La pestilenza del 1348
"Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ipocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co' lor parenti, compagni e amici, che poi la sera vegnente appresso nell'altro mondo cenaron con li lor passati!"
Giovanni Boccaccio, Decameron, Introduzione alla Prima Giornata.
Premessa. Vuoi per l'entità del fenomeno, vuoi per la gravità delle sue conseguenze, sarebbe impossibile condensare in poche pagine la storia della grande epidemia di peste nera che travolse i paesi europei negli anni compresi tra il 1347 e il 1351. Questo articolo, dal carattere volutamente frammentario, ha il solo scopo di suggerire alcuni percorsi di ricerca. A coloro che desiderassero approfondire l'argomento, consiglio vivamente la lettura del saggio di Klaus Bergdolt "La peste nera e la fine del Medioevo" (Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 1997), che offre un dettagliato quadro d'insieme dell'evento, e di "La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio dall'antichità all'età contemporanea" di William Hardy McNeill (Einaudi, Torino, 1982), per la parte relativa all'epidemia di peste detta, convenzionalmente, "del 1348". Da segnalare anche "La Grande Peste. Un flagello sull'Europa del Trecento" di Angel Blanco (Fenice 2000, Milano, 1994), un agile volumetto di taglio divulgativo.
Cenni di patologia. La peste è una malattia epidemica causata da una batterio del genere Pasteurella. Si trasmette da roditore a roditore (sorgente dell'infezione), e da questi all'uomo, per il tramite delle pulci (vettori dell'infezione). Il principale vettore della Pasteurella pestis è la pulce del ratto indiana (Xenopsylla cheopis), diffusa nei paesi tropicali; in determinate condizioni anche la pulce dell'uomo (Pulex irritans) può propagare la malattia. Nel 1993, l'Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarava che "focolai naturali di peste" venivano segnalati in alcuni paesi dell'Africa subsahariana (Kenya, Madagascar, Mozambico, Uganda, Tanzania e Zaire), dell'America del Sud tropicale (Bolivia, Brasile, Equador e Perù) e dell'Asia sud-orientale (Myanmar - ex Birmania - e Viet Nam), raccomandando ai viaggiatori diretti verso aree dove la peste è endemica di "evitare ogni contatto con i roditori (topi e ratti)". L'OMS rilevava come, a fronte dell'assenza di epidemie di peste "negli ultimi anni", si fossero verificati "solo casi sporadici (...) nei cacciatori di roditori selvatici e in residenti in remoti villaggi andini che vivono in case infestate da ratti" ("Viaggi internazionali e salute. Situazione al 1° gennaio 1993", versione italiana a cura del Centro Collaboratore OMS per la Medicina del Turismo). Sono due le modalità di trasmissione del contagio: per via cutanea, in seguito al morso della pulce; o per via aerea, analogamente a quanto accade per il raffreddore. Nel primo caso il meccanismo patogenetico è il seguente: la pulce si nutre del sangue di un roditore infetto; i batteri si moltiplicano nel tratto digerente superiore della pulce, ostruendolo; quando la pulce si nutre di nuovo, pungendo per esempio un uomo, il blocco fa sì che il sangue appena ingerito sia rigurgitato nella morsicatura, che è di fatto una ferita aperta, insieme ai batteri della peste. Il ratto nero (Rattus rattus), giunto a quanto pare in Europa a bordo delle navi che riportarono i crociati dall'Oriente, diede un contributo determinante al dilagare della Grande Pestilenza nel 1347. La peste umana ha un periodo d'incubazione compreso fra 1 e 6 giorni e si manifesta clinicamente in tre forme: bubbonica, setticemica e polmonare. La forma bubbonica è caratterizzata dalla comparsa del cosiddetto bubbone (ingrossamento di un linfonodo) nella regione inguinale o, più raramente, ascellare. Se il batterio supera la barriera linfoghiandolare si diffonde in tutto l'organismo. La peste setticemica, contraddistinta da un pullulare di batteri nel sangue, può provocare emorragie cutanee, mucose e viscerali in seguito alle quali la cute dell'appestato si copre di macchie o croste nerastre (di qui il termine di uso popolare "peste nera"). La forma polmonare implica un interessamento dell'apparato respiratorio in forma di broncopneumopatia secretiva. L'escreato, terreno di crescita per i batteri, risulta fortemente contagioso.
