sabato 22 luglio 2017


LA FIANCÉE DES TÉNÈBRES

Titolo originale: La Fiancée des Ténèbres
Anno: 1945
Paese: Francia
Lingua: Francese
Genere: Drammatico, fantastico 
Regia: Serge de Poligny
Durata: 90 min
  edizione originale: 100 min.
  rielaborata: 88 min.
Sonoro: Mono
Colore: Bianco e nero
Rapporto: 1,37 : 1
Sceneggiatura: Jean Anouilh, Gaston Bonheur, dal
   romanzo di quest'ultimo, La mort ne reçoit que sur
   rendez-vous
(perduto o forse inesistente, vedi nel
   seguito)
Adattamento: Gaston Bonheur
Dialoghi: Gaston Bonheur, Serge de Poligny
Assistente direttore: Jacques de Casembroot,
    Rodolphe Marcilly
Musica: Marcel Mirouze
Produzione: Éclair-Journal 
Ambientazione: Carcassone, Aude
Titoli alternativi:   
   Gespielin der Finsternis (Germania)
   The Bride of Darkness (Inghilterra)
   Nevesta t'my (Russia)
Attori:    
    Pierre Richard-Willm: Roland Samblanca
    Jany Holt: Sylvie
    Fernand Charpin: Fontvieille
    Edouard Delmont: Monsieur Toulzac
    Line Noro: Mademoiselle Perdrières
    Pierre Palau: Il fotografo
    Eloi Gaston: Gabaroche
    Robert Dhéry: L'albergatore di Tournebelle
    Simone Valère: Dominique
    Anne Belval: Marie-Claude
    Paul Demange: L'accordatore di pianoforti
    Julien Maffre: Il giardiniere
    Lily Gréco: Antoinette
    Morgan: La madre
    Marcel Maupi: Il postino
    Jean Diener: Il comandante
    Léonce Corne: Il dottore
    Jean-Pierre Belmon: Tristan (il figlio di
        Samblanca)
    Guy Favieres: Monsieur Delmas
    Morita Aeros: La ballerina spagnola
    Nicole Bely

Trama: 
Il compositore Roland Samblanca fa ritorno alla nativa Carcassonne e mentre in una giornata di sole passeggia tra le guglie del castello, si imbatte in una misteriosa ragazza vestita di nero. È Sylvie, la figlia adottiva dell'ottuagenario Toulzac, un maestro in pensione ridotto su una sedia a rotelle. In realtà Toulzac è l'ultimo Vescovo dei Catari. Egli cerca di far rivivere il Catarismo nella sua città e punta a ritrovare il tesoro nascosto a Montsegur, ossia il Graal pirenaico di cui deliravano Antonin Gadal e Otto Rahn. Sylvie è convinta di essere colpita da una maledizione, perché tutti gli uomini che hanno cercato di amarla sono morti in modo atroce. Finalmente Toulzac riesce nel suo intento: grazie al suo fido servitore, sotto la tomba di un cavaliere viene alla luce una rampa di scale che conduce in un vasto sistema di grotte. Sylvie, inoltratasi nello spazio ctonio, trova un altare di stalattiti con il Santo Graal, ma non riesce ad afferrarlo: il soffitto comincia a rovinare e massi colossali cadono ovunque. A stento Samblanca riesce a salvare la sua amata e la conduce in superficie. Il sole splende sulla coppia, che si inoltra nella campagna, senza più pensare alla caverna ormai inagibile. Sfrenati baccanali sono in corso: è la Festa di Tournebelle. Sembra che tutto proceda verso il lieto fine, quando Sylvie capisce di non aver diritto alcuno alla felicità, perché è una strega concepita tramite il sortilegio. Se cederà alle lusinghe dell'amore, il suo drudo sarà perduto. L'incantesimo viene spezzato e per la ragazza ci saranno soltanto solitudine e disperazione. 


Recensione:
Che piaccia o no, questo è il primo film in tutta la storia del cinema in cui si parla dei Catari e della Conoscenza del Bene (in antico provenzale Entendensa de Be). Non che di pellicole sull'argomento ne esistano a bizzeffe, intendiamoci. Purtroppo già fin dalle scritte introduttive che scorrono all'inizio, si capisce che sono molte le inconsistenze e i pregiudizi. I Catari sono descritti con lo stesso linguaggio ingiurioso usato da Vittorio Messori, come una "setta orientale, fosca e sanguinaria". Forse nessuno tra i sostenitori di queste assurdità ha mai meditato neppure per un istante sul fatto che il Cristianesimo non è nato in Norvegia, ma proprio nel tanto vituperato Oriente, e che Cristo non era un franco o un goto. Le tesi che Serge de Poligny espone nel suo deleterio sunto sono le solite sostenute dai moderni cattolici-belva: un terribile culto della Morte, distrutto dall'intervento dei potenti signori del Nord, considerato provvidenziale. Tecnicamente parlando, il film non è girato male e riesce a trasmettere un'atmosfera tetra molto particolare. Notevoli le inquadrature delle mura turrite di Carcassonne. A quanto pare, l'accoglienza del pubblico e della critica non fu particolarmente favorevole. Si parla di incomprensione generale causata dalla complessità labirintica di uno scenario carico di riferimenti culturali, cosa che alla futile platea degli spettatori dovette apparire insostenibile. Tuttavia va aggiunto che di recente quest'opera è stata molto rivalutata e che le nuove generazioni comprendono meglio il tema dell'irruzione dell'irrazionale nella vita quotidiana.      

Politica e identità occitana

La fiancée des ténèbres riflette il profondo odio contro i Catari imperante nella Francia di Vichy. Fu infatti girato nel 1944, quando il Capo di Stato era Philippe Pétain, anche se uscì nelle sale soltanto il 22 marzo 1945. Secondo alcuni internauti, l'identificazione biunivoca dei Catari con l'identità occitana era il principale problema a quell'epoca. A mio avviso questa è una tesi che non esaurisce la realtà dei fatti e che non tiene conto di motivazioni più profonde. Nonostante l'avversione del regime per la lingua locale, essa emerge qua e là nel film, anche se in nessun caso come lingua viva. Ad esempio si vede nel titolo del Vangelo di Giovanni, un grosso tomo posseduto da Monsieur Toulzac, che reca sul frontespizio il titolo cubitale SAN JAN EVANGELISTO. Non è di certo provenzale antico, come mostra ad esempio la -o finale di Evangelisto (questo mutamento di -a in -o è tipico della lingua nella sua forma moderna). Quando lo stesso Toulzac disquisisce sul favoloso tesoro che cerca affannosamente, cita gli oronimi Montsalvat e Montsalvatge, identificati con Montségur (Montsegur in occitano), e ne pronuncia i nomi correttamente, evitando con cura di francesizzarli. C'è da stupirsi già di queste poche tracce. Com'è noto, la Francia ha una sua radicata tradizione di repressione verso qualsiasi lingua che non sia quella ufficiale. Questa politica non è una questione di partiti, di destra o di sinistra: è qualcosa di stampato a fuoco nel genoma della Repubblica Francese, che continua tuttora. Usando misure incompatibili con l'idea di libertà personale, le istituzioni sono riuscite a estirpare dal territorio nazionale numerosi idiomi un tempo fiorenti. 


