venerdì 22 settembre 2017


Wooden e Thunder, un apologo
per illustrare il concetto di continuità

In una regione rurale dell'Inghilterra, capitò a un etnologo, William P., di avere un guasto alla macchina e di dover chiedere ospitalità a una famiglia di contadini. Alloggiando in questa comunità agricola per qualche giorno, l'etnologo ha avuto occasione di ascoltare qualche strana storia che spesso veniva ripetuta dopo cena, davanti al fuoco del camino. Si parlava di un uomo di nome Wooden, che vagava di notte per i boschi, dando saggezza a chi lo incontrava. Wooden era descritto come privo di un occhio e dotato di lunga barba bianca. Un anziano saggio che trasmetteva anche il dono di comporre poesie. I contadini dicevano anche che Dio è un giovane robusto con barba e capelli rossi, che percorre il cielo in carro brandendo una grande mazza. Dicevano che Dio in realtà si chiamava Thunder e che creava i temporali, ma che non bisognava dire queste cose in presenza del Pastore per non farlo arrabbiare. Quando macellavano un animale, essi con poche e semplici parole lo davano in dono a Thunder e a Wooden. Nel loro dialetto rustico, il verbo per designare l'atto di uccidere l'animale era "to bloot", parola mai sentita prima dall'etnologo.

Una narrazione di pura fantasia, che ho concepito di getto. Tuttavia mi pare significativa per il fine che mi sono prefisso. Reputo un vero peccato che di simili resoconti non ce ne siano poi molti. Innanzitutto, non risulterebbe facile allegare una documentazione valida. In secondo luogo, non sembra che ci sia interesse a scoprire casi come quello di Wooden e di Thunder, anche ammesso che ne sussistano nella realtà dei fatti.

Si legge spesso di rinascita del Paganesimo in Inghilterra e altrove, ma a parer mio si tratta di una grande bufala. Il Neopaganesimo non è assimilabile al Paganesimo per molte ragioni. Intanto, il termine Paganesimo è di origine cristiana. Un autentico nostalgico del politeismo dovrebbe definire quello che il mondo chiama Paganesimo con il termine "Costume degli Antichi". Ma su questo possiamo soprassedere.

Cosa distingue forme di religione posticcia e costruita come la Wicca dal Costume degli Antichi? Innanzitutto il modo di porsi. I contadini inglesi che descrivono Dio in modo tanto pittoresco e che parlano del vagabondo Wooden, sono un esempio (per quanto non attestato) di autentica continuità. Il nome anglosassone Woden (corrispondente allo scandinavo Odino), passando attraverso il mutamento fonetico verificatosi nei secoli, sarebbe divenuto proprio Wooden - e dotato di falsa etimologia per connessione con "wood", ossia "bosco". Allo stesso modo, il nome anglosassone Thunor (corrispondente allo scandinavo Thor), sarebbe regolarmente divenuto Thunder - termine ancor oggi usato nella lingua comune con il senso di "tuono". In modo del tutto analogo, in Germania avremmo Wuten come regolare evoluzione di Wotan (o meglio Uuotan), e Donner come regolare evoluzione di Donar.

L'artificio e l'inganno, essendo spesso operati da ingenui, lasciano sempre una traccia di sé, e noi possiamo rilevarla. Quando nel XIX secolo cominciarono a nascere in Germania e in Austria sette che si auspicavano il ritorno agli antichi culti politeistici precristiani, i nomi delle antiche divinità furono estratti di forza da documenti scritti.

Non esisteva continuità, non esisteva alcun passaggio ereditario di generazione in generazione, neanche di un paio di racconti folklorici. Ecco perché Wotan è stato preso tal quale, anche se in tedesco tutte le antiche uscite in -an sono state indebolite in -en e la vocale -o- era in realtà un dittongo -uo-, che si sarebbe evoluto in -u- se la parola fosse stata tramandata oralmente.

Quanto esposto non toglie la possibilità di sopravvivenze molto tarde del Costume degli Antichi in Germania da parte di contadini che chiamavano il loro dio Wuten. Ma se questi pagani sono esistiti, come penso, essi non hanno nulla a che fare con Guido von List, con l'Ariosofia e con l'humus culturale che ha poi dato origine a svariate forme di Neopaganesimo tuttora viventi. Si tratta dunque di religioni diverse, del tutto prive di collegamenti.

Capite ora la differenza? La Wicca è un'impostura totale, filologicamente priva di qualsiasi credibilità, in quanto mescola vocaboli irlandesi antichi come Imbolc e Samhain (sempre mal pronunciati, è ovvio) con forme anglosassoni come Litha. Il termine Litha è attestato da Beda il Venerabile. Se fosse davvero sopravvissuto nella tradizione, sarebbe scritto Lithe, letto con il dittongo -ai- e con la -th- sonora di "together". Non sarebbe giunto fino a noi tal quale. E che ci farebbero questi termini irlandesi intatti nella grafia e pronunciati male nella supposta tradizione stregonica inglese? Poi c'è Mabon, che è gallese antico e che avrebbe potuto sopravvivere, ma non senza mutamenti. Perché questo miscuglio di irlandese, gallese e anglosassone? Semplice: perché chi l'ha creato non aveva l'idea di avere a che fare con culture diverse e ha preparato un bel pastone.

Quanto fin qui sostenuto a proposito dei culti politeisti dell'antichità, vale a maggior ragione per la Fede dei Buoni Uomini. La storia dei miei Padri consiste in qualcosa di molto simile alla sostanza del racconto di Wooden e Thunder, ossia ad elementi di Catarismo trasmessi di generazione in generazione. Ciò purtroppo è insufficiente a rifondare una religione, anche se ha per me un valore immenso. Ecco perché rifiuto ogni commistione, mi mostro insofferente verso elementi posticci e sincretismo con svariate forme di occultismo. Non voglio nel modo più assoluto imposture tipo culto del Merovingi e della Maddalena, Santo Graal e altre cose che la gente erroneamente attribuisce ai Catari, per ingoranza. Gran parte del Neocatarismo consiste in creazioni posticce analoghe alla Wicca. Possiamo fissare questa proporzione concettuale:

Catarismo : Neocatarismo = Paganesimo anglosassone : Wicca

Così come mostro il massimo rispetto per i politeisti autentici, che potrebbero benissimo non esistere più, e disprezzo quelli posticci e nati dalla cattiva lettura di testi volgari, allo stesso modo sono convinto che una religione creduta estinta possa rivivere, riorganizzarsi e tornare a crescere soltanto attraverso genuine sopravvivenze. Ogni discontinuità è una morte. Deve sussistere un seme per piantare un albero e far continuare la sua specie. Cerco un seme capace di germogliare anche in questo terreno ostile, e vedo intorno a me tanta gente che pianta semi di piante aliene ed infestanti spacciandoli per semenza antica. 

mercoledì 20 settembre 2017

NOTE SUL LAVORO DI FACCHINI

Riccardo Facchini (ricercatore indipendente) è l'autore del lavoro Il neocatarismo. Genesi e sviluppo di un mito ereticale (secoli XIX-XXI), apparso su Società e storia, n. 143. L'opera è liberamente consultabile e scaricabile al seguente url:


Avvertenza: Se la visualizzazione del documento non funziona, procedere senza esitare allo scaricamento servendosi dell'apposito pulsante verde.

Facchini riduce essenzialmente il Neocatarismo a una forma di medievalismo, dove «‘Medievalismo’ è un concetto che individua la rappresentazione, la ricezione e l’uso postmedievale del medioevo in ogni suo aspetto, dai revival, alle attualizzazioni in senso politico. Lo studio del medievalismo comprende dunque tutte le forme in cui il medioevo è stato rappresentato dal quattrocento a oggi, comprese la storiografia, l’archeologia e la storia dell’arte di argomento medievistico precedenti il XX secolo» (Di Carpegna Falconieri, 2011).