"Cominciossi nelle parti d'Oriente". Così si esprime Matteo Villani (1280,1363), nella sua Cronica, in merito alla provenienza geografica della "mortale pestilenzia" che assalì l'Europa intorno alla metà del XIV secolo. L'epidemia scaturì a quanto sembra ad Alma Ata, Kazakistan, nel 1336, e dagli altipiani dell'Asia centrale, lungo le piste carovaniere, raggiunse la penisola di Crimea. Si tramanda che proprio qui ebbe a verificarsi un evento destinato ad avere ripercussioni catastrofiche. Primavera 1347: Caffa, l'odierna Feodosiya, allora centro fiorente del commercio genovese, è cinta d'assedio dai tartari. Il contagio apre vuoti spaventosi tra le file degli assedianti, al punto da indurre il khan a ordinare la ritirata. Ma prima di abbandonare l'assedio i tartari compiono un gesto che rappresenta un vero e proprio atto di guerra batteriologica: servendosi di catapulte, scagliano decine di cadaveri di propri compagni morti di peste all'interno delle mura cittadine. Era fatale, tuttavia, che la Crimea dovesse fungere da "rampa di lancio" per il diffondersi dell'epidemia: da essa si dipartivano infatti molteplici linee marittime e vie commerciali. Il contagio viaggiò a bordo delle navi genovesi, e sbarcò là dove esse sbarcarono.
"Sicilia porta d'Europa". Nell'ottobre del 1347, dodici galee genovesi attraccarono a Messina. L'equipaggio aveva contratto la malattia e molti marinai erano morti durante la navigazione. Assieme all'equipaggio umano le navi trasportavano, annidati nelle stive, i topi della peste. L'epidemia dilagò dapprima in Sicilia e, nel 1348, in tutta la penisola italiana: "L'inesorabile propagazione del contagio seguì sia le rotte che collegavano i porti principali, sia le direttrici della rete stradale e fluviale" (Angel Blanco). Alla fine del 1351, l'Europa, salvo alcune fortunate enclaves, era completamente colpita. Nel giro di cinque anni, la peste uccise un terzo della popolazione europea: una falcidie senza precedenti, favorita dalle disastrose condizioni igienico-sanitarie esistenti all'epoca. Ovunque regnava la sporcizia e i rifiuti si accumulavano nelle strade: una volta giunti a terra, i ratti trovarono un habitat ideale per moltiplicarsi.
Umori e miasmi. Prima della scoperta dell'esistenza di agenti patogeni microscopici e dei loro cicli riproduttivi, il concetto di contagio, come sottolinea Giulio Preti nella sua "Storia del pensiero scientifico" (Mondadori, 1957), rimaneva assai misterioso e di difficile interpretazione. La medicina medioevale, non diversamente da quella antica, spiegava l'origine delle malattie infettive in base alla teoria umoralpatologica, fondata sulla tradizione ippocratico-galenica, che faceva derivare la malattia da una cattiva mescolanza dei quattro umori fondamentali; e alla teoria dei miasmi, secondo cui: "acqua stagnante, pantani, pozzi e laghetti corrompevano l'aria che diffondeva la putredine e attraverso la respirazione contagiava l'organismo umano" (Bergdolt). Va precisato che nel Corpus Hippocraticum sono presenti entrambi gli aspetti dottrinari: quello che fa discendere gli stati morbosi dalla discrasia degli umori nel corpo umano, e quello che li attribuisce a fattori atmosferici, o ai gas generati all'interno dell'organismo. Per capire meglio in cosa consistesse la teoria dei miasmi, si può far riferimento al De rerum natura di Tito Lucrezio Caro (98-55 a.C. circa). Il libro VI del poema scientifico-filosofico lucreziano contiene non solo un drammatico resoconto dell'epidemia (presumibilmente vaiolosa) che colpì la città di Atene e l'Attica nel 430 a.C., ma anche un'interessante dissertazione sulle cause del fenomeno. Il presupposto è la necessità che "multarum semina rerum", i semi di molte cose, siano vitali per noi, ed altri, al contrario, portatori di malattia e di morte. La mescolanza casuale di codesti differenti "semi" fa sì che l'aria divenga malsana ("fit morbidus aër"). Tutta la forza e la virulenza dei morbi scaturirebbero o "dall'alto, come nuvole e nembi" o "dalla terra", resa putrida dalle piogge e dal calore del sole. Sostiene Lucrezio che quando quest'aria infetta, muovendosi come una nube, giunge nel nostro cielo, "lo corrompe e lo rende simile a sé". Accade allora che tale pestilitas "cade immediatamente nelle acque, o si insinua nelle stesse messi o in altri alimenti degli uomini e nutrimenti degli animali", con le conseguenze che si possono immaginare, oppure la sua forza "rimane sospesa nell'aria" e, in questo caso, gli uomini respirando la introducono nel proprio corpo. Va detto che la teoria lucreziana venne ripresa dal medico Girolamo Fracastoro nell'opera "De contagione et contagiosis morbis et curatione" (1546), in cui le malattie contagiose venivano spiegate con la presenza di semi capaci di infettare per contatto, a distanza e mediante veicoli di contagio.
"Nella egregia città di Fiorenza". In merito a un caso specifico, quello della città di Firenze, disponiamo di interessanti testimonianze d'epoca medioevale: mi riferisco, in particolare, alla Cronica dei fratelli Giovanni e Matteo Villani, al proemio del Decameron di Giovanni Boccaccio e alla Cronaca Fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani. Tutti e tre gli autori sottolineano l'assoluta impotenza dei medici di fronte al flagello della peste. "A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto" sostiene Boccaccio. "Di questa pestifera infermità i medici in catuna parte del mondo, per filosofia naturale o per fisica o per arte d'astrologia, non ebbono argomento né vera cura" (Matteo Villani). Dal canto suo, Marchionne osserva che "non valeva né medico né medicina, o che non fossero ancora conosciute quelle malattie, o che li medici non avessero quelle mai studiato, non parea che rimedio vi fosse". Impossibilitati a debellare il morbo, i medici non trovavano di meglio che consigliare... la fuga dalle località minacciate dalla peste. A Firenze, essa prese ad imperversare nel mese di aprile del 1348, seminando la strage. I dotti e gli uomini di scienza non erano in grado di offrire una spiegazione adeguata del fenomeno né tantomeno di contrastarlo. Ciarlatani e fabbricanti di amuleti, ovviamente, facevano affari d'oro. Boccaccio osserva che la pestilenza "s'avventava" dagli infermi ai sani, e che "non solamente il parlare e l'usare cogli infermi dava a' sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata". Oggi sappiamo che la peste nella forma polmonare si trasmette tossendo, starnutendo o semplicemente parlando, mediante l'inalazione di goccioline emesse dalla bocca di persone infette. Che gli indumenti indossati da individui morti di peste potessero contagiare ed uccidere non solamente altri uomini, ma anche "un altro animale fuori della specie dell'uomo", è un fenomeno che costituiva motivo di sorpresa per l'autore del Decameron il quale riferisce il seguente episodio: "essendo gli stracci d'un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via pubblica e avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il loro costume prima molto col grifo e poi co' denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra". Marchionne di Coppo Stefani dichiara: "E non bastava solo gli uomini e le femmine, ma ancora gli animali sensitivi, cani e gatte, polli, buoi, asini e pecore moriano di quella malattia". Malattia che, ricordiamolo, infuriò a Firenze nei mesi caldi, in corrispondenza del periodo di maggior vitalità delle pulci. Circa le cause del flagello, Boccaccio affaccia due ipotesi: il malefico influsso degli astri ("per operazion de' corpi superiori") e la volontà punitrice di Dio (la pestilenza sarebbe "per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali"). Ritroviamo il medesimo