Deliri astrali e cripte sacre 

L'errata associazione dei Catari all'astrologia è a dir poco grottesca. Si vede che Toulzac tiene come un cimelio una mappa astrale con i segni dello Zodiaco e sopra lo schema celeste campeggia l'assurda scritta "Consolament Tauri". Una vera e propria assurdità sesquipedale, che dimostra la conoscenza pressoché nulla del regista e dello sceneggiatore. Si può identificare l'origine di questa credenza nella confusione tra Catarismo e Priscillianismo, che pure all'epoca era diffusa. Sappiano infatti che il Vescovo Priscilliano di Avila credeva che il moto delle stelle governasse il destino umano (si vedano gli anatemi contenuti negli atti del Sinodo di Braga del 565). Il Consolamentum o Battesimo di Spirito è il Sacramento che nella teologia catara implica l'unione tra Spirito e Anima. Solo chi lo riceve può dirsi un Buon Uomo. Si capisce che non ha senso pensare che lo Spirito Santo possa venire da una configurazione di astri. Stellae non sunt mundae. Quello che mi sfuggirà sempre è la comprensione dell'artifizio che permette a un immenso numero di persone di fantasticare su altari e cattedrali sotterranee, quando si sa che i Catari non avevano luoghi di culto né reliquie, in quanto i Buoni Uomini condannavano la venerazione di ogni oggetto materiale e la chiamavano idolatria

Un regista persecutore

Non dobbiamo mai dimenticare che Serge de Poligny definiva la religione dei Catari "una credenza inumana". Quello che terrorizza e inquieta il regista è proprio la Dottrina che attribuisce la creazione dell'universo fisico a Satana. Nel suo film si vede che il fornicatore Samblanca salva la bella Sylvie dal crollo di una grande caverna. Ecco che arrivano i guitti per distogliere Sylvie dai Catari e dalle loro cupe dottrine, per convincerla che la vita è bella e spingerla a copulare! Mancano soltanto i Puffi danzanti sulle note di Cristina d'Avena! Dato il diverso concetto di decenza che c'era a quei tempi, Poligny si è astenuto da far urlare ai guitti "viva la figa!", tuttavia posso garantire che quando ho visto il film mi sembrava di sentire quell'esclamazione mentre scorrevano le sequenze della Festa di Tournebelle. Monsieur Toulzac cerca in tutti i modi di far rivivere la Fede dei Catari e arriva a imporre l'Endura a un'anziana signora sua seguace, che muore durante un ricevimento. Queste sequenze sono ispirate dalle calunnie dei papisti che reputavano l'Endura una forma di "omicidio rituale", usandola come spauracchio per instillare un odio feroce contro la Buona Gente. Alla fine Toulzac si rende conto di aver fallito e si suicida in un modo ben strano. Prima brucia le sue carte astrologiche nel caminetto, poi si lancia con la sedia a rotelle contro una porta, morendo sul colpo. 


Altre incoerenze e falsi storici

Monsieur Toulzac è descritto come Vescovo degli Albigesi. Tuttavia sappiamo dall'Apostolo della Linguadoca Peire Autier e da Guilhem Belibasta che agli inizi del XIV secolo i Catari non avevano più vescovi. Belibasta, che fu l'ultimo Buon Uomo noto della Linguadoca, afferma chiaramente che un tempo la Chiesa di Dio aveva vescovi e un Papa: con ogni probabilità alludeva a Popeniquinta, ossia a Niceta di Dragovitsa, che aveva viaggiato in Occidente. Da dove salterebbe dunque fuori il Vescovo Toulzac? Chi lo ha consacrato? Egli sembra l'ultimo della sua linea apostolica e addirittura l'ultimo ad avere la Fede. Si capisce che non è assolutamente possibile che porti il titolo di Vescovo, che esisteva quando le Chiese Catare erano fiorenti, finendo poi con lo scomparire del tutto durante l'Epoca delle Persecuzioni. Tutto ciò non basta. Si vede in diverse sequenze che Toulzac non segue la Regola dei Buoni Uomini e compie atti che gli avrebbero fatto perdere il Consolamentum. Così fa colazione con una pappa di panna e di cereali, a cui aggiunge abbondante zucchero. Se cereali e zucchero erano permessi, il latte e i suoi derivati erano vietati, in quanto reputati prodotti del coito. Inoltre Toulzac tocca liberamente la figlia adottiva. La prende per mano e le sfiora i capelli, tutte cose che un Buon Uomo si sarebbe guardato bene dal fare. Peire Autier ci dice che se trenta uomini e una donna si fossero seduti su una panca, egli non si sarebbe seduto nemmeno all'estremità opposta a quella in cui si trovava la donna, per evitare di finire contaminato. Va infine ricordato che sono estranee ai Catari e alla Entendensa de Be tutte le leggende relative al Graal o Sangreal che dir si voglia, nonché a favolosi tesori. Per colmo del paradosso, il mito del Graal era tipico dei Crociati del Nord e sostenuto proprio dalle orde di Simon de Montfort.

Una fonte oscurissima

Un'ombra grava sul giornalista e scrittore Gaston Bonheur, pseudonimo di Gaston Tesseyre (1913, Belvianes-et-Cavirac - 1980, Montpellier). Il suo romanzo La mort ne reçoit que sur rendez-vous (La morte riceve solo su appuntamento), che sarebbe servito per realizzare il film, è irreperibile. Stando al sito Imdb.com, l'opera sarebbe stata pubblicata nel 1943 nell'edizione di Tolosa della testata Le Parisien.


"The original literary source of is Gaston Bonheur's own short story "La mort ne reçoit que sur rendez-vous" published in 1943 in the Toulouse edition of Le Parisien, a French newspaper."

Informazioni molto interessanti sono contenute sul blog Rhedesium.com, che contiene un'intervista a Bonheur, in inglese.


"The screenplay for The Bride of Darkness is adapted from a novel that I had published in 1943 in the evening edition of Paris-soir Toulouse: Death is received only by appointment. I was thirty, which may explain some of this romantic-philosophical delirium and I had also long since finished my own philosophy studies in Paris. We must, perhaps, be clear to understand the intentions of my text, I was in Paris and "invested" with a mission by my teacher Joe Bousquet & Esteve, my senior teacher: I should have become a philosopher; I became a writer and it is Alquié [Ferdinand Alquié, NDLR] who took my place."

Ancor più interessante è l'articolo Cendres et émeraudes: le Catharisme romanesque au XXe siècle, pubblicato su Persee.fr e liberamente consultabile.


"Même si nous avons visionné tous les exemplaires des éditions provinciales de Paris-Soir de 1942 et 1943 conservés à la Bibliothèque nationale, nous n'avons pu trouver la nouvelle de Gaston Bonheur, scénario du premier film à sujet cathare, La fiancée des ténèbres (1944)."

Ora, si deve notare che mentre nella descrizione riportata in Imdb.com si parla del quotidiano Le Parisien, nell'intervista su Rhedesium.com e nell'articolo pubblicato su Persee.fr si parla invece del quotidiano Paris-Soir. Si tratta di due quotidiani diversi. Si può subito appurare la verità. Le Parisien ha iniziato le sue pubblicazioni proprio nel 1944, quindi il romanzo di Bonheur non può esser stato pubblicato sulle sue pagine nel 1943. Invece Paris-Soir, fondato nel 1923, continuò le sue pubblicazioni sotto il regime di Vichy. Siccome l'autore di Cendres et émeraudes non ha trovato traccia del romanzo di Bonheur nel Paris-Soir di Tolosa, si deve dedurre che si tratta di un'opera fantomatica. In altre parole è uno pseudobiblion.

martedì 18 luglio 2017

UN THREAD SULL'OPERA DI PIERO BERNARDINI MARZOLLA

Quando frequentavo ancora il liceo, era il lontano 1984, acquistai il libro L'etrusco: una lingua ritrovata, di Piero Bernardini Marzolla. Giovane com'ero, non avevo ancora mezzi sufficienti per capire che si trattava di qualcosa di poco credibile. Quel volume mi conquistò e mi convinse. Il presupposto dell'autore era mirabolante: a suo dire, l'etrusco sarebbe stato imparentato col sanscrito, l'augusta lingua dell'antica India. Come in un diario cresciuto di notte, il Marzolla riportava le sue traduzioni, una dopo l'altre. Sembravano ben convincenti. Si aveva l'impressione, leggendo quel resoconto di un'impresa titanica, che la maschera millenaria che aveva reso irriconoscibile la lingua degli Etruschi fosse stata finalmente rimossa, pezzo dopo pezzo. Per molto tempo mi occupai d'altro, ma rimanevo incredibilmente confortato al pensiero che qualcosa di ignoto fosse stato finalmente aggiunto al reame del noto. Una volta all'anno riesumavo il volume del Marzolla e mi immergevo nella sua lettura. Poi qualcosa cambiò e cominciarono a fermentare me i dubbi. Al crescere delle mie conoscenze, l'assunto marzolliano appariva sempre meno plausibile, tanto che a un certo punto compresi di essere stato vittima di un grande abbaglio. 

