latino ecclesiastico.

2) Si nasconde ad arte il fatto che in latino poëta si scrive con una dieresi proprio per render chiara la lettura e che in ogni corso anche elementare di latino ecclesiastico gli insegnanti hanno cura di illustrare che si deve sillabare po-è-ta. In realtà è pŏēta, con tanto di e lunga. Per inciso, la stessa dieresi il mio dettrattore la fa saltar fuori come d'incanto quando scrive coëo.

3) Si presuppone la mia totale ignoranza in materia di lingua latina.

4) Poiché la parola poëta non è germogliata in Lazio, ma ha la sua origine nella lingua greca, si presuppone la mia totale ignoranza in materia di lingua greca, dove la sillabazione è chiarissima. 


5) Si vuol far credere che tra la pronuncia ecclesiastica di coetus (con palatale e monottongo) e quella fantomatica di poëta come /*peta/ esista un legame: se uno afferma che la tradizione ecclesiastica prescrive la prima, ecco che di conseguenza afferma anche la seconda. Dato che la seconda proposizione è falsa, si vuol far credere che lo debba esser necesariamente anche la prima.  

Tramite questi passaggi, ecco che mi trovo messo in burletta per una cosa che non è mai stata da me proferita.

Primo scopo di questi passaggi: tramite un errore logico, far apparire la mia argomentazione su coitus e coetus come ridicola e quindi falsa.

Secondo scopo di questi passaggi: suggerire il principio fallace secondo cui se anche solo una cosa che affermo è falsa, lo debbano per necessità essere tutte le altre. Entra cioè in gioco l'errore logico denominato non sequitur, che peggiora l'argomento dell'uomo di paglia. È come se si affermasse: "Il tuttologo da fiera crede di sapere tutto, ma se sbaglia anche soltanto una cosa allora significa che non sa nulla."

Presso un popolo educato secondo i princìpi della Logica queste macchinazioni sarebbero subito individuate e ritenute oltremodo grossolane. Ma questo popolo è quello ben descritto dal film L'italiano medio, e non c'è da sperare tanto.

lunedì 2 febbraio 2015

LAMARCKISMO

Teoria di Lamarck I
Un organo non utilizzato si atrofizza. Osservo la blogosfera, e mi imbatto in sempre più casi in cui quest'organo è il cervello. 


Teoria di Lamarck II
Un organo utilizzato di continuo si ipertrofizza.

Corollario:
Un organo utilizzato a scapito di altri prende il predominio e li soffoca fino a farli sparire.

Anno 2000 dell'Era Blogosferica 
Dell'Umanità in quanto tale non c'è più traccia da lungo tempo. Alcuni extraterrestri passano per la Terra e si domandano quale sia l'origine dei giganteschi genitali deambulanti che saltellano dappertutto. Dalle autopsie fatte su alcuni esemplari abbattuti risulta evidente un residuo di sistema nervoso centrale.

Marco "Antares666" Moretti, dicembre 2008

VENTRILOQUI 

La semplice attribuzione di un nick e di un avatar è il primo passo verso lo sprofondamento in un mondo percettivo di grande inconsistenza. Nome e immagine possono costituire un sinistro binomio capace di portare allo scoperto debolezze inconfessabili e pazzie latenti. Il processo è favorito dalla natura anarcoide della Rete e dall’illusione di non tracciabilità, che spesso basta a trasformare l’utente in un primitivo, concentrato esplosivo di rancore e di pulsioni belluine. Varie tipologie di disturbatori erano già ben note anche nell’epoca pre-splinderiana. Chi non ricorda i pestilenziali troll che infestavano i gruppi di Yahoo? Con il potenziarsi dei mezzi espressivi offerti, anche le possibilità di costruire personalità fittizie a scopi offensivi si è naturalmente evoluta, generando un nuovo personaggio: il sockpuppet. La parola trae origine dalla denominazione inglese del pupazzo usato dai ventriloqui per i loro spettacoli, che in origine era confezionato con una semplice calza. La sezione italiana della Wikipedia ne dà la seguente definizione: 