schema interpretativo in Matteo Villani: una sfavorevole congiunzione astrale ("la congiunzione di tre superiori pianeti nel segno dell'Acquario, della quale congiunzione si disse per gli astrologi che Saturno fu Signore: onde pronosticarono al mondo grandi e gravi novitadi"), ipotesi cui peraltro Villani annette scarso credito ("ma simile congiunzione per li tempi passati molte altre volte stata e mostrata, la influenzia pealtri particulari accidenti non parve cagione di questa"); e l'ira divina ("ma piuttosto divino giudicio secondo la disposizione dell'assoluta volontà di Dio") Quello del castigo divino ("la sentenzia che la divina giustizia con molta misericordia mandò sopra gli uomini, degni per la corruzione del peccato di final giudizio") è un tema caro non solo a Matteo Villani, ma a molti suoi contemporanei: "il clero assicurava che Dio, a causa dei peccati degli uomini, si sarebbe adirato e avrebbe dunque deciso di annientarli" (Bergdolt). Convincimento fondato sui "precedenti" di cui narra la Bibbia: il diluvio (Gen 6-7), la distruzione delle città di Sodoma e Gomorra (Gen 19, 23-29), le piaghe d'Egitto (Es 7-12), la pestilenza che colpì i Filistei rei di essersi impadroniti dell'Arca dell'Alleanza (1 Sa 5, 1-12; 6, 1-6). La vicenda descritta nel Primo libro di Samuele risulta di particolare interesse: ad un'attenta lettura, si comprende come gli estensori di questo testo - annoverato dai cristiani tra i libri storici del Vecchio Testamento - avessero intuito l'esistenza di un nesso tra l' "eruzione di bubboni" che colpì gli abitanti della città di Ashdod "dal più piccolo al più grande", e la presenza dei topi, da cui la terra dei Filistei era infestata. Su tale intuizione gravava tuttavia l'impianto religioso dell'opera, in cui ogni fatto è visto nella prospettiva della fede, che identifica in Dio il centro motore degli avvenimenti. La religione offriva così agli europei del XIV secolo una collaudata chiave di lettura degli eventi, capace di renderli decifrabili, sia pure in termini sovrannaturali. L'immagine di una divinità avvezza ad infliggere punizioni esemplari alle proprie creature era fortemente radicata nell'immaginario collettivo, dunque già "pronta per l'uso". Tuttavia, per quanto corroborata dalla testimonianza della Auctoritas per eccellenza (il testo biblico), la tesi secondo cui fosse "l'ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella pestilenza" (Boccaccio) non rendeva certo più sopportabile, per gli uomini e le donne di allora, la tremenda minaccia della peste. Ciò che ad essi premeva era, infatti, la salvezza dalla malattia e dalla morte. Di qui le aspettative riposte nella categoria tradizionalmente preposta alla mediazione fra l'umano e il divino: il ceto sacerdotale. Per placare il furore e impetrare il perdono della divinità adirata che si riteneva avesse scagliato il flagello della peste sull'umanità, si moltiplicarono le processioni e le "umili supplicazioni" ma, sottolinea Boccaccio, né queste né altre iniziative di carattere più concretamente profilattico (la rimozione, certo tardiva, delle immondizie dalla città) valsero ad evitare che la peste nella primavera dell'anno predetto cominciasse a dimostrare "i suoi dolorosi effetti" a Firenze. E non va dimenticato che essa non risparmiò cappellani e parroci. La confusione sulle cause dell'epidemia, la mancanza di terapie efficaci, l'inutilità acclarata delle cerimonie religiose propiziatrici generarono, in breve, un senso di insicurezza generalizzata che si tradusse nella risoluzione "di schifare e di fuggire gl'infermi e le lor cose" (Boccaccio). "Lo figliuolo abandonava il padre, il marito la moglie, la moglie il marito, l'uno fratello l'altro", afferma Marchionne aggiungendo che molti malati morirono di fame nei propri letti, abbandonati dai familiari timorosi di contrarre il morbo.