Mantenendosi fedele a questa impostazione, l'autore procede a fare una sintesi del processo di formazione del "mito dell'eretico" con riferimento al Catarismo, elencando, passando al vaglio e discutendo tutto ciò che è stato detto e pensato in epoca moderna sulla religione dualista medievale. Si parte dai Catari usati strumentalmente, impugnati come arma nella guerra tra Chiesa Romana e Massoneria, per arrivare a più moderne aberrazioni. 

Questo è l'indice dell'opera:

1. Da precursori di Lutero a custodi del Graal: i catari dal XVI al XIX secolo
  1.1. I catari e il protestantesimo
  1.2. Catarismo e romanticismo: una «quadrupla occultazione» all’origine del mito
2. Il Neocatarismo tra XIX e XX secolo: un revival sincretista
  2.1. La componente dialettica del mito alla fine dell’ottocento
  2.2. Poligenia del Neocatarismo
  2.3. Antonin Gadal e Otto Rahn: i catari e il Graal
  2.4. Catari, templari e croci uncinate
3. Catarismo e occitanismo nella prima metà del XX secolo
  3.1. Il catarismo, mito fondativo dell’identità occitana
  3.2. «Vous êtes en pays Cathare»: catarismo e turismo
4. Il Neocatarismo nella seconda metà XX secolo: una via gnostico-cristiana
  4.1. Déodat Roché, Simone Weil e René Nelli
5. Pop-catarismo: i catari nell’immaginario popolare contemporaneo
  5.1. Gli anni cinquanta e sessanta del XX secolo
  5.2. La narrativa neocatara oggi
6. Riflessioni conclusive

Va notato che il Facchini non è molto interessato alla teologia del Catarismo in quanto tale, in nessuna delle sue formulazioni: in sostanza è una religione i cui princìpi fondanti sembrano lasciarlo del tutto indifferente. La considera alla stregua dei dinosauri, come qualcosa di completamente superato dal corso degli eventi. La sua attenzione è puramente antropologica e si focalizza sul pensiero dei moderni nell'atto di riscrivere la Storia, etichettando come Catarismo forme di pensiero che con la Buona Dottrina non hanno nulla a che fare. In quest'ottica, le baggianate pseudostoriche del fantomatico "medaglione d'oro dei Catari" assumono un'importanza molto maggiore della disputa dottrinale tra Dualismo Assoluto e Dualismo Mitigato. Del resto la storia del Neocatarismo è in massima parte storia della disinformazione e della memetica più distorcente. Le complessità dottrinali non toccano il volgo, che è alla costante ricerca di sensazionalismo.

Se devo essere sincero, la scoperta dell'opera di Facchini mi ha sorpreso non poco, e questo per un motivo molto semplice: cita espressamente il blog Rinascita Catara, che risulta incluso nella bibliografia - sezione Enti, associazioni, istituzioni. Oltre a ciò, si parla anche della mia petizione per la soppressione dell'Ordine Domenicano, ormai vecchia di anni, che ancora fluttua nell'oceano del Web come una bottiglia lasciata alle onde da un naufrago, dispersa nell'immensità eppur contenente un messaggio importante. Ecco quanto è riportato nell'articolo: 

"Il cataro del terzo millennio sembra quindi preferire il web, piuttosto che i cenacoli intellettuali, come mezzo per diffondere il pensiero dei propri padri nobili e per avvicinare curiosi o simpatizzanti. Di fronte al fenomeno della diffusione in rete di suggestioni neocatare è giusto però proseguire con le dovute cautele, cercando di non sopravvalutare realtà poco diffuse164 e concentrandosi invece su quelle in qualche modo collegate a interpretazioni e pensatori già studiati finora165."

Mentre la nota 165 consiste in un lungo elenco di siti - tutti a me ben noti - la nota 164 mi riguarda più da vicino. Come viene specificato con cura, è relativa alle "realtà poco diffuse" che sarebbero da "non sopravvalutare". Il testo è il seguente: 

164. Ad esempio, può sorprendere constatare l’esistenza di una pagina internet, promossa da un presunto “discendente dei catari”, volta a promuovere “la soppressione dell’Ordine Domenicano”, reo di aver annientato “la Fede dei Buoni Uomini”. Questa però contava, al 25 luglio 2012, solo 67 iscritti.

Si noti che il Facchini evita con cura di linkare la petizione, che è stata lanciata da me medesimo. Rimedio alla sua mancanza:


Dedurre le dimensioni di una realtà online dal numero di firmatari di una petizione è cosa alquanto fallace e azzardata. Non mi aspettavo che uno studioso serio ci potesse cascare. Dirò dunque questo a proposito dei 67 firmatari nel 2012 (che sono ancora tali nel 2017): siamo soltanto in due ad essere credenti genuini. Ci sono pochi simpatizzanti, oltre ad alcuni ex simpatizzanti (tra cui uno scismatico). Diverse persone hanno aderito alla petizione per pura e semplice avversione nei confronti della Chiesa di Roma. Basti pensare che tra i firmatari ci sono diversi atei, un neopagano, un estimatore di Crowley e un satanista della Chiesa di LaVey, tutte persone che con il Catarismo hanno poco in comune. Alcuni addirittura sono completi sconosciuti: non ho la benché minima idea di quale sia il loro pensiero. Quello che Facchini non immagina è questo: se davvero fossimo in 67 credenti del Dualismo Assoluto della Chiesa di Dragovitsa, i poteri del mondo si sarebbero già mossi per annientarci. L'irrilevanza numerica, ben più marcata di quanto il Facchini immagini, non ci preoccupa affatto. Essendo il mondo creazione diabolica, se una religione ottiene il favore delle genti ed è ben vista dalle moltitudini, si può essere ben certi che non viene dallo Spirito. Per quanto pochi, ci teniamo a precisare che non ci dichiariamo "Neocatari". Siamo Credenti dei Buoni Uomini. Il nostro scopo è preservare e tramandare la Fede di Niceta e di Peire Autier nella sua purezza, senza compromissioni con il mondo e col suo pensiero.

lunedì 18 settembre 2017

NOTE SUL LAVORO DI BARTOLUCCI

Chiara Bartolucci (Soprintendenza Archeologia della Toscana) è l'autrice del lavoro De lingua origineque Etruscorum, in cui cerca di far luce sulla provenienza dell'inclito popolo tirrenico. Il testo è liberamente consultabile e scaricabile al seguente url:


L'autrice riassume le opinioni sull'origine allogena degli Etruschi già enunciate dagli autori dell'Antichità:

   - Erodoto (Storie, I, 94) riporta una teoria secondo la quale gli Etruschi provenivano dalla Lidia. Essi giunsero in Italia sotto la guida del re eponimo Tirreno a causa di una carestia poco prima della guerra di Troia (XII sec. a.C.),
   - Ellanico di Mitilene (in Dion. Hel., I, 28) teorizza che gli Etruschi giunsero in Italia a seguito della migrazione dei Pelasgi (misterioso popolo migratore del Mediterraneo orientale). Tale tesi è stata avvalorata, secondo la ricerca moderna, da alcune fonti egizie ovvero i resoconti da Amenophis III a Merneptah (1413-1220 a.C.). All'interno di tali documenti vengono trattate le scorrerie di diversi popoli, alcuni di essi di facile identificazione mentre altri di dubbio, se non impossibile riconoscimento. Tra i tanti nomi spicca /Trš.w/ che alcuni identificano con il termine greco Tyrsenoi/Tyrrenoi (Tirreni/Tusci), quindi gli Etruschi.

