sabato 16 maggio 2015

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULL'ETIMOLOGIA DI CANNETO DI CARONIA

Si è appurato che i fuochi che divampavano a Canneto di Caronia, in Sicilia, erano un imbroglio ovvero il prodotto delle macchinazioni e degli artifizi di un sofisticato piromane. Per molto tempo il fenomeno ha tenuto in scacco la comunità scientifica, al punto che molti vedevano con favore una spiegazione soprannaturale. In particolare si segnala l'opinione di padre Gabriele Amorth, che attribuiva gli incendi alla supposta abitudine dei paesani di partecipare a riti satanici. Se la memoria non m'inganna, a parer suo le offerte di pane con mandorle seguendo un antico rito pagano sarebbero state in grado di materializzare dal nulla lingue di fuoco infernale. Alla luce dei fatti, simili affermazioni si sono rivelate inconsistenti. Resta in ogni caso una singolare coincidenza etimologica che non mi era sfuggita già all'epoca.

Così scrivevo qualche anno fa (10/11/2007) sul blog Esilio a Mordor:

L'inquietante fenomeno dei incendi spontanei occorsi a Caronia ha fatto strepitare giornalisti, scienziati ed esorcisti. Nessuno sembra però aver notato un fatto singolare: il nome Caronia è di origine greca e significa senza dubbio LUOGO DI CARONTE. Dovrebbe così essere chiaro a tutti che già nell'antichità quel sito era ritenuto un ingresso del Mondo Infero. Riporto la definizione del termine, tratta da un ottimo dizionario online

Chârôn-ios (later Chârôn-eios), on, A. of or belonging to Charon: hence, 1. Ch. thyra the gate through which criminals were led to execution, Zen. 6.41, Suid.; also Charônion, to, Poll. 8.102, Hsch. 2. Ch. klimakes, a staircase in the theatre, leading up to the stage as if from the underworld, by which ghosts entered, Poll. 4.132. 3. charônia, ta, caverns filled with mephitic vapours, being looked on as entrances to the nether world, Str. 12.8.17; sg., Id. 14.1.11,44: charônêïa, prob. in Aret. SA1.7; in full, charôneia barathra Gal. 17 (1).10; ch. chôria Id. 15.117.

Si sorvoli sulle fittissime citazioni di autori, non sono necessarie per la comprensione del concetto. Riporto una traduzione per chi non conoscesse l'inglese:

Chârôn-ios (tardo Chârôn-eios), -on, A. appartenente a Caronte: da cui, 1. Ch. thyra, il cancello attraverso il quale i criminali erano condotti all'esecuzione, Zen. 6.41, Suid.; anche Charônion, to, Poll.8.102, Hsch. 2. Ch. klimakes, una scala nel teatro, che conduce al palcoscenico come se salisse dal mondo infero, attraverso la quale fanno il loro ingresso i fantasmi, Poll. 4.132. 3. charônia, ta, caverne piene di vapori mefitici, viste come l'entrata del mondo infero, Str. 12.8.17; sg., Id. 14.1.11,44: charônêïa, prob. in Aret. SA1.7; in forma completa, charôneia barathra Gal. 17 (1).10; ch. chôria Id. 15.117. 

CHARONEIA BARATHRA significa ABISSI DI CARONTE. 

domenica 10 maggio 2015


LA MOSTRA DELLE ATROCITÀ
di James G. Ballard
Recensione di 7di9

Pubblicato in Italia nel 1992, e quindi con notevole ritardo rispetto all'anno di uscita dell'edizione originale risalente al 1969, La mostra delle atrocità è una conferma dell'intento profondamente analitico di cui è portavoce James G. Ballard, autore forse tra i più rappresentativi di quel filone letterario fantascientifico che predilige l’analisi sociologica dell’interazione tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda alla mera creazione di mondi alternativi rispetto alla normalità, alieni.
Il romanzo è diviso in quindici capitoli, ciascuno composto da varie sezioni, più un’appendice, costituita da cinque racconti, e aggiunta dall’autore successivamente alla pubblicazione della prima edizione. Ogni capitolo può essere letto come un racconto a sé stante, essendo l'intero romanzo un puzzle di frammenti tra loro incastrati e legati, nonostante la specifica e relativa autonomia che distingue i singoli passi. Come frattali, i passi sviluppano tematiche che possono essere rintracciate con continuità in tutto il romanzo. La mostra delle atrocità è principalmente – ma non esclusivamente – la storia di un uomo, il cui nome varia in ogni capitolo, anche se mantiene la T iniziale (Travis, Talbot… Molteplicità che rappresenta le diverse fasi del suo io) e del suo rapporto con la realtà,vista in particolare in quei elementi che in un qualche modo sono connessi alla sessualità e al modo in cui essa viene alterata dagli eventi, biologici e non – in particolare massmediatici – che la investono.
Ma La mostra delle atrocità non è una semplice opera di fantasia. E’ anche, e potremmo dire soprattutto, un romanzo tendenzialmente autobiografico. Come simbionti, i ricordi e l'esperienza biografica di Ballard si mescolano al plot, alternandosi in maniera omogenea al flusso narrativo,creando un'interessante ed equilibrato – e volutamente fuorviante – effetto di estraneità. L'autore sembra quasi voler ricoprire due ruoli: interprete del proprio processo creativo – e quindi non solo scrittore, ma anche esegeta del proprio testo – e allo stesso tempo reale protagonista della storia, “anima” nascosta dietro le maschere indossate dai vari personaggi che la popolano. Ne emerge una lettura estremamente complessa, stratificata. Di fatto fortemente coinvolgente, poiché soddisfa, per mezzo del suo carico di note esplicative e spiegazioni – scientificamente fondate o del tutto inventate – la profonda curiosità, spesso latente, di chi legge.
Ballard sembra quasi voler divenire egli stesso cavia della sua tesi sociologica. Voler dimostrare come la psiche del cittadino moderno – e in particolare la sfera riguardante le sue pulsioni sessuali 1 – sia ormai divenuta un'estensione della società circostante, dei media, della tecnologia, del parco giochi costituito da quella che è l’attuale (del suo tempo come del nostro) società postindustriale. Per supportare questa prospettiva, Ballard viviseziona la propria personalità attraverso un’attenta e minuziosa autopsia dei personaggi del romanzo, elencando, come in una dettagliatissima cartella clinica, l'insieme dei processi psicologici e associativi che lo hanno portato alla stesura delle varie parti della storia, spesso anche facendo ricorso a veri e propri interventi di autoanalisi, ora puramente letteraria, ora invece psichiatrica. L'autore si fa rappresentante di quella stessa realtà sociale che ha deciso di analizzare, come in un processo di identificazione tra paziente e medico.
In generale, il romanzo può essere analizzato attraverso l'enucleazione di tre elementi fondamentali: la memoria dell'autore (nella quale è bene far confluire anche il carico delle variabili esterne: le vite private dei personaggi dello spettacolo che ne hanno influenzato l’immaginario sessuale e non, i fenomeni mediatici ecc.), il processo creativo (apparentemente unico spazio veramente libero concesso a chi scrive: a chi vive?) e il romanzo stesso, l'ibrido finale scaturente dalla fusione dei primi due elementi, “mostra delle atrocità” della quale si è in fin dei conti semplici spettatori e protagonisti solo parziali.
Da un punto di vista della storia della letteratura, appare evidente come l'intero percorso di costruzione del romanzo di Ballard costituisca una cesura rispetto ai canoni del romanzo dei primi anni del novecento, il cosiddetto romanzo moderno, la cui linearità e chiarezza diegetica lo differenziano radicalmente dall'estetica postmoderna abilmente sublimata ne La mostra delle atrocità. Non più la semplice narrazione, l'invenzione fine a se stessa, ma anche, e soprattutto,l'indagine attenta, vera – o almeno verosimile – dei processi che conducono alla creazione, alla selezione delle componenti “altre” rispetto al processo meramente letterario – stimoli biografici, curiosità, eventi storici, sapere tecnico e così via – che per mezzo della penna dello scrittore confluiscono in maniera voluta e tangibile nella sua psiche. Se in sintesi è questo il nucleo della poetica postmoderna, allora La mostra delle atrocità ne è un illustre ed esemplare rappresentante. A tal proposito però, è necessario un distinguo nell'analisi del confronto tra l'opera di Ballard e l'antro letterario dal quale questa è emersa. Se infatti il citazionismo (sia letterario che di altra natura) si pone come ingranaggio centrale delle letteratura definita dal postmodernismo, nel romanzo di Ballard esso supera il suo significato stretto, divenendo dichiarazione espressa, dunque esso stesso romanzo, oltre che strumento di sovrapposizione tra la vita dell'autore e il plot, tra le impressioni –spesso contingenti e slacciate da quello che potrebbe costituire un unicum letterario – e le necessità strutturali della narrazione. 2
Lo stile di Ballard è impeccabile. La prosa risulta fluida, di altissimo livello, elegante, sia da un punto di vista strettamente sintattico che di gestione del periodo. L'autore, inoltre, attingendo dalla sua esperienza di studente di medicina, ricorre spesso all'uso di termini appartenenti a questo specifico campo del sapere. Nel pieno rispetto della tesi sopra sostenuta, avviene che la scrittura risulta irrimediabilmente contaminata dalla cultura personale dello scrittore, dalla sua stessa vita,che è messa a nudo nella sua totalità. La scelta stilistica descritta appare pienamente condivisibile, anche alla luce dell'intento decostruttivo del romanzo stesso: le architetture, i corpi, sono sezionati nelle loro componenti di base, quasi fossero oggetti da laboratorio, vittime di un intervento di chirurgia sintattica, oltre che riflessiva. Ballard pone sotto il suo sguardo attento – ma sempre soggettivo – la complessità del mondo che lo circonda, nel quale vive, decostruendola attraverso un sistema che potrebbe risultare paradossale: il caos letterario, che nella sua pur (illusoria) non-linearità, costituisce concretamente un museo di quella che è la realtà attuale, una mostra di efferatezze “alla quale i pazienti” non sono stati invitati e che presenta “un segno inquietante: tutti i temi” insistono “sul tema della catastrofe planetaria”. 3 

