domenica 24 dicembre 2017


La pestilenza del 1348

"Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ipocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co' lor parenti, compagni e amici, che poi la sera vegnente appresso nell'altro mondo cenaron con li lor passati!"

Giovanni Boccaccio, Decameron, Introduzione alla Prima Giornata. 

Premessa. Vuoi per l'entità del fenomeno, vuoi per la gravità delle sue conseguenze, sarebbe impossibile condensare in poche pagine la storia della grande epidemia di peste nera che travolse i paesi europei negli anni compresi tra il 1347 e il 1351. Questo articolo, dal carattere volutamente frammentario, ha il solo scopo di suggerire alcuni percorsi di ricerca. A coloro che desiderassero approfondire l'argomento, consiglio vivamente la lettura del saggio di Klaus Bergdolt "La peste nera e la fine del Medioevo" (Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 1997), che offre un dettagliato quadro d'insieme dell'evento, e di "La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio dall'antichità all'età contemporanea" di William Hardy McNeill (Einaudi, Torino, 1982), per la parte relativa all'epidemia di peste detta, convenzionalmente, "del 1348". Da segnalare anche "La Grande Peste. Un flagello sull'Europa del Trecento" di Angel Blanco (Fenice 2000, Milano, 1994), un agile volumetto di taglio divulgativo.  

Cenni di patologia. La peste è una malattia epidemica causata da una batterio del genere Pasteurella. Si trasmette da roditore a roditore (sorgente dell'infezione), e da questi all'uomo, per il tramite delle pulci (vettori dell'infezione). Il principale vettore della Pasteurella pestis è la pulce del ratto indiana (Xenopsylla cheopis), diffusa nei paesi tropicali; in determinate condizioni anche la pulce dell'uomo (Pulex irritans) può propagare la malattia. Nel 1993, l'Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarava che "focolai naturali di peste" venivano segnalati in alcuni paesi dell'Africa subsahariana (Kenya, Madagascar, Mozambico, Uganda, Tanzania e Zaire), dell'America del Sud tropicale (Bolivia, Brasile, Equador e Perù) e dell'Asia sud-orientale (Myanmar - ex Birmania - e Viet Nam), raccomandando ai viaggiatori diretti verso aree dove la peste è endemica di "evitare ogni contatto con i roditori (topi e ratti)". L'OMS rilevava come, a fronte dell'assenza di epidemie di peste "negli ultimi anni", si fossero verificati "solo casi sporadici (...) nei cacciatori di roditori selvatici e in residenti in remoti villaggi andini che vivono in case infestate da ratti" ("Viaggi internazionali e salute. Situazione al 1° gennaio 1993", versione italiana a cura del Centro Collaboratore OMS per la Medicina del Turismo). Sono due le modalità di trasmissione del contagio: per via cutanea, in seguito al morso della pulce; o per via aerea, analogamente a quanto accade per il raffreddore. Nel primo caso il meccanismo patogenetico è il seguente: la pulce si nutre del sangue di un roditore infetto; i batteri si moltiplicano nel tratto digerente superiore della pulce, ostruendolo; quando la pulce si nutre di nuovo, pungendo per esempio un uomo, il blocco fa sì che il sangue appena ingerito sia rigurgitato nella morsicatura, che è di fatto una ferita aperta, insieme ai batteri della peste. Il ratto nero (Rattus rattus), giunto a quanto pare in Europa a bordo delle navi che riportarono i crociati dall'Oriente, diede un contributo determinante al dilagare della Grande Pestilenza nel 1347. La peste umana ha un periodo d'incubazione compreso fra 1 e 6 giorni e si manifesta clinicamente in tre forme: bubbonica, setticemica e polmonare. La forma bubbonica è caratterizzata dalla comparsa del cosiddetto bubbone (ingrossamento di un linfonodo) nella regione inguinale o, più raramente, ascellare. Se il batterio supera la barriera linfoghiandolare si diffonde in tutto l'organismo. La peste setticemica, contraddistinta da un pullulare di batteri nel sangue, può provocare emorragie cutanee, mucose e viscerali in seguito alle quali la cute dell'appestato si copre di macchie o croste nerastre (di qui il termine di uso popolare "peste nera"). La forma polmonare implica un interessamento dell'apparato respiratorio in forma di broncopneumopatia secretiva. L'escreato, terreno di crescita per i batteri, risulta fortemente contagioso.  

"Cominciossi nelle parti d'Oriente". Così si esprime Matteo Villani (1280,1363), nella sua Cronica, in merito alla provenienza geografica della "mortale pestilenzia" che assalì l'Europa intorno alla metà del XIV secolo. L'epidemia scaturì a quanto sembra ad Alma Ata, Kazakistan, nel 1336, e dagli altipiani dell'Asia centrale, lungo le piste carovaniere, raggiunse la penisola di Crimea. Si tramanda che proprio qui ebbe a verificarsi un evento destinato ad avere ripercussioni catastrofiche. Primavera 1347: Caffa, l'odierna Feodosiya, allora centro fiorente del commercio genovese, è cinta d'assedio dai tartari. Il contagio apre vuoti spaventosi tra le file degli assedianti, al punto da indurre il khan a ordinare la ritirata. Ma prima di abbandonare l'assedio i tartari compiono un gesto che rappresenta un vero e proprio atto di guerra batteriologica: servendosi di catapulte, scagliano decine di cadaveri di propri compagni morti di peste all'interno delle mura cittadine. Era fatale, tuttavia, che la Crimea dovesse fungere da "rampa di lancio" per il diffondersi dell'epidemia: da essa si dipartivano infatti molteplici linee marittime e vie commerciali. Il contagio viaggiò a bordo delle navi genovesi, e sbarcò là dove esse sbarcarono.   

"Sicilia porta d'Europa". Nell'ottobre del 1347, dodici galee genovesi attraccarono a Messina. L'equipaggio aveva contratto la malattia e molti marinai erano morti durante la navigazione. Assieme all'equipaggio umano le navi trasportavano, annidati nelle stive, i topi della peste. L'epidemia dilagò dapprima in Sicilia e, nel 1348, in tutta la penisola italiana: "L'inesorabile propagazione del contagio seguì sia le rotte che collegavano i porti principali, sia le direttrici della rete stradale e fluviale" (Angel Blanco). Alla fine del 1351, l'Europa, salvo alcune fortunate enclaves, era completamente colpita. Nel giro di cinque anni, la peste uccise un terzo della popolazione europea: una falcidie senza precedenti, favorita dalle disastrose condizioni igienico-sanitarie esistenti all'epoca. Ovunque regnava la sporcizia e i rifiuti si accumulavano nelle strade: una volta giunti a terra, i ratti trovarono un habitat ideale per moltiplicarsi.  

Umori e miasmi. Prima della scoperta dell'esistenza di agenti patogeni microscopici e dei loro cicli riproduttivi, il concetto di contagio, come sottolinea Giulio Preti nella sua "Storia del pensiero scientifico" (Mondadori, 1957), rimaneva assai misterioso e di difficile interpretazione. La medicina medioevale, non diversamente da quella antica, spiegava l'origine delle malattie infettive in base alla teoria umoralpatologica, fondata sulla tradizione ippocratico-galenica, che faceva derivare la malattia da una cattiva mescolanza dei quattro umori fondamentali; e alla teoria dei miasmi, secondo cui: "acqua stagnante, pantani, pozzi e laghetti corrompevano l'aria che diffondeva la putredine e attraverso la respirazione contagiava l'organismo umano" (Bergdolt). Va precisato che nel Corpus Hippocraticum sono presenti entrambi gli aspetti dottrinari: quello che fa discendere gli stati morbosi dalla discrasia degli umori nel corpo umano, e quello che li attribuisce a fattori atmosferici, o ai gas generati all'interno dell'organismo. Per capire meglio in cosa consistesse la teoria dei miasmi, si può far riferimento al De rerum natura di Tito Lucrezio Caro (98-55 a.C. circa). Il libro VI del poema scientifico-filosofico lucreziano contiene non solo un drammatico resoconto dell'epidemia (presumibilmente vaiolosa) che colpì la città di Atene e l'Attica nel 430 a.C., ma anche un'interessante dissertazione sulle cause del fenomeno. Il presupposto è la necessità che "multarum semina rerum", i semi di molte cose, siano vitali per noi, ed altri, al contrario, portatori di malattia e di morte. La mescolanza casuale di codesti differenti "semi" fa sì che l'aria divenga malsana ("fit morbidus aër"). Tutta la forza e la virulenza dei morbi scaturirebbero o "dall'alto, come nuvole e nembi" o "dalla terra", resa putrida dalle piogge e dal calore del sole. Sostiene Lucrezio che quando quest'aria infetta, muovendosi come una nube, giunge nel nostro cielo, "lo corrompe e lo rende simile a sé". Accade allora che tale pestilitas "cade immediatamente nelle acque, o si insinua nelle stesse messi o in altri alimenti degli uomini e nutrimenti degli animali", con le conseguenze che si possono immaginare, oppure la sua forza "rimane sospesa nell'aria" e, in questo caso, gli uomini respirando la introducono nel proprio corpo. Va detto che la teoria lucreziana venne ripresa dal medico Girolamo Fracastoro nell'opera "De contagione et contagiosis morbis et curatione" (1546), in cui le malattie contagiose venivano spiegate con la presenza di semi capaci di infettare per contatto, a distanza e mediante veicoli di contagio.  