    - Anticlide (in Strab., V, 2-4): secondo lui Tirreno colonizzò prima le isole dell'Egeo (Lemno e Imbro) e poi l'Italia.
(cit.)

Lampante è la natura politica e ideologica delle opinioni di Dionigi di Alicarnasso sugli Etruschi come popolo autoctono. L'autrice fa notare che la testimonianza di Dionigi di Alicarnasso non è propriamente attendibile, in quanto viziata da argomenti politici tipici del Principato di Augusto. Difendendo l'origine greca di Roma e covando stizzosi sentimenti antietruschi, l'autore non poteva che ritenere i Rasenna indigeni, al preciso scopo di sminuirli, di rubare loro la gloria. Questa confutazione è di somma importanza, perché indebolisce la posizione dogmatica della Setta degli Archeologi, che di tutte le testimonianze degli autori antichi ne fanno prevalere una assolutamente minoritaria per sostenere il pilastro portante del Pallottinismo: l'idea del "farsi" degli Etruschi sul suolo italico, con totale inconoscibilità delle componenti d'origine, considerata una prosecuzione diretta dei Villanoviani.

Etruschi e genetica

Il complesso problema del DNA degli Etruschi porta a considerazioni che possono lasciare sgomenti. Com'è noto, le analisi genetiche sui resti di Etruschi e su moderni abitanti della Toscana non hanno dato esiti conclusivi. Si rimarca la fallacia e la fragilità logica dei tentativi di dimostrare la continuità genetica tra gli Etruschi e gli attuali toscani. La Bartolucci descrive lo scibile sull'argomento, anche se non mi pare che giunga a enunciare una teoria capace di fare chiarezza. A mio avviso è ben possibile che siano state le linee nobiliari dell'antico popolo a estinguersi e che siano sopravvissute numerose linee plebee o servili - il che renderebbe conto dei risultati marasmici delle indagini. Questa confusione potrebbe avere molteplici cause. La lingua etrusca avrà finito con l'accomunare un certo numero di genti di diversa origine, sebbene in origine sarà stata parlata soltanto da una minoranza giunta dal mare. Se le cose stanno così, smantellare il nocivo tabù pallottiniano che vieta l'indagine sul "farsi" degli Etruschi diventa una necessità prioritaria. 

La fallace testimonianza di Xanto 

Dionigi di Alicarnasso riporta quanto segue a sostegno delle sue tesi: "Xanto di Lidia, uno degli storici più autorevoli per quanto attiene alle antichità della sua patria, che non fa allusione in nessun passo dei suoi scritti a un capo lidio a nome Tirreno, o alla migrazione dei Tirreni in Italia, sottolineando come i due popoli presentino usanze e lingue diverse. Di conseguenza “l’opinione secondo me più verosimile è quella secondo la quale i Tirreni sono una nazione autoctona, vista l’originalità dei loro costumi e della loro lingua. Non c’è alcuna ragione per cui i Greci non avrebbero dovuto chiamarli Tirreni, dalle torri in cui vivono e dal nome di uno dei loro governanti." Il fatto che la anatolica lingua dei Lidi non somigli affatto a quella degli Etruschi non deve stupire: i Lidi sono sopraggiunti nella terra che da loro ha poi preso il nome soltanto quando i Tirreni erano già migrati. Una realtà lapalissiana, a cui tuttavia sembrerebbe che nessuno abbia seriamente pensato.

La lingua di Lemno

La Bartolucci cita un argomento che Pallottino ha cercato con ogni mezzo di tenere nascosto, ma che ha un potere devastante, in grado di far implodere la teoria autoctonista. Si tratta dell'attestazione di una lingua simile all'etrusco in un'iscrizione trovata nell'isola egea di Lemno, in un luogo lontanissimo dall'Etruria. Alcuni autori hanno tentato di far passare la lingua lemnia per un "rigurgito" provenuto dall'Italia, senza portare evidenze plausibili e fondandosi su ragionamenti di una fragilità logica molto spinta, forgiate cum dolo allo scopo di salvare il Pallottinismo. Riporto un passaggio del De lingua origineque Etruscorum"Come ogni testimonianza autoctonista, anche quella di Pallottino è incapace di spiegare in maniera convincente la testimonianza lemnia. Per Pallottino il contributo egeo alla lingua degli Etruschi storici va spostato al passato più remoto che si possa immaginare, e cioè verso l’inizio del II millennio a.C., il che rende la somiglianza tra lemnio ed etrusco inspiegabile." Aggiungerò che esistono alcune innegabili consonanze tra il lessico di base dell'etrusco e quello del sostrato preindoeuropeo della lingua greca. L'esempio dato dall'etrusco puia "moglie" e dal greco ὀπυίω "prendo in moglie" non può essere attribuito al caso. Tutto ciò dovrebbe porre fine una volta per tutte alle inveterate pastoie dogmatiche, lasciando libero il campo alla Scienza.

NOTE SUL LAVORO DI LAKARRA

Joseba Lakarra della University of Basque Country (Euskal Herriko Unibertsitatea, Universidad del País Vasco) è un importante vasconista. La sua pagina su Academia.edu permette di consultare e di scaricare liberamente numerosi suoi lavori sulla lingua basca (Euskara), mentre di altri è riportato soltanto il titolo. Questo è l'url:


Come tutti ormai sapranno, il basco è una lingua isolata, che non presenta somiglianze evidenti con nessun'altra lingua del pianeta. Il problema della sua origine, che si perde nella notte dei tempi, è dunque cruciale. È l'unico superstite delle lingue preromane parlate nella penisola iberica. La sua differenza con le lingue di ceppo indoeuropeo è stridente, nonostante nel corso dei secoli abbia preso a prestito numerosissime parole dalle lingue finitime, a iniziare dal latino dell'epoca imperiale, per poi continuare con il latino tardo e con le lingue romanze che sono derivate dalla sua decomposizione.

La ricostruzione delle protoforme del basco è stata fondata da Koldo Michelena della Universidad del País Vasco (1915-1987) e portata avanti sugli stessi princìpi fondanti dall'inglese Robert Lawrence "Larry" Trask (University of Sussex), deceduto nel 2004 a causa di una terribile malattia neurologica. Michelena è riuscito a ottenere grandi risultati confrontando tutte le varietà dialettali note e le alternanze grammaticali, riuscendo così a recuperare le forme originali, che trovano conferma in molte parole del lessico di base dalla testimonianza delle iscrizioni acquitane, contenenti antroponimi in una lingua che doveva essere assai simile all'antenato del basco parlato tuttora. Anche i prestiti dalla lingua latina hanno dato un grande contributo a quest'opera di ricostruizione, aiutando a comprendere certe trasformazioni dei fonemi che sono avvenute nel tempo. 

Una volta ricostruite le protoforme, si arriva a radici che in genere non sono ulteriormente etimologizzabili. Joseba Lakarra tenta di andare oltre questo stadio della protolingua, cercando di isolare monosillabi in grado di spiegare le radici polisillabiche come composti preistorici. Evidenzia anche numerosi esiti di quella che ricostruisce come un'antica reduplicazione. Questi sono alcuni esempi:

protobasco *adaR "corno" < *da-daR
protobasco *anaR "verme" < *na-naR
protobasco *edeR "bello" < *de-deR
protobasco *odol "sangue" < *do-dol
protobasco *onol "tavola" < *no-nol
protobasco *unuR "nocciola" < *nu-nuR 

L'autore parla di questi metodi di analisi nel suo articolo Teoría de la raíz monosilábica y reconstrucción del protovasco: algunos aspectos y conseguencias


Esiste anche la versione in inglese, che forse risulterà di lettura più agevole per i pochi internauti interessati: 


Passiamo ora ad alcune sintetiche considerazioni. Si evidenzia innanzitutto la diversità di approccio in Lakarra e nei comparativisti.