Era il 2010 quando ritrovai menzione dell'opera del Marzolla in un blog ospitato sulla piattaforma Blogspot, intitolato Sanscrito e civiltà dell'India (sanscritonline.blogspot.it). Il post che ha attratto la mia attenzione è Il sanscrito e le lingue dell'Italia antica: il caso dell'etrusco. Riporto in questa sede in thread.

Antares666:
Quello che si può provare (ma sarebbe troppo lungo in questa sede) è che le tesi di Marzolla sulla lingua degli Etruschi sono il frutto di una gigantesca allucinazione cognitiva. All'epoca anch'io ero rimasto affascinato dal libro "L'etrusco - una lingua ritrovata", ma ho poi compreso che è di una fragilità logica molto spinta.

Giacomo Benedetti:
Non si può lanciare il sasso e poi tirarsi indietro! Vorrei sapere quali sono le prove dell'allucinazione di Marzolla. Naturalmente le interpretazioni di Marzolla sono discutibili, ma come si possono confutare?

Antares666:
Prendiamo ad esempio i numerali etruschi: THU "1", ZAL "2", CI "3", HUTH "4"(*), etc.
Persino il Marzolla non può contestare il valore di numerali di queste parole e la loro assoluta divergenza dai numerali sancriti. Orbene, è logico pensare che una lingua complessa e di così magnifica tradizione come quella sanscrita perda proprio i numerali per prenderli a prestito da una lingua ignota? In realtà questi numerali una parentela ce l'hanno: con le lingue del Nord Caucaso, come il Ceceno, l'Ingush, l'Avaro, l'Urartaico (ad esempio nella lingua degli Hurriti KIGA significa "tre").
Consideriamo poi il pronome MI "io", con il suo accusativo MINI "me". Marzolla, constatata la divergenza dal sanscrito AHAM "io" (parente del latino EGO, del gotico IK, etc.), deriva il pronome etrusco dal sanscrito ASMI "io sono", voce del verbo AS- "essere", che nei pracriti è diventato AMMI. Ma come spiegare l'accusativo in -NI? Come spiegare la perdita di un pronome e l'adozione di un verbo? Non ha senso.

(*)In seguito alla presentazione di nuove e convincenti prove, ho aderito all'interpretazone ŚA "4", HUTH "6". Per approfondimenti rimando ai seguenti post:


Giacomo Benedetti: 
Queste osservazioni mi lasciano un po' perplesso, perché il Marzolla non sostiene che tutto l'etrusco deriva dal sanscrito, ma solo una parte minore del suo vocabolario. Lui ammette una componente non indoeuropea della lingua come quella principale, anche se ora non ho il libro sotto mano e non posso fare citazioni. Anche il pronome MI non lo faceva derivare dal sanscrito, ricordo che lo metteva tra gli elementi specifici dell'etrusco, dove hai trovato la derivazione da ASMI?
A proposito dei numerali, quello che dici sarebbe molto interessante, perché riconnetterebbe l'etrusco all'area del regno di Mitanni, dove la lingua più diffusa era l'hurrita... d'altronde, ho trovato piuttosto convincente la ricostruzione di Georgiev, che riconosce nell'etrusco una forte componente ittita.

Antares666:
Noto che altri due commenti da me apposti, che erano molto significativi, non sono stati pubblicati. Spero di vederli comparire, sempre che non siano andati dispersi. Quanto ho scritto sul pronome di I persona singolare si trova per l'appunto nel libro di Marzolla "L'etrusco - una lingua ritrovata": basta leggere con attenzione. Lì è esposta a chiare lettere la derivazine dell'etrusco MI dal sanscrito ASMI, con tutto quello che ne consegue. Posso riconoscere al Marzolla grandi doti di poeta, ma difficilmente le sue conclusioni potrebbero essere ritenute valide. Egli non riconosce l'origine indiana di una piccola parte del lessico etrusco, come tu sostieni, ma della sua massima parte, per poi attribuire a una seconda lingua, ignota e separata, tutto quello che non può spiegare. Addirittura è arrivato ad affermare che dire che l'etrusco da lui "tradotto" non è indiano è come affermare che il verso "schön singt die Nachtigall" non è tedesco. Naturalmente esistono molti prestiti da lingue del ceppo ittita in etrusco, ma di questo il Marzolla non parla, a quanto mi è noto.

Giacomo Benedetti:
Caro Antares, a quanto pare il Marzolla ha cambiato idea tra il suo libro del 1984 e quello che ho letto io, del 2005, come è comprensibile. Forse esaminando anche quello ti farai un'idea diversa delle tesi del Marzolla. In effetti lui non parla dell'ittita, ma, al di fuori dell'ambito indiano, parla solo di prestiti iranici, greci e semitici. Ti prego di riinviarmi gli altri tuoi due commenti. 

Antares666:
Consideriamo poi l'uscita del nominativo singolare dei sostantivi maschili in -AS nel sanscrito vedico, evoluta in -AH nel sanscrito classico, scomparsa nelle attuali lingue dell'India. Ebbene, il Marzolla si immagina tutta una serie di esiti in etrusco: -AS, -S, -US, -UR, -U, -ES, -E, etc. Essi spaziano da forme di sapore vedico a forme contemporanee. Naturalmente in sanscrito classico c'è la trasformazione della desinenza -AH a seconda del suono iniziale della parola seguente. Nello pseudo-etrusco di Marzolla non c'è nulla di tutto ciò. Nessuna regola. Quello che Marzolla propone è una trasformazione caotica di una desinenza sanscrita in una serie di uscite etrusche incompatibili (scelte spesso per far tornare le sue traduzioni).
Marzolla pretende di scardinare tutte le chiare conoscenze grammaticali ottenute da generazioni di studiosi tramite l'applicazione del metodo combinatorio.

Antares666: 
Non sembra un po' strano che le iscrizioni che Marzolla traduce meglio e che sembrano più indiane siano proprio quelle in scriptio continua? Semplice: egli le può ritagliare come vuole, facendo poi collimare le sillabe ottenute con le voci trovate in un vocabolario sanscrito. Ad esempio in un'iscrizione egli interpreta APLU (che è il nome di Apollo) con il verbo sanscrito APLU- che significa "bagnarsi", "immergersi".
I suoi trucchetti non funzionano con molti dei testi più recenti, in particolare con il Liber Linteus, così egli afferma che quei testi sono in un'altra lingua. Non sapendo spiegare una lingua, ne inventa due: una, più antica, simile al sanscrito; l'altra, più recente, di natura ignota, anche se a sua detta con numerosi prestiti iranici e semitici.
Aggiungo altre brevi considerazioni.
1) L'etrusco è una lingua agglutinante, che funziona più come le lingue dravidiche che non come quelle indoarie;
2) Dove sono i composti, così abbondanti nel sanscrito?
3) Dove sono i prefissi?
4) Dove sono i termini del lessico di base, quelli ad esempio indicanti la parentela? Possibile che si sia conservata una parola tecnica per dire "figlio legittimo" e si siano persi termini elementari per dire "madre", "padre", etc.?
5) Certe "illuminazioni", tipo XIMTHM tradotto come "dal freddo raggio" (mentre in realtà significa "e in tutti"), non spiegano l'occorrenza di termini simili (ad esempio XIMTH, XIM), in contesti in cui le traduzioni "poetiche" del Marzolla non hanno senso.
Evidentemente c'è qualcosa che non quadra.