"Nella egregia città di Fiorenza". In merito a un caso specifico, quello della città di Firenze, disponiamo di interessanti testimonianze d'epoca medioevale: mi riferisco, in particolare, alla Cronica dei fratelli Giovanni e Matteo Villani, al proemio del Decameron di Giovanni Boccaccio e alla Cronaca Fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani. Tutti e tre gli autori sottolineano l'assoluta impotenza dei medici di fronte al flagello della peste. "A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto" sostiene Boccaccio. "Di questa pestifera infermità i medici in catuna parte del mondo, per filosofia naturale o per fisica o per arte d'astrologia, non ebbono argomento né vera cura" (Matteo Villani). Dal canto suo, Marchionne osserva che "non valeva né medico né medicina, o che non fossero ancora conosciute quelle malattie, o che li medici non avessero quelle mai studiato, non parea che rimedio vi fosse". Impossibilitati a debellare il morbo, i medici non trovavano di meglio che consigliare... la fuga dalle località minacciate dalla peste. A Firenze, essa prese ad imperversare nel mese di aprile del 1348, seminando la strage. I dotti e gli uomini di scienza non erano in grado di offrire una spiegazione adeguata del fenomeno né tantomeno di contrastarlo. Ciarlatani e fabbricanti di amuleti, ovviamente, facevano affari d'oro. Boccaccio osserva che la pestilenza "s'avventava" dagli infermi ai sani, e che "non solamente il parlare e l'usare cogli infermi dava a' sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata". Oggi sappiamo che la peste nella forma polmonare si trasmette tossendo, starnutendo o semplicemente parlando, mediante l'inalazione di goccioline emesse dalla bocca di persone infette. Che gli indumenti indossati da individui morti di peste potessero contagiare ed uccidere non solamente altri uomini, ma anche "un altro animale fuori della specie dell'uomo", è un fenomeno che costituiva motivo di sorpresa per l'autore del Decameron il quale riferisce il seguente episodio: "essendo gli stracci d'un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via pubblica e avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il loro costume prima molto col grifo e poi co' denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra". Marchionne di Coppo Stefani dichiara: "E non bastava solo gli uomini e le femmine, ma ancora gli animali sensitivi, cani e gatte, polli, buoi, asini e pecore moriano di quella malattia". Malattia che, ricordiamolo, infuriò a Firenze nei mesi caldi, in corrispondenza del periodo di maggior vitalità delle pulci. Circa le cause del flagello, Boccaccio affaccia due ipotesi: il malefico influsso degli astri ("per operazion de' corpi superiori") e la volontà punitrice di Dio (la pestilenza sarebbe "per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali"). Ritroviamo il medesimo schema interpretativo in Matteo Villani: una sfavorevole congiunzione astrale ("la congiunzione di tre superiori pianeti nel segno dell'Acquario, della quale congiunzione si disse per gli astrologi che Saturno fu Signore: onde pronosticarono al mondo grandi e gravi novitadi"), ipotesi cui peraltro Villani annette scarso credito ("ma simile congiunzione per li tempi passati molte altre volte stata e mostrata, la influenzia pealtri particulari accidenti non parve cagione di questa"); e l'ira divina ("ma piuttosto divino giudicio secondo la disposizione dell'assoluta volontà di Dio") Quello del castigo divino ("la sentenzia che la divina giustizia con molta misericordia mandò sopra gli uomini, degni per la corruzione del peccato di final giudizio") è un tema caro non solo a Matteo Villani, ma a molti suoi contemporanei: "il clero assicurava che Dio, a causa dei peccati degli uomini, si sarebbe adirato e avrebbe dunque deciso di annientarli" (Bergdolt). Convincimento fondato sui "precedenti" di cui narra la Bibbia: il diluvio (Gen 6-7), la distruzione delle città di Sodoma e Gomorra (Gen 19, 23-29), le piaghe d'Egitto (Es 7-12), la pestilenza che colpì i Filistei rei di essersi impadroniti dell'Arca dell'Alleanza (1 Sa 5, 1-12; 6, 1-6). La vicenda descritta nel Primo libro di Samuele risulta di particolare interesse: ad un'attenta lettura, si comprende come gli estensori di questo testo - annoverato dai cristiani tra i libri storici del Vecchio Testamento - avessero intuito l'esistenza di un nesso tra l' "eruzione di bubboni" che colpì gli abitanti della città di Ashdod "dal più piccolo al più grande", e la presenza dei topi, da cui la terra dei Filistei era infestata. Su tale intuizione gravava tuttavia l'impianto religioso dell'opera, in cui ogni fatto è visto nella prospettiva della fede, che identifica in Dio il centro motore degli avvenimenti. La religione offriva così agli europei del XIV secolo una collaudata chiave di lettura degli eventi, capace di renderli decifrabili, sia pure in termini sovrannaturali. L'immagine di una divinità avvezza ad infliggere punizioni esemplari alle proprie creature era fortemente radicata nell'immaginario collettivo, dunque già "pronta per l'uso". Tuttavia, per quanto corroborata dalla testimonianza della Auctoritas per eccellenza (il testo biblico), la tesi secondo cui fosse "l'ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella pestilenza" (Boccaccio) non rendeva certo più sopportabile, per gli uomini e le donne di allora, la tremenda minaccia della peste. Ciò che ad essi premeva era, infatti, la salvezza dalla malattia e dalla morte. Di qui le aspettative riposte nella categoria tradizionalmente preposta alla mediazione fra l'umano e il divino: il ceto sacerdotale. Per placare il furore e impetrare il perdono della divinità adirata che si riteneva avesse scagliato il flagello della peste sull'umanità, si moltiplicarono le processioni e le "umili supplicazioni" ma, sottolinea Boccaccio, né queste né altre iniziative di carattere più concretamente profilattico (la rimozione, certo tardiva, delle immondizie dalla città) valsero ad evitare che la peste nella primavera dell'anno predetto cominciasse a dimostrare "i suoi dolorosi effetti" a Firenze. E non va dimenticato che essa non risparmiò cappellani e parroci. La confusione sulle cause dell'epidemia, la mancanza di terapie efficaci, l'inutilità acclarata delle cerimonie religiose propiziatrici generarono, in breve, un senso di insicurezza generalizzata che si tradusse nella risoluzione "di schifare e di fuggire gl'infermi e le lor cose" (Boccaccio). "Lo figliuolo abandonava il padre, il marito la moglie, la moglie il marito, l'uno fratello l'altro", afferma Marchionne aggiungendo che molti malati morirono di fame nei propri letti, abbandonati dai familiari timorosi di contrarre il morbo.  