1) Lakarra
Tende a spiegare Omero con Omero, cercando unicamente comparazioni interne, riducendo tutte le forme polisillabiche a composti di monosillabi un tempo indipendenti.
Es. labur "corto" < *la- + -*buR, con lo stesso elemento di samur "tenero" < *san- + -*buR.

2) I comparativisti
Tendono a separare una radice di tipo CVC- (consonante + vocale + consonante) e interpretare come suffisso tutto ciò che segue, cercando assonanze nel mondo mediterraneo.
Es. labur "corto" < *lab-uR, confrontato con il greco labrys "ascia bipenne", Labyrinthos "Labirinto", e via discorrendo. La semantica sarebbe la seguente: "corto" < "reciso" < "ascia".

Chi ha ragione?

Limiti della posizione 1): Tende a ritenere la lingua un isolato assoluto, negando ogni confronto esterno. È soggetta a rischio di metanalisi (false etimologie).

Limiti della posizione 2): Tende a proiettare una forma presente tal quale nel passato e a non curarsi della ricostruzione di una protoforma a partire dai dati disponibili. È soggetta a rischio di metanalisi (false etimologie).

A parer mio non esiste una regola assoluta: occorre procedere caso per caso e discutere ogni singola parola, verificando e riverificando le evidenze. Si noterà che la teoria della reduplicazione introdotta da Lakarra trova una notevole corrispondenza in paleosardo, come mostrato con grande merito Eduardo Blasco Ferrer, deceduto nel gennaio 2017 per arresto cardiaco. Infatti abbiamo nei toponimi paleosardi le forme DOL- e DO-DOL- "rosso, color sangue" (es. DODOLIAI, DOLAI), che sono in perfetto accordo con le protoforme pre-protobasche ricostruite da Lakarra. Anche alcune ricostruzioni di parole composte nel protobasco, poi semplificatesi nel basco storico, sono di grande aiuto nell'indagine del materiale toponomastico paleosardo e lo stesso Blasco Ferrer ne ha tratto grande giovamento. Ad esempio è molto utile l'analisi di hibai "fiume"  come *hur "acqua" + *ban- "tagliare" + i, che trova corrispondenza nell'idronimo di origine paleosarda baku ORBAI, anche se permangono alcune difficoltà fonetiche e semantiche. Non va però taciuto che ci sono non pochi casi in cui Lakarra ha preso cantonate spaventose. Un esempio paradigmatico è zauri "ferita", assurdamente ricondotto al latino sanguine(m) tramite tutta una serie di passaggi estremamente improbabili che non possono essersi verificati nel basco storico.

sabato 16 settembre 2017

NOTE SUL LAVORO DI ASMUS

Sabine Asmus (Università di Lipsia; Università di Stettino) è l'autrice di un interessantissimo lavoro sullo stato della lingua gallese e sulla sua trasmissione, intitolato "Acquisition of distorted language as an obstacle to cultural continuity" or: home-made language shift. Si tratta di una presentazione ppt stampata in formato pdf, che può essere scaricata al seguente url: 


L'autrice parte descrivendo la situazione della lingua in analisi:

1) Il gallese è lingua ufficiale in Galles dal 2011.
2) Ha acquisito una fama leggendaria di enorme revival.

3) In contrasto con questo mito della rivitalizzazione, la lingua gallese subisce un inarrestabile declino. I dati sociodemografici ci dicono che il numero di parlanti è passato da 582.000 nel 2001 (21% della popolazione) a 562.000 nel 2011 (19%), a dispetto della crescita della popolazione.
4) Le cose sono destinate a peggiorare a causa del crescente numero di britannici non gallesi che si stanziano nel Galles. In un articolo del Telegraph si evidenzia questa tendenza: 


Il passo successivo è l'indagine delle cause di questo disastro. La tesi della Asmus è la molto semplice. La grave decadenza del gallese sarebbe a suo avviso dovuta all'assenza di uno standard linguistico univoco, sicuro e riconosciuto da tutti. Le autorità linguistiche sono due:

1) I Bardi medievali; 
2) La traduzione della Bibbia, eseguita nel 1588 e rinnovata soltanto quattro secoli dopo, nel 1988.  

I Bardi erano visti come autorità della lingua parlata, dato che la loro tradizione era tramandata oralmente. A codificato la lingua scritta è stata invece l'opera di traduzione delle Scritture. I grammatici più antichi si basavano sui Bardi, ma lavoravano individualmente, dato che non erano organizzati in alcuna istituzione. La Bibbia in gallese è invece nata dalla collaborazione tra autorità ecclesiastiche, umanisti ed eredi degli antichi Bardi. Lo standard linguistico risultante è rimasto in vigore per secoli, anche se a quanto pare non è del tutto soddisfacente. Quello che la Asmus lamenta è l'assenza di una tradizione accademica continuativa. Ad esempio, in Galles non è esistito alcun dipartimento accademico in grado di occuparsi della lingua gallese prima del tardo XIX secolo. Ancor oggi la ricerca linguistica è negletta. Le lacune di un mondo accademico malfunzionante sono colmate in qualche modo da alcune case editrici internazionali, che pubblicano tutta una serie di guide per l'apprendimento della lingua e di altro materiale didattico, del tipo "Teach yourself Welsh", "Learn Welsh in three months", "Colloquial Welsh" e innumerevoli altri. 

Punti critici:

a) Le università tendono a creare il proprio materiale utilizzando riferimenti datati.
b) Non viene fatta ricerca sulla fonologia, sulla grammatica, sulla formazione delle parole, sulla loro semantica.
c) Non esiste alcun dizionario monolingue, scritto interamente in gallese.
d) Non esiste alcun dizionario con trascrizione fonetica dei lemmi.
Lo stato di codifica della lingua è quindi insufficiente.

Risultato di tutto questo: la lingua gallese subisce un processo di semplificazione grammaticale e spesso si producono distorsioni nel corso del suo apprendimento. Come si può facilmente capire, l'acquisizione di una lingua distorta è un grave problema.

Conclusioni:

Il lavoro della Asmus ha forse il limite di essere rivolto principalmente a parlanti della lingua gallese che hanno acquisito una competenza di origine scolastica. A quanto pare, quello che manca è una tradizione orale vibrante, come quella che in epoca medievale produsse i componimenti bardici. Una lingua viva e vitale è come un fuoco che arde e divampa. Non è possibile accendere un simile fuoco servendosi dell'istituzione scolastica e dell'Accademia. Sembra come un gatto che si morde la coda. Il fuoco si estingue e per cercare di ravvivarlo gli si getta sopra della cenere, facendolo languire ancor di più. Non è una cosa logica. Bisogna capire come sia possibile una continuità culturale e linguistica in condizioni simili.

NOTE SUL LAVORO DI BALDAZZI-VERZICCO

Barbara Baldazzi (Università di Roma "Tor Vergata"; Università degli Studi di Roma "La Sapienza") e Liana Verzico (Primo Ricercatore presso ISTAT, LUISS Buisiness School) sono le autrici del rapporto ISTAT intitolato L'uso di dialetti e lingue straniere in Italia, relativo all'anno 2012. Questo è l'url della pagina che riassume i risultati dell'indagine: 


Nella stessa pagina si trova subito il link al testo integrale del rapporto, che è liberamente consultabile e scaricabile.