1 Scrive William S. Burroughs nella prefazione al romanzo "[...] le radici non sessuali della sessualità".  
2 Esempio pregevole di questo tipo di letteratura è dato certamente da Thomas Pynchon, manipolatore colto del genere del pastiche e della contaminazione, degli stili letterari così come dei vari settori del sapere.
3 Citazioni tratte del primo capitolo del romanzo, intitolato La mostra delle atrocità

LA PROMESSA DELL'ASSASSINO 

Titolo originale: Eastern Promises
Paese di produzione: USA, UK, Canada
Anno: 2007
Durata: 100 min
Colore: colore
Audio: sonoro
Genere: thriller
Regia: David Cronenberg
Sceneggiatura: Steven Knight
Distribuzione (Italia): Eagle Pictures
Fotografia: Peter Suschitzky
Montaggio: Ronald Sanders
Musiche: Howard Shore
Scenografia: Carol Spier
Costumi: Denise Cronenberg
Trucco: Stephan Dupuis

Interpreti e personaggi

Viggo Mortensen: Nikolai Luzhin
Naomi Watts: Anna Khitrova
Vincent Cassel: Kirill
Armin Mueller-Stahl: Semyon
Sinéad Cusack: Helen
Donald Sumpter: Yuri
Jerzy Skolimowski: Stepan
Josef Altin: Ekrem
Mina E. Mina: Azim
Aleksandar Mikic: Soyka
Sarah-Jeanne Labrosse: Tatiana
Lalita Ahmed: Cliente
Badi Uzzaman: Farmacista
Raza Jaffrey: Dottor Aziz

Doppiatori italiani

Pino Insegno: Nikolai Luzhin
Barbara De Bortoli: Anna Khitrova
Riccardo Rossi: Kirill
Franco Zucca: Seymon
Aurora Cancian: Helen
Sandro Iovino: Yuri
Dario Penne: Stepan
Flavio Aquilone: Ekrem
Carlo Reali: Azim
Michele D'Anca: Soyka
Giulia Tarquini: Tatiana

Riporto una magistrale recensione di 7di9, pubblicata all'epoca su Real Dark Dream e a fatica sottratta all'Oblio:

Dopo il convincente A History of Violence, La Promessa dell’Assassino segna il ritorno del regista canadese David Cronenberg al genere noir.
Ambientato in una Londra piovosa e grigia, l’ultimo parto del padre della “nuova carne” è un thriller dalla trama piuttosto semplice, lineare, ma che riesce ad imporsi con tensione visiva e grande eleganza registica grazie a diversi fattori, primo tra tutti la notevole interpretazione del cast attoriale, dal quale emerge con possanza il camaleontico Viggo Mortensen, già protagonista del precedente lavoro di Cronenberg, A History of Violence, e che come in quest’ultimo veste i panni di una personaggio ambiguo, dai contorni morali indefiniti e difficilmente codificabili. Tra gli altri interpreti, è d’obbligo evidenziare Vincent Cassel, perfettamente a suo agio nel ruolo di un mafioso un po’ toccato e dalle scelte avventate; Naomi Watts, la cui sensualità traspare da ogni fotogramma, anche nei momenti di maggiore statica; e il bravissimo Armin Mueller-Stahl, veterano della settima arte capace di dare vita ad un boss della mala tra i più convincenti visti al cinema negli ultimi anni.
David Cronenberg, sin dalle sue prime opere, ha segnato il mondo del cinema con i suoi horror per nulla convenzionali, giocati sul rapporto tra normalità ed infezione, nel senso di contaminazione del vivere quotidiano, di decostruzione della realtà così come convenzionalmente percepita. La sua poetica è spesso attraversata dal concetto del doppio: a cominciare dal dittico Il demone sotto la pelle / Rabid - Sete di sangue, che analizza gli effetti causati dall’introduzione di una variabile virulenta nel tessuto della quotidianità, capace di toccare le corde più basse – e primitive – della natura umana; il duo filmico Scanners / La Zona Morta, strumento di analisi della sete di potere dell’uomo, quando amplificata e deformata da forze di origine sovrumana; Inseparabili (probabilmente il suo capolavoro), storia di due gemelli legati dalla carne e dalla psiche, condannati a condividere gioie, scelte e sofferenza in un inestricabile sistema vitale di alimentazione biunivoca; eXistenZ, film di fantascienza intessuto sulla contrapposizione tra ciò che è ritenuto reale e ciò che invece è considerato virtuale, e sull’ambiguità del concetto di verità ; e infine proprio l’opera gemellare “illegittima” costituita da A History of Violence e da La Promessa dell’Assassino.
Storia sulla disintegrazione del sogno americano il primo, con il suo messaggio anti-mediatico e per nulla rassicurante, La Promessa dell’Assassino è invece un noir puro, la storia di un mistero metropolitano.
Anna, levatrice in un ospedale di Londra, dopo aver assistito alla morte post-parto di una giovane quattordicenne, ritrova tra gli effetti personali della stessa un diario, scritto in russo. Con l’aiuto di un suo zio originario della Russia – ed ex membro del KGB, il servizio segreto sovietico – ne tradurrà le pagine, scoprendo un intrico di relazioni torbide ed inquietanti tra gli ambienti della mafia russa e il mondo della prostituzione.
Lo script è di buona fattura, anche se pecca sul versante psicologico, lasciando in ombra la personalità e il background di molti personaggi, primo tra tutti del “becchino” Nikolai. Un altro difetto della sceneggiatura, questa volta relativo alla costruzione dell’intreccio, riguarda la risoluzione dei principali snodi narrativi della trama, la quale in alcuni tratti appare piuttosto forzata, quasi un’applicazione frettolosa e sbrigativa della tecnica del deus ex machina. È evidente, sin dalle prime fasi del film, come il regista non abbia voluto porre l’accento sulla complessità del plot o sul suo intreccio, quanto invece sullo scorrere inesorabile e oscuro della staticità del quotidiano verso mondi nascosti dietro anche il più insignificante e insospettabile degli eventi. Nonostante questo però, Steven Knight, dopo la pregevole prova offerta con la sceneggiatura di Piccoli affari sporchi – per la regia di Stephen Frears – si dimostra comunque ancora una volta perfettamente a suo agio tra i sentieri sotterranei e fumosi di una Londra che nasconde più di quanto mostra, regalando al pubblico una narrazione efficace e sostenuta da un cast in stato di grazia.
Il nero, il grigio e il rosso sono i colori predominanti della pellicola. Il rosso del sangue – che scorre, ma che non eccede in quantità , e che per questo si fa strumento, evitando l’esagerazione, l’ipertrofia – il nero degli abiti, e infine il grigio, dell’ambiente londinese così come dei tatuaggi, i quali si pongono come veicolo metacinematografico di narrazione, ponte comunicativo atipico che lega – ma spesso allontana – i personaggi della storia.
Altro elemento visivo che caratterizza e che definisce La Promessa dell’Assassino è costituito dalla fisicità. A tal proposito, risulta perfetta ed emblematica la scena di nudo integrale di Viggo Mortensen, nei panni di un faccendiere della mafia, costretto ad affrontare due sicari della criminalità russa mentre si trova all’interno di un bagno turco. La scena, girata senza alcun accompagnamento musicale, è la sublime dimostrazione di due elementi: la bravura indiscussa di un attore, Viggo Mortensen, in grado di “parlare” con la sola mimica del viso, con il movimento del corpo, con il sangue, e di un regista, che in pochi minuti riesce a regalare un climax narrativo che coinvolge la mente, per l’eleganza registica; le viscere, per la truculenza del combattimento e i rumori naturali prodotti dall’impatto dei corpi; e i sensi, per la sensualità perversa e trascinante capaci di imporsi con un movimento di macchina che in apparenza indugia esclusivamente su Viggo Mortensen, ma che in realtà è pura e semplice adorazione dell’estetica cinematografica e del “vero” rivelato attraverso lo scontro delle carni. Quello di Cronenberg è l’atto d’amore di un cultore della contaminazione – dei corpi, dei mondi – che diviene mezzo di trasmissione che trascende il limite comunicativo dell’arte fine a se stessa, e che si pone come unico punto di contatto tra la percezione addomesticata dello spettatore medio e il nucleo stesso dell’umano.
La Promessa dell’Assassino è un capolavoro del cinema moderno, la conferma della grandezza artistica di un regista in continua evoluzione – come i protagonisti delle sue storie – perfettamente a suo agio con la cinematografia mainstream, ma sempre fedele alle coordinate della propria poetica. Un regista capace di dirigere ottimamente un cast multietnico, di far convivere un numero enorme di sensibilità e stili recitativi, e a un tempo di sostenere con mestiere il fardello della coerenza artistica, della rappresentazione della propria visione del cinema, senza compromessi di alcun tipo: solo espressione, immagine, nuda e cruda. 

Considerazioni: 
Aggiungo all'intervento di 7di9 alcune note, soprattutto di carattere antropologico, su questa cupissima pellicola, il cui effetto è quello di un pugno nel plesso solare.

La mafia russa e la sodomia

L'intero film è pervaso dall'odio mafioso verso i sodomiti passivi. Sarebbe troppo banale parlare di "omofobia", come si fa in quest'epoca. Non si tratta infatti di una fobia, ossia di una paura. Si tratta invece di volontà di torturare e annientare una vittima, definita in base a feroci tabù tribali. In un simile ecosistema criminale l'omosessuale che subisce penetrazione nel retto non ha diritto di esistere: se viene trovato non ha pace nemmeno da morto, il suo cadavere viene mutilato e lasciato senza sepoltura. Viene cosparso di sputi e ingiuriato. Eppure lo stupro sodomitico è una forma ritualizzata di punizione nei confronti di chi ha infranto la legge. John Carpenter ha dato la più acuta definizione di demone: "un essere che esiste al solo scopo di infliggere dolore e morte a qualcuno". Queste cose sono troppo orribili per la futile società odierna, che cerca di rimuoverle blaterando di "paura".   

Le origini della mafia russa

Pochi sanno che la mafia russa ha le sue radici nella camorra napoletana. Nel corso della guerra di Crimea (1853 - 1856) accadde che alcuni prigionieri russi vennero in contatto con camorristi campani che li iniziarono ai propri riti e trasmisero tra le altre cose la costumanza dei tatuaggi, destinata a subire un'evoluzione propria nel corso dei decenni. La conoscenza di questa origine camorrista viene in qualche modo ostacolata dal Web: sono numerosi i siti che attribuiscono ai tatuaggi criminali russi una genesi diversa, ad opera dei marinai inglesi nel primo dopoguerra. I sostenitori dell'origine inglese non sono tuttavia in grado di spiegare la natura esoterica dei simboli. Nel film di Cronenberg è mostrata l'iniziazione del killer russo al rango di Padrino: gli vengono tatuate sul corpo alcune stelle nere, simbolo del suo potere demoniaco. Queste opere d'arte corporea gli sono praticate con un'apposita penna, mentre ai carcerati va molto peggio, essendo i loro corpi decorati con una mistura di orina, cenere e gomma bruciata, in condizioni non precisamente asettiche. A qualcuno va male e si becca una cancrena.