Antares666:
Onestamente, non ho letto il libro del 2005, ma ho trovato una sua descrizione nel web. Essa dice così:
"A distanza di anni dalla pubblicazione del suo libro L'etrusco - una lingua ritrovata, l'autore riprende qui e sviluppa la sua scoperta di una fitta rete di rapporti tra lessico etrusco e lessico sanscrito, mostrando dettagliatamente come i vari tipi di mutazioni fonetiche rispetto al sanscrito siano gli stessi, ben noti, subiti in etrusco dai prestiti dal greco, e illustrando una serie d'importanti aspetti tra i quali il fatto che il lessico etrusco di origine "indiana" è, logicamente, di tipo "satEm" e che anche la "formazione delle parole" corrisponde a quella del sanscrito, con identità di prefissi e suffissi nonché di composti. L'autore avanza oggi l'ipotesi che l'etrusco "indiano" continui in qualche modo l'indoario, lingua che ha lasciato di sé poche ma sicure tracce (metà del II millennio a.C.) nel Vicino Oriente (alta Mesopotamia e Asia minore). Il grosso del libro è costituito dalla traduzione di iscrizioni, finora incomprensibili, resa possibile dall'individuazione degli equivalenti sanscriti di parole etrusche. Un capitolo è dedicato a iscrizioni su specchi di bronzo figurati, e il volume si chiude con un ricco Vocabolario etimologico etrusco."


Non mi sembra che ci siano stati cambiamenti significativi rispetto al primo libro; da quanto leggo nel tuo post, certe "perle" marzolliane sono rimaste praticamente immutate.

Giacomo Benedetti: 
Caro Antares, la descrizione che hai trovato forse non fa capire che Marzolla nel libro del 2005 non identifica l'etrusco con una lingua indoaria, ma solo una parte del suo vocabolario. La derivazione che citi di APLU è stata abbandonata, visto che il Marzolla riconosce che si tratti del nome di Apollo. A proposito di XIMTHM, mi pare che non lo abbia citato nel nuovo libro. Ti invito a leggerlo, se vuoi farti un'idea aggiornata delle teorie del Marzolla, che evidentemente a smussato certi eccessi 'giovanili'... Ho trovato alcune sue traduzioni piuttosto convincenti (particolarmente interessante quella della Resxualc & co.), altre più forzate, comunque per lo meno cerca di rispettare delle leggi di trasformazione fonetica, diversamente dal Semerano...

Giacomo Benedetti:
Ho trovato le fotocopie del libro, dove il Marzolla afferma che persino nel libro del 1984 egli dichiarava di non avere "nessuno speciale interesse a difendere a oltranza l'indoeuropeità integrale dell'etrusco" e poneva la questione se esso fosse una lingua non indoeuropea contaminata da una lingua di stampo indiano o una lingua di stampo indiano sommersa da quella non indoeuropea di una classe (o di un popolo) dominante. In conclusione (par.14), osserva: "La parte non indiana, con ogni probabilità non indoeuropea, è purtroppo quella di gran lunga prevalente. I testi di maggior dimensione restano almeno per ora intraducibili."

    A questo punto, snervato, ho abbandonato il thread, tanto il Benedetti non sembrava interessato a discutere i punti da me evidenziati. In seguito è intervenuto Alessandro Morandi, un accademico le cui idee sulla lingua degli Etruschi non sono a mio avviso molto distanti da quelle di Francesco Pironti. Il concetto interessante espresso dal Morandi è il seguente: il Marzolla si è servito di numerose idee enunciate a suo tempo da Alfredo Trombetti, mascherandole fino a renderne la fonte irriconoscibile. Riporto l'intervento di Morandi.

Alessandro Morandi:
Sono parte di quel mondo "accademico" che non ha accolto positivamente, anzi le rifiuta, le opere di P. Bernardini Marzolla. Quando mi va di farmi "quattro risate" con gli amici leggo alcune delle più divertenti traduzioni del B.M.:la cutrettola di Volterra, dominatrice del bosco, la fanciulla barbara che rifiuta il ballo... Molto indietro, ben nascoste, ci sono le idee del nostro povero Alfredo Trombetti, La Lingua Etrusca, saccheggiato cripticamente dal dilettante di turno.

sabato 15 luglio 2017

CONTRO LA TEORIA PSEUDOSCIENTIFICA DELLA CONTINUITÀ PALEOLITICA

Mentre passavo il mio tempo libero sul Faccialibro, mi è capitato - ahimè - di imbattermi in un individuo che era un accesissimo fautore di una teoria che con la Scienza non ha proprio nulla a che vedere. Questo individuo sommamente molesto riteneva che l'Europa sia stata abitata da genti indoeuropee fin dal Paleolitico senza alcuna interruzione. Non menzionerò nemmeno l'iniziale del suo nome o del suo cognome: riporterò il peccato ma non il peccatore. Suo referente era Mario Alinei, le cui teorie appartengono al campo della Pseudoscienza proprio come l'idea della Terra piatta, oltre a essere viziate dalla politica. Sosteneva, come il suo mentore Alinei, che la preistoria fosse caratterizzata da assoluto immobilismo delle popolazioni. Senza avere alcuna evidenza delle sue baggianate invereconde, egli agiva in modo trolloso. Prima faceva spiegare le cose in dettaglio, facendo perdere tempo, poi faceva saltare i nervi dando prova di non aver tenuto nemmeno una sillaba in alcun conto, spesso e volentieri aggiungendo una battutina irritante. Deve ringraziare che non mi è consentito di professare la Legge dei Longobardi, o ne sarebbero seguite rappresaglie fisiche. Ho potuto soltanto espellere quell'arga dalla lista dei miei contatti di Facebook. Gli alineisti sono come i complottisti più fanatici: i dati di fatto non hanno su di loro la benché minima presa. Vediamo a questo punto di passare in rassegna alcune evidenze che smontano il loro castello di fanfaluche, a beneficio delle persone che amano la Conoscenza.

1) Le lingue indoarie sono incompatibili con l'idea di immobilismo preistorico postulato dagli alineisti e assimilati. Non è possibile che l'indoeuropeo si sia al contempo nativo dell'Europa e del subcontinente indiano: in uno di questi domini o in entrambi deve essere migrato. Viene quindi a cadere l'idea di continuità e di indigenismo.

2) Le lingue tocarie sono incompatibili con l'idea di immobilismo preistorico. Tra l'altro è attestato storicamente che i Tocari, stanziati nel Turkestan cinese, sono migrati nella regione oggi nota come Afghanistan, distruggendo il regno ellenistico della Battriana.

3) Le lingue amerindiane sono incompatibili con l'idea di immobilismo preistorico: l'America non ha generato da sé l'Uomo, che vi è giunto da fuori già nella preistoria, portando con sé corredo genetico denisovano e neanderthaliano. Va rimarcato che non si sono mai trovati fossili di Neanderthal nelle Americhe.

4) L'uomo di Denisova era un bizzarro ominide che viveva in Siberia. Il suo corredo genetico è stato ritrovato in gran parte delle popolazioni dell'estremo oriente, in Australia e in Papua Nuova Guinea - il che prova che l'ibridazione è avvenuta in luoghi lontanissimi da quelli in cui gli epigoni dei primi ibridi sono attualmente stanziati.

5) Le lingue austronesiane sono incompatibili con l'idea di immobilismo preistorico. Inoltre è chiaro che il malgascio è stato importato in Madagascar in epoca non troppo remota, dato che mostra prestiti dal sanscrito.

6) La migrazione dei Bantu è avvenuta in epoca storica e recente. Tali popolazioni hanno cominciato a migrare dalle loro sedi ancestrali circa 3.500 anni fa, procedendo verso sud. Quando sul finire del XVII secolo gli Olandesi hanno fondato l'insediamento noto come Città del Capo (Kaapstad), le tribù Bantu non erano riuscite a raggiure la costa: il primo scontro tra i Boeri e gli Xhosa avvenne nel 1779. 

7) Somali, Etiopi e Khoisan mostrano sequenze genetiche in comune (cfr. Cavalli-Sforza). Questo a dispetto del fatto che le lingue dei Somali e degli Etiopi sono di tipo afroasiatico. I Khoisan, ossia gli Ottentotti (Khoi) e i Boscimani (San), sono sopravvissuti perché abitavano in aree non appetibili ai Bantu. Popoli di lingua non Bantu come gli Hadza e i Sandawe (Tanzania) hanno perso gran parte delle loro peculiarità genetiche, non somigliano più ai San e mostrano scarse differenze genetiche rispetto alle popolazioni Bantu confinanti - secondo Cavalli Sforza a causa di sostituzione graduale dei geni. Nella lingua Dahalo, di ceppo cuscitico, esistono parole di sostrato che contengono suoni apneumatici simili a quelli delle lingue Khoisan.  Non è mai esistito immobilismo né isolamento assoluto, nemmeno nelle aree più remote.