Cosa molto interessante, i dati del 2012 sono confrontati nei grafici con quelli della precedente indagine, i cui numeri risalgono al 2006. Nelle tabelle la serie storica va ancora più indietro nel tempo: è possibile valutare meglio il trend delle percentuali di parlanti grazie ai dati del 1995 e del 2000.

Questi sono i (prevedibili) risultati relativi ai dialetti:

1) Cresce l'uso dell'italiano, diminuisce fortemente l'uso esclusivo del dialetto.
2) L’uso prevalente dell’italiano è  correlato  inversamente  all’età in tutti  i contesti relazionali.
3) Le donne mostrano una maggiore propensione a esprimersi soltanto o prevalentemente in italiano in famiglia e con gli amici.
4) Usano prevalentemente il dialetto in famiglia e con gli amici  coloro che hanno un titolo di studio basso.
5) Ancora in calo le differenze territoriali nell'utilizzo dell'italiano.
6) Diminuiscono le differenze sociali nell'uso della lingua italiana.

In tutti i casi è confermato il trend di decrescita della dialettofonia già evidenziato per il 2006. Nel giro di sei anni, la percentuale del campione statistico che si esprime solo o prevalentemente in dialetto nell'ambito della famiglia è passato dal 15% al 9%. Un declino non irrilevante. La percentuale di persone che si esprimono solo o prevalentemente in italiano è passata dal 44,8% al 53,1%.

Anche i risultati relativi alle lingue straniere mi sembrano avere caratteristiche salienti abbastanza scontate. La sezione che li illustra si intitola "Le altre lingue: conoscenza diffusa ma di bassa qualità, con qualche sorpresa". Questo è quanto: 

1) Conformemente alla presenza  di immigrati  e minoranze linguistiche tra la  popolazione residente,  la  quota  di  quanti  hanno  almeno  una  madrelingua  diversa  dall’italiano  ammonta all’8,8%.
2) La  conoscenza  di  un'altra  lingua  è  maggiormente  diffusa  tra  i  giovani  di  18-24  anni.
3) Con riferimento al tipo di lingue conosciute, il  43,7% della  popolazione di  18-74 anni conosce l'inglese, il 21,7% il francese, mentre il tedesco (4,8%), lo spagnolo (4,5%) o eventuali altre lingue (2,1%) sono conosciute da una quota residuale di persone.
4) La conoscenza dell’inglese è molto diffusa tra le  nuove generazioni:  la conoscono quattro giovani di 18-24 anni ogni cinque. 
5) Emerge una forte  differenza territoriale: le altre  lingue sono più diffuse  nel Nord-Est  (64%), nel Nord-ovest (62,1%), nel Centro (61,9%) e nei Comuni centro di aree metropolitane (65,8%) mentre nel Sud e nelle Isole i valori sono nettamente inferiori (49,1%).
6) La conoscenza di altre lingue è rimasta sostanzialmente stabile rispetto al 2006. La conoscenza dell’inglese rimane costante a tutte le età.
7) Differenze importanti si riscontrano considerando la condizione occupazionale e professionale.
8) Il  titolo di studio ha un’influenza fondamentale nella conoscenza di lingue diverse dalla madrelingua, tale da annullare in parte le differenze generazionali. 
9) Considerando il giudizio complessivo espresso dagli intervistati, trova conferma l’idea che in Italia il livello di conoscenza di altre lingue è piuttosto elementare.

Nel precedente rapporto si evidenziavano  "livelli di conoscenza delle lingue straniere ancora bassi, ma maggiori tra donne, giovani e laureati", aggiungendo che "conversare e scrivere <sono> le capacità meno diffuse"

A quanto vedo, nel lavoro relativo al 2012 è stata espunta la sezione "Le modalità di apprendimento delle lingue straniere", presente nel 2006, in cui si evidenziava che l'ambiente in cui gli italiani apprendono lingue diverse dalla propria è principalmente la scuola. Si smussano gli angoli, omettendo di specificare che le cause della conoscenza di bassa qualità delle lingue straniere sono da ricercarsi nel sistema scolastico. 

Reazioni nel Web: 

Mi sono imbattuto in un'interessante presentazione ppt (stampata in pdf) che commenta il lavoro di Baldazzi-Verzicco, contestandone vigorosamente le conclusioni. Risale al 2014 e fa parte del materiale didattico dell'Università per Stranieri "Dante Alighieri" di Reggio Calabria. Può essere consultata e scaricata liberamente a questo url: 


L'autore del file, il cui nominativo non è conosciuto, contesta innanzitutto la natura soggettiva delle risposte delle persone che compongono il campione statistico, per necessità basate sull'autovalutazione, e quindi ritenute in sostanza inattendibili. Il ragionamento fatto è il seguente: un intervistato potrebbe sottostimare la sua dialettofonia, essendo convinto di parlare prevalentemente italiano. Potrebbe anche capitare che la dialettofonia venga dissimulata per snobberia. Viene riportato il colorito commento di una salentina, apparso su una pagina di Facebook: 

"A mie nu me cuntàti. Lu parlu ogne giurnu! Le autre fimmine fannu tutte le signiure quandu rispundenu alli questionari, poi tornane a casa e parlane chiui strascinate de mie." 

A dire il vero, la mia esperienza mi porta a ritenere tutto il contrario: i parlanti dei dialetti italiani tendono a sovrastimare la loro capacità e la loro dialettofonia. Innumerevoli persone dichiarano di parlare fluentemente il loro dialetto, quando in realtà lo mescolano in modo sistematico all'italiano (code-switching e code mixing). Inoltre esiste una cosa che il parlante dialettale medio non riesce a comprendere: il fatto incontestabile che tutte queste varietà linguistiche sono condannate all'estinzione e procedono verso l'exitus perdendo pezzi giorno dopo giorno. 

venerdì 15 settembre 2017

NOTE SUL LAVORO DI BARLASSINA-DEL PRETE

Luca Barlassina (Università di Sheffield) e Fabio Del Prete (Università di Tolosa II) sono gli autori del lavoro The puzzle of the changing past, in cui è trattato il problema della mutabilità del passato ("mutability of the past"), a mio avviso in modo assai capzioso e insostanziale. L'articolo è liberamente consultabile e scaricabile al seguente url: 


Questo vanno affermando gli autori in questione: 

"Se voi pronunciate la frase (1) "Obama nacque nel 1961", voi dite qualcosa di vero sul passato. Siccome il passato sarà sempre tale che l'anno 1961 ha la proprietà di essere il tempo in cui Obama è nato, sembra impossibile che tale proposizione potrà mai essere falsa in un contesto futuro. Noi considereremo il caso di una frase sul passato esattamente come (1), ma che era vera quando fu pronunciata qualche anno fa è non è più vera adesso. Su questa base, dobbiamo concludere che il passato è cambiato." 

Come in generale tendono a fare i moderni ontologi temporali, anche Barlassina e Del Prete confondono in modo sistematico i problemi di sostanza con i problemi di forma. Alla base del loro articolo, che ha qualcosa dell'incredibile, sta infatti la confusione tra due concetti: il tempo come insieme ordinato di configurazioni e il tempo grammaticale. Gli anglosassoni e i loro imitatori cosmopoliti credono fermamente che la grammatica inglese equivalga all'ontologia. Confondono quindi questioni puramente lessicali e morfologiche con questioni eminentemente metafisiche.