Il linguaggio dei tatuaggi

Nella mafia russa gli elaborati tatuaggi degli affiliati esprimono concetti anche molto complessi. Costituiscono un vera e propria selva di simbolismi, una forma di codice comunicativo non verbale. Si potrebbe dire che riassumano per sommi capi l'intera storia del soggetto che li porta. Quando un uomo viene incarcerato in Russia, subito i suoi compagni di cella, che sono lì da più tempo, gli chiedono di mostrare i propri tatuaggi. Se ne possiede, esaminano ogni dettaglio, quindi gli domandano: "I tatuaggi dicono il vero su di te?" Si informano con cura sul suo curriculum criminale. Se dovesse emergere che il carcerato in questione è solo uno sbruffone che si è fatto tatuare senza averne il diritto, gli abradono ogni lembo di pelle tatuata servendosi di cocci di vetro, di carta vetrata o di coltelli. Colui che copia i tatuaggi altrui viene punito con la morte.

Razzismo sovietico

La protagonista ha un'accesa discussione col padre, un vecchio russo tutto d'un pezzo ed estremamente testardo, che millanta l'appartenenza al KGB. La donna, avendo avuto un aborto dal suo precedente compagno, si sente rivolgere dal genitore una sanguinosa accusa: la gravidanza non è andata a buon fine perché il seme di un uomo non russo non sarebbe mai potuto attecchire nell'utero di una donna russa. Come se russi e non russi fossero due specie diverse, separate da un abisso di differenze genetiche incolmabili. Come se l'unione tra una donna russa e un uomo non russo fosse un atto di bestialità, simile al sesso con un animale. E non è forse questa una forma di feroce razzismo?       

Sequenze memorabili

La ragazza incinta che perde sangue in una farmacia, irritando il gerente che la crede una tossicomane; il momento in cui si scopre che il vecchio boss ha un bordello privato in cui le prostitute sono ragazzine, e lo frequenta assiduamente; il killer costretto dal figlio del boss a possedere carnalmente da tergo una giovane prostituta ucraina, per dimostrare di non essere un sodomita; il cadavere di un gangster rivale, sputato dal figlio del boss e apostrofato come "pederast!", prima di essere gettato in un canale.

sabato 9 maggio 2015

RAY BRADBURY E UN SINGOLARE REFUSO

Avevano la macchina; ne avevano due, anzi, di quelle macchine. Una ti scivolava dentro lo stomaco come un cobra nero che si cali in un pozzo echeggiante alla ricerca di tutta l'antica acqua, di tutto il tempo vetusto che vi si sono accumulati. Assorbiva la sostanza verde che rifluiva alla superficie in un pacato ribollimento. Beveva anche la tenebra? Succhiava anche tutti i veleni accumulatisi con gli anni? Assorbiva in silenzio ogni tanto con un suono d'interna soffocazione e di cieco brancolamento. Aveva un Occhio. L'uomo che, indifferente, regolava la macchina, poteva, calzando uno speciale elmetto ottico, scrutare l'anima della persona ch'egli stava ripompando alla vita. Che cosa vedeva l'Occhio? L'uomo non lo disse. Vedeva, ma non aveva visto ciò che l'Occhio vedeva. L'intera operazione fu non dissimile dallo scavo di una trincea nel proprio giardino dietro casa. La donna sul letto non era che un duro strato di marmo che la zappa e la vanga hanno raggiunto. Avanti, a ogni modo, spingi l'ostacolo più in fondo, fa' rigurgitare alla superficie tutto quel gran vuoto, ammesso che una cosa simile possa venire rigettata fuori nel fremente pulsare del serpente che succhia. L'operatore stava ritto, fumando una sigaretta. Anche l'altra macchina era in funzione. L'altra macchina era manovrata da un individuo altrettanto indifferente, con indosso una tuta color marrone, antimacchia. Questa macchina pompava tutto il sangue dal corpo e lo sostituiva con sangue fresco e siero.

Ray Bradbury - Fahrenheit 451

Il poetico brano, tratto da un notissimo capolavoro dello scrittore di Waukegan, contiene qualcosa di molto strano che non salta subito all'occhio. Ho riportato la frase "La donna sul letto non era che un duro strato di marmo che la zappa e la vanga hanno raggiunto", anche se nella più diffusa edizione italiana del libro (Oscar Mondadori, trad. Giorgio Monicelli) invece sta scritto: "La donna sul tetto non era che un duro strato di marmo che la zappa e la vanga hanno raggiunto". Si capisce che parlare di una donna sul tetto in questo contesto non ha il benché minimo senso: dovrebbe essere chiaro che la signora in questione sta sul letto, in procinto di essere sondata e dializzata. Qual è l'origine di questo assurdo equivoco? Vediamo com'è la frase nell'originale in inglese. Eccola: 

The woman on the bed was no more than a hard stratum of marble that they had reached.

Come volevasi dimostrare. Tutto è molto chiaro. Un tempo i traduttori scrivevano in corsivo, e quando i loro appunti passavano di mano, potevano ingenerarsi fraintendimenti. Così è accaduto che la parola "letto", naturale traduzione dell'inglese "bed", finisse con l'essere letta "tetto" per errore: dovrebbero essere ben noti i processi degenerativi che colpiscono le scritture corsive fin dall'epoca antica, causando la confusione della forma delle singole lettere. Di questo refuso nessuno si è accorto, a dimostrazione della grande attenzione che i correttori e gli editori riservano agli scritti da pubblicare. Presente in una importante traduzione italiana del libro, quella di Monicelli, a quanto pare il refuso non è mai stato corretto. Mi sembra evidente: quando qualcosa viene pubblicato, non è sottoposto a revisioni da un'edizione all'altra, si dà per scontato che tutto vada bene per principio. In quest'epoca è ancora più facile che i refusi si perpetuino come per magia, dato che è sufficiente usare un file già pronto, senza alcuna modifica, per dar vita a una nuova edizione di un libro. I fantascientisti poi non sembrano accorgersi di nulla nemmeno loro: non sono pochi infatti quelli che usano i libri come soprammobili. Quando un libro è ridotto a mero feticcio, quando si ritiene importante conoscere a menadito ogni dettaglio sulle sue varie edizioni (case editrici, traduttori, date, etc.), ma lo si è letto in modo erratico, succedono queste cose. Sia vergogna su questi lettori-feticisti, che si inchinano ad adorare i volumi come idoli dell'Antico Egitto!  

mercoledì 29 aprile 2015


 MERCURIALE SULFUREO-SCATOLOGICO

Autore: Vinicio Motta
Anno: 2013
Pubblicazione: VERDE, n° 19
(mensile elettrocartaceo autoprodotto, a cura di Pierluca D'Antuono e Alda Teodorani)
Link:
http://issuu.com/verderivista/docs/verde_19_def

Un racconto fantascientifico assolutamente unico nel suo genere: è tutto incentrato sulla merda. Il postulato è un'umanità scampata a una tremenda invasione aliena bombardando gli invasori con i propri escrementi. A causa di questo si è instaurata una nuova religione, fondata sull'adorazione delle feci. Nel protagonista cominciano a sorgere preoccupanti processi di dissociazione. Da una parte l'indottrinamento della Chiesa Fecale, dall'altro una consapevolezza sempre più pressante che insinua un tarlo subliminale in forma di mantra eretico: "La merda puzza".