Il trionfo dell'irrazionalità. Tra gli effetti collaterali dell'epidemia di peste nera che sterminò milioni di europei, merita di esser segnalata la ripresa della setta penitenziale-millenaristica dei flagellanti, fondata nella seconda metà del XIII secolo dal mistico Ranieri Fasani, che si richiamava alle profezie del monaco cistercense calabrese Gioacchino da Fiore. Sulla base di approfonditi studi biblici, Gioacchino aveva elaborato una visione escatologica della storia che introduceva un modello della temporalità nient'affatto collimante con quello stabilito dalla Traditio. Dall'osservazione della concordia Veteris et Novi Testamenti, ovvero della corrispondenza puntuale fra gli eventi accaduti prima e dopo Cristo, Gioacchino ricavò il convincimento che fosse all'opera nella storia una Legge di ripetizione, che riproduceva nella dimensione del tempo lo schema teologico trinitario. La storia del Nuovo Israele (la Chiesa), - ovvero la Seconda Età, l'Età del Figlio -, aveva visto la ripetizione degli avvenimenti verificatisi nel corso della Prima, l'Età del Padre. Secondo Gioacchino, l'Età del Figlio stava volgendo al termine: ad essa sarebbe succeduta l'Età dello Spirito, durante la quale si sarebbe riprodotta la catena di eventi compiutisi da Adamo a Malachia, ma per l'ultima volta. Essa, infatti, avrebbe posto fine alla storia e alla Chiesa istituzionale. Le profezie gioacchimite, benché sovente fraintese, esercitarono un profondo influsso sulla spiritualità medioevale, diffondendosi in ampi strati della società. L'annuncio della Fine ormai prossima dell'età presente suggestionò il promotore del movimento dei flagellanti, che da Perugia si propagò in tutta Italia e oltre i confini della penisola. Parallelamente alle processioni dei flagellanti, all'epoca della grande pestilenza, in alcune regioni d'Europa (Francia centrale e meridionale; gran parte della Germania) si assistette a un dilagare dei pogrom: la più brutale e sanguinosa ondata di persecuzioni antiebraiche verificatasi prima dell'Olocausto. In un clima di psicosi collettiva, "nell'intento di soddisfare il proprio bisogno di causalità, non di rado il popolo vedeva all'opera persone che diffondevano l'epidemia e assassini che andavano puniti" (Bergdolt). Constatato che le pratiche penitenziali non avevano alcun potere sulla peste, il popolo andò alla ricerca di un capro espiatorio su cui sfogare la propria aggressività e scaricare la propria ansia, e lo individuò negli Ebrei, accusati di avvelenare i pozzi e propagare la peste allo scopo di distruggere la Cristianità. Tale pretestuosa accusa si rivelerà talmente longeva da rieccheggiare ancora, due secoli più tardi, in uno degli scritti più veementi del riformatore sassone Martin Lutero: il celebre "Von den Juden und ihren Lügen", di cui esiste una splendida traduzione italiana (condotta sulla versione latina di Justus Jonas) ad opera di Vittorio Dornetti per i tipi dell'Editrice Terziaria di Milano ("Contro gli Ebrei", 1997). Il curatore del volume osserva, in Appendice III, che: "Oltre ad essere una sintesi pressoché completa della tradizione antigiudaica cristiana dai Padri della Chiesa fino alla teologia medievale ed oltre, il Von den Juden appare anche un catalogo ugualmente folto dei capi d'accusa che la cultura popolare e gli intellettuali, sia protestanti che cattolici, avevano formulato e poi diffuso in merito ai Giudei, ‘inviati di Satana’ e ‘male assoluto’."  

La Peste nella Rete. Nel mare magnum di Internet sono reperibili una gran quantità di testi, brevi e non specialistici, sull'argomento. Il materiale in lingua italiana presenta una certa uniformità di contenuti e va vagliato con cura. Tra gli articoli degni d'interesse segnalo: "La peste nera. Ma poi venne il Rinascimento" di Enrico Butteri Rolandi (www.cronologia.it/storia/aa1347.htm). 

Pietro Ferrari
(articolo pubblicato sul Nr. 4 della Fanzine Nihil

venerdì 15 dicembre 2017

NOTE SUL LAVORO DI GRAZIANI

Ernesto Graziani (Università degli Studi di Macerata) è l'autore di Ontologia temporale, contributo pubblicato su APheX, portale italiano di filosofia analitica (N° 9 gennaio 2014, pagg. 158-218, redattore Francesca Ervas). Il lavoro è consultabile e scaricabile liberamente al seguente url:


Questo è l'indice dell'opera:

1. INTRODUZIONE
2. ONTOLOGIE TEMPORALI
3. SOSTANZIALITÀ DEL DIBATTITO
4. ARGOMENTI
   4.1. Senso comune
   4.2. Considerazioni fenomenologiche
   4.3. Grazie al cielo è finita!
   4.4. Libero arbitrio
   4.5. Il presente è ora
   4.6. Riferimento a momenti non presenti
   4.7. Riferimento dei nomi propri e proposizioni
         singolari
   4.8. Fondamento delle verità passate
   4.9. Relazioni intertemporali
   4.10. Teoria della relatività ristretta
5. BIBLIOGRAFIA

Questo è l'abstract: 

"L’ontologia temporale è la riflessione sullo statuto ontologico delle entità meramente passate o future. In questo contributo intendo chiarire il significato di questa questione, presentare le principali opzioni teoriche che si delineano rispetto ad essa e, concentrandomi sulle due principali teorie contendenti, B-eternismo e presentismo, illustrare gli argomenti più rilevanti formulati a favore dell’una e dell’altra."

L'autore si addentra nella classificazione delle ontologie temporali, che si distinguono in due blocchi: teorie tensionali (A) e teorie atensionali (B). Tra queste due classi di teorie del tempo esistono abissi incolmabili, al punto che i rispettivi sostenitori nemmeno riescono a comunicare tra loro in modo razionale, come se fossero specie aliene provenienti da universi del tutto dissimili. A distinguere le teorie A dalle teorie B è proprio il modo in cui vengono intesi gli eventi: la tensionalità corrisponde alla definizione di tempo basata sul passaggio temporale e sulla differenza di stato tra presente, passato e futuro", mentre il tempo atensionale è semplicemente l'ordine di un insieme di configurazioni statiche, spesso distinte solo per convenzione. Se il presentismo è una tipica teoria A, l'eternismo si presenta sia in forme tensionali che atensionali.

Principio di economia ontologica

Il problema principale di numerose ontologie temporali è la loro natura antieconomica. Premetto che non sono un fanatico sostenitore del rasoio di Occam. Se ho di fronte a me due teorie A e B, essendo A più semplice di B, allora se A spiega le cose in un dominio X mentre B spiega le cose in un dominio Y più grande e contenente X, scelgo la teoria B - dato che rende conto di una realtà più ampia rispetto alla teoria concorrente. Quando si tratta di teoria del tempo si va ben oltre quanto pensato da frate Guglielmo di Occam. Non si tratta infatti di postulare più enti semplici anziché un singolo ente più complesso, o di fare tramite un certo numero di enti ciò che può esser fatto in altro modo con un ente singolo: si tratta di generare infiniti non normalizzabili. Un'eruzione spaventosa di infiniti, come quella che ci ha portato a guardare con sospetto e scetticismo la teoria del multiverso. Ogni quanto che compone la realtà dello spaziotempo sarebbe a sua volta un intero universo, pietrificato o dinamico, in un flusso infinito in ogni direzione, con una potenza che supera quella delle parti del continuo come questa trascende il finito. Una mostruosità che paralizza e toglie il respiro, e che per giunta non ha utilità o causa alcuna. Per comprenderlo basta passare in rassegna le principali criticità. 

Se nell'eternismo B-teorico l'intera realtà temporale, passata, presente e futura, è data in blocco, allora sorgono in me domande ossessive, che a quanto pare non sfiorano nemmeno la mente degli accademici. Come possiamo spiegare l'esistenza di questo blocco di realtà? Come identificarne una causa? Che senso avrebbe? Se il divenire è una collezione di cartoni animati, chi li ha disegnati? Partendo da quale universo? Per quale motivo? Si cerca in un universo acausale la radice dell'esistenza, che esperiamo come causale. Un universo il cui tempo statico è acausale non può in alcun modo spiegare l'universo causale in cui siamo immersi.

Sono possibili varie soluzioni A-teoriche non presentiste, anche se non va nascosto che ognuna presenta punti deboli e aspetti fortemente critici. 

Il concetto di incrementismo è una tipica forma di eternismo tensionale. Esisterebbe il passato, ma non il futuro. Cosa genera dunque il futuro? Si forma a partire dal presente o prende corpo dal nulla?

Un'altra soluzione è la teoria del riflettore in movimento: il presente acquisterebbe il suo statuto ontologico privilegiato come se un fascio di luce lo investisse prima del suo sprofondamento nell'ombra e nell'oblio. Si potrebbe trattare di un generatore di ologrammi. Anche qui sorgono inquietanti interrogativi. Chi ha collocato il riflettore al suo posto? Qual è il suo senso? Qual è la sua funzione? In che mondo esso si colloca nella struttura dello spaziotempo di Minkowski? Il raggio di luce illuminatore parte da un altro universo? Come spiegare quell'universo? Esiste un nesso causale tra quell'universo e il nostro?

Direi proprio che è stato pensato di tutto per rendere conto dell'esperienza sensibile. Nell'eternismo a gradi di realtà il presente ha un'ontologia che manca al passato e al futuro, a cui pure è attribuita l'esistenza. La sua variante più nota è senza dubbio l'A-eternismo a futuri ramificati, in cui si introduce un filtraggio quantistico centrato sul presente: "Poiché solo uno dei possibili corsi di eventi futuri trova realizzazione entrando a fare parte del presente, e poi del passato, il passaggio temporale comporta un progressivo cessare di esistere di tutti i corsi di eventi futuri che non si realizzano".