Il termine sockpuppet (proveniente dalla lingua inglese, la cui traduzione letterale è calzino fantoccio) nel gergo di internet, si riferisce ad un account aggiuntivo creato da un membro già iscritto ad una comunità di Internet. Un particolare tipo di sockpuppet è il cosiddetto "uomo di paglia" (dall'inglese straw man sockpuppet), creato da utenti che, avendo un certo punto di vista su un argomento, si comportano ad arte come se ne avessero uno diametralmente opposto, per ottenere lo scopo di far apparire quest'ultimo come sbagliato e cattivo. Spesso questi utenti fanno esprimere ai loro finti oppositori argomenti particolarmente deboli, in modo da poterli controbattere e facilmente confutare. Il sockpuppet diventa così la personificazione degli argomenti dell'uomo di paglia, il quale finisce per apparire, a seconda dei casi, stupido, disinformato, bigotto, settario, prepotente. Il risultato finale è quello di creare una sorta di rumore di fondo che rende incomprensibile e oscuro il dibattito, fino a poter impedire del tutto un serio dialogo dei punti di vista.  

Definizione tecnica e riduttiva, che non rende bene l’idea del fenomeno e del ruolo che ha assunto nel contesto blogosferico. La proprietà peculiare di questo tipo di troll è infatti la graduale separazione schizofrenica tra i suoi diversi nick, fantasmi pur generati con semplici operazioni compiute dallo stesso individuo nella stessa vita reale. Una volta data la conferma della creazione di un account alternativo, ecco che un’entità compiuta prende lentamente sostanza, germoglia fino ad assumere una personalità anche complessa. A un certo punto, mirabile dictu, il sockpuppet non sa resistere: le molteplici personalità da lui generate cominciano a parlare tra di loro come se fossero esseri del tutto distinti! Simulando vite reali del tutto differenti, si incitano a vicenda nell’assaltare un nemico o nel lodare le doti amatorie di un partner, si insultano con acrimonia, si attribuiscono addirittura soprannomi nuovi da cui possono nascere ulteriori personaggi. La metamorfosi si è completata, il Demiurgo dell’Homo Cyberneticus presenta il suo nuovo modello di splendore antropoide.

Ombra e cenere.

sabato 31 gennaio 2015


CONTRATTO PER UCCIDERE

TITOLO ORIGINALE: The Killers
     (Ernest Hemingway's The Killers)
REGIA: Don SIEGEL
PRODUZIONE: U.S.A.
ANNO: 1964
GENERE: Drammatico, thriller, noir, poliziesco
DURATA: 90'

INTERPRETI E PERSONAGGI:
 Lee Marvin: Charlie Strom
 Angie Dickinson: Sheila Farr 
 John Cassavetes: Johnny North 
 Clu Gulager: Lee
 Claude Akins: Earl Sylvester
 Norman Fell: Mickey Farmer
 Ronald Reagan: Jack Browning
 Virginia Christine: Miss Watson
 Don Haggerty: Postino
 Robert Phillips: George Flemming
 Kathleen O'Malley: Maggiordomo
 Ted Jacques: Assistente ginnico
 Jimmy Joyce: Commesso
 Davis Roberts: Maitre D'
 Seymour Cassel

SCENEGGIATURA: Gene L. Coon
     (da un racconto di Ernest Hemingway)
FOTOGRAFIA: Richard L. Rawlings
SCENOGRAFIA: Frank Arrigo, George B. Chan
MONTAGGIO: Richard Beling
COSTUMI: Helen Colvig 
MUSICHE: John Williams

Recensione di 7di9:

Charlie Strom e Lee sono due assassini professionisti. Il loro ultimo contratto prevede l’uccisione di un ex pilota di corse automobilistiche, Johnny North, impersonato da John Cassavettes. Tutto fila liscio. Eppure il killer interpretato da Lee Marvin non riesce a liberarsi di un dubbio che lo assilla: perché la vittima non ha tentato la fuga dinanzi alle canne da fuoco silenziate dei suoi aguzzini? 

Sono queste le premesse di Contratto per uccidere, splendido noir diretto dal regista Don Siegel e ispirato al racconto The Killers di Ernest Hemingway, nonché remake di The Killers, film diretto nel 1943 da Robert Siodmak e sempre ispirato all’opera dello scrittore statunitense. 

I due assassini sono creature spietate, fredde. La scena iniziale li relega immediatamente, senza possibilità di appello, nel girone dei criminali incalliti; Charlie Strom e Lee sono due portatori di morte immuni a qualunque morale, guidati dal solo istinto omicida e dalla prospettiva del guadagno. Fino alla loro ultima missione. 