Questo è l'incipit:

"La Merda non la digerisco più bene: mezzo secolo fa, quando la Merda salvò la razza umana, mai avrei immaginato una crisi del genere. Dopo che, grazie a essa, abbiamo sconfitto gli alieni, la Merda io e gli altri abitanti del pianeta abbiamo cominciato a metterla ovunque: nell'ombelico, nel cazzo e nella fica, nel tubetto del dentifricio, in chiesa - la Merda abbiamo dovuto imparare ad amarla."    

Questa è innovazione! Uno scritto rivoluzionario, un contributo fondamentale per spezzare le catene che imprigionano la fantascienza! Mi sembra di vedere centinaia di cultori della Science Fiction storcere il naso e contrarre il volto in espressioni di disgusto. Certo, per decenni i fantascientisti hanno coltivato il sogno di un universo asettico, in cui i corpi sono sistemi chiusi in grado di assimilare il cibo senza espellere nulla. Ecco, l'entropia che hanno cercato di censurare e di bandire ora si ripresenta. Perché una certezza regna sovrana: la merda esiste. Chiunque non  riconosca questo dato di fatto, prima o poi ci dovrà cozzare.  

sabato 25 aprile 2015

TRADUZIONI IN KLINGONIANO: UN ESPERIMENTO FALLIMENTARE

Tempo fa il carissimo amico Lukha Kremo Baroncinij mi ha chiesto se potevo tradurgli nella lingua dei Klingon il seguente testo:  

Anche tu non ne puoi più di fatine, elfi e vampiri che sberluccicano? Anche tu non riconosci più le convention dove prima circolavano vulcaniani e si incrociavano spade laser, e ora sembra di passeggiare per la Terra di Mezzo? Anche a te sorgono impulsi assassini ogni volta che incroci una di queste creature? 

La spilla Kill the Fairy e Once Upon a Bloody Time - A Sci-Fi Manifesto sono per te! 

Un rabbioso Darth Vader che strangola senza pietà un’indifesa Campanellino. Quante volte abbiamo sognato qualcosa del genere? Potrebbe anche essere il tenente Worf che affetta un hobbit a colpi di bat'leth, o Roy Batty che tortura uno qualsiasi dei vampiri di Twilight... 

È con quest’immagine che Franco Brambilla ha voluto illustrare il manifesto in cui Selene Verri esprime l’esasperazione dei fan di fantascienza nei confronti dell’invasione delle icone fantasy nei nostri universi. 

C’è chi ha obiettato che però Darth Vader appartiene a quella che ormai è universalmente riconosciuta molto più come una saga fantasy che fantascientifica, Star Wars. Una realtà che non contestiamo, ma che anzi rafforza il messaggio che vogliamo far passare: questa non è una battaglia contro il genere in sé, ma contro la saturazione della presenza di icone fantasy in un universo che non gli appartiene.

Insomma, non se ne può più. Finché si vedeva qua e là qualche simpatico stregone o qualche eterea ninfea a festival e convention, perché no? Siamo gente ospitale e crediamo nell’incontro fra le culture. Ma ora queste creature hanno invaso e corrotto l’universo fantascientifico, ci stanno portando via il lavoro e gli alieni, e questo non possiamo accettarlo! 

Allora, Darth Vader, pur in un contesto fantasy, resta ben accetto in quanto icona dai tratti fantascientifici: alla fin fine, si tratta pur sempre di un cyborg. E questo noi vogliamo: cyborg, robot, alieni, cloni, astronavi e pianeti che esplodono... Li vogliamo tutti e li vogliamo ora! 

Unisciti anche tu dunque alla nostra battaglia.

Passa al Lato Oscuro: abbiamo i biscottini!

Non avendo dimestichezza con tale conlang, ho trovato nel Web un traduttore automatico che permetteva di tradurre testi anche in klingoniano. Ho pensato così di utilizzarlo per ottenere una prima bozza da sottoporre poi al necessario controllo. Così ho inserito tal quale il testo del Kremo nella finestra del traduttore, ho impostato il passaggio da "italiano" a "Klingon" e ho premuto il tasto "traduci". Questo è il testo che ho ottenuto come output

je ghewmey laH puS fairies, elves 'ej vampires sberluccicano? je convention not ghov nuqDaq wa'DIch vulcans ghom lightsabers 'ej circulating 'ej DaH law' botlh tera' wander? SoHkiller pulse whenever roQ wa' Hub'eghtaHvIS?

DaHoHta' Fairy vISovchu' wa'logh ghaH time-a Bloody Poster sci-fi 'ej SoHvaD! 

rabid darth vader 'e' undefend tink strangles mercilessly. poH 'ar naj vay'? wa' ra'wI' porgh chaq je vaj choS vampires vIvoqHa' luSIjchu' hobbit jI'ovlaHbe' pagh roy batty be'joy' Sogh wo'rIv. 

'oH je poster nuqDaq QeD fiction fans against fantasy icons qaStaHvIS 'u' yot exasperation vIHutlh selene verri illustrate neH franco brambilla 'e' ghItlhvam qar. 

'e' legh 'ach HoSHa'bogh DaH universally ghov je Huch law' latlh rur QeD-fiction fantasy saga, Hov wars SeH darth vader. vaj not qaD 'ach nongtaH reinforces QIn 'e' across vIneH reality qar: may' against genre per se, 'ach against fantasy 'u' icons presence saturation doesn't SeH 'e'.

je ngaj laH pagh vay' nI'qu'. until likable sorcerer 'op Ethereal bIQ lilies yupma' conventions, 'ej pagh legh naDev je pa' lu'? hospitable nuvpu' 'ej Har SabtaHbogh cultures encounter. 'ach DaH yot je QeD fiction 'u' qal roQ, Qap nov je qeng pagh laj!

vaj, darth vader, vabDot fantasy context, majQa' HoSqu'mo' QeD fiction icon 'oH: ultimately, ghotvam'e' cyborg. 'ej 'e' nuq wIneH: cyborgs, qoq, nov, clones, spaceships 'ej yuQmey jor. wIneH 'ej chaH DaH! 

muv DaH may'.Ha' Dop Hurgh cookies wIghaj! 