Secondo Graziani, tutte queste teorie appaiono inferiori al presentismo proprio perché antieconomiche: "La forma ontologicamente più parsimoniosa di teoria A è il presentismo, secondo il quale esistono solo le entità temporali presenti; non esistono entità passate né future. L'intera realtà temporale si riduce a ciò che di volta in volta è collocato nell'istante presente e il passaggio temporale consiste in un continuo cominciare ad esistere e cessare di esistere da parte delle entità temporali." Tuttavia l'autore non è un sostenitore del principio di economia ontologica e subito si perde nei meandri di vane considerazioni metalinguistiche. Così scrive: "L'ontologia presentista esclude l'esistenza di momenti passati o futuri: esiste un unico momento ed è l'istante presente. Eppure, parliamo continuamente di momenti passati o futuri. Diciamo, p.e., che l'invasione della Polonia da parte della Germania cominciò ufficialmente alle 04:45 del 1° settembre 1939 o che all'inizio del 2030 non esisterà ancora alcuna base spaziale umana su Marte. E questo è qualcosa di cui il presentismo sembra non poter render conto. (Il medesimo problema si pone ovviamente anche per l'ontologia incrementista, anche se limitatamente al caso dei momenti futuri.)". Si tratta di una forma di paranoia del tutto vana e insostanziale, che dà tuttavia origine a pagine e pagine piene di simboli logici nel tentativo di sviscerare i costituenti primi di una realtà che sfugge ad ogni ulteriore analisi proprio perché ci è impossibile collocarci al di fuori di essa e osservarla da quella posizione privilegiata. Tutti sappiamo che anche se il passato non esiste più, ne permangono le conseguenze e le attestazioni, in alcuni casi i ricordi: a queste cose concrete facciamo riferimento ogni santo giorno quando pensiamo, parliamo e apprendiamo. Il futuro non esiste ancora, eppure è possibile azzardare previsioni a breve termine a partire da un algoritmo di proiezione degli eventi passati e presenti. Queste proiezioni, seppur spesso siano fallaci, ci guidano, ci aiutano e ci evitano di incappare in pericoli. Non è necessario attribuire un'ontologia a eventi passati e/o futuri per poterne parlare o per poter fare riferimento ad essi, dal momento che siamo in possesso di un linguaggio simbolico, oltre che della facoltà di ricordare e di azzardare previsioni. Queste cose sembrano sfuggire agli ontologi temporali, che a quanto pare vivono le loro esistenze in un mondo di astrazioni inapplicabili. Nessuno di loro sembra comprendere che dire "passato/presente/futuro" oppure dire "prima/ora/poi" è la stessa cosa ontologicamente parlando: non si tratta di buone etichette verbali per rendere conto di differenze metafisiche tra tensionalità e atensionalità, fondate sulla diversa concezione dello status ontologico del passato e del futuro rispetto al presente. Solo grammaticalmente cambia qualcosa usando i due set di parole. Per gli anglosassoni la questione è rilevante perché essi parlano una lingua che distingue tra time e tense. In altre lingue questa distinzione non è espressa dall'uso di diverse parole e non viene dunque intesa. Giova far notare che se si parlasse una lingua che non distingue i tempi grammaticali nella flessione dei verbi, la realtà delle cose non cambierebbe. Trovo che sia della massima importanza trovare un nuovo linguaggio per esprimere i concetti della filosofia del tempo evitando queste ambiguità fuorvianti e grossolane.

Non potendo razionalizzare lo scorrere del tempo, le teorie eterniste moltiplicano all'infinito il qui-ora generando collezioni di universi passati e/o futuri la cui ontologia presenta formidabili difficoltà di spiegazione. Di fatto ogni forma di eternismo concepibile da mente umana, che sia esso A-teorico o B-teorico, moltiplica l'universo all'infinito senza offrire alcun punto di appiglio: corrisponde a una dichiarazione di resa nei confronti dell'Ignoto, portandoci all'enunciato definitivo di una specie senziente terminale: ignoramus et ignorabimus. Andando aventi per questa strada ci si può soltanto illudere e riempire la testa di fumisterie, senza riuscire a trovare in alcun modo una spiegazione dell'esistenza. Soprattutto non si comprenderà mai un dato di fatto ineluttabile che gli ontologi temporali tendono a trascurare: la freccia temporale.

NOTE SUL LAVORO DI INGTHORSSON

Rögnvaldur D. Ingthorsson (Università di Lund, Svezia) è l'autore dell'articolo Challenging the Grounding Objection to Presentism, ossia "Sfidando l'obiezione fondante al presentismo", revisionato, accettato e apparso su Academia.edu nel 2017. Il lavoro può essere consultato e scaricato liberamente al seguente link: 


L'autore critica la cosiddetta obiezione fondante al presentismo, che si basa su due premesse:

i) Ogni proposizione vera P ha un'entità T chiamata "fattore di verità" o "truthmaker" che la rende vera; 
ii) Alcune affermazioni sul passato e sul futuro sono ovviamente vere; se tuttavia il futuro e il passato non esistono, non ci possono essere fattori di verità per espressioni tensionali del futuro e del passato.

La conseguenza di queste premesse, è secondo gli eternisti atensionali, la falsità del presentismo. Dal canto loro, i presentisti tendono ad accettare tutto ciò passivamente, limitandosi a dire che il presente ha tutti i fattori di verità necessari per ogni proposizione vera. Questa è chiamata "strategia di riallocazione" (relocation strategy), perché i fattori di verità delle proposizioni vere passate e future vengono a trovarsi nel presente. Tra gli altri, la strategia di riallocazione è stata sostenuta dal filosofo e logico neozelandese Arthur Prior, nato nell'anno dell'inizio della Grande Guerra e morto nel quarto anno dell'Era di Satana. Ingthorsson, che non riesce a liberarsi dalle catene della teoria dei fattori di verità, parteggia chiaramente per i presentisti e afferma che essi dovrebbero sfidare le premesse i) e ii) dell'obiezione fondante anziché investire sulla riallocazione prioriana di cui sopra.

Queste sono le conclusioni che trae l'accademico islandese: 

a) Cercare nel presente fattori di verità per ogni proposizione vera risulta nella postulazione di entità "implausibili" o "eteree";
b) Nessuna conseguenza assurda deriva dalla mancanza di valori di verità per espressioni tensionali;
c) L'obiezione fondante richiede non soltanto che ogni proposizione vera abbia un fattore di verità, ma anche che a ogni fattore di verità corrisponda una proposizione vera. Si può negare la seconda affermazione senza intaccare la prima: non necessariamente un fattore di verità implica l'esistenza di una proposizione vera.

Per quanto mi riguarda, sono ancor più radicale. Non mi limito a trovare un modo per aggirare l'obiezione fondante al presentismo: la rigetto interamente. Con buona pace di molti ontologi temporali, l'intera discussione è di lana caprina e può essere portata a termine col metodo usato da Alessandro il Grande per sciogliere il nodo di Gordio. Non si sente nessun bisogno di una fantomatica entità chiamata "fattore di verità" o "truthmaker" per garantire la verità di una proposizione o di un evento. Emerge con la massima chiarezza l'irrealtà del Puffo Truthmaker, creazione di gran lunga più artificiosa e antieconomica degli universali di cui si disquisiva nel Medioevo. Non ha alcuna esistenza fisica sperimentabile e misurabile. È un ente fittizio creato per far tornare i fallaci conti della paranoia. Perché diamine dovrebbe esistere da qualche parte una cosa simile e tanto vana? Gli adepti dell'eternismo atensionale dovrebbero innanzitutto fornire spiegazioni su questa pretesa necessità, ma non ci riescono in alcun modo. La loro logica sembra al livello di quella di un mio compagno di classe del liceo, che di fronte a una saliera in pizzeria affermava: "Non capisco perché lo chiamano sale se scende!". Metafisici di questo livello forse farebbero meglio a tornare all'asilo infantile, che sembra essere il posto più adatto a loro.

A un certo punto Ingthorsson arriva a fare alcune considerazioni oltremodo interessanti. L'astrazione del fattore di verità, che acquisisce un'esistenza autonoma e totalmente scorrelata dalle proposizioni vere, diventa come l'Iperuranio di Platone. I realisti immanenti che ne hanno postulato l'esistenza sono in realtà diventati filosofi neoplatonici, nella maggior parte dei casi senza nemmeno accorgersene. Tra questi si può menzionare l'australiano David Malet Armstrong, che faceva di tutti i fattori di verità concepibili da mente umana autentiche ipostasi emanate gerarchicamente dall'Uno, portando Plotino direttamente nel XX secolo.