Il nucleo argomentativo di The puzzle of the changing past è un esempio concreto quanto erroneo, che colgo l'occasione di stigmatizzare. Nel Medioevo, alla Sorbona, uno studente che avesse fatto un ragionamento simile sarebbe stato preso a calci in culo. Questo ci dice il testo di Barlassina-Del Prete:

1) Lance Armstrong ha vinto sette volte il Tour de France dal 1999 al 2005;
2) In seguito, Lance Armstrong è stato squalificato per doping sistematico e i suoi premi sono stati annullati;
3) Ora della fine, Lance Armstrong non ha vinto nessuna edizione del Tour de France

L'accaduto è usato come prova del fatto che il passato sarebbe davvero cambiato. Così ci viene detto, che l'affermazione "Lance Armstrong ha vinto il Tour de France", che era vera il giorno di Natale del 2002, nel giorno di Natale del 2013 non era più vera, essendo intervenuta la squalifica, perché tale provvedimento avrebbe avuto il potere magico di annullare retroattivamente ogni precedente vittoria del ciclista americano. Siccome Lance Armstrong rappresentava gli Stati Uniti d'America nella competizione sportiva su suolo francese, ecco che la frase "gli Americani hanno vinto il Toure de France dal 1999 al 2005" sarebbe diventata in seguito falsa.

In realtà il passato descritto non è assolutamente mutato. L'errata idea di mutamento del passato insorge nei due ricercatori italiani anglizzati perché hanno proiettato nel presente la conoscenza di due eventi passati non contemporanei. Sarebbe come dire che durante un viaggio in India un maharaja mi ha donato un rubino che poi mi è stato rubato. Il fatto che il gioiello mi sia stato sottratto non cambia di un iota il fatto che in precedenza mi è stato donato. Ne consegue che qualsiasi proposizione descrivente un cambiamento nello stato di cose potrebbe essere presa da Barlassina-Del Prete come una prova artificiosa di mutabilità del passato. Consideriamo la seguente serie ordinata di eventi:

Tempo 1: Il Tenente Colombo è noto per il suo acume investigativo;
Tempo 2: Il Tenente Colombo manifesta i primi sintomi di morbo di Alzheimer;
Tempo 3: Il Tenente Colombo viene congedato per malattia;
Tempo 4: L'ex Tenente Colombo viene trovato in stato di confusione mentre vaga nudo per le vie della città, col volto coperto di escrementi;
Tempo 5: L'ex Tenente Colombo viene ricoverato in gravi condizioni di demenza;
Tempo 6: Dopo una lunga agonia nel nosocomio, l'ex Tenente Colombo spira. 

Secondo Barlassina-Del Prete, il fatto che l'uomo noto come Tenente Colombo si sia ammalato di morbo di Alzheimer cambierebbe il passato, annullando l'acume investigativo di cui lo stesso soggetto ha dato prova negli anni in cui era sano. Di più: il fatto che tale uomo sia morto, implicherebbe che non sia mai stato vivo.

A questo punto, messi alle strette, i sostenitori della mutabilità del passato potrebbero pensare a un modo per respingere la mia argomentazione, affermando che la squalifica di Lance Armstrong non sarebbe come la demenza e la morte del Tenente Colombo. In realtà è proprio la stessa cosa: non esiste una proprietà ontologica definita "squalifica reatroattiva per doping" che possa alterare la natura degli eventi passati, vanificando un'altra proprietà ontologica definita "leale vittoria al Tour de France". Quando Lance Armstrong vinse, non esisteva sentore della sua successiva squalifica, quindi la sua vittoria è da considerarsi genuina nel contesto temporale in cui gli fu attribuita - anche se oggi non la consideriamo più tale. Per fare un esempio, l'UCI (Unione Ciclistica Internazionale) ha semplicemente annullato il 22 ottobre 2012 la sua precedente dichiarazione che faceva di Lance Armstrong il vincitore del Tour de France del 2000 - dichiarazione di vittoria che deve quindi essere considerate valide fino all'emissione della squalifica.  

Il fatto che gli autori partano in quarta con una serie fittissima di inutili operatori logici - come accade in numerosissimi articoli sulla natura del tempo - dà la misura del fatto che gli ontologi temporali sono incapaci di maneggiare verità lapalissiane che chiunque dovrebbe essere in grado di comprendere. 

Conclusioni: 

Emerge la natura eminentemente politica e ideologica del dibattito sulla cosiddetta "mutability of the past" - locuzione creata da George Orwell, usata nel suo romanzo 1984 e resa popolare dall'amministrazione di un altro George, questa volta W. Bush, allo scopo di fornire alle masse acefale una base concettuale in grado di far accettare le peggiori ribalderie.

mercoledì 13 settembre 2017

NOTE SUL LAVORO DI TIPPETT-TSANG

Il fisico e matematico Benjamin Tippett (University of British Columbia) e l'astrofisico David Tsang (McGill University, Montreal) sono gli autori del lavoro Traversable Achronal Retrograde Domains in Spacetime, ossia "Domìni retrogradi atemporali attraversabili nello spaziotempo", in cui investiga la possibilità di viaggi nel tempo retrogrado (verso il passato). L'articolo è liberamente scaricabile e consultabile al seguente url:


Si trova nel Web anche un altro lavoro in forma di presentazione ppt stampata in pdf, con un titolo lievemente diverso (compare l'accettivo Acausal "acausale" anziché Achronal) e con Tippett come unico autore:


Il primo lavoro risale al 2013, il secondo al 2016. In numerosi quotidiani online si parla soltanto di Ben Tippett e il merito di questi studi sono attribuiti a lui solo dai relativi giornalisti. Non so darne una chiara spiegazione e non so cosa sia successo. Forse i due scienziati hanno litigato e si sono divisi? In ogni caso, siccome i concetti erano già ben enunciati nell'articolo del 2013, citerò sempre anche Tsang. 

Secondo Tippett e Tsang il viaggio nel passato sarebbe matematicamente possibile. Va tuttavia fatto notare qualcosa che non sembra entrare nella testa dei giornalisti e dei cronisti: la possibilità matematica di viaggio nel tempo nel mondo subatomico verso il passato non implica la possibilità fisica di viaggio nel tempo retrogrado in un universo macroscopico causale. 

Gli studi di Tippet-Tsang ipotizzano la possibilità di costruire una specie di bolla temporale, che viene chiamata TARDIS (acronimo tratto dal titolo dell'articolo). Naturalmente si tratta di un modello matematico e non di un prototipo del marchingegno fantastico partorito dalla fantasia di Herbert George Wells. Per tradurla in realtà, a sentir gli autori, sarabbe necessaria una certa "materia esotica", che è tuttavia impossibile a trovarsi e, soprattutto, se anche si riuscisse a trovarla, non sarebbe manipolabile da esseri umani. 

Queste sono le mie obiezioni ai concetti sostenuti dagli autori:

1) Come può una regione acausale dell'universo permettere l'attraversamento a un corpo fisico che per necessità intrinseca obbedisce al principio di causalità?
2) Se anche si instaurasse un loop chiuso, come si farebbe a far tornare il viaggiatore nella realtà fisica dello spaziotempo di Minkowski? Fatemi capire. Dovrebbe rimanere intrappolato per sempre in una tremenda condizione di prigionia?

Quello che mi fa pensare che questi accademici si droghino pesantemente è il loro commento alle condizioni di vita di un'ipotetica sperimentatrice chiusa nella bolla temporale (Amy), e di un'osservatrice rimasta all'esterno della bolla stessa, nel nostro mondo (Barbara). Quando ho letto non ci volevo credere: "Life inside the bubble is colourful and sexy and fun. Life outside the bubble is grey and drab, and dresses like a school teacher from the 1960's". Certo, è umorismo, non qualcosa di serio. In ogni caso, come ci possano essere cose "divertenti" e "sexy" in un mondo in cui alla causa non segue l'effetto non è dato sapere.