8) Il movimento demico denominato Back to Africa, avvenuto in una gigantesca ondata circa 3.000 anni fa, ha portato genti dell'antica Europa anche nelle zone più lontane del Continente Nero. Le tracce di corredo genetico neanderthaliano presenti nella popolazione dell'Africa subsahariana (< 0,5%) hanno questa origine. 


9) Il popolamento dell'Australia è una prova lampante che nega l'immobilismo preistorico. Infatti l'Australia non ha generato da sé l'Uomo, che vi è giunto da fuori già nella preistoria, portando con sé un abbondante corredo genetico denisovano e neanderthaliano. Si noterà che non si sono mai trovati fossili di Neanderthal in Australia.

Questa lista potrebbe essere molto espansa, fino a raggiungere un centinaio di punti. Credo tuttavia che quanto riportato sia sufficiente a dare un'idea della questione.

Genetica e linguistica sono indipendenti e non vanno mai confuse. Notiamo invece che gli alineisti e molti altri elementi stravaganti delle regioni di frangia del mondo pseudoscientifico sostengono a spada tratta il dogma dell'identità tra determinati aplogruppi e la lingua parlata. Per questi avversari, sarebbe sufficiente una mappatura genetica per risalire alla lingua di un individuo, senza tener conto del fatto che nel corse dei secoli e dei millenni interi popoli cambiano lingua.

Evidenza 1. Basti prendere un afroamericano di Harlem che parla inglese. Tecnicamente parlando, egli è un indoeuropeo, quando in realtà la lingua da lui parlata non mostra traccia alcuna che aiuti a comprendere le sue origini genetiche. 

Evidenza 2. Si dispone della prova di una migrazione in Australia dall'India, priva di corrispondenze linguistiche identificabili. Questo movimento demico è avvenuto all'incirca 40.000 anni fa, molto prima della diffusione delle lingue Pama-Nyungan, avvenuta 4.000 anni fa. 


Evidenza 3. Si sono scoperti i resti di una ragazza di epoca neolitica vissuta nella Selva Nera, che si è sposata in Danimarca e ha viaggiato diverse volte facendo la spola. 


Evidenza 4: Si è scoperto che un nobile che dalla regione alpina è giunto fino a Stonehenge per curarsi - e va aggiunto che lo fece in assenza di animali da locomozione.


Evidenza 5: Il caso di Limone del Garda, la cui popolazione discendente da un singolo danese, portatore di un rarissimo gene che impedisce l'accumulo di colesterolo. A questo esempi, il troll ha cercato di opporre un'argomentazione idiota, affermando che in tutta la popolazione italiana c'è sangue germanico a causa delle invasioni cosiddette "barbariche"

Evidenza 6. Il caso della "razza Piave". In seguito ad alcune vergognose polemiche seguite all'esaltazione dell'origine autoctona dell'etnia veneta, è stata eseguita una mappatura genetica su alcuni individui. I risultati sono stati sorprendenti: la popolazione di quei distretti discendeva da genti deportate in loco dai Romani, con un genoma che comprende elementi mediorientali, iberici e persino africani. 

Non si può confrontare una migrazione recentissima di cui si conosce ogni dettaglio con una migrazione preistorica di cui non si conosce sostanzialmente quasi nulla. L'incredibile complessità di questi movimenti vanifica spesso ogni pretesa di comprensione sistematica. Invito i fanatici dell'identità genetica-linguistica a produrre una mappa dei vari aplogruppi dell'India e dell'Iran. Li invito anche a produrre una mappa degli aplogruppi più significativi della popolazione amerindiana. Anche se lo facessero, non arriverebbero da nessuna parte.

Rammento ancora le follie proferite dal troll alineista. A detta sua, quanto studiato sui libri di storia a scuola sarebbe vero perché attestato, mentre i movimenti demici avvenuto in epoche precedenti o in contesti diversi sarebbero frutto di fantasia: il motivo secondo lui era "l'inesistenza dei voli Ryanair". Sono stato preso dall'impulso di cambiargli i connotati. Mi immaginavo all'opera con un caestus rinforzato con placche e borchie di bronzo massiccio, il modo migliore di trattare i molestatori, se non fosse che le leggi in vigore lo vietano.

Quello che i cultori delle teorie della continuità paleolitica non possono e non vogliono capire è un fatto elementare: un movimento demico nella preistoria non implica per necessità esodi di proporzioni bibliche, essendo piuttosto caratterizzato da piccoli spostamenti progressivi. L'integrazione di piccoli movimenti su lunghi periodi porta a raggiungere territori remoti. Allo stesso modo gruppi poco consistenti possono crescere nei millenni. Anche in assenza di Ryanair, si danno esempi di lunghi percorsi fatti a piedi fino a tempi recenti o ancora nel presente: i viaggi in Terra Santa, il pellegrinaggio a Santiago di Compostela e via discorrendo. 

mercoledì 12 luglio 2017

NOTE SUL LAVORO DI RIGOBIANCO

Luca Rigobianco (Università Ca' Foscari di Venezia, Dipartimento di Studi Umanistici) è l'autore di un interessante lavoro sulla lingua etrusca, Su numerus, genus e sexus. Elementi per una grammatica dell'etrusco. Quest'opera, edita da Edizioni Quasar, è senza dubbio meritoria. Al momento porta la scritta "Copia autore", ma in ogni caso è consultabile e scaricabile gratuitamente al seguente url: 


Un lavoro davvero eccellente, che cerca di collegare alcune caratteristiche morfologiche della lingua dei Rasna all'indoeuropeo. Concordo senza dubbio sulla provenienza della radice tin- "giorno", donde Tin(i)a "Giove", da IE *din- (un prestito di ambito religioso), mentre su altri punti ho qualche dubbio.

L'idea ormai corrente di una derivazione del suffisso femminile etrusco -i dall'indoeuropeo, e in particolare dalle lingue italiche, è a mio avviso ben poco plausibile, con buona pace di Rix e di Prosdocimi. Come posso provarlo? Semplice.

1) Il suffisso etrusco si aggiunge al tema anche quando termina in vocale.
Se un gentilizio maschile termina in -a, il corrispondente femminile termina in -ai, suffisso evoluto poi in -ei. Esempio: Tarcna (m.), Tarcnei (f.).
L'evoluzione verso -ei è dovuta all'indebolimento della vocale tematica, causato dalla -i finale, che si è sempre mantenuta. L'analisi del suffisso femminile è -a-i, dove si vede bene che la vocale -a del tema è preservata. Questo non accade in nessuna lingua indoeuropea.
2) Come ammette anche l'autore, non esiste una tradizione chiara di femminili in -i: (< IE -*iH2) in nessuna lingua nota di popoli italici confinanti con gli Etruschi, almeno nelle loro sedi storiche. Dunque è senz'altro da escludersi che la provenienza del suffisso sia italica. In latino troviamo femminili in -i:x, da analizzarsi come -i:-k-s, per esempio in na:tri:x "biscia". Si vede che questo femminile presenta un suffisso velare. Si hanno anche forme come re:gi:na e galli:na, in questo caso con un'estensione nasale. Si noterà che dove l'etrusco ha un nome divino in -i, Uni "Giunone", il suo corrispondente latino ha invece un suffisso diverso: Iu:no:, gen. Iu:no:nis. Un relitto di un antico tema in -i:- si trova nel nome Iu:nius "Giugno" (mese), "Giunio" (gentilizio), oltre che nella forma iu:ni:x "giumenta", che è corradicale. Tuttavia, forme "nude" di femminile in -i nella lingua di Roma non le troviamo nemmeno se ci mettiamo a piangere e ci strappiamo i capelli, neanche nelle fasi più antiche documentate. Come è possibile dunque che una simile caratteristica, che deve essere remota, abbia avuto una simile fortuna in etrusco come prestito?