Eliminata l'obiezione fondante al presentismo, possiamo tornare al problema dell'eternismo. Ammettiamo ora che valga l'eternismo atensionale (B-eternismo). Dunque quando la proprietà di "presente" era in un preciso momento dei primordi del pianeta Terra, la nostra esistenza attuale sarebbe stata già definita. Anche se non accessibile a un paramecio del Paleozoico, in qualche recesso dello spaziotempo sarebbe già esistito un futuro remotissimo, poniamo Giulio Cesare che attraversa il Rubicone. Orbene, il paramecio in questione non avrebbe potuto in nessun modo trovare un fattore di verità per Giulio Cesare che attraversa il Rubicone. Eppure, l'eternismo non tensionale dovrebbe ammettere la reale esistenza di questo fattore di verità, visto che dichiara illusorio il flusso temporale e attribuisce eguale dignità ontologica a passato, presente e futuro. In contrasto con questo, vediamo che nessun B-eternista si scandalizza se gli diciamo che gli eventi futuri non possono avere alcun fattore di verità a noi sondabile, dato che sono sconosciuti. Eppure gli stessi B-eternisti fanno il diavolo a quattro per quanto riguarda gli eventi del passato, riempiendo pagine e pagine di simboli logici. Cosa distingue dunque il fattore di verità di un evento passato dal fattore di verità di un evento futuro? Nulla, visto che entrambi appartengono allo stesso reame delle chimere e dei centauri!

martedì 12 dicembre 2017

NOTE SUL LAVORO DI LOBO-CRAWFORD

Francisco Lobo e Paulo Crawford (Universidade de Lisboa, Portogallo) sono gli autori dell'articolo Time, closed timelike curves and causality, ossia Tempo, curve "timelike" chiuse e causalità, risalente al 2002 e revisionato per l'ultima volta l'anno successivo. Il lavoro può essere consultato e scaricato liberamente al seguente link: 


Dopo un'introduzione in cui gli autori riassumono l'evoluzione del concetto di tempo dall'antichità a Newton e quindi ad Einstein, giungono finalmente al punto. Il problema è quello delle curve temporali chiuse (CTC), annosa crux filosofica. La teoria della relatività generale fornisce un'analisi approfondita del flusso temporale in presenza campi gravitazionali, siano essi di debole o di forte intensità. Com'è risaputo, tale teoria contiene geometrie non banali che implicano curve temporali chiuse. Accade così che un osservatore, seguendo una traiettoria lungo una curva di questo tipo, ritorni a un evento che coincide con la sua partenza. Per l'osservatore in questione, la freccia del tempo misurata localmente punta in avanti, tuttavia globalmente egli procede verso eventi che si trovano nel suo passato. Ciò viola la causalità e porta ai cosiddetti paradossi temporali, giustamente paragonati dagli autori al vaso di Pandora. I paradossi si possono classificare in due diversi tipi:

1) Paradossi di consistenza;
2) Anello causale (anello temporale). 

Il classico paradosso di consistenza è quello dell'uomo che torna nel passato e uccide il proprio nonno, minando così la propria esistenza.

Negli anelli causali, informazioni od oggetti sono intrappolati nello spaziotempo in un circuito di retrocausalità. Lobo e Crawford fanno l'esempio di un uomo che viaggia nel passato con una macchina del tempo, raggiunge se stesso quando era giovane, dando a questo suo sé un manuale su come costruire la macchina del tempo. La costruzione del congegno crononautico è resa possibile proprio dalla consegna del manuale. Posso fare esempi ancora più chiari per illustrare questo paradosso:

i) In un racconto di Philip K. Dick, Il fattore letale (Meddler), si parla di una macchina che fotografa il futuro. Tramite questo marchingegno, vengono fatte fotografie da cui risulta che nel giro di un secolo non si trova più traccia alcuna del genere umano. Viene così usata una macchina del tempo per inviare un crononauta nel futuro per capire la causa della catastrofe. L'uomo parte e al suo arrivo trova la Terra disabitata: il genere umano si è estinto. Esplora una città fatiscente, abbandonata da molto tempo. Recupera libri e giornali da una biblioteca, quindi si accinge a fare ritorno alla macchina del tempo. A questo punto scopre che a sterminare l'umanità sono stati sciami di strane farfalle, a cui riesce a sfuggere per il rotto della cuffia. Quando ritorna nel suo tempo, porta con sé alcuni bozzoli di queste farfalle, innescando così il processo che porterà l'umanità all'annientamento. Domanda: qual è l'origine di questa specie di lepidottero mortifero?

ii) In un racconto di Anne Lear, L'avventura del viaggiatore integrale (The Adventure of the Global Traveler), Sherlock Holmes trova una lettera scritta dal suo mortale arcinemico, James Moriarty, il Napoleone del Crimine. Il punto è che la lettera è datata 1640. Il geniale furfante ha inventato la macchina del tempo ed è precipitato sul palcoscenico di Shakespeare mentre veniva rappresentato il Macbeth. In origine nella tragedia dovevano esserci soltanto due sicari, ma ecco che Moriarty, trovatosi nel ben mezzo della scena, improvvisa, recitando la parte del Terzo Assassino, da lui conosciuta a memoria. La sua interpretazione piace a Shakespeare, che la include nella sua opera. Moriarty, che è rimasto intrappolato nel passato, scrive l'accaduto nella lettera sperando che un giorno Holmes la troverà. Lettera che si conclude così:
“La prima volta che le battute del Terzo Assassino furono mai pronunciate, erano solo il frutto della mia buona memoria.
“Dunque, di grazia, signor Holmes, chi le ha scritte?
 

Si hanno così oggetti, esseri e informazioni esistenti nello spaziotemo senza che nessuno sia responsabile della loro creazione. Un manuale che viene dal nulla. Una farfalla che viene dal nulla. Battute teatrali che vengono dal nulla.

Dopo aver introdotto e commentato brevemente i paradossi sopra citati, gli autori partono in quarta analizzando tutte le soluzioni delle equazioni di campo di Einstein che implicano curve temporali chiuse, fornendo al lettore un'immersione in un oceano di matematica superiore. Se un navigatore nutre per l'estetica matematica la stessa passione che Casanova nutriva per le donne, sarà sicuramente soddisfatto. Se devo essere sincero, le conclusioni di Lobo-Crawford mi lasciano esterrefatto. In sintesi, questa è la summa argomentativa dei due portoghesi: 

a) La teoria della relatività generale ha avuto un grandissimo successo, che ha una base sperimentale molto solida.
b) La teoria della relatività generale porta a soluzioni alle equazioni di campo che implicano curve temporali chiuse.
c) Si evince che se la teoria della relatività generale è valida, è necessario includere la possibilità di viaggio nel passato attraverso curve temporali chiuse.
d) Siccome l'accettazione del viaggio nel passato attraverso curve temporali chiuse implica paradossi, si evince che detti paradossi vanno accettati come possibilità non soltanto matematiche, bensì anche fisiche.
e) Stanti i punti precedenti, ne consegue che il paradosso dell'uccisione del nonno, così come gli anelli temporali, corrispondono a situazioni possibili e realistiche.

A questo punto fa magicamente la sua comparsa la ridicola baggianata papista del libero arbitrio. Così ragionano Lobo e Crawford: "È logicamente inconsistente che il crononauta uccida suo nonno. Ma per l'esattezza, ci si può chiedere, cosa gli ha impedito di compiere il suo atto omicida se egli ha avuto ampie opportunità e la libera volontà di fare così". Parlano sì del principio di autoconsistenza, formulato da vari autori per aggirare il problema, ma ora della fine sono autentici sostenitori della possibilità di viaggiare fisicamente nel passato.  

Il problema è che è inconsistente il fatto stesso che il crononauta possa raggiungere suo nonno al di fuori della catena causale che ha portato alla propria esistenza. Ricordo che H.G. Wells aveva a un certo punto introdotto un paradosso estremamente interessante nel suo romanzo La macchina del tempo (Time Machine). Il protagonista aveva costruito una macchina del tempo in miniatura, quindi aveva incaricato uno psicologo scettico di azionare una minuscola leva. A questo punto la macchinetta si era sfocata per scomparire. Un astante aveva sollevato l'obiezione, dicendo che, se quella minuscola macchina del tempo avesse viaggiato nel passato, l'avrebbero dovuta vedere nello stesso luogo anche appena entrati nella stanza, e anche il giovedì prima e quello prima ancora, e via discorrendo. Wells ha cercato di risolvere il paradosso con un cavillo, immaginando che la velocità della macchina fosse tale da impedirne la vista agli umani. In realtà il paradosso resta e sarà bene meditare sulle sue conseguenze.   

domenica 10 dicembre 2017

NOTE SUL LAVORO DI PELCZAR

Michael Pelczar (National University of Singapore) è l'autore dell'articolo Presentism, Eternalism, and phenomenal change, ossia "Presentismo, eternismo e cambiamento fenomenico", composto nel 2008 e pubblicato nel 2010 dopo un lungo iter. Il lavoro in questione può essere liberamente consultato e scaricato seguendo questo link al sito dell'autore: 


In modo oscurissimo, Pelczar pronuncia oracoli in un linguaggio più denso della materia che compone le stelle a neutroni: "Di norma, quando ci accorgiamo che sta avvenendo un cambiamento, la nostra esperienza cosciente ha una corrispondente qualità di cambiamento fenomenico. Qui si argomenta che la propria esperienza può avere questa qualità a o durante un tempo in cui non c'è cambiamento in cui le proprietà fenomeniche si possono rappresentare come istanza. Questo mina un numero di argomenti altrimenti cogenti contro le principali teorie metafisiche del cambiamento, ma richiede anche queste teorie per costruire il cambiamento come una qualità secondaria, simile al colore."