Inesistenza di vera retrocausalità

Più che l'attraversamento di una regione acausale, il loop descritto da Tippett-Tsang rimanda al concetto di self-fulfilling prophecy, descritto come una forma di retrocausalità. Essi credono che la bolla temporale funzionerebbe così. In realtà la cosa mi lascia profondamente scettico. Il loop di TARDIS impedirebbe persino l'esistenza di materia biologica. Detto questo, persino il concetto di self-fulfilling prophecy è critico e va maneggiato con cura. Nella realtà in cui viviamo, una vera e propria retrocausalità non esiste. In altre parole, ogni apparente eccezione sarebbe un evento che non sfugge alla catena casuale in cui l'effetto segue la causa. Questa è la sequenza:

evento e1: Qualcuno afferma una proposizione
    (causa c1)
evento e2: Alcuni la raccolgono
    (effetto di c1 = causa c2)
evento e3: La proposizione si diffonde
    (effetto di c2 = causa c3)
evento e4: La proposizione si realizza
    (effetto di c3).

La causa c1 non è una profezia in quanto colui che pronuncia la proposizione non prevede davvero il futuro, non ha su di esso uno sguardo privilegiato: l'evento iniziale e1 non è causato dal futuro e4. Se si afferma il contrario, serve dimostrazione inconfutabile. Servono prove concrete. Per avere retrocausalità si dovrebbe provare che l'autore della profezia ha realmente visto il futuro in atto, che esisterebbe indipendentemente dal presente (B-eternismo). Tuttavia questa dimostrazione ci appare impossibile. Ovviamente la prova di un caso di vera retrocausalità è a carico di chi ne afferma l'esistenza.

Conclusioni:

Bellissime le equazioni, bellissime le metriche. A dispetto di questo, reputo lo studio ozioso e viziato dall'impossibilità di ogni essere umano di distaccarsi dal tempo che definisce la sua esistenza. Se devo essere franco, è molto probabile che esista un Censore Cosmico in grado di impedire la realizzazione di abominazioni come TARDIS.

martedì 12 settembre 2017

NOTE SUL LAVORO DI WILLIAMS

Hugo Williams (Università di Melbourne) è l'autore dell'ambizioso lavoro A defence of B-Series Eternalism: A facilitator between self & physics, in cui si intende fornire una dimostrazione della teoria B-eternista, o eternismo non tensionale, che considera il tempo come un insieme ordinato di configurazioni statiche anziché come un flusso. In quest'ottica, l'attimo presente non si troverebbe in alcuna posizione di privilegio rispetto agli attimi passati e futuri, che sono tutti dotati della stessa realtà. Lo studio in questione può essere consultato e scaricato gratuitamente al seguente url:


Mentre scrivo, Williams è ancora uno studente graduato, eppure è già diventato un missionario della Setta dei B-Eternisti, fanaticamente convinto della natura soggettiva dello scorrere del tempo. Già nella descrizione del contenuto del suo breve articolo, egli sostiene di voler argomentare che la narrazione eternista del tempo è corretta e che è la più compatibile con la fisica e con il sé. Questa cruciale dimostrazione, a sentir lui, sarebbe contenuta - incredibile dictu - in sette pagine. 

Egli afferma quanto segue:

"La più notevole obiezione è che l'eternismo non può rendere conto del flusso temporale o della nostra fenomenologia temporale, del fatto che il tempo sembra fluire per primo e che il tempo sembra passare attraverso momenti di futuro/presente/passato rispetto alla nostra mente. Il tempo mi sembra fluire, e persino Einstein lottava contro ciò, ma dovette concludere che questo flusso non è nel tempo stesso."

Premesso che non ho in tasca una risposta definitiva e inconfutabile alla delicatissima questione dell'ontologia temporale, devo dire di essere molto scettico sulle teorie B-eterniste. La questione non sarà certo risolta da un post, come non lo è dall'articolo di Williams, ma ho alcune obiezioni, che a quanto pare non sono state mosse in alcun contesto accademico, o almeno non sono riuscito a trovarne traccia.

1) Una grave e sistematica confusione tra percezione e realtà soggiacente

La soggettività della percezione del flusso temporale è confusa da Williams, come già da Gödel e da Einstein, con l'assenza di ontologia del flusso stesso. Così riassume lo studente di Melbourne:

"Se noi tentiamo di dire che il flusso è caratteristico del mondo, allora perché nessuno stato cognitivo, empirico o temporale può collocare un flusso che è consistente tra la gente? Nonostante questo, se accettiamo che il tempo non abbia in se stesso un flusso oggettivo, e che prenda il suo flusso dal tempo stesso, ma anche che il movimento direzionale del tempo è stabilito dal suo flusso, allora come venire da <qualche parte> e rendere conto del tempo oggettivo? Questa inconsistenza con i propri requisiti soggettivi di flusso temporale, e la sua registrazione ad opera dello stato temporale della gente, indica che se non possiamo rendere conto empiricamente della sua oggettività, allora è minato dalla sua percezione inconsistente da parte delle nostre menti temporali/soggettive e dai requisiti che riponiamo in esso. Ciò che sembra, è che sia una proprietà completamente soggettiva che è creata come metafora per fondare noi stessi e i momenti nel più vasto passaggio del tempo o la nostra fenomenologia temporale intuitiva."

Nella mente dell'autore non è chiara la differenza: secondo la sua logica dire che la percezione del tempo che passa dipende dal contesto ed è soggettiva, equivale a dire che l'universo è immobile e che non esiste il mutamento. Affermazioni gravissime per le conseguenze che comportano. Questa confusione può essere messa in evidenza da questa sequenza di eventi:

istante t1: Albert stringe tra le mani un bicchierino
     con un cicchetto di acido cianidrico
istante t2: Albert si porta alle labbra il bicchierino
istante t3: Albert ingerisce l'acido cianidrico
istante t4: Albert stramazza al sulo, fulminato dal veleno.

Non c'è alcuna soggettività nel flusso che porta dall'istante t1 all'istante t4. In ogni caso, quale che sia la percezione di Albert, varrà la proposizione seguente: "t1 precede t2, che precede t3, che a sua volta precede t4". Non è possibile invertire questi istanti. Negando questo dato di fatto, lo stesso Einstein, così perfettamente razionale, ha flirtato pericolosamente con la pseudoscienza. L'eternismo non tensionale attribuisce a t1, t2, t3 e t4 la stessa dignità ontologica nell'eternità, senza distinguere passato, presente e futuro, ma non può spiegare il loro avvicendarsi.

2) Insensatezza delle configurazioni statiche

Se immaginiamo che il tempo abbia origine in un universo statico, ecco che le nostre sequenze dotate di senso (causalità), ne sarebbero prive nell'universo d'origine. Chi avrebbe ideato l'insieme di configurazioni che sta dietro a ciò che chiamiamo "evento"? Partendo da cosa? Dovremmo presupporre un disegnatore paranoico che dispone in ordine quadri ritraenti leoni predanti e gazzelle fuggenti, al fine di creare una specie di cartone animato - che è la realtà in cui viviamo! E codesto disegnatore da dove trarrebbe ispirazione per creare o plasmare e disporre in ordine i quadretti in questione? Trarrebbe ispirazione da un altro universo più grande del nostro? E tale universo, da dove trarrebbe a sua volta la sua origine? Dato che questo disegnatore dovrebbe agire, sarebbe lui stesso sottoposto al divenire, al passaggio da una configurazione a un'altra. E il suo "tempo", da dove trarrebbe origine?

