martedì 18 febbraio 2020

VANGELI DELLA NUOVA ERA, URINOTERAPIA E ACARI

Per illustrare gli effetti pratici e deleteri che un libro può avere sulla vita dei suoi lettori, riporto un episodio che ho vissuto in prima persona.
 
Una dozzina di anni fa mi capitò di conoscere una celestina. All'epoca non sapevo nulla della sua perniciosa religione, e stavo a sentire le idiozie con cui cercava di imbambolarmi. Faceva comunque sfoggio di una certa apertura mentale, e nel complesso trovavo la sua compagnia gradevole. Ricordo che mi diede una fotocopia con l'enunciato completo delle 9 Illuminazioni contenute nel primo volume di James Redfield. Cercò anche di spiegarmi qualcosa della sua dottrina, per lo più ripetendo le parole del ciclostilato. Preso da altri pensieri, non riuscivo neppure a capire dove volesse parare. Ero del tutto ignaro delle operazione di marketing del subdolo mondo acquariano e non avevo neppure letto la Profezia di Celestino.

Ricordo che questa ragazza poco prima di conoscermi si distorse un piede inciampando, e disse che il capitombolo non era stato un caso. Mi spiegò che aveva trascurato di proiettare energia positiva sui suoi piedi, e non avendo pensato intensamente ogni giorno a tali parti del suo corpo, le era capitato quel danno. Rimasi allibito nell'udire una simile spiegazione, bislacca e inconsistente. Per quel che mi riguarda, data la mia eredità culturale, l'avrei capita alla perfezione se mi avesse detto che un demone l'aveva fatta incespicare servendosi di un bastone invisibile. La mia innata diffidenza verso qualsiasi forma di ottimismo mi portava a nutrire un interesse davvero basso per i suoi deliri. Una volta, senza alcun timore, mi disse che usava bere la propria orina, attribuendo a tale pratica ogni sorta di virtù salutare. Disse anche che tutti dovrebbero farlo, e che quando avesse avuto dei figli, avrebbe insegnato loro a fare lo stesso.

Di professione faceva la bibliotecaria, e passava la sua esistenza in mezzo a montagne di volumi polverosi. Un giorno i suoi colleghi mi dissero che era svenuta e che le era stata diagnosticata una grave allergia agli acari. Trovò il modo di non farsi più sentire, chiedendo addirittura il trasferimento in un altro ente, che non permetteva con facilità l'accesso ad estranei. La vidi una volta ancora, per puro caso, quando tornò in biblioteca a far visita agli ex colleghi: mi trovavo lì per consultare alcuni libri. Fu talmente evasiva e sfuggente che non potei fare a meno di notare la cosa.
Era tesa, mi guardava quasi come se fossi un lebbroso, e prima ancora di chiedermi come stavo voltò il discorso per farmi sapere che aveva in corso una convivenza. Da quel momento sparì nel nulla.

Le cose cominciarono ad avere una spiegazione qualche tempo dopo, quando lessi in un solo giorno la Profezia di Celestino, durante una lunga attesa in un ospedale. Come romanzo era molto scorrevole, e spiegava in modo chiaro concetti che ritenni necessario confutare. Non ci potevano essere dubbi. L'idea celestina porta a ritenere gli incidenti, dai più banali ai più gravi, come segnali di un turbamento energetico. Nello specifico caso, lo svenimento non sarebbe stato provocato dagli acari, ma dai miei influssi negativi. Evitare chi soffre diventa così una necessità di primaria importanza. I problemi di amici e parenti non sono qualcosa che deve essere risolto, ma sono interpretati come un marchio di indegnità capace di far venir meno il proprio equilibrio. Mi stupisce come questo approccio sociale sia del tutto simile a quello vigente in ambienti edonistici, avvezzi a isolare chiunque si trovi in difficoltà. Tutto positivo finché non cade una tegola in testa, e tutti pensano che le tegole cadano solo in testa agli altri. Il pensiero positivo è una delle molteplici emanazioni della peste. 

Ogni visione positiva della realtà è egoismo. 

(Il Volto Oscuro della Storia, 10 febbraio 2008)

A distanza di anni da quando ho pubblicato per la prima volta questo testo, qualcosa mi ha spinto a cercare in Facebook notizie della celestina fulva dedita al pissing. Ho così trovato il suo profilo, constatando che si è messa assieme a uno spaventoso energumeno, a cui per giunta ha dato un figlio. Ha fatto cadere un nuovo dannato in questo Inferno, fabbricandolo con lo sperma di un vero e proprio pitecantropo. E gli farà anche bere la propria orina. Le mie congratulazioni.

sabato 15 febbraio 2020

MANIFESTAZIONI GNOSTICHE ILLUSORIE
NELLA SOCIETÀ MODERNA

A prima vista diverse tendenze sviluppatesi in Occidente negli ultimi decenni potrebbero far pensare a un riemergere di temi gnostici molto simili ai fondamenti dei Catarismo. Significativi sono il vegetarianismo, le filosofie animaliste e nonviolente, l'orientamento asessuale e l'estinzionismo ecologico. In realtà si può dimostrare che si tratta di somiglianze soltanto apparenti. A caratterizzare un'idea o una scelta di vita come gnostico-manichea è l'Anticosmismo, ovvero il riconoscere la Natura come opera di un Principio Malvagio. Come conseguenza, ogni cosa materiale ha in sé i segni della sua origine diabolica. Non solo tutto ciò è in totale antitesi con le religioni normative, che vedono un Dio buono come origine di ogni cosa esistente, ma si distingue anche da ogni sistema di pensiero mondano. 
 