Davvero notevole. A parte un certo numero di frammenti in inglese e una parola rimasta in italiano - simili a pezzi di cibo non digerito nel vomito - tutto sembrava a posto. D'altronde mi era nota la tendenza dei traduttori automatici ad usare parole inglesi per sopperire alle lacune dei vocabolari, un po' come il DNA di rospo usato in Jurassic Park per rimediare alla frammentazione del corredo genetico dei dinosauri. Con un po' di tempo e di pazienza sarei riuscito a sistemare ogni cosa, magari trovando sinonimi, fino ad ottenere un testo accettabile. Ho provveduto allora ad invertire la traduzione. In un atto di coprofagia intellettuale, ho preso l'output e l'ho reintrodotto come input. Questa è la traduzione in italiano del testo pseudo-klingoniano, eseguita dal servomeccanismo: 

può qualche agitazione fate, elfi e pires in questo sberluccicano? Convenzione ed non riconoscerà mai dove una parte dei Vulcaniani ligtsabers e circolanti e ora sembra essere il mezzo di vagare la terra? pulse sohkiller ogni volta che uno giù la difesa? 

nuova fata dahoh, so che lui è un passo - tempo - sci fi poster sanguinante e a voi! 

rabbioso darth vader adenite undefend I tink senza pietà. quanto tempo per sognare? uno del corpo del leader e forse questa sera allora pires non hobbit fetta di sfiducia o r batty tortura tenente worf. 

è un poster dove i fan della fantascienza contro le icone di fantasia di tristezza insopportabile pervaso l'universo era che questo preciso vihuk selene verri esasperazione solo franco brambilla illustrare.

ma, ho visto che il hosha' ormai universalmente riconosciuto e altri prezzi come una saga fantasy-fantascienza, Star wars darth vader ha appartenuto a. Mi non opporrò mai, ma piuttosto rafforza la vista che la realtà, "voglio essere preciso attraverso la battaglia contro i tag genere: se, ma contro le icone di presenza di saturazione universo fantasy apparteneva a non.e quelli corti o lunghi. fino a qualche simpatico stregone ninfee etereo festival è visto qui e niente, e le convenzioni e la stanza, va bene? la gente è ospitale e l'incontro di culture che credeva. ma ora invadono l'universo della fantascienza e corrotti e Broken down e l'inverno o trasportare alieno!Beh, darth vader anche fantasia contesto, molto buono perché è un'icona della fantascienza: questo in ultima analisi l'uomo cyborg. e cosa ne pensi che vogliamo: Cyborg, robot, astronavi aliene, cloni e il pianeta esplode.

Noi vogliamo e che ora!reclutare ora, la battaglia è finita.Vieni sul lato oscuro dei cookie per andare!

Le nozioni di grammatica Klingon incluse nel traduttore dovevano essere a dir poco grossolane. A questo punto non mi è rimasta altra scelta che lasciar perdere e comunicare al Kremo il fallimento della traduzione: per ottenere qualcosa di decente avrei dovuto studiare a fondo la lingua dei Klingon - impresa in cui non avevo la benché minima intenzione di imbarcarmi.

Le lingue non sono sovrapponibili, questo è un dato di fatto. Non è soltanto una questione di parole e di grammatica. Anche trascurando la presenza di anglismi, se si prendesse il testo di partenza e lo si facesse leggere a un parlante italiano di cent'anni fa, quanto potrebbe capire? Ben poco, non c'è dubbio. Moltissimi concetti gli sarebbero completamente sconosciuti e impenetrabili. Frasi anche stringate come "passare al Lato Oscuro" nascondono in realtà interi universi, sono stenografie concettuali molto complesse. Nel caso specifico, si può tracciare uno spartiacque: la comparsa di Guerre Stellari. Una persona colta vissuta prima dell'era di Star Wars al massimo avrebbe inteso le parole che chiudono il testo come un invito a "vender l'anima al Diavolo in cambio di biscotti" - e non le avrebbe trovate comiche. 

domenica 19 aprile 2015

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA PAROLA ANOCRAZIA

La parola anocrazia (in inglese anocracy) sarebbe stata invece creata dallo storico e fisico statunitense Spencer R. Weart nella sua opera Never at War: Why Democracies Will Not Fight One Another (1998).

"Le anocrazie sono società in cui l’autorità centrale è debole o inesistente. Le relazioni principali sono legami di parentela estesi da alleanze personali con leader in vista. Una società può essere definita uno Stato in teoria, ma se le si attagliano i caratteri ora descritti, Weart la classifica come anocrazia. Ne sono esempi le società tribali, l’attuale Somalia, le città italiane medievali dove le famiglie influenti si affrontavano in battaglie per strada e vivevano in case fortificate. La cosa importante è che non esiste un’autorità centrale in grado di porre freno alla violenza individuale, di modo che i comportamenti violenti si estendono a parenti e amici in una sequela di vendette e guerre."
(Fonte: borislimpopo.com)

Wikipedia in inglese (11/04/2015) alla voce Anocracy mostra informazioni incompatibili con quelle sopra riportate: 

Use of the word "anocracy" in English dates back to at least 1950, when R. F. C. Hull's reprinted translation of Martin Buber's 1946 work Pfade in Utopia [Paths in Utopia] distinguished "anocracy" (neoclassical compound: akratia) from "anarchy" — "not absence of government but absence of domination"). 

È opinione comune che questa parola sia un adattamento della parola greca che significa "assenza di potere" (ἀκράτεια, meno correttamente ἀκρατία, trascritta akratia). Questo è riportato dal dizionario etimologico di Wikipedia (Wiktionary), che fino a poco fa inseriva nell'etimologia un pietoso punto interrogativo: 

Etymology
Apparently from an- + -ocracy.

Noun
anocracy (plural anocracies)

A political system which is neither fully democratic nor fully autocratic, often being vulnerable to political instability.  

Ebbene, questa etimologia non è proprio possibile, a meno che la parola non sia stata coniata da un idiota. Infatti il prefisso negativo greco è a- prima di consonante e an- prima di vocale. Non esiste e non è mai esistita una variante *ano- nella lingua greca antica o moderna, e neppure nei composti neoclassici derivati a partire da radici elleniche. Un uomo che non crede nell'esistenza di Dio è un ateo, non un anòteo. Una persona che ha perso la capacità di parlare è affetta da afasia, non da anofasia. Una persona che non prova emozioni è affetta da apatia, non da anopatia.  