Mi sento di aggiungere un paio di considerazioni che reputo di una qualche utilità. 

1) Si tende a cercare un femminile in -i anche in due termini di parentela: ati "madre" (genitivo ati-al) - che tuttavia sembra una forma non ulteriormente analizzabile - e seχ "figlia" (genitivo seχi-s). Un fatto che gli etruscologi hanno passato sotto silenzio è l'anomalia assoluta di questo genitivo in -s di seχ, che non corrisponde mai ai genitivi dei femminili in -i. Infatti i gentilizi femminili in -ai-ei hanno il genitivo in -al, mentre i femminili in -i hanno il genitivo in -ial. Non si può quindi assimilare seχ ai femminili in -i, per nessun motivo. 
2) Un'iscrizione vascolare (DETR 263) ci attesta la forma Lusχnei accanto alla figura della luna. Questa forma è senza dubbio un prestito religioso dall'italico *louksna, l'antenato diretto del latino lu:na. Se non fosse stato usato soltanto come teonimo, ma anche come sinonimo dotto del più comune tivr "luna", questo potrebbe essere un caso singolare di uso di suffisso di mozione in un nome comune - tanto più che un corrispondente maschile non avrebbe ragion d'essere! 

sabato 8 luglio 2017

NOTE SUL LAVORO DI RATCLIFFE

Robert R. Ratcliffe (Tokyo University of Foreign Studies) è autore del lavoro On calculating the reliability of the comparative method at long and medium distances: Afroasiatic Comparative Lexica as a test case, in cui in sostanza esprime un forte scetticismo sul metodo comparativo e sulla possibilità di ricostruire protolingue affidabili quando si vuole risalire a grandi profondità temporali. Questo studio può essere consultato e scaricato gratuitamente al seguente url: 


Traduco un estratto che mi sembra particolarmente significativo: 

"L'alto grado di contraddizione e di incompatibilità tra due lessici comparativi dell'Afroasiatico prodotti indipendentemente (Ehret 1995, Orel e Stolbova 1995) mette in dubbio l'affidabilità del metodo comparativo a grandi profondità di tempo. La discrepanza ha potuto sorgere soltanto perché una o entrambe le fonti contengono un grande numero di paralleli spuri o casuali. Questo articolo documenta per la prima volta la discrepanza tra i due lessici comparativi, quindi cerca di spiegarla. La proposta centrale è quella di far andare la valutazione della ricostruzione proposta oltre le valutazioni qualitative di singoli insiemi di parenti proposti, e di incorporare strumenti quantitativi per valutare il grado probabile di paralleli casuali nella ricostruzione nel suo insieme."

Lo studio di Ehret e quello di Orel - Stolbova prendono in considerazione diversi rami della famiglia linguistica afroasiatica (nota anche come camito-semitica): l'egiziano antico, il berbero, il semitico, il cuscitico e il ciadico. Mentre ci sono protoforme ricostruite in modo ottimo, riguardanti concetti del lessico di base (come "acqua", "morire", etc.), in moltissimi casi, specie nel sistema verbale, si rilevano difficoltà immani. 

Ricostruzione della protoforma *maaw "morire" (lavoro di Ehret)

Semitico: *mwt (Arabo mwt
Egiziano: mwt, mt
Ciadico: *mətə (Ngizm mət)
Cuscitico (orientale): *umaawə, *-am-w(t) 

Ricostruzione della protoforma *mawut, *mu:t "morire" (lavoro di Orel - Stolbova)

Semitico: *mVt (Arabo mwt
Berbero: *mt, mwt (Cabilo emmet)
Ciadico (occidentale, orientale): *mawut (Hausa
    mutu)
Cuscitico (orientale): *mut (Rendille amut)

Il problema è che i lessici comparativi in questione sono stati prodotti con una metodologia top-down, mentre andrebbero prodotti con una metodologia bottom-up indipendentemente per ogni singolo ramo, risalendo poi alle protoforme comuni all'intera famiglia afroasiatica. Se non si fondano in modo solido le ricostruzioni di ogni singolo ramo, si fallisce di certo. Il punto è che negli studiosi che si occupano di queste ricostruzioni si insinua spesso lo spettro del paleocomparativismo. Autori diversi trovano corrispondenza diverse senza aver posto solide corrispondenze regolari tra fonemi, ricostruendo così protoforme incompatibili.

Che hanno fatto questi studiosi? Hanno preso una vasta collezione di lingue, evidenziando a lume di naso radici simili e classificandole per la loro somigianza - in modo spesso erroneo e basandosi su assonanze. Quindi hanno ricostruito le ipotetiche protoforme. Hanno poi usato queste protoforme spesso fallaci per far luce sui dettagli del sottobosco di forme delle singole lingue che avrebbero invece dovuto essere la base della ricostruzione dal basso all'alto. In altre parole, hanno postulato le protoforme saltando tutti i necessari passaggi di verifica, evitando di procedere dall'ignoto al noto per piccoli ma sicuri passi.

venerdì 7 luglio 2017

NOTE SUL LAVORO DI BLENCH O IL LIVELLAMENTO LINGUISTICO

Non posso fare a meno di pronunciarmi su alcune perigliose idee di Roger Blench (Kay Williamson Educational Foundation), espresse nel suo lavoro Language levelling challenges all mathematical methods of language classification, ossia Il livellamento linguistico sfida tutti i metodi matematici di classificazione linguistica. Lo scritto può essere consultato e scaricato gratuitamente in formato di bozza al seguente url: 


Tutto ciò che Blench riporta a proposito di singoli casi ad esplicazione del fenomeno del livellamento linguistico è rigorosamente esatto. Se in un territorio vi è una varietà di lingue parlate, capita che per un mutamento demografico, politico o religioso, una di queste lingue, all'inizio parlata in un ambito locale, riesca ad imporsi ben oltre i suoi confini d'origine, estendendosi su tutto il dominio in questione. Questo processo porterà infine all'estinzione di tutti o di quasi tutti gli altri idiomi parlati in precedenza. Per questo motivo il mutamento descritto prende il nome di livellamento linguistico. In alcuni casi, delle lingue scomparse non ci resta alcuna traccia, altre volte rimangono residui vari come ad esempio isole alloglotte o testimonianze scritte. 

Blench fornisce diversi esempi di livellamenti avvenuti in epoca storica o preistorica, aggiungendo alcune considerazioni sulle cause più probabili.

1) Causa: Autorità politica centralizzata     
Esempi: Proto-sinitico, mongolo, malgascio 
 

L'Impero di Gengis Khan ha promosso il dialetto chiamato Khalkh, che ha fatto scomparire tutti gli altri. L'Impero Cinese ha imposto nell'arco della sua storia plurimillenaria un'unificazione linguistica. Verso il 200 a.C. c'è stato un collo di bottiglia che ha eliminato le varietà precedenti. La Rivoluzione Comunista ha semplicemente completato ciò che era stato iniziato dal Primo Imperatore. Per quanto riguarda il Madagascar, si noterà la sua sorprendente uniformità linguistica, a dispetto del fatto che il suo popolamento austronesiano risale a 1500-2000 anni fa: il responsabile di questo livellamento è il clan dei Merina, detentore del potere assoluto sull'isola.
 

2) Causa: Espansione di una lingua franca   
Esempi: Berbero
 

Le lingue berbere attualmente parlate discendono da una lingua franca usata all'epoca dell'Impero Romano, che fece scomparire le varietà più antiche. Il collo di bottiglia è collocato verso il 200 d.C., all'epoca di Settimio Severo, in cui il limes romano in Africa raggiunse la sua massima estensione e ci furono profonde innovazioni: domesticazione del dromedario, introduzione dell'aratro, incremento del commercio dovuto alla richiesta di nuove merci. In seguito, come conseguenza delle invasioni dei Vandali e degli Arabi, la lingua franca dei Berberi ha cominciato a diversificarsi.
 