Se consideriamo le basi del vegetarianismo, troviamo sia componenti salutiste che componenti etiche. Le prime si fondano sull'idea che mangiare carne possa nuocere all'organismo, le seconde trovano il loro senso nel rifiuto della violenza sugli animali. Ora, entrambe le ragioni non sono affatto anticosmiche. O questi moderni vegetariani hanno una vera e propria idolatria per il corpo, o la hanno per gli animali. I vegani più estremisti sono anche antispecisti, ovvero rifiutano la distinzione tra umani e animali.

Senza entrare nel merito delle differenze tra le varie diete, non si trova mai in queste impostazioni la repulsione verso il frutto dell'accoppiamento, ossia dell'atto che manda avanti l'esistenza biologica. Il Catarismo ritiene il corpo, umano o animale, come un nulla privo di qualsiasi nobiltà che costringe in sé l'anima sofferente. Quindi se i Buoni Uomini non mangiavano carne, non lo facevano per lo stesso motivo di certi fanatici che ucciderebbero un essere umano perché ha dato un calcio a un cane. 

Esistono oggi molte persone che si fanno chiamare Asessuali, e che rivendicano il riconoscimento di questo loro stato d'essere. Affermano di non poter provare alcuna attrazione erotica per altre persone, e tendono a ritenere biologica la base di questa loro differenza con il resto degli umani. Una significativa comunità asessuale è stata aggregata on line da David Jay, ed è in costante espansione. Gli studiosi non sanno spiegarsi il fenomeno, e credo che bisognerà aspettare del tempo prima che sia pronta una teoria convincente. Anche in questo caso, il fondamento non è anticosmico. È qualcosa di molto diverso dall'Encratismo. Marcione avrebbe battezzato gli asessuali, così come battezzava gli eunuchi, ma non era certo il suo pensiero a crearli là dove non ce n'erano. Quello che distingue una persona anticosmica non è l'assenza di desiderio sessuale, bensì il riconoscimento della sessualità procreativa come Male e causa di tutte le sofferenze umane.
 
L'Estinzionismo Ecologico è senza dubbio l'argomento più interessante, anche perché si pone una finalità nobilissima, pratica e realizzabile: l'estinzione volontaria dell'umanità. È portato avanti da una associazione denominata VHEMT (Voluntary Human Extinction Movement), che accoglie anche quei moderati che mirano soltanto a una riduzione drastica della popolazione terrestre. Anche se può sembrare strano, non sono rari coloro che spingono il loro amore per la biosfera terrestre al punto da auspicare la scomparsa dell'Uomo pur di conservare integri ecosistemi e habitat. Ancora una volta la differenza delle motivazioni è sostanziale; si realizza però una tale convergenza nello scopo, che ogni dualista dei nostri giorni dovrebbe aderire al movimento.
 
Lo studioso Gian Carlo Benelli ha visto nel pensiero anticosmico  l'emergere di un disagio collettivo dovuto a sconvolgimenti sociali che, seppure in forme diverse, si sono presentati sia all'epoca dell'Impero Romano che nel Basso Medioevo. Di certo le condizioni per una nuova rinascita esistono, ma sono come fiumi carsici che scavano strutture sociali ormai vetuste. Vanno cercate nell'esaurimento spirituale e nell'agonia dell'Occidente, nonostante le loro manifestazioni siano ancora confuse. Non sarà dall'ottimismo etico che si svilupperà l'Uomo Manicheo, ma da un nichilismo consapevole e dalla rivolta contro la tirannia materica. È necessario compiere ancora un piccolo passo.

mercoledì 12 febbraio 2020

PROVE ESTERNE E INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: LA TRASCRIZIONE DEL PUNICO CISSU MEZRA 'MELONE'

Dioscoride riporta il nome punico del melone come κισσου μεζρα, che in caratteri romani si trascrive kissou mezra. Apuleio lo riprende, trascrivendolo cissu mezra, secondo le convenzioni della sua epoca. La traduzione letterale è "melone di campo". Il termine mezra è formato a partire dal punico zera, zyra "seme" e sta per "campo seminato": nelle lingue semitiche un prefisso labiale m- si trova in moltissimi sostantivi derivati. In ebraico abbiamo zeraʻ "seme". È evidente che il vocabolo cissu citato da Apuleio aveva una consonante velare o addirittura uvulare, in ogni caso chiamata "dura" dal volgo: in ebraico abbiamo qiššīm "meloni", pronunciato in epoca antica addirittura con una /q/ uvulare (attualmente realizzata come una semplice /k/). Le conseguenze di questa trascrizione sono chiarissime: se la lettera c fosse stata usata dai Romani per trascrivere un suono palatale, come vorrebbero i nostri avversari, non sarebbe stata ritenuta idonea per scrivere cissu mezra. Apuleio avrebbe fatto ricorso a uno stratagemma per far capire che il suono qui doveva essere occlusivo. Per esempio, avrebbe potuto usare una ch e il vocabolo punico sarebbe stato scritto *chissu.