Lo studioso si occupa del problema della durata degli eventi nell'ambito dell'esperienza del cambiamento. Mi preme far notare che il problema potrebbe essere fittizio, proprio come la classica questione di lana caprina. La natura continua dell'esperienza degli esseri senzienti può essere dovuta non tanto alla reale estensione temporale degli eventi, ma ai tempi di reazione degli organi di senso, per loro natura lenti e fallaci. Non si deve dimenticare che un film è composto da un certo numero di fotogrammi e che pure è in grado di simulare la realtà che sperimentiamo, soltanto perché gli stessi fotogrammi sono messi in moto a una velocità tale da farci perdere la possibilità di distinguerli. Se i nostri sensi sono ingannati da un rudimentale manufatto umano come una pellicola in movimento, a maggior ragione non è necessario postulare un'estensione del presente oltre i confini dell'istante, definito come entità singolare e indivisibile. 

Questa è la summa argomentativa dell'autore, da lui utilizzata per sostenere posizioni eterniste: 

B1 Il presentismo implica che ogni esperienza è un'esperienza "presentacea" (mi si perdoni l'orrido aggettivo), dato che le sole esperienze esistenti, secondo i presentisti, sono quelle che esistono nel tempo presente.
B2 Tuttavia, un'esperienza come quella del cambiamento comprende essenzialmente multiple sotto-esperienze, che esistono tutte allo stesso modo, nonostante esistano in tempi differenti (e non, quindi, nello stesso tempo presente).
B3
Quindi il presentismo implica, erroneamente, che non ci sono esperienze come quelle del cambiamento.

Nella sostanza, sono argomentazioni estremamente primitive, proprio come il famoso paradosso di Zenone, tuttora usato dai settari wahabiti dell'Arabia Saudita per dimostrare che la Terra è piatta. Negare la natura oggettiva del flusso temporale serve a poco: può essere soggettiva la sensazione del tempo che scorre, ma il passaggio da un istante all'altro è reale. Cosa poi ci sia dietro a tutto questo, credo che la sua comprensione esuli dalle capacità dell'intelletto umano.

Risale al 2016 la bozza di un altro articolo di Pelczar sulla metafisica del tempo e dello spazio: What is Time? ossia "Cos'è il tempo?", consultabile e scaricabile al seguente link: 


L'autore giustamente critica l'eliminativismo che prevale nel mondo accademico, ossia la posizione di coloro che semplicemente rimuovono il tempo e la coscienza, giudicando inesistenti tali fenomeni. Fatto questo, egli cerca di dimostrare la possibilità di un'analisi del concetto di tempo, riducendo i fatti fisici a fatti relativi all'esperienza cosciente. Resta il fatto che non riesce a spiegare davvero cosa sia l'esperienza cosciente: l'unico risultato è addentrarsi nelle sabbie mobili di un iperformalismo ai confini con la paranoia, affondando in modo inesorabile. In buona sostanza, non si arriva da nessuna parte.

NOTE SUL LAVORO DI ROMERO-PÉREZ

Gustavo E. Romero (Universidad Naccional de La Plata, Buenos Aires) e Daniela Pérez (Instituto Argentino de Radioastronomía, Buenos Aires) sono gli autori del lavoro Presentism meets black holes, ossia "Il presentismo incontra i buchi neri", pubblicato nel 2014. Può essere consultato e scaricato liberamente a questo indirizzo url:  


Un articolo denso di matematica superiore, che intende calare il lettore addirittura all'interno di un buco nero, oltre l'orizzonte degli eventi, oltre quello che può essere soltanto l'annientamento di ogni struttura concepibile da mente umana. Le equazioni e i ragionamenti sono molto interessanti, ma le perplessità restano. Il punto è che nei buchi neri - e anche solo in loro prossimità - la fisica a cui siamo abituati cessa di valere. Quindi disquisire sui buchi neri nel tentativo di acclarare la natura ontologica del tempo può non essere una cosa molto furba.

Lo stratagemma è sempre quello prediletto dai B-eternisti: affermare che la simultaneità di due eventi A e B in un sistema di riferimento xyzt implica l'eternismo soltanto perché gli stessi eventi A e B non sono simultanei se visti da un altro osservatore che ha un sistema di riferimento diverso, x'y'z't'. Il problema è che Romero costruisce il primo sistema di riferimento xyzt in condizioni tanto estreme da non essere esperibili, mentre il secondo sistema di riferimento x'y'z't' è situato lontano dalla singolarità spaziotemporale, in condizioni a noi familiari. Queste macchinazioni non possono dirci nulla di quantificabile sull'ipotetico osservatore immerso nel buco nero, sottoposto a spaventose distorsioni dello spaziotempo: non sappiamo come potrebbe essere definito - ammesso e non concesso che la sua definizione sia possibile - e soprattutto ignoriamo come si potrebbe vedere la realtà esterna da tale prospettiva.

Si può soltanto affermare come sacrosanto quello che già vale nello spaziotempo di Minkowski. Al di fuori del cono di luce di un evento, non si può dire assolutamente alcunché di sensato: è una zona d'ombra fatta di fantasmi e di Nulla. Non è lecito trarre conoscenza dagli spettri che vi regnano e che non possono comunicare in alcun modo con l'ente a cui il cono di luce appartiene, istante per istante. Come Romero fa notare, man mano che ci si avvicina a un buco nero, il proprio cono di luce si appiattisce sempre più, tanto che una volta giunti all'orizzonte degli eventi si avrà un cono di luce che coincide con un piano in cui passato, presente e futuro collassano. Se ci si viene a trovare in una situazione simile, non si potrà dedurre da essa alcunché di utile a definire lo statuto ontologico del tempo passato e del tempo futuro di osservatori il cui cono di luce non è appiattito. 

Pur ammirandone il rigore di quest'opera, non trovo alcun modo di risolvere quello che considero un problema definitorio.

Lo stesso Romero nel 2014 ha pubblicato un altro articolo a qualche mese di distanza da quello sopra trattato: si tratta di Philosophical Issues of Black Holes, ossia "Problemi filosofici dei buchi neri", consultabile al seguente url: 


La trattazione matematica è molto approfondita. No, per capirci qualcosa non bastano le famose "insalate di matematica" mangiate da Goldrake: occorrono anni di paziente studio. I problemi filosofici affrontati sono notevoli. Si parla del determinismo, degli orizzonti di Cauchy e del secondo principio della termodinamica. Si ammette che il mondo non è un oggetto matematico, che soltanto alcune nostre descrizioni del mondo sono matematiche. Si ammette che se le equazioni che rappresentano le leggi della fisica ammettono certe soluzioni, queste non hanno per necessità esistenza fisica. Quindi si giunge a trattare il problema del presentismo e dell'eternismo. Romero ribadisce la propria posizione: egli reputa l'esistenza stessa di buchi neri nel nostro universo come incompatibile col presentismo. Questa è la summa argomentativa romeriana: 

Argomento A1:
P1: Ci sono buchi neri nel nostro universo.
P2: I buchi neri sono descritti correttamente dalla relatività generale.
P3: I buchi neri hanno superfici nulle chiuse (orizzonti).
Quindi ci sono superfici nulle chiuse nell'universo. 

Argomento A2:
P4: Tutti gli eventi su una superficie nulla chiusa sono simultanei con ogni evento sulla stessa superficie.
P4i: Tutti gli eventi su una superficie nulla chiusa sono simultanei con la nascita del buco nero.
P5: Alcuni eventi lontani sono simultanei con la nascita del buco nero, ma non con altri eventi correlati al buco nero.
Quindi ci sono eventi che sono simultanei in un sistema di riferimento e non in un altro.

L'indebita conclusione è la seguente: "La simultaneità dipende dal sistema di riferimento. Siccome ciò che esiste non può dipendere dal sistema di riferimento che usiamo per descriverlo, concludiamo che ci sono eventi non simultanei. Quindi il presentismo è falso." 

Il punto è che il tempo nel buco nero non ha relazone con il tempo definito nel normale spaziotempo di Minkowski e ogni correlazione tra l'orizzonte degli eventi e ciò che si trova al suo esterno è da rigettarsi.

NOTE SUL LAVORO DI NÉMETI

Istvan Németi (Hungarian Academy of Sciences, Budapest) è l'autore, assieme a Hajnal Andréka, Judit Madarász, M. Stannett e Gergely Székely, dell'articolo Faster than light motion does not imply time travel ossia "Più veloce della luce non implica viaggio nel tempo", pubblicato nel 2014. L'interessante opera è scaricabile in formato pdf in questa pagina:


Questo è l'abstact in inglese:

«Seeing the many examples in the literature of causality violations based on faster-thanlight (FTL) signals one naturally thinks that FTL motion leads inevitably to the possibility of time travel. We show that this logical inference is invalid by demonstrating a model, based on (3+1)-dimensional Minkowski spacetime, in which FTL motion is permitted (in every direction without any limitation on speed) yet which does not admit time travel. Moreover, the Principle of Relativity is true in this model in the sense that all observers are equivalent. In short, FTL motion does not imply time travel after all.»