Il trionfo dell'irrazionalità. Tra gli effetti collaterali dell'epidemia di peste nera che sterminò milioni di europei, merita di esser segnalata la ripresa della setta penitenziale-millenaristica dei flagellanti, fondata nella seconda metà del XIII secolo dal mistico Ranieri Fasani, che si richiamava alle profezie del monaco cistercense calabrese Gioacchino da Fiore. Sulla base di approfonditi studi biblici, Gioacchino aveva elaborato una visione escatologica della storia che introduceva un modello della temporalità nient'affatto collimante con quello stabilito dalla Traditio. Dall'osservazione della concordia Veteris et Novi Testamenti, ovvero della corrispondenza puntuale fra gli eventi accaduti prima e dopo Cristo, Gioacchino ricavò il convincimento che fosse all'opera nella storia una Legge di ripetizione, che riproduceva nella dimensione del tempo lo schema teologico trinitario. La storia del Nuovo Israele (la Chiesa), - ovvero la Seconda Età, l'Età del Figlio -, aveva visto la ripetizione degli avvenimenti verificatisi nel corso della Prima, l'Età del Padre. Secondo Gioacchino, l'Età del Figlio stava volgendo al termine: ad essa sarebbe succeduta l'Età dello Spirito, durante la quale si sarebbe riprodotta la catena di eventi compiutisi da Adamo a Malachia, ma per l'ultima volta. Essa, infatti, avrebbe posto fine alla storia e alla Chiesa istituzionale. Le profezie gioacchimite, benché sovente fraintese, esercitarono un profondo influsso sulla spiritualità medioevale, diffondendosi in ampi strati della società. L'annuncio della Fine ormai prossima dell'età presente suggestionò il promotore del movimento dei flagellanti, che da Perugia si propagò in tutta Italia e oltre i confini della penisola. Parallelamente alle processioni dei flagellanti, all'epoca della grande pestilenza, in alcune regioni d'Europa (Francia centrale e meridionale; gran parte della Germania) si assistette a un dilagare dei pogrom: la più brutale e sanguinosa ondata di persecuzioni antiebraiche verificatasi prima dell'Olocausto. In un clima di psicosi collettiva, "nell'intento di soddisfare il proprio bisogno di causalità, non di rado il popolo vedeva all'opera persone che diffondevano l'epidemia e assassini che andavano puniti" (Bergdolt). Constatato che le pratiche penitenziali non avevano alcun potere sulla peste, il popolo andò alla ricerca di un capro espiatorio su cui sfogare la propria aggressività e scaricare la propria ansia, e lo individuò negli Ebrei, accusati di avvelenare i pozzi e propagare la peste allo scopo di distruggere la Cristianità. Tale pretestuosa accusa si rivelerà talmente longeva da rieccheggiare ancora, due secoli più tardi, in uno degli scritti più veementi del riformatore sassone Martin Lutero: il celebre "Von den Juden und ihren Lügen", di cui esiste una splendida traduzione italiana (condotta sulla versione latina di Justus Jonas) ad opera di Vittorio Dornetti per i tipi dell'Editrice Terziaria di Milano ("Contro gli Ebrei", 1997). Il curatore del volume osserva, in Appendice III, che: "Oltre ad essere una sintesi pressoché completa della tradizione antigiudaica cristiana dai Padri della Chiesa fino alla teologia medievale ed oltre, il Von den Juden appare anche un catalogo ugualmente folto dei capi d'accusa che la cultura popolare e gli intellettuali, sia protestanti che cattolici, avevano formulato e poi diffuso in merito ai Giudei, ‘inviati di Satana’ e ‘male assoluto’."
La Peste nella Rete. Nel mare magnum di Internet sono reperibili una gran quantità di testi, brevi e non specialistici, sull'argomento. Il materiale in lingua italiana presenta una certa uniformità di contenuti e va vagliato con cura. Tra gli articoli degni d'interesse segnalo: "La peste nera. Ma poi venne il Rinascimento" di Enrico Butteri Rolandi (www.cronologia.it/storia/aa1347.htm).