Lo stesso identico discorso vale per il greco antico. Per quanto incredibilmente i nostri avversari attribuiscano a k davanti a vocale anteriore /i/ o /e/ un valore di consonante palatale, è chiaro che il kissou mezra glossato da Dioscoride presenta la consonante /k/ nel suo solo valore possibile per il contesto dell'epoca: quello di occlusiva velare. È una grande stoltezza  prendere le attuali pronunce del neogreco e dei dialetti grecanici per proiettarle ai tempi di Dioscoride e persino a quelli di Omero, come se nel corso dei secoli non fossero avvenuti cambiamenti di sorta.

sabato 8 febbraio 2020

PROVE ESTERNE E INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: IL CASO DI CEPHALOEDIUM 'CEFALÙ'

Il toponimo siciliano Cefalù (provincia di Palermo) risale al latino Cephaloedium, a sua volta di origine greca. Queste sono alcune attestazioni antiche:
 
Cephaloedium (Strabone)
Cephaloedis (Tolomeo, Plinio)
Cephaledum (Tavola di Peutinger) 
 
Etimologia: Si tratta di un nome derivato dal greco κεφαλή (kephale) "testa", attribuito in origine a una roccia sulla riva del mare. Secondo alcuni questa roccia doveva avere una forma bizzarra, che ricordava vagamente quella di una testa umana. Secondo il mio parere non ce n'è alcun bisogno: i Greci devono aver interpretato con falsa etimologia una precedente forma fenicia, analoga all'ebraico e all'aramaico kepha "roccia".

Vediamo che il latino volgare mostrava un esito -e- del dittongo -oe- in questo toponimo: è proprio il Cephaledum che compare nella Tabula Peutingeriana. Tuttavia un esito di gran lunga più comune aveva il dittongo integro oe, pronunciato /oe/ o /oi/ e poi mutato in -u- nella forma romanza Cefalù. Il suffisso di origine è il greco -oidis, che deriva direttamente da un precedente -*o-wid- "che ha l'aspetto di". Errano quindi coloro che pretendono di attribuire al latino di epoca classica la pronuncia ecclesiastica prevalente nel sistema scolastico italiano, ritenendola valida fin dalla più lontana epoca preistorica.  
 
Veniamo ora alla consonante iniziale c-, che in Cefalù è attualmente il suono chiamato "molle" dagli insegnanti e che noi preferiamo chiamare palatale o postalveolare. In greco antico il suono era "duro", ossia velare, /k/. Non conta nulla il fatto che nel greco moderno si sia sviluppata una palatalizzazione e il suono sia pronunciato /kj/ (quella che le genti chiamerebbero la chi- di chiesa). Meno ancora rileva il fatto che questo suono nei moderni dialetti grecanici sia realizzato come la nostra postalveolare /tʃ/ (quella che le genti chiamerebbero la c- di cena): si tratta di un mutamento del tutto naturale. Non si possono usare pronunce attuali, la cui origine è ben chiara e documentabile, per proiettarle all'infinito nel più remoto passato. 

C.H. Grandgent riporta che in Sicilia l'antica velare /k/ si è mantenuta anche davanti a vocale anteriore /e/ e /i/ più a lungo che in altri luoghi della Romània, anche se alla fine si è palatalizzata. Si veda il paragrafo 258 (C e G davanti a vocali palatali) del manuale Introduzione allo studio del latino volgare edito dalla Cisalpino-Goliardia (pag. 144): 
 
"Nella Sardegna centrale, in Dalmazia, in Illiria k' non progredì, e in Sicilia, nell'Italia meridionale, in Dacia il grado k' si è conservato, a quanto pare, più che nella maggior parte delle altre regioni".    
 
A riprova di tutto questo, facciamo notare che in arabo Cefalù è chiamata Gafludi. Evidentemente quando i Saraceni sono giunti in Sicilia hanno adottato un toponimo pronunciato /ke'flu:di(u)/, adattando la /k/ iniziale con una sonora /g/. Cosa bizzarra, visto che in arabo tale suono è abbastanza problematico. L'antico suono protosemitico /g/ è stato palatalizzato in /dʒ/ (la g- di gelo); soltanto la varietà egiziana ha un suono velare nelle parole ereditate. Sarebbe stato più semplice mantenere la consonante sorda /k/, ma è indubitabile che se il toponimo avesse già avuto una consonante postalveolare nel volgare romanzo, l'esito arabo sarebbe stato molto diverso.