3) Insensatezza del quadro universale  

Se affermassimo che gli eventi esistono indipendentemente dalla loro collocazione in quello che chiamiamo "tempo", allora l'intero corso della storia dell'Universo esisterebbe da sempre e per sempre, o meglio, nell'eternità. Resta allora da capire cosa significherebbe mai questo immane quadro definito al di fuori di quello che percepiamo come "flusso". Sarebbe un affresco scoordinato di proporzioni inconcepibili, che comprende tanto i dinosauri quanto il contesto in cui Cicciolina ha preso in bocca i suoi primi uccelli, ricevendo i suoi primi carichi spermatici. Mentre noi potremmo, a patto di disporre delle informazioni necessarie, tracciare una cronistoria degli eventi che dai dinosauri hanno portato a Cicciolina nel corso di milioni di anni, Williams e i suoi consimili non ci possono riuscire, in quanto negano il principio stesso di causa-effetto per affermare una forma radicale di monadismo in cui ogni configurazione a noi nota come "istante" è scollegata da tutte le altre. 

4) Violazione del principio di economia ontologica

Come impedire la moltiplicazione infinita dell'universo fisico? Possiamo evidenziare un grande paradosso. Il mondo scientifico usa in modo disinvolto il Rasoio di Occam per radere ogni possibile complessità che non vuole accettare, come quando ad esempio riduce l'autocoscienza alla neurochimica, per poi negare lo stesso Rasoio di Occam quando si tira in ballo lo studio della natura del tempo!

Conclusioni:

Per quanto la Scienza dia segno di allinearsi al B-eternismo, non posso fare a meno di rilevare in questa teoria la presenza di bachi pseudoscientifici. Come gli pseudoscienziati, anche i seguaci di questa teoria pertono dalle conclusioni ("il tempo non esiste") e raccolgono quelle che ritengono evidenze in grado di dare conferma al loro pregiudizio. Il fatto che Einstein fosse un logico rigoroso nell'enunciare teorie come la relatività ristretta e la relatività generale, non implica che fosse immune da errori anche gravi quando si avventurava nel campo minato dell'ontologia temporale. In questo caso partiva da un dogma, procedendo come i moderni anti-vax. Questo atteggiamento lo portò anche a negare i fondamenti della stessa fisica quantistica ("Dio non gioca a dadi"), nonostante tutte le evidenze sperimentali, e a rifiutarsi di prendere in considerazione le conseguenze (es. "la spaventosa azione a distanza"). Come l'eternismo non tensionale possa conciliare questo spaventoso marasma, il nostro Williams non ce lo dice. 

venerdì 8 settembre 2017

Protagonisti del nichilismo

Sir Allan Curwen, nel suo poco noto taccuino di viaggi in Oriente (Spiritual paths: two years of travel in the Far East, Clarendon Press, Oxford, 1893), narra dell'incontro con un asceta birmano il quale soleva dedicare gran parte della giornata alla costruzione di gabbiette di bambù, che puntualmente, poi, dava alle fiamme. Curwen riferisce altresì i particolari della morte dell'eremita. Questi, dopo un lungo digiuno, prese a camminare all'indietro - azione apparentemente insensata, ma che acquista pienezza di significato nell'ottica del nullismo - e a furia di arretrare finì col cadere in un profondo crepaccio. Qui spirò dopo breve agonia. Curwen, che era sì un biofilo e vitalista frenetico ma non mancava di sensibilità, annota: "Se quell'uomo fosse un santo o più semplicemente un pazzo, non saprei dire. Ma di una cosa sono certo: il Nulla si rifletteva in lui come in uno specchio". Il caso dell'eremita birmano è ormai un classico dell'agiografia nichilista, e dobbiamo essere grati all'errabondo Sir Allan per averlo divulgato.

Un'altra figura eminente che ci preme ricordare è quella di Lorenzo Ovietti, autore di un breve scritto mai pubblicato ma conosciutissimo nella ristretta cerchia dei nullisti: "Sulla via dell'annichilimento". Ovietti, dopo aver militato in gioventù nelle file dell'Azione Cattolica, troncò ogni legame con quegli ambienti per dedicarsi interamente alla Causa. Ancora oggi a Torino vi è chi ricorda la sua figura allampanata, il suo sguardo spiritato, la barba incolta che scendeva fluente sin quasi alla cintola, gli occhiali senza lenti perennemente appiccicati al naso. All'età di trentacinque anni, Ovietti sparì senza lasciare tracce. Del suo capolavoro citiamo di seguito uno dei passi salienti:

Rinunciare alle possibilità e alle opportunità è un modo per negarsi alla vita. La rinuncia richiede disciplina e determinazione. E' un lento, quotidiano suicidio compiuto a mente serena, consumato con gelida ferocia: si vede partire un treno, poi un altro, poi un altro ancora... finché parte anche l'ultimo e si resta davvero soli, in una stazione deserta. Ci si siede su una panchina e si sta lì, fermi, a guardare le erbacce crescere fra i binari. E si prova quell'incredibile ebbrezza: sapersi belli e spacciati, morti pur essendo vivi. E' allora che ci si sente parte del Nulla, fagocitati dal vuoto.

Di personaggi esemplari, la storia tutta da scrivere del nullismo è piena. Il novarese Clemente Baggini, morto di recente, si dedicò per anni - negli intervalli fra una crisi depressiva e l'altra - alla stesura di un vero e proprio manuale dal titolo "Guida al nullismo". Neppure una pagina dell'opera si è conservata: Baggini infatti diede alle fiamme il manoscritto "perché così gli imponeva la sua coscienza di nichilista". Fra questo gesto e la condotta dell'eremita birmano corre un nesso evidente: in entrambi i casi appare l'intento di esaltare il Nulla nullificando sé stessi e quella parte di sé che è contenuta nelle opere del proprio ingegno, siano esse libri o gabbiette di bambù.

Un esempio simile ci è offerto dall'inglese Richard Benedict, meglio noto come "la talpa di Gloucester". Benedict per circa vent'anni, dal 1955 al 1975 (anno della sua morte), scavò ogni giorno, nel proprio cortile o in terreni altrui, una buca profonda quanto basta per seppellire un uomo, per poi riempirla di nuovo.

Si calcola che egli abbia scavato e poi riempito qualcosa come settemilatrecento buche. A smentire le malelingue che lo dipinsero come "un perfetto idiota", stanno i suoi quaderni di appunti, oggi custoditi dalla sorella Eleanore, che rivelano un intelletto brillante. Negli ambienti nichilisti anglosassoni si parla di Benedict con venerazione, sia per i meriti che acquisì in vita, facendo di sé stesso un monumento vivente al Nulla, sia per il valore dei suoi scritti. Non essendo stati pubblicati, essi circolano solo sotto forma di ciclostilati.

Benedict, ricorda la sorella, "scriveva in stato di trance, tenendo un bicchiere colmo d'acqua in equilibrio sulla testa". Nel gennaio 1974 egli intraprese un digiuno che lo ridusse agli stremi. Riferisce Eleanore: "Dormiva su un materassino di gomma, in solaio, e per un mese non uscì di casa. Stava tutto il giorno a fissare il muro, senza dire una parola". Fu allora che la fama di Benedict varcò per la prima volta la Manica e raggiunse i circoli nichilisti della Normandia.

Dal nord della Francia la notizia si diffuse poi in tutta Europa grazie ai soliti canali, e nel 1975, quando si seppe della sua morte, non vi era un solo nichilista che non fosse a conoscenza delle sue gesta.

Per concludere questo mio breve excursus fra i protagonisti del nullismo, ritengo doveroso riportare due frammenti tratti dai "Quaderni di Benedict", a mo' di epitaffio.

Il mondo è fatto per i gaudenti, è - indiscutibilmente - il loro habitat; il nichilista, estraneo alla vita, vi sta come un pesce fuor d'acqua.   (XIX)

Il nichilismo è una spada senza impugnatura, ferisce chi la brandeggia. (XXVI)

Pietro Ferrari, 1992