3) Causa: Dominanza culturale    
Esempi: Lingue Pama-Nyungan in Australia
 

La maggior parte delle lingue australiane è riconducibile a un'unica protolingua, denominata Pama-Nyungan. Soltanto nel nord si sono conservate lingue non appartenenti al phylum Pama-Nyungan. A quanto si è potuto accertare, il livellamento deve essere avvenuto all'incirca 4000 anni fa. Ritengo per certo che tale evento, che deve aver portato alla perdita di un immenso numero di lingue, sia stato soltanto l'ultimo di una lunga serie.
 

4) Causa: Mezzi di comunicazione di massa
Esempi: Diffusione dell'inglese nel mondo 
 

Stiamo vivendo questo processo ai nostri giorni e le sue manifestazioni ci sono così ben note da non necessitare approfondimenti in questa sede.

Pur lodando la disamina dei fatti elencati da Blench, non sono tuttavia condivisibili le sue assunzioni di base, che peccano di grave mancanza di logica e sono contaminate dalla politica. Basti analizzare questi passaggi:

"From the sixteenth century, when large catalogues of the languages of the world begin, attempts accelerated, using a quasi-genetic framework, although often without explicit justification." 

E ancora: 

"What, however, was the point of such classifications? Why not just list languages alphabetically, or by region? Classification is something that particularly appeals to middle-aged white males, and can be of the same genre as categorising tracks on an iPod or knowing an unsettling amount about train timetables (Masters 2011). Often, as in the biological sciences, justifications for classification have followed significantly later than the exercises themselves."

Dunque Roger Blench nega alla radice ogni classificazione delle lingue. Solo per fare un paio di esempi della portata delle sue affermazioni, egli nega che sia possibile tracciare l'origine e la parentela delle lingue germaniche, romanze, semitiche e via discorrendo. Per lui affermare che l'arabo e l'ebraico sono lingue imparentate è qualcosa di "privo di giustificazione", a dispetto dell'immensa mole di studi che dimostrano il contrario. Non contento di professare queste inconsistenze, ecco che Blench si rivela un astioso seguace dell'isterica Hillary Clinton, dal momento che accusa di razzismo e di sessismo chiunque non corrisponda ai propri schemi ideologici. Quando un accademico tira fuori l'espressione "middle-aged white males", possiamo star certi che appartiene a quella congrega di buonisti radical shit e autorazzisti che di questi tempi infestano l'Occidente.

In sostanza lo schema del ragionamento portante di Blench è il seguente:

Le lingue subiscono livellamento => Non ha senso studiare la parentela genetica delle lingue => Le lingue non hanno origine genetica.

Peccato che questo sia un marchiano esempio della fallacia logica denominata non sequitur. Appurato che le lingue subiscono livellamenti nel corso della loro storia e che moltissime si estinguono, nostro compito è quello di ricostruire come questi processi sono avvenuti, non negare l'esistenza di qualcosa che è un dato di fatto.

mercoledì 5 luglio 2017

NOTE SUL LAVORO DI KOSSMANN

La mia attenzione è caduta su un'opera di Maarten Kossmann (Università di Leida), The ancient Berber word for egg, ossia L'antica parola berbera per "uovo". Il lavoro è consultabile e scaricabile gratuitamente al seguente url: 


Trovo particolarmente interessante la trattazione etimologica. Tuttavia sono rimasto perplesso da un'opinione dell'autore, convinto che non sia possibile appurare se un nome berbero dell'uovo, taməllalt, sia una formazione antica o un calco dall'arabo. Questo è quanto afferma in proposito:

«The second term is even more wide-spread, and refers to the color of the egg: taməllalt, lit. ‘the white one’. This is found in a large number of varieties on the north side of the Berber-speaking territory: Middle Atlas, Rif, Figuig, western Algerian Berber, Kabylia (Basset 1959[1928]: 142). The metaphor behind this term is the same as found in Arabic, where bayḍ(a) egg, testicle is related to the adjective 'abyaḍ white. Whether this is a simple case of parallel semantics or a Berber calque on Arabic is impossible to say.»

Si noterà che l'ebraico beytsah /be:'tsa:/ "uovo" è un perfetto parente del vocabolo arabo bayḍa id., derivato dalla stessa identica radice tramite una formazione simile. Tuttavia mentre il vocabolo arabo è etimologizzabile, quello ebraico è diventato oscuro, non risultando che sia presente nel lessico di tale lingua una parola parallela all'arabo 'abyaḍ "bianco". È quindi probabile che la parola in questione un tempo esistesse anche in ebraico e che sia caduta in disuso già in epoca remota. Se così stanno le cose, appare possibile che il termine berbero taməllalt, lett. "la cosa bianca" sia frutto di una metafora parimenti remota. Risulta anche che difficilmente in vocaboli del lessico di base agiscano con facilità calchi di questo genere. Un parlante berbero che apprendesse l'arabo, potrebbe benissimo non correlare bayḍa a 'abyaḍ, data la differenza nel vocalismo e della struttura, trovandosi così incapace di generare un nuovo e non necessario nome dell'uovo a partire dall'aggettivo "bianco". Quindi reputo che si possa decidere la questione e che non sussista indeterminazione alcuna: berbero tamelləlt è frutto di un processo semantico remoto e non di un calco recente.

lunedì 3 luglio 2017

NOTE SUL LAVORO DI FATTOVICH

Nel corso dei miei studi e delle mie ricerche nel Web mi sono imbattuto in un'interessante opera di filologia celtica: Introduzione alla storia della lingua gaelica, di Anna Fattovich (Università degli Studi della Tuscia - Viterbo). Il lavoro è consultabile e scaricabile gratuitamente al seguente url:


Scorrendo le pagine tutto sembrava perfetto, quando qualcosa ha attirato la mia attenzione. Riporto lo screenshot, anche perché successivi aggiornamenti potrebbero cancellare le prove di quanto affermo.

 

Con buona pace dell'autrice, in antico irlandese imbliu significa "ombelico" e non "naviglio". Il marchiano errore, che mi è saltato subito all'occhio come un moscone sulla carne, potrebbe essere stato causato in questo modo:

1) L'autrice ha studiato l'irlandese antico su libri in inglese;
2) La stessa si è imbattuta nella parola irlandese imbliu, tradotta in inglese con "navel", ossia "ombelico";
3) A causa della fragilità delle conoscenze della lingua inglese, ha tradotto erroneamente "navel" con "naviglio";
4) Dovendo scrivere un lavoro sull'antico irlandese, la parola imbliu è stata così glossata con "naviglio", dando origine uno sproposito nocivo e destinato purtroppo a propagarsi.

Deduzione ulteriore, fatta a caldo senza avere alcun dato sull'autrice:

Il lavoro sulla storia della lingua gaelica non sembra essere stato costruito soltanto con una conoscenza scolastica e incompleta dell'antico irlandese. Eppure sarebbe stato immediato tradurre correttamente imbliu con "ombelico", anche perché a quanto mi consta il vocabolo non ha altri significati, fa parte del lessico di base ed è di chiara origine indoeuropea (< *enebh-): risalgono alla stessa radice anche l'inglese navel e l'italiano ombelico. Sono propenso ad attribuire l'incredibile accaduto all'effetto della forma mentis scolastica. Agli studenti viene insegnato che l'inglese sarebbe una lingua neolatina, così si tende a dare importanza soltanto al lessico di origine neolatina, trascurando la componente anglosassone. Un altro caso di simile confusione, questa volta tra navel "ombelico" e naval "navale" ricorre addirittura in un articolo di un autore di madrelingua anglosassone, il linguista statunitense Lyle Richard Campbell.

Questo ci dice l'applicazione del metodo logico-deduttivo. Ora, alla luce di qualche ricerca bibliografica, dirò che queste conclusioni sembrano molto difficili da accettare, dato che la Fattovich è citata come esperta di lingua e di cultura irlandese. "Anna Fattovich si occupa da anni di Storia del Medioevo Irlandese e si è laureata in Storia Medievale presso l'Università "la Sapienza" di Roma; è l'Autrice del volume "I Celti d'Irlanda: società e diritto dell'ultima tradizione celtica" e di altri saggi." (fonte: Keltia.it). Il suo profilo LinkedIn è eloquente. Non mi capacito dell'accaduto. Che l'errata traduzione da me segnalata sia un refuso causato da un correttore di bozze?