La vera etimologia della parola anocracy è invece dal latino anus "ano". L'anocrazia implicherebbe concetti come "governo anale" o "governare col culo", e non è escluso che l'invenzione del termine sia da attribuirsi a un ignoto italiano. È significativo che lo stesso Steven Pinker, parlando delle anocrazie nel mondo, non esiti a chiamarle "governi di merda", segno che deve essere consapevole di questa derivazione (Fonte: The Better Angels of Our Nature: Why Violence Has Declined). Si tratta della solita accozzaglia di radici greche e latine mescolate tra loro, cosa sempre più comune di questi tempi. Tuttavia le lingue classiche non sono un'opinione: chi per primo ha suggerito la derivazione di anocracy da akratia aveva una fortissima vergogna nei confronti dell'orifizio anale, rifiutandosi persino di menzionarlo e fabbricando paretimologie fuorvianti, oppure ignorava le basi stesse della lingua greca. 

sabato 18 aprile 2015


IL MISTERO DELLE LUCERTOLE
COPROFAGHE DI GRAN CANARIA 

Tra i nativi di Gran Canaria a quanto pare sussiste un tabù di possibile origine preispanica: è vietato menzionare i costumi coprofagi delle lucertole locali, tra cui la lucertola gigante Gallotia stehlini. Il solo parlarne desta grave scandalo e chiunque voglia indagare sull'argomento si scontra con un impenetrabile muro di omertà. Un'altra tipica reazione consiste nel negare con veemenza l'attribuzione della coprofagia a questi animali. "No es posible!" è una frase spesso ripetuta in occasioni simili. Tuttavia non si tratta di una perversa fantasia: il fenomeno è reale. Riporto la testimonianza di un amico, M., che ha potuto verificare la cosa defecando in un'area della spiaggia e osservando da lontano gli escrementi deposti mentre venivano immediatamente attaccati da un gruppo di lucertole di diverse specie, alcune grosse e altre più piccole, finendo avidamente divorati. Tale è l'ingordigia di questi rettili che fungono da spazzini: per questo non ci si imbatte mai in depositi fecali su tali spiagge, che pure sono frequentate da un gran numero di persone dedite alla sodomia.

Una delle caratteristiche principali di un tabù è proprio l'occultamento di qualcosa. È una forma di "Santa Ignoranza": l'argomento colpito è ritenuto tanto pericoloso che ne viene impedita anche la semplice menzione. Inutile dire che un simile atteggiamento arreca gravi danni a chiunque sia animato da spirito di conoscenza e voglia appurare la realtà delle cose. Altra caratteristica del tabù, non meno importante, è che esso opera su chi lo porta avanti oscurando la propria origine e rendendo impossibile comprenderla. Ecco perché i nativi di Gran Canaria non sanno affatto a cosa sia dovuta questo loro interdetto: il tabù distrugge la sua stessa storia, cancella ogni memoria delle sue origini, proprio perché sottrae l'argomento colpito alla discussione e alla trasmissione di racconti che potrebbero farne comprendere la vera natura. 

La spiegazione dei costumi coprofagi delle lucertole canarie è verosimilmente di origine metabolica: i rettili avrebbero carenze croniche di sali minerali che li spingerebbero a gettarsi sulle feci di altre specie (per ora ho informazioni certe solo su escrementi umani, non è al momento appurato se sia consumato lo sterco di altri vertebrati come i cani). Più difficile dare una spiegazione soddisfacente dell'atteggiamento delle genti locali. In mancanza di informazioni credibili, posso ipotizzare che questi sauri, di dimensioni anche ragguardevoli, ricoprissero un ruolo importante nella religione della popolazione aborigena, e che in qualche modo il tabù sia sopravvissuto alla Conquista e alla successiva colonizzazione. Non ho neanche informazioni sulle altre isole dell'Arcipelago: ad esempio non mi è stato possibile appurare se la situazione sia la stessa anche a Tenerife e a Fuerteventura. Attendo lumi da persone che conoscono le genti delle Isole Fortunate per diretta esperienza. 

Penso che ci sia una certa urgenza nel compiere studi per far luce sull'argomento: le grandi lucertole di Gran Canaria corrono un serio pericolo di estinzione a causa dell'introduzione del serpente reale californiano (Lampropeltis getula californiae), una specie aliena all'ecosistema dell'isola. Questi ofidi di colore bianco sono stati introdotti a causa della dissennata usanza di allevare animali esotici per poi liberarli nell'ambiente alle prime difficoltà. Così è iniziata la pullulazione dei serpenti bianchi, il cui impatto si sta rivelando devastante. Sono stati stanziati fondi per estirpare questa specie aliena, ma gli sforzi non hanno avuto il successo sperato: solo nel 2011 nei municipi infestati di Telde e di Gáldar sono stati distrutti circa 500 serpenti, ma si sa per certo che gli esemplari in libertà sono ormai diverse migliaia. Le lucertole coprofaghe non hanno difese: vengono facilmente predate e ingoiate.  

lunedì 13 aprile 2015

 

UN WESTERN SODOMITICO:
LA TAGLIA È TUA...
L'UOMO L'AMMAZZO IO
 

Titolo originale: La taglia è tua... l'uomo l'ammazzo io
Titoli alternativi: El Puro
Lingua originale: Italiano, spagnolo
Paese di produzione: Italia, Spagna
Anno: 1969
Durata: 90 - 106 min
Colore: Colore
Audio: Mono
Rapporto: 2,35 : 1
Genere: Western
Regia: Edoardo Mulargia
Soggetto:
   Fabrizio Gianni,
   Edoardo Mulargia,
   Fabio Piccioni
Sceneggiatura:
   Fabrizio Gianni,
   Ignacio F. Iquino,
   Edoardo Mulargia,
   Fabio Piccioni
Casa di produzione:
   Filmar Compagnia Cinematografica,
   IFI Producción S.A.
Fotografia:
   Antonio L. Ballesteros,
   Edoardo Mulargia
Montaggio: Vincenzo Vanni
Musiche: Alessandro Alessandroni
Trucco: Gianfranco Mecacci

Interpreti e personaggi:
  Robert Woods: Joe Bishop 'El Puro'
  Aldo Berti: Cassidy 
  Mario Brega: Tim 
  Rosalba Neri: Rosie 
  Fabrizio Gianni: Fernando 
  Maurizio Bonuglia: Dolph 
  Giusva Fioravanti: Antonio 
  Marc Fiorini (Ashborn Hamilton Jr.): Gipsy
  Angelo Dessy: Charlie
  Attilio Dottesio:
Sceriffo
  
  Mariangela Giordano: Babe
  Gustavo Re:
Fernando 
  César Ojinaga: Vicesceriffo
  Fernando Rubio:
Barista

  Lisa Seagram: Proprietaria del saloon  

Doppiatori italiani: 
  Michele Kalamera: Joe Bishop
  Leonardo Severini: Tim
  Luciano Melani: Gipsy


Trama (da dbcult.com):
El Puro, un pistolero rovinato dall’alcool su cui pende una taglia di diecimila dollari, trova rifugio temporaneo in casa della ballerina di un saloon, Rosy, che ha avuto pietà di lui e della sua condizione. A sua insaputa; cinque uomini – Gipsy, Cassidy, Dick, Dolph e Shorty – lo tallonano, per ucciderlo e riscuotere la ricompensa. Seguendo un suo amico, il vecchio Fernando, costoro scoprono il suo nascondiglio, ma quando vi irrompono El Puro non c’è. Incolpato della morte di Rosy – uccisa invece da Gipsy e compagni – il pistolero finisce in carcere, ma Fernando lo libera con un abile stratagemma. El Puro rinuncia all’alcol e, nuovamente capace di usare la pistola, affronta la banda, ridottasi a quattro uomini, poiché Shorty ha preferito andarsene. Avuta la meglio su di loro, si mette in viaggio ma Shorty, appostato lungo il cammino, lo uccide a tradimento: la taglia è sua.
 