martedì 4 febbraio 2020

IL GROTTESCO CASO DEL GARGOYLE A FORMA DI XENOMORFO

 
Nel 2013 si è scatenata un'ondata incontrollabile di sensazionalismo quando nei social è comparsa la foto di un gargoyle di un'antica chiesa, l'abbazia di Paisley, che sorge nell'omonima città della Scozia, non lontano da Glasgow. Alcuni internauti scrivono che è del XII secolo, altri che è del XIII, altri ancora che è del '300 (ossia del XIV secolo). La forma dell'elemento architettonico richiama subito alla mente quella di uno xenomorfo nella sua fase denominata chestburster (alla lettera "che fa esplodere il petto"). Siccome c'è sempre qualcuno che mi chiede cos'è uno xenomorfo, non ometterò di specificare che si tratta della creatura del celeberrimo film Alien (Ridley Scott, 1979), frutto del genio dell'artista svizzero Hans Ruedi Giger. Quando le prime foto hanno cominciato a circolare, non hanno tardato a manifestarsi complottisti di vario genere, che se ne sono usciti con teorie strampalate sui viaggi nel tempo. A detta di questi commentatori, il gargoyle poteva spiegarsi soltanto ammettendo che un crononauta fosse tornato all'epoca in cui l'abbazia è stata costruita, portando in pieno Medioevo le cognizioni di chi ha visto Alien. Altri insestevano invece su visite di archeoastronauti, ma la sostanza non è diversa. La soluzione più semplice del mistero, che è anche la sola possibile, non è stata nemmeno presa in considerazione. Eppure è così semplice da essere lapalissiana.
 
Il Reverendo Alan Birss, ministro dell'abbazia di Paisley dal 1988, ha rilasciato alcune importanti dichiarazioni sull'argomento. I dodici gargoyle erano in uno stato pietoso, quasi completamente consunti, così nei primi anni '90 sono stati sostituiti nel corso di un restauro ad eccezione di uno che ha potuto essere recuperato. In tale contesto, così ha ammesso il simpatico Reverendo, un estroso scalpellino di Edimburgo ha dato libero sfogo alla sua creatività. La BBC riportava la notizia già nell'agosto del 2013, per la precisione il giorno 23: 
 
 
The Reverend Alan Birss said most of the gargoyles were replaced during a refurbishment in the early 1990s.
He thinks that one of the stonemasons must have been having a bit of fun.
Mr Birss, minister at the abbey, said that 12 medieval gargoyles which had been on the abbey for hundreds of years had to be taken down in 1991 because they had "crumbled and were in a very bad state".
 
E ancora: 
 
Mr Birss said a stonemason from an Edinburgh firm was contracted to create the new gargoyles.
"I think it was a stonemason having a bit of fun," he said.
"Perhaps the film was fairly new when they were carving this and if he was thinking of an alien perhaps the alien from the film was his idea of an alien.
"I'm sure he wasn't deliberately copying the alien in the film. It was just a concept of an alien."
 
  
A quanto riportato nello stesso articolo, la somiglianza tra il gargoyle e lo xenomorfo era già stata fatta notare nel lontano 1997. Quindi era tutto noto, anzi, arcinoto e documentabile fin dall'inizio. Avrebbero dovuto saperlo anche i sassi, i polli e le lucertole che si trattava di una ristrutturazione moderna e non di una reliquia medievale anacronistica! Eppure ancora nel 2020 c'è chi pubblica foto dello xeno-gargoyle urlando al mistero! Questo caso a dir poco surreale illustra bene l'innata creduloneria delle genti e la diffusione inarrestabile dei pacchetti memetici, coacervi di informazioni degenerate che si comportano come virus.
 
Un'altra cosa sorprendente è la scarsa familiarità che le masse hanno con i numeri romani e con la computazione dei secoli. Dire che un luogo di culto risale al XII secolo significa che si colloca tra il 1101 e il 1200, ossia che è del Millecento. In effetti è questo il caso, visto che il monastero cluniacense di Paisley è stato fondato nel 1163. Tuttavia suddetto monastero ha acquisito lo stato di abbazia soltanto nel 1245. Quindi si può dire che è un'abbazia del XIII secolo, ossia del Milleduecento. Molti leggendo XIII secolo capiscono Milletrecento e si domandano come sia possibile la raffigurazione di Alien "in una chiesa del 1300". Una bella confusione, non c'è che dire. Dato che in Italia la scuola è troppo occupata ad allevare bulli e a spargenre demenza, tutto questo non sorprende affatto. Se si indaga sull'affascinante storia di Paisley, si scopre che le cose sono ancora più ingarbugliate. Nel 1307 l'abbazia fu bruciata per ordine del Re Edoardo I Plantageneto, ma fu ristrutturata ed estesa nel corso dello stesso secolo. Si crede che il glorioso William Wallace vi abbia studiato da piccolo. Finisco con una domanda insidiosa: a quale secolo risalgono realmente i gargoyle originali?