Il film venne commissionato dalla rete televisiva NBC. Giudicato troppo violento per il piccolo schermo, fu successivamente distribuito nella sale con il titolo di Ernest Hemingway’s The Killers

Considerazioni: 

Aggiungo all'intervento di 7di9 alcune note, soprattutto di carattere antropologico.

La luce e le falene

Il microcosmo del gangsterismo è come un abisso di oscurità assoluta in cui spicca subito ogni sorgente di luce, per quanto fievole possa essere. Così la donna bellissima e fascinosa è come un lampione che attira a sé nugoli di falene, condannandole presto all'impazzimento e alla morte. Per questi insetti l'unica possibilità di salvezza sarebbe fuggire lontano dalla luce e rintanarsi negli anfratti più tenebrosi. Invece cadono nell'inganno, si ammassano attorno al lume e vengono divorati dai pipistrelli. Eppure non c'è speranza nemmeno per chi comprende la natura della trappola luminosa, se ha la disgrazia di aver a che fare con qualcuno che ne è stato attratto!   

La Mantide

Non bisogna lasciarsi ingannare dall'aspetto esile e delicato della maliarda, che è una terribile predatrice. Il pilota si ritiene forte e virile, così si avvicina a lei per avere contatto col suo corpo vellutato. Un contatto che crede salvifico. Le conseguenze di questo errore di valutazione sono fatali e non tardano a manifestarsi: l'amata non è affatto un oggetto di conquista, come il volgo stoltamente crede. Non appena ha intrappolato la sua preda, la blocca e la dilania, la squarcia, ne beve l'anima e ne causa l'annientamento.   

Un caso di sospetta censura

Nel finale vediamo che il killer più anziano, magistralmente interpretato da Lee Marvin, prima di spirare spara e abbatte la bellissima pupa piantandole un proiettile nel cranio. La pistola ha il silenziatore. Si sente solo che lei cade, ma la sua morte non viene ripresa, è fuori campo. Uno spreco assurdo, direi. Ricordo una sequenza simile in un telefilm italiano con Giuliano Gemma, in cui una pornodiva bionda veniva fulminata da un colpo in testa, sparato da un'arma col silenziatore. Si vedeva cadere a terra la donna, morta all'istante. La cosa aveva un effetto straniante, lasciava attoniti. Non c'è nulla di più assurdo e sorprendente di un passaggio improvviso e imprevedibile dalla vita all'assenza di vita. Perché dunque nel film di Don Siegel non si vede nulla? Posso supporre che sia stata la censura a tagliare quei fotogrammi, ritenuti troppo traumatizzanti e conturbanti.

Gangster, pupe e sodomia

Non ci sono dubbi. Emerge la natura sodomitica dei due killer. Ovviamente alla cosa non si poteva alludere a quei tempi, ma sembra che sia una conclusione abbastanza ovvia. Tutto il film è pervaso dall'omosessualità, anche se non viene mai menzionata in modo esplicito. Nel contesto malavitoso era una cosa che doveva essere tenuta nascosta, ma neanche il pubblico ne voleva sentir parlare. Ecco la mia analisi. Sylvester è un omosessuale passivo, che sognava di fellare il pilota, rimanendo annichilito quando il suo oggetto del desiderio si è perso dietro alla splendida pupa. L'odio di Sylvester verso le pupe è fortissimo e misto a gelosia. Non che l'avversione misogina dei due sicari sia minore.

Feticismo dei piedi nel '64

In una scena il pilota accarezza un piede alla sua amante. Strano che i censori incaricati di applicare il Codice Hays non si siano accorti di questo dettaglio pruriginoso. Sono convinto che questo contatto tra l'uomo e la donna non sia affatto qualcosa di casuale. Siegel ha studiato tutto nei minimi particolari. Voleva che lo spettatore venisse a conoscenza della natura della maliarda, che è una dominatrice. L'uomo la adora. Le tributa onori divini perché la propria essenza è stata svuotata dall'interno. Egli sopravvive come un mero simulacro. Soltanto la donna dà senso alla sua esistenza. Proprio come l'eroina dà senso all'esistenza di un tossicomane. Poi all'improvviso la droga gli viene portata via ed ecco che il nero Drago della Disperazione spalanca le proprie fauci per divorarlo!