Recensione: 

Tra i tanti film western che venivano mandati in onda sulle reti private negli anni '70 questo è decisamente anomalo, in quanto incentrato su rapporti sodomitici e violenti tra uomini. Riporto la descrizione di una scena che fu da me vista quando frequentavo le scuole medie e che mi è rimasta profondamente impressa. 

C'erano due banditi in un bordello. Una prostituta era immobilizzata, legata al suo letto. I banditi volevano costringerla a rivelare un'informazione di vitale importanza, ma la donna non cedeva. Così uno di questi banditi la colpiva in faccia con pugni violentissimi, facendola sanguinare, e infierendo le urlava insulti come "schifosa puttana". Tra un cazzotto e l'altro, i due malviventi si baciavano in bocca. Alla fine, a forza di botte la prostituta moriva, e si capiva che i due malfattori nel vederla spirare raggiungevano il culmine dell'eccitazione. 

Fu la prima volta che venni a conoscenza dell'esistenza dell'omosessualità, per quanto potessi capirne, immaturo com'ero. Non parlo delle checche che si vedevano ogni tanto nelle commedie, ma di atti cruenti tra uomini, che non erano collegati a mancanza di virilità o a desiderio di imitare le donne, ma alla sorgente stessa di una violenza inaudita, di un odio assoluto che si esprimeva proprio contro il genere femminile. 

Mia madre, vedendo quelle scene truculente, decise di chiudere senza ulteriori esitazioni la televisione e mi disse che si trattava di cose orribili, come se non lo capissi da me. Come al solito, quando chiesi il perché, mia madre non fu in grado di darmi una risposta. "Le cose sono così e basta", era il suo ritornello. Del resto, all'epoca mi ero fatto strane idee sui malviventi guardando i film. Per me era del tutto ovvio che quei fuorilegge si baciassero tra loro, perché li ritenevo una specie a parte, biologicamente diversa dal resto dell'umanità. Solo per fare un esempio, credevo fermamente che non mangiassero mai cibi solidi, ma che si sostentassero bevendo unicamente liquori. In ogni caso mia madre non fu abbastanza lesta nell'estinguere l'apparecchio: il riverbero di quelle sequenze rimase in me. 

Film fosco, improntato a un profondo pessimismo cosmico, era di quelli in cui i buoni non riuscivano ad avere la loro rivincita sui malvagi. I banditi erano come onnipotenti, favoriti in ogni loro azione abominevole da una sorta di Cigno Nero, un genio malefico in grado di ostacolare scientemente i perseguitati. Così i malfattori spadroneggiavano. Un bandito entrava in un saloon e sparava al primo poveraccio che trovava a portata di tiro e lo uccideva senza alcun motivo. Le persone oneste morivano come mosche: se nella realtà ci fossero stati simili tassi di mortalità, si sarebbe trattato di un autentico genocidio. Questo filone di film dimenticati, che potremmo chiamare "spaghetti western satanici", destò per la prima volta in me la consapevolezza dell'esistenza di un Potere Maligno che regge l'Universo. 

lunedì 6 aprile 2015

IL QUADRATO MAGICO INCA: UN FALSO DI EPOCA COLONIALE

In ambienti esoterici si parla spesso dei quadrati magici, come il famosissimo SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS, attestato già in epoca romana. Si cita anche un meno noto quadrato magico in lingua Quechua, che sarebbe stato tramandato oralmente. Il testo è il seguente.  

M I C U C
I S U T U
C U Y U C
U T U S I
C U C I M

La traduzione sarebbe: "Un pedicello che mangia l'UTUSI che si dimena è felicità". Sarebbe. Il condizionale è d'obbligo, perché la grammatica del Quechua è completamente disattesa.  

Attorno a questo testo sono fiorite elaborate narrazioni e persino una fiaba peruviana.  


Orbene, è sufficiente una conoscenza anche superficiale del Runa Simi e dell'ortografia ispanica per dimostrare che questo è impossibile. 

Il problema sta infatti nella parola CUCIM, che è presentata come l'opposto di MICUC. L'opposto nell'ortografia ispanica, non nella fonetica Quechua. Questi sono i fatti: 

1) Il termine MICUC sta per MIKHUQ, cioè "che mangia". Le consonanti kh rappresentano un'occlusiva aspirata /kh/, simile al suono presente nell'inglese clockhouse, mentre q rappresenta una forte aspirata uvulare /χ/ in fine parola o seguita da altra consonante, un'occlusiva uvulare /q/ se seguita da vocale. 

2) Il termine CUCIM, che dovrebbe essere l'inverso di MICUC, ha come radice KUSI, ossia "felicità".   

Nei siti che trattano di questo quadrato si insiste sul fatto che la lingua del Tawantinsuyu era rigorosamente orale e che non c'era quindi niente di scritto (anche se i Quipu raccontano un'altra storia). Allora, qualche esoterista potrebbe spiegarmi come sia possibile che invertendo i suoni di MIKHUQ si ottenga KUSIM? Si dovrebbe a rigor di logica ottenere QUKHIM, che non significa nulla. 

Anche ammettendo che l'autore del quadrato usasse un Quechua incapace di distinguere vari fonemi come /k/, /k'/, /kh/, /q/, /q'/, /qh/ e li collassasse tutti in /k/, avremmo dovuto avere /mikuk/ invertito in /kukim/.  

La cosa acquisisce un senso ammettendo che il quadrato sia stato creato in forma scritta e in ortografia ispanica da una persona che non aveva alcuna conoscenza diretta della lingua Quechua. Così avrebbe preso MICUC e invertendo le lettere avrebbe ottenuto CUCIM, che avrebbe pronunciato secondo le regole della lingua castigliana (confondendo però /s/ e la laminodentale /s̪/, oggi interdentale /θ/, fenomeno chiamato seseo*), ottenendone così una parola assonante con il Quechua KUSI. Ecco spiegato il mistero. L'autentica inversione di /mikuk/, ossia /kukim/, sarebbe stata scritta CUQUIM, e la magia del quadrato sarebbe venuta meno.  

*Il seseo è tipico di alcune varietà di spagnolo dell'Andalusia, donde si è esteso dapprima alle Canarie e quindi all'America Latina.  

Veniamo ora all'unica forma nota di scrittura usata in epoca preispanica nel Tawantinsuyu, quella dei nodi chiamati Quipu, dalla parola Quechua khipu "nodo, legatura". È molto probabile che non si trattasse di un semplice sistema di computo, ma di una scrittura sillabica pienamente sviluppata: ogni nodo avrebbe espresso una sillaba. Alcuni manoscritti (Nueva Corónica, Documenti Miccinelli) forniscono prove abbastanza convincenti a questo riguardo. Presso i popoli dotati di scrittura sillabica, la sillaba è l'unità di base, non scomponibile in vocali e consonanti. 

Conclusioni: 

1) Il quadrato non risale a tempi preispanici, ma a un'epoca successiva;
2) I siti che parlano di una sua origine antica fanno disinformazione; 

3) Si tratta di una pataccata.