venerdì 31 gennaio 2020

ALCUNE NOTE SULL'ETIMOLOGIA DI BWANA

La parola swahili bwana "signore" era già abbastanza nota in Italia quando ero ancora uno scolaretto. Veniva usata in imitazioni di africani, che oggigiorno non sarebbero permesse. Non sempre veniva compreso il suo vero significato: molti pensavano addirittura che fosse "una specie di verso che fa il negro" e lo consideravano meritevole di irrisione. Sarebbe difficile per i moderni avere un'idea anche vaga del contesto scolastico degli anni '70 e del calderone di ripugnante ignoranza che vi ribolliva costantemente. Ormai credo che non ci sia bisogno di spiegarlo: bwana  è un termine di deferenza che ha conosciuto una notevole fortuna, venendo adottato anche in inglese, dove si pronuncia /'bwa:nə/. Essendo giunto agli anglofoni dalla diretta lingua parlata, non si sono formate deprecabili pronunce ortografiche. Nei dizionari bwana è spiegato come sinonimo di "mister" e di "boss", non sempre in contesti considerati positivi. Il sito etimologico Etymonline.com aggiunge che la prima attestazione nota di bwana in inglese risale al 1875, in Africa Orientale. Altre fonti riportano una data di poco diversa, il 1878. È un vocabolo coloniale usato dalla popolazione africana per rivolgersi a persone europee (e immagino anche agli arabi). Un tipico saluto swahili è "Jambo Bwana!", ossa "Salve padrone!", dove la parola jambo, corrispondente all'inglese hello, è formata dal verbo -amba "dire", con paralleli in altre lingue Bantu.  

Lo swahili bwana è considerato all'unanimità un prestito dall'arabo َبُونَا 'abūnā "nostro padre", che è 'abū "padre" con l'aggiunta del suffisso possessivo di prima persona plurale -nā. Entrambi gli elementi sono tipicamente semitici. In ebraico abbiamo אָב av "padre" e אָבִֽינוּ avinu "nostro padre". Non dobbiamo dimenticarci che proprio le genti dell'Arabia si sono dimostrate spietate schiaviste nei confronti della popolazione dell'Africa Subsahariana. Per motivi ideologici, a mio avviso deprecabili, ai nostri giorni viene passato sotto silenzio questo sfruttamento secolare imposto dai Saraceni.     
 
Un'audace proposta alternativa 

Molti anni fa mi capitò di vedere esposta in un museo una maschera tribale proveniente dalla regione dei Grandi Laghi africani, che aveva incisa sulla fronte una croce ramificata. La didascalia riportava un'informazione sconcertante: si affermava che il simbolo in questione era di origine cretese. Così come un simbolo aveva viaggiato dal regno di Minosse per finire nell'Africa profonda, allo stesso modo mi venne in mente che la radice pre-ellenica WANAK- "principe" fosse l'origine autentica dello Swahili bwana. In greco abbiamo ἄναξ (anax) "principe", "sovrano", genitivo ἄνακτος (anaktos). Anticamente la parola aveva una consonante w- iniziale, scritta con la lettera digamma  (F): ναξ (wanax), genitivo Fάνακτος (wanaktos). Nel testo eteocipriota dell'iscrizione bilingue di Amathus la stessa radice è attestata come WANAKA-. Finché non si chiarirà come l'arabo 'abūnā "nostro padre" abbia potuto dittongarsi e sviluppare una -a- tonica, il dubbio mi rimarrà. Certo, ha l'apparenza di un'idea folle e senza fondamente alcuno. Purtroppo non sono riuscito a trovare una documentazione in grado di risolvere questo problema etimologico. Innanzitutto mi servirebbe sapere se esistono forme affini a bwana in altre lingue Bantu o se si tratta di una peculiarità unica dello swahili. Proprio in ricerche di questo tipo Google si dimostra deleterio. Un ostacolo, non un aiuto.

martedì 28 gennaio 2020

ALCUNE NOTE SULL'ETIMOLOGIA DI MARACAIBO

La città venezuelana di Maracaibo è nota in Italia soprattutto per via di un brano musicale di Lu Colombo. Questa canzone, intitolata per l'appunto Maracaibo, fu scritta nel 1975 dalla stessa Colombo e da David Riondino, ma venne pubblicata come singolo soltanto nel 1981, dopo una serie  di rifiuti da parte di svariate case discografiche. Spesso è attribuita apocrifamente a Raffaella Carrà, a Giuni Russo o addirittura a Jerry Calà. Lo strano motivetto è stato considerato scomodo: parla di una prostituta resa pingue da insane abitudini voluttuarie. Rum e cocaina, bordelli, gangbang e simili. Zazà ballava nuda tra gli uomini (nudi anch'essi). Cocaetilene a mille nel sangue, con annesso rischio di arresto cardiaco. Anche grazie a questa turpe melodia, in Italia si crede fermamente che si debba pronunciare Maracaìbo, con l'accento sulla -i-. Infatti il ritornello fa MA-RA-CA-Ì-BO, con uno stridente iato, proprio come quello che ricorre nella parola "cocaina". Invece la pronuncia corretta è Maracàibo, con un dittongo discendente -ai- come quello della parola "zaino". La trascrizione fonologica della pronuncia spagnola è /mara'kaibo/, mentre la trascrizione fonetica è [mara'kaβo]. Una variante ortografica antica è Maracaybo
 