In ogni caso, la presenza di quell'improvvido "naviglio" è un vero peccato, visto che per il resto il lavoro è impostato molto bene e ha potenzialità notevoli. Tutto questo dice quanto sia necessario un continuo lavoro di verifica e di confronto. Anche se so che il mio appello cadrà nel vuoto, invito la Prof.ssa Anna Fattovich a correggere l'errore. Cadrà nel vuoto, ne sono certo, come tutti i miei precedenti appelli fatti a svariati esponenti del mondo accademico. Questo per un semplice fatto: in quell'ambiente a quanto pare è un dogma ritenere che i blog siano spazzatura e che nulla di ciò che vi è scritto meriti considerazione alcuna.

giovedì 29 giugno 2017


IL CATECHISMO PER I CHONO
E LA SUA NATURA DI PROPAGANDA
ANTI-MANICHEA

I Chono erano una popolazione stanziata nell'Isola di Chiloé e in alcuni arcipelaghi del Cile Meridionale. Il loro territorio, residuo di una cordigliera preistorica in parte sommersa, si estendeva da Chiloé alla Penisola di Taitao. Una regione selvosa e impervia dalla morfologia molto complessa, ricchissima di fiordi. La cultura materiale dei Chono era simile a quella delle genti della Terra del Fuoco: Alakaluf, Yamana, Selknam (Ona) e Haush (Manekenkn). Descritta dagli antropologi come tra le più arretrate del pianeta, la tecnologia di quei popoli ignari dell'agricoltura può essere considerata come paleolitica. Viaggiavano su fragili imbarcazioni, proteggendosi dal freddo intenso soltanto con rudimentali abiti fatti di pelle di guanaco. Vivevano unicamente di carne, perché qualsiasi forma di coltivazione era resa impossibile dal clima rigidissimo. Verso la metà del secolo XVIII i Chono furono visitati da missionari della Chiesa Romana, che composero un catechismo nella loro lingua nativa. Questo catechismo era intitolato "Doctrina para los viejos Chonos", ossia "Dottrina per i vecchi Chono". Infatti tutti i giovani Chono all'epoca in cui il testo fu scritto erano diventati bilingui, parlando anche la lingua degli Huilliche, che è una varietà di Mapudungun. A quanto pare, l'ultimo parlante Chono morì nel 1875. Siccome tutte le opere scritte nella lingua dei Chono andarono perdute assieme al dizionario e alla grammatica compilata dai missionari, gli studiosi finirono per credere che i Chono parlassero una varietà di Kawesqar, la lingua degli Alakaluf. Questa assurda supposizione, ispirata dal generale abuso del Rasoio di Occam fatto dagli accademici anglosassoni e germanici, si è rivelata falsa quando il catechismo per i Chono è stato riscoperto. Non è un testo lungo. Credo quindi che sia il caso di pubblicarlo integralmente in questa sede.

Quentaumet Dios?

Jo Padre.

Met yo cautau Dios?

Jo Padre.

Yglesiataumet Dios?

Jo Padre.

Acha taumet Dios?

Jo Padre.

Ecu lammet Dios?

Jo Padre.

Lam jeyeulam toquieu?

Jo Padre.

Fau [tau?] met Dios?

Dios Sap, Dios Cot, Dios Espiritu Santo, tas persona, cayca Dios üeñec.

Dios Sap?

Jo Padre.

Dios Cot?

Jo Padre.

Dios Espíritu Santo?

Jo Padre.

Dios tas?

Yamchiu, tas Persona, cayca Dios üeñec Padre.

Ti [Fi?] Dios eyuhau [ayuhau?] yemamin?

Jo Padre.

Yema zelà jasmou?

Jo Padre.

Queni cullin eyuic zeu agic Dios qui?

Lam lam leng jaguaitau.

Ni persona tas queni persona yentau tau?

Dios cot.

Quentim tecau?

Señor Jesuchristo.

Señor Jesuchristo cay acau zuquena Dios?

Jo Padre.

Señor Jesuchristo cay acau zuquena yema?

Jo Padre.

Zeu tau g[...]jo Señor Jesuchristo?

Jo Padre.

Queguai tu zeu tau Señor Jesuchristo?

Sua ta via.

Lam met jo quipet cay acua quenau?

Jo Padre

L'ortografia è quella spagnola, così "zuquena" si pronuncia all'incirca /sukena/; "jo" si pronuncia con una forte aspirazione iniziale, e così via. Alcune letture incerte sono indicate tra parentesi quadre con un punto interrogativo. Non esiste una traduzione tramandata di questo testo, soltanto quella fatta tramite metodo combinatorio dallo studioso italiano Alessandro Bausami (che tra l'altro è un islamista senza conoscenze delle lingue amerindiane). Ora, quello che si è potuto dedurre immediatamente e con sicurezza dall'analisi del catechismo sono le seguenti traduzioni:

sap = padre
cot = figlio
üeñec = uno
tas = tre
zuquena = vero
yema = uomo
acha = cielo
jo = sì
yamchiu = no
lam = buono
quentim = come
cau = chiamarsi
cay = anche
cayca = ma, però
met = essere, stare

Tra l'altro il termine "yema" è stato anche preso a prestito in alcuni dialetti Kawesqar, dove indica il concetto di uomo appartenente ad altro popolo, in particolare bianco e cileno. Probabilmente il prestito è avvenuto per via di matrimoni misti, non certo per una parentela tra le due lingue, che non si somigliano affatto. Si segnala qualche prestito dalla lingua dei Mapuche, come ad esempio "toqui-" /toki/ = chiedere, comandare (che è "tokin" in Mapudungun). Alcune frasi sono infatti ben chiare a causa dei molteplici prestiti dallo spagnolo, in quanto come si può ben immaginare la lingua dei Chono non era fatta per le dispute teologiche e per i concetti cattolici. Così abbiamo le seguenti traduzioni, altamente significative:

Ecu lam Dios? = Dio è tutto buono? 

Señor Jesuchristo cay acau zuquena Dios? = È il Signore Gesù Cristo vero Dio?
 

Señor Jesuchristo cay acau zuquena yema? = È il Signore Gesù Cristo vero uomo?

A tutte e tre le domande ovviamente il catechismo prescrive invariabilmente di rispondere: "Sì, Padre". Appare oggi evidente a tutti quanto assurdo fosse il tentativo fatto dai missionari di trapiantare nelle menti dei popoli nativi concetti che erano e sono tuttora assolutamente alieni alla loro cultura e al loro modo di vedere l'universo.

Appare però ancor più curioso che i catechismi, come questo sopra riportato, fossero concepiti quasi per prevenire lo sviluppo di concetti manichei. Da come i nativi americani concepiscono il mondo, dai loro paradigmi, pare del tutto improbabile che possano giungere a conclusioni dualiste ed anticosmiche. Questo però non importava ai missionari. Gli inviati della Chiesa Romana avevano ed hanno tuttora uno e un solo compito, che non è affatto quello di evangelizzare le genti: è quello di impedire che le genti possano diventare manichee, anche spontaneamente, anche senza che nessuno possa influenzarli insegnando loro qualcosa di dualista e di anticosmico.

Ai missionari non interessava nulla della salute fisica e spirituale dei popoli che incontravano, prova ne è che quelle genti furono ridotte in schiavitù, sterminate o costrette a meticciarsi e a perdere la loro cultura. Ai missionari interessava soltanto che alla domanda: "Chi ha creato il mondo è buono?", nessuno potesse rispondere: "No! Egli è malvagio!".

Se non si può condannare interamente l'opera di questi missionari è soltanto perché ci hanno preservato memoria di lingue oggi estinte o nascoste, che altrimenti sarebbero svanite irrimediabilmente nell'Oblio.