Questo è l'abstract in italiano (traduzione del sottoscritto):

«Vedendo i molti esempi in letteratura di violazioni della causalità basati su segnali più veloci della luce (faster than light, FIL), è naturale pensare che il moto più veloce della luce porti inevitabilmente alla possibilità del viaggio nel tempo. Mostriamo che questa inferenza logica non è valida, dimostrando un modello, basato sullo spaziotempo di Minkowski a 3+1 dimensioni, in cui il moto più veloce della luce è permesso (in ogni direzione senza limitazioni di velocità), che tuttavia non ammette viaggio nel tempo. Inoltre il Principio di Relatività è vero in questo modello nel senso che tutti gli osservatori sono equivalenti. In breve, il moto più veloce della luce dopotutto non implica il viaggio nel tempo.»

Un articolo estremamente ingegnoso e a prima vista in controtendenza rispetto alla tirannia del B-eternismo negatore della freccia temporale. È tuttavia uno scritto molto tecnico che implica una certa conoscenza del formalismo logico-matematico per essere compreso. Detto questo, non va nascosto un limite intrinseco: vengono costruiti modelli di spaziotempo non esperibili, completi di abitanti che vivono nell'insondabile condizione di velocità superluminale. Quindi possiamo ben sostenere che ogni singolo passo dell'opera di Németi e dei suoi colleghi potrebbe essere fallace. Potrebbe essere per mia mancanza di conoscenza, ma intravedo un altro punto ostico. A quanto mi risulta, nella teoria di Einstein è ipotizzata l'esistenza dei tachioni, particelle che si muovono a velocità maggiore di quella della luce. Stando al fisico di Ulm, questi tachioni si muoverebbero all'indietro nel tempo, procedendo dal presente al passato e lasciandosi alle spalle il futuro. Il nesso causa-effetto nell'universo tachionico risulterebbe invertito: gli effetti precederebbero per necessità le cause. Per via delle proprietà definitorie di queste particelle, tutti i tentativi fatti per rilevarle nel nostro universo appartengono al reame della follia. Ho l'impressione che Németi et alteri postulino invece anche per i tachioni le proprietà delle particelle subluminali e del nostro tempo, che procede dal presente al futuro, lasciandosi alle spalle il passato. Un'incongruenza mica da ridere! Sarebbe utile se qualche profondo conoscitore di questa complessa materia giungesse a commentare per fornirmi lumi. 

venerdì 8 dicembre 2017


INDIETRO NEL TEMPO 

Titolo originale: Time and Again
Autore: Jack Finney
Lingua originale: Inglese
1a ed. originale: 1970
Genere: Fantascienza
Sottogenere: Viaggio nel tempo; fantascienza
      romantica; fantascienza crepuscolare
   Ontologia temporale: B-eternista
  
Reversibilità degli eventi: Sì
   Nesso causale: Retrocausalità diretta
  
Tipo di viaggio nel passato: Non ludoviciano
   Tecnologia di viaggio: Ipnotismo
   Macchina del tempo: Assente

   Draga temporale: Sì
Editore (it.):
   Mondadori (collana Altri Mondi);
   Marcos y Marcos (collana Gli alianti)
1a ed. it.: 1990
2a ed. it.: 2004
Traduttore: Marco Pinna, Riccardo Valla
Codici ISBN: 
   ISBN-10: 880434203X
   ISBN-13: 9788804342038
Codice EAN:
   9788871683867

Trama:

New York. Simon Morley è un impiegato in un'industria di grafica e passa le sue giornate a fabbricare sagome adorne per saponette. Percepisce in modo netto che la sua vita è vuota e vana, anche se ha qualche amico ed è allietato dalla compagnia di una ragazza, la fulva Katherine Mancuso. Un giorno Simon viene avvicinato da un certo Ruben "Rube" Prien, che gli propone di partecipare a un progetto governativo della massima segretezza. Va detto che Rube da una parte istiga e incuriosisce l'interlocutore, tuttavia si rifiuta di fornire il benché minimo dettaglio e persino di dare una vaga definizione dell'incarico. All'inizio Simon è molto perplesso, scettico e vittima dell'accidia, così pensa di rifiutare per rimanere nella sua vita di nullità. Poi qualcosa lo spinge a unirsi al progetto e a recarsi all'indirizzo fornitogli da Rube. Giunge così fino a un edificio di nudi mattoni rossicci, inoltrandosi in un labirinto di corridoi e di uffici. Qui, dopo essere stato sottoposto a una singolare prova, una sorta di test di realtà, viene a conoscere il dottor Oscar Rossoff e il capo del progetto, il dottor E.E. Danziger. All'inizio tutto è molto nebuloso: a Simon vengono mostrate aule in cui persone dagli strani abiti sono impegnate in attività incomprensibili, come la simulazione di un duello con le baionette o una conversazione nella lingua d'oil del XV secolo. Sarà proprio il dottor Danziger a spiegare ogni cosa in dettaglio: il progetto consiste nel mandare indietro nel tempo alcuni collaboratori opportunamente addestrati, in un piccolo numero di contesti scelti. Questi viaggi nel passato non avvengono tramite particolari congegni, ma soltanto servendosi dei poteri dell'ipnosi. Il crononauta si prepara calandosi nella parte, vivendo per qualche tempo in un ambiente acconciato in modo da contenere soltanto oggetti dell'epoca in cui si vuole arrivare, mangiando soltanto cibi prodotti appositamente e via discorrendo. Quando tutto è perfetto, e il crononauta è giunto a pensare in tutto e per tutto come un uomo del passato che è stato scelto, ecco che si sottopone a ipnosi e avviene la magia: uscendo dal suo covo, si viene a trovare proprio nel tempo desiderato! In pratica, si tratta del viaggio nel tempo condotto soltanto con mezzi "psicologici": le ingenti spese dell'ente governativo presieduto dal dottor Danziger sono relative alla produzione dei contesti adatti e all'addestramento dei crononauti. Così Simon Morley, vestito come un gentiluomo della New York ottocentesca, prende residenza in un enorme quanto vetusto palazzone chiamato Dakota, in cui un appartamento viene arredato in modo opportuno, eliminando ogni oggetto o elemento che possa anche remotamente ricordare il XX secolo. La tecnica ipnotica ha successo e Simon riesce a fare un'incursione nell'anno 1882, durante una nevicata abbondante. Vede un uomo e una donna su una slitta trainata da cavalli e, rientrato nel suo appartamento al Dakota - che a quei tempi esisteva già - riesce a scorgere il Museo delle Scienze Naturali, solo in seguito nascosto da una selva di grattacieli. È l'inizio di un'avventura coinvolgente, che porterà il protagonista a imbattersi in una bella ragazza, Julia Charbonneau, di cui si innamorerà perdutamente. L'architettura dell'opera è molto complessa, comprendendo non pochi intrighi e misteri; di certo molti dettagli sollevano interessanti problematiche di ontologia temporale.

Recensione: 

Alla base di Indietro nel tempo c'è la teoria dell'eternismo atensionale, o B-eternismo, sostenuta tra gli altri da Albert Einstein: essa afferma che presente, passato e futuro coesistono come configurazioni spaziali statiche, e che il flusso degli istanti è illusorio. Che il B-eternismo sia tanto popolare tra i fantascientisti non deve stupire più di tanto: essendo il presentismo una teoria che nega lo statuto ontologico degli eventi passati e di quelli futuri, ogni viaggio nel tempo viene ad essere impossibile. In questo modo per scrivere un romanzo sui viaggi nel tempo, non resta che scegliere un'ontologia temporale eternista. A parer mio, le ontologie temporali più utili a questo scopo sono quelle eterniste tensionali, o A-eterniste, come la teoria dei futuri ramificati o quella dei blocchi in accrescimento - dato che rendono conto del flusso degli istanti. Peccato che gli scrittori anglosassoni, con poche eccezioni tra cui Philip K. Dick, stravedano per la negazione della freccia temporale, generando così infiniti paradossi non necessari. In particolare, Finney non comprende il nesso causale tra gli eventi ed è portato a ritenere il concetto stesso di causalità come qualcosa di "soggettivo" e "psicologico". Un'idea originale quanto priva di senso. La narrazione è comunque avvincente, nonostante la sua sostanziale assurdità. Peccato che lo stile sia troppo ampolloso: eventi cruciali vengono sommersi da un'incredibile mole di descrizioni fatue di vestiti e di paesaggi urbani, per non parlare del labirinto della toponomastica di New York, in cui difficilmente un lettore italiano può pensare di orientarsi. Tanto fitta è la rete di riferimenti geografici come "l'incrocio tra Nassau Street e Park Row", "l'angolo della Quarantasettesima", "il marciapiede tra la Third Avenue e la Quarantaduesima" e via discorrendo, che si è colti da un senso di vertigine.