Sorge dunque una domanda. Da dove deriva il toponimo Maracaibo? Una leggenda vernacolare parla di un cacicco, ossia un capotribù, forse dei terribili Motilones, che dava il tormento ai coloni tedeschi e spagnoli stanziatisi nell'area. Il nome di questo irriducibile nemico dei nuovi arrivati sarebbe stato Mara. Si racconta che durante un assedio, dopo una lunga ed estenuante battaglia, il cacicco Mara sarebbe stramazzato a terra, ucciso da un colpo di archibugio. Gli spagnoli dell'avamposto si sarebbero messi a giubilare, urlando: "Mara cayó!", ovvero "Mara è caduto!" Da questa liberatoria frase di gioia sarebbe derivato presto il nome Maracaibo, forse grazie alla pronuncia dei Lanzichenecchi di Ambrosio Alfinger (Ambrose von Ehinger), che avevano scarsa dimestichezza col castigliano. Ormai pochi ricordano che il primo nome dato allo stanziamento era Neu Nürnberg, ossia Nuova Norimberga. Certo, è vero che in molti tuttora credono alla reale esistenza del fierissimo Mara, eppure non sembrano esistere documenti attendibili in grado di comprovarla. In tempi più recenti ci si è messa anche la politica, facendo di questa figura un simbolo della lotta per la libertà e delle rivendicazioni dei nativi. La domanda che ci poniamo è la seguente: Mara è davvero esistito? Oppure è stato costruito ex post per dare un'etimologia credibile al toponimo Maracaibo
 
Ovviamente ci appare ridicolo pensare che Maracaibo sia davvero derivato dalla deformazione della frase in spagnolo "Mara cayó". Sarebbe qualcosa di surreale e di grottesco, come spesso accade con questo genere di false etimologie. Il buonsenso ci dice che le alternative devono essere ricercate nelle lingue indigene, idea che possiamo soltanto sostenere fino alle estreme conseguenze. Va detto che a questo punto sorgono subito grandi difficoltà, per gli ostacoli quasi insuperabili incontrati nel tentativo di reperire materiale utile per la ricerca. Le proposte al momento disponibili sono tre: 
 
1) Maracaibo deriva da MAARA-IWO, che significa "Luogo dove abbondano i serpenti".
2) Maracaibo deriva da MARACAYAR-MBO, che significa "Zampa di giaguaro" (ma alcuni traducono "Fiume dei pappagalli").
3) Maracaibo deriva da MAARE KAYE, che significa "Luogo davanti al mare". 
 
Cosa significa cosa? E in che lingua? Non si sa. Un utente di Quora, scoraggiato, afferma che Maracaibo in soldoni non significa un cazzo. Nessun documento in tutto il vasto Web ci permette di appurare a quale lingua farebbero riferimento le etimologie sopra riportate, che sono tra loro incompatibili. Si parla dovunque soltanto di "lingua nativa" o "lingua degli indigeni" (come se ce ne fosse una sola), in modo generico, senza precisare nulla di più. Il nome di questa lingua non è però menzionato. L'unica volta che qualcuno tenta un'attribuzione, se ne esce con una baggianata "ad mentulam canis" (MARACAYAR-MBO per un webmaster sarebbe Guaraní). Non è riportato da nessuna parte nemmeno il nome dell'autore di ciascuna delle proposte menzionate. Non uno straccio di bibliografia. Si converrà che la cosa è fortemente sospetta. Le tre "etimologie" proposte hanno tutta l'aria di essere semplici pacchetti memetici senza la benché minima realtà storica. 
 
Dopo una lunga e infruttuosa ricerca tramite Google, la cui onniscienza è millanteria, i risultati sulle prime sono stati sconfortanti. Alla fine però sono riuscito per purissimo caso a reperire un'informazione interessante in un file pdf scaricato molto tempo fa. Si tratta di un vocabolario comparativo delle lingue native della Colombia, compilato da Randall Q. Huber e Robert B. Reed. Il titolo dell'opera è Vocabulario comparativo. Palabras Selectas de Lenguas Indígenas de Colombia (Asociación Instituto lingüístico de Verano, 1992). Tra le lingue trattate, divise per famiglia di appartenenza, figura anche quella degli Yukpa, che appartengono al ceppo Caribe e sono denominati Motilones. Tale popolo è diffuso anche nel vicino Venezuela, proprio nella regione di Maracaibo. In lingua Yukpa il serpente a sonagli è chiamato tu-máraka, trascritto foneticamente dagli autori come tɨ-máraka. Si tratta di una parola composta, dove *máraka doveva essere proprio un antico nome del serpente. Questa deve essere la radice da cui è stato ricavato il toponimo Maracaibo, anche tenendo conto del fatto che una comune glossa spagnola è "Tierra de cascabeles" (cascabel è il serpente a sonagli).  Se poi ammettiamo che la terminazione -ka sia un suffisso fossilizzato e che la radice della parola sia *mara-, possiamo pensare che il nome del capotribù Mara dovesse significare "Serpente". Così potremmo dedurre questo: 
 
1) sia Mara che Maracaibo hanno la loro comune origine in un nome Caribe del serpente - e forse specificamente del serpente a sonagli;
2) la storiella della caduta di Mara è stata inventata ex post in modo del tutto indipendente, nel tentativo di spiegare questa assonanza; ovviamente i responsabili non conoscevano alcuna lingua nativa. 
3) Resta il fatto che tutto è molto debole e che la forma esatta MAARA-IWO non l'abbiamo potuta trovare da nessuna parte (non è chiara la funzione del suffisso -IWO: locativo o plurale/collettivo?). 
 
Altre parole Caribe per indicare tipi di serpente sono molto diverse e non portano alcun aiuto: 
 
Carijona: aka'i "serpente"
Yukpa: samámu "anaconda"

Carijona: ʔa'kaima "anaconda" 
 
Yukpa: takújemo, takújemu "serpente corallo"
    (-j- trascrive la semiconsonante, come -y- in spagnolo) 

A complicare le cose, anche i Barí sono chiamati Motilones come gli Yukpa, ma la loro lingua appartiene invece alla famiglia Chibchá. Nella loro lingua non ho trovato parole adatte a sostenere una traduzione di Maracaibo come "Luogo dei serpenti" o simili. Sono riuscito a trovare un'unica parola per indicare un ofide: 
 
Barí: tʃiduurə "serpente"  
 
Altre parole di lingue Chibcha per indicare il serpente sono molto diverse tra loro, al punto che non si riesce a ricostruire una protoforma.  
 
Ika: gwi.ómɨ "serpente"
Kogui: tákbi "serpente"
Dimina: guma "serpente"
Chimila: mannuʔ "serpente"
Tunebo Centrale: kumoroá "serpente" 

Ika: makúku "anaconda"
Kogui: kámawaldi "anaconda"
Dimina: mɨnta "anaconda"

Ika: áku "serpente a sonagli"
     geiróta "serpente corallo"
Kogui: guíjuba "serpente a sonagli"
       ge-takbé "serpente corallo"
Dimina: guma teʒaku "serpente a sonagli"
Chimila: síŋ "serpente a sonagli",
      mbuwaʔ "serpente a sonagli; serpente corallo"
 
Forse il Chimila mannuʔ "serpente" potrebbe venire da *mar-nu-? Tutto è molto labile. Non c'è null'altro di utile nel documento. Invitiamo l'eventuale lettore a verificare di persona. 


Anche ammettendo che l'etimologia giusta sia quella che postula MARACAYAR-MBO "zampa di giaguaro", non troveremmo niente per poterlo provare. Non siamo riusciti a trovare una lingua in cui il nome del giaguaro si avvicinasse al supposto MARACAYAR-. In una singola lingua Caribe, tra l'altro parlata in una regione del Brasile distante anni luce da Maracaibo, abbiamo evidenza di una voce KAMARA "guaguaro", ma dovremmo supporre una metatesi in *MARAKA, che non avrebbe una chiara giustificazione. Questa è una lista di parole col significato di "giaguaro; cane" in varie lingue Caribe:    
 
Yukpa: eʃo "giaguaro; cane"
Tiriyó: kaikui "giaguaro; cane"
Hixkaryana: kamara "giaguaro; cane" 
Makushi: kaikusi "giaguaro; cane" 
Panare: akərə "giaguaro; cane"
Bakairi: udodo "giaguaro; cane"
Ikpeng: akari "giaguaro; cane"
Kuikuro: ekeγe "giaguaro; cane"
 
Tutto questo l'abbiamo riportato per dare un'idea della marasmica complessità del problema. Non dobbiamo infine trascurare la possibilità che all'epoca dell'arrivo dei Conquistadores si parlassero in Venezuela e in Colombia lingue oggi estinte senza lasciare traccia e non appartenenti a ceppi noti - il che vanificherebbe ogni sforzo. Riportiamo un fatto singolare. Prima che si cominciasse a parlare del cacicco Mara e della sua caduta, la regione di Maracaibo era chiamata Coquibacao
 
Il Web: diffusore di peste memetica 
 
Non soltanto Google non ci è stato di aiuto, ma ci ha dato serissimi problemi. Il motore di ricerca diffonde i pacchetti memetici costituiti da tre proposte etimologiche difficilmente valutabili, mettendo in evidenza centinaia di siti che le riportano acriticamente, spesso copiando e incollando da fonti ormai non più identificabili. Come conseguenza, se anche ci fosse da qualche parte un documento significativo, sprofonderebbe sotto tonnellate di spazzatura in una vera e propria discarica virtuale.  

sabato 25 gennaio 2020

ALCUNE NOTE SULL'ETIMOLOGIA DI MACABRO

La parola italiana macabro è un caso molto interessante. La pronuncia corrente è sdrucciola, màcabro, ma un tempo esisteva anche la forma piana, macàbro, che attualmente sarebbe considerata ridicola, pur essendo più corretta. La parola proviene infatti dal francese macabre, di origine incerta. Questa è la stessa fonte che ha dato origine anche all'inglese macabre (pronuncia britannica /mə'ka:bɹə/, /mə'ka:bə(ɹ)/; pronuncia americana /mə'ka:b/, /mə'ka:bɹə/, /mə'ka:bəɹ/) e allo spagnolo macabro (pronuncia /ma'kabro/). Il vocabolo è giunto persino in Romania come macabru (pronuncia /ma'kabru/), ma si tratta di un articolo d'importazione abbastanza recente. Il problema fondamentale è capire qual è la vera origine del francese macabre
 
La prima attestazione a noi nota è databile all'anno 1376. Compare nel Respit de la Mort, un componimento di Jean le Fèvre (circa 1325 - circa 1380). La citazione è la seguente: 
 
Je fis de Macabré la dance  
qui toutes gens maine a sa tresche
et a la fosse les adresche
qui leur est derraine maison.

Questa è la traduzione: 

Feci di Macabré la danza
che ogni persona mena nella sua tresca
e alla fossa invia
ch'è la sua ultima magione. 
 
Sorgono tuttavia problemi. I versi sopra riportati sono stati filtrati dagli studiosi e si possono considerare in qualche modo elaborazioni. Infatti i manoscritti più antichi hanno versioni leggermente diverse. Le riporto nel seguito (primi tre versi): 
 
Manoscritto 994: 
 
Je fis de Macabre la dance  
qui toutes gens maine a la tresche
et a la fosse les adresce  
 
Manoscritto 1543: 
 
Je fis de Macabre la dance  
qui toutes gens maine a sa tresche
et a la fosse les adresche  

Manoscritto 19137: 
 
Je fis de Macrabe la dance  
qui toutes gens maine a tresche
et a la fosse les adresce  
 
Come si può vedere, nessuna di queste versioni ha la forma con l'accento sull'ultima sillaba, Macabré. Si ha invece Macabre, con la variante metatetica Macrabe

Nel manoscritto 1352 abbiamo invece una forma diversa: 

Je fis de Macabree la dance
qui toute gent maine a sa tresche
et a la fosse les adresse

In un componimento più recente, Ballade d'un Prisonnier, il verso finale è il seguente: 
 
Je danseray la macabrée danse.
 
Appare chiaro che "danzare la danza macabra" significa "morire".
 
 
 
Come interpretare queste strane forme? A lungo si è favoleggiato di un pittore fantomatico chiamato proprio Macabré, cosa che a mio avviso appare inverosimile. Certo, tutto può essere. Bisogna però notare che un personaggio di questo genere non ha lasciato alcuna documentazione concreta della propria esistenza. Se anche questo artista venisse scoperto, resterebbe da capire l'origine del suo soprannome. 
 
L'ipotesi in cui ci si imbatte più frequentemente è quella che fa risalire Macabré ai Santi Maccabei. Nel Secondo Libro dei Maccabei (cap. 6) è narrato il martirio di sette fratelli, della loro madre e dello scriba Eleazaro, all'epoca in cui la Giudea era dominata da un sovrano greco, il Seleucide Antioco Epifane IV (215 a.C. - 164 a.C.). Tornato da una spedizione in Egitto, Antioco IV calò su Gerusalemme, sterminando gran parte della popolazione, depredando il Tempio e proibendo con misure draconiane l'esercizio della religione ebraica. Fu così che lo scriba Eleazaro fu costretto a mangiare carne suina immolata alle divinità pagane. Essendosi rifiutato di farlo, venne massacrato a bastonate fino alla morte (nel Web si legge che sarebbe anche stato soffocato da vapori ripugnanti, ma non è specificata la fonte). Sette fratelli furono tutti uccisi tra tormenti atrocissimi e loro madre fu costretta ad assistere per poi essere a sua volta martirizzata. Sono appunto questi i Santi Maccabei. Si chiamano così perché patirono al tempo della rivolta dei Maccabei, non perché appartenessero alla famiglia degli Asmonei. Furono considerati precursori di Cristo.  
 
Nel Medioevo il culto dei Santi Maccabei fu diffusissimo e assai popolare in tutta la Cristianità, sia tra i Romani che tra i Bizantini. L'idea di molti studiosi è che la Danza Macabra abbia tratto il suo nome proprio da quella che veniva chiamata chorea Machabaeorum o Machabaeorum chor(e)a, ossia Danza dei Maccabei. La locuzione è ben attestata, anche con varianti ortografiche come chorea Maccabeorum. Questa locuzione indicava la morte di torture che i sette fratelli martirizzati dovettero subire. Esistono truculente narrazioni apocrife che descrivono ogni minimo dettaglio, con dovizia di particolari macabri, per l'appunto. Nel Secondo Libro dei Maccabei è riportato che a quando si preparavano a tagliare la lingua e le mani a uno dei giovani, questi disse di non curarsene e di sperare che Dio gli avrebbe restituito le membra amputate. Affinché l'etimologia proposta abbia un senso, bisogna spiegare come da Machabaeus si possa essere giunti a Macabree, Macabrée, Macabre. I romanisti sono convinti che si tratti