Viaggi temporali non ludoviciani

Il viaggio nel passato è detto ludoviciano se comporta l'impossibilità di cambiare gli eventi. Per contro, il viaggio nel passato è detto non ludoviciano se permette il cambiamento degli eventi. Come mai queste denominazioni così strane? Semplice: esse derivano dal nome del filosofo statunitense David Lewis (1941-2001). Orbene, il suo cognome deriva dal nome proprio Lewis "Luigi", la cui origine ultima è una forma volgare di Ludovico, come ben sa chi si interessa di filologia germanica. Sono un convinto assertore dell'impossiblità del viaggio temporale non ludoviciano. Tuttavia, anche sospendendo l'incredulità e calandosi nell'ambientazione del romanzo, ne emergono tali contraddizioni intrinseche da far saltare dalla sedia. 

La metafora del fiume

Pur negando l'esistenza della freccia temporale, Finney non esita a paragonare il tempo a un grande placido fiume. A suo dire, l'inaccessibilità del passato e del futuro sarebbe causata soltanto nel fatto che ci troviamo in un'ansa che ci impedisce di vederli. Ecco la conversazione tra Simon Morley e il dottor Danziger: 

«<Einstein> intendeva dire che la nostra concezione del passato, del futuro e del presente non è corretta. Noi pensiamo che Il passato se ne sia andato, che il futuro debba ancora venire, e che esista solo il presente. Perché il presente è tutto ciò che siamo in grado di vedere».
«In effetti, devo ammettere che anche a me sembra che le cose vadano più o meno così».
Danziger sorrise. «Naturalmente. E lo stesso vale per me. È più che naturale. Come del resto ha detto lo stesso Einstein. Ha detto che siamo come persone in una barca senza remi che procede lungo un fiume serpeggiante. Attorno a noi vediamo solo il presente, e non riusciamo a vedere il passato, dietro le anse e le curve del fiume alle nostre spalle. Eppure esso esiste».

Come conseguenza di queste premesse, il concetto di irreversibilità non è compreso, e lo stesso Einstein a quanto pare lo considerò irrilevante. Eppure l'irreversibilità esiste ed è un dato di fatto che non può essere rimosso dalle ruminazioni della psicologia. Che la relatività einsteiniana non implichi in automatico il B-eternismo è provato tra l'altro dal fatto che il dibattito filosofico tra eternisti e presentisti è ancora vivacissimo. Siamo ben lungi dal comprendere la natura del tempo. Credo con fermezza che l'intero mondo scientifico dovrebbe rinsavire e prendere sul serio Ilya Prigogine, che sostenne la natura termodinamica della freccia temporale, definendo l'irreversibilità degli eventi come principio di sensatezza dell'universo. Mi si permetta di aggiungere, è la sola sensatezza che si può ravvisare in un universo di aberrazioni!     

La teoria della pagliuzza nel fiume

Così spiega il dottor Danziger: 

«Ecco, il tempo viene spesso paragonato a un fiume, a una corrente. Quel che accade in un dato punto del fiume dipende almeno in parte da quel che è successo a monte. Ma in ciascun istante si verifica un'infinità di eventi, alcuni dei quali sono di portata enorme. Perciò, se il tempo è un fiume, è più grande del Mississippi in piena. Mentre lei... è come una pagliuzza in mezzo a quella corrente. È possibile che anche una pagliuzza possa produrre un effetto: per esempio, può rimanere incastrata sulla sponda e con il tempo formare una barriera capace di bloccare il corso del fiume. La possibilità di un cambiamento, il pericolo, esiste. Ma è infinitesimale. Virtualmente possiamo essere sicuri al cento per cento che una pagliuzza caduta in quella corrente gigantesca e incredibilmente potente, nel turbine di quel Mississippi di eventi, non influisca affatto sul suo corso!» 

Ebbene, anche ammettendo il viaggio temporale non ludoviciano, questa teoria è falsa. Non ha in sé nemmeno una vaghissima fibra di verità. Moltissime opere fantascientifiche sui viaggi nel passato si fondano su questo presupposto fallace e ignorano del tutto i nessi causali che generano gli eventi. La tentazione del narratore è quella di credere che esistano pochissimi eventi determinanti, messi lì per necessità storica e assolutamente immutabili, che non potranno mai essere scalfiti da nulla -  e che tutti gli altri eventi siano assolutamente irrilevanti, tanto che mutandoli non si sortirebbe mai alcun effetto sul corso storico. Questo perché alla base del giudizio ci sono i libri di storia, che elencano l'insieme degli eventi assoluti definiti "necessità storiche". Quanto tutto ciò sia un'illusione puerile lo dimostra la stessa vita di Adolf Hitler. Purtroppo la fantascienza si basa ancora in gran parte sulla meccanica classica e ignora il concetto di Caos. Non esistono eventi irrilevanti in un sistema caotico. Si può dimostrare che anche un semplice sternuto innesca una catena di conseguenze in grado di ridefinire l'intero aspetto del pianeta: è sufficiente che favorisca o che impedisca anche soltanto una singola copula.

Il ridicolo Progetto Cuba

Ogni singolo elemento di questo universo è parte di una catena causale che rimonta ad epoche remotissime. La natura tragica di questa catena non viene compresa da Finney e di conseguenza neppure dai suoi personaggi. Allo stesso modo sfugge l'estrema interconnessione di tutte le catene causali che compongono l'esistenza. Vediamo così due militari minchioni, Rube Prien e il colonnello Esterhazy, fare un progetto folle. Secondo il loro ragionamento lineare da meccanici classici, se Cuba fosse stata acquisita dagli Stati Uniti nel 1890, quando la cosa era possibile, non sarebbe mai andato al potere Fidel Castro, con tutto quel che ne consegue. E al contempo, tutto il resto sarebbe stato identico alla realtà a noi tutti nota. Prien ed Esterhazy, in altre parole, credono di poter asportare in modo chirurgico qualcosa che non piace loro, come il regime comunista cubano, senza tener conto della propagazione degli eventi e dell'impossibilità di controllare il cambiamento delle catene causali. Una prospettiva che definire stolta è poco.

La draga temporale

Philip K. Dick ha definito "draga temporale" un congegno capace di portare nel presente oggetti o persone prendendole dal passato. Il concetto è introdotto ne La penultima verità, ma compare anche altrove. Così, ne I simulacri, Hermann Goering viene catturato dalla draga temporale e portato nell'epoca in cui la vicenda si svolge - solo per essere sommariamente fucilato per essersi dimostrato "poco utile". Nel romanzo di Finney, Simon Morley riesce tramite la solita ipnosi a portare Julia Charbonneau nel proprio tempo d'origine, nella New York del XX secolo. La ragazza cammina per le strade congestionate da flussi di automobili e osserva i grattacieli. Viene condotta nell'appartamento di Simon, dove sfoglia alcuni libri e si veste con abiti moderni. Poi a un certo punto comprende che il suo posto è nel suo tempo, si rimette gli abiti con cui è arrivata e tramite la tecnica dell'ipnotismo ritorna nel passato. Quindi, possiamo dire che il dragaggio temporale nel romanzo di Finney avviene senza la presenza di un congegno, contrariamente a quanto avviene nelle opere di Dick.

L'Ipertempo di Van Inwagen 

Si segnala come degna di nota la teoria di Peter Van Inwagen (University of Notre Dame, South Bend, Indiana), che postula il concetto di ipertempo. Secondo lo studioso statunitense, lo spaziotempo comprenderebbe più di una dimensione temporale. In linea di principio sarebbe possibile per un crononauta ritornare nel passato: la sua interazione creerebbe l'eruzione di un nuovo corso temporale, come un corno che si viene a formare per poi propagarsi. In questo modo non ci sarebbero paradossi. Le vari linee temporali create dagli interventi sul passato non interagirebbero tra loro, e i vari doppioni dei crononauti e degli abitanti di ogni ipertempo sarebbero sezioni di oggetti con parti temporali che non possiamo cogliere dalla nostra limitata visuale. Peccato che l'entropia ontologica implicita in tale teoria sia grande e generi infiniti non normalizzabili, di per sé indizio della sua falsità. 

Reazioni nel Web

Nel sito Anobii sono presenti numerose recensioni brevi di questo romanzo, consultabili al seguente indirizzo: 


Con poche eccezioni, direi che i lettori di fantascienza non hanno gradito Indietro nel tempo, per motivi abbastanza prevedibili. Manca il gingillo tecnologico, sola cosa in grado di attirare l'attenzione. Infatti si è usata la locuzione "fantascienza ipotecnologica". Per alcuni non è neppure fantascienza e sarebbe classificabile come "romanzo storico". Non sembra che tra il pubblico, perso nel mare della banalità, ci sia qualcuno interessato agli studi sulla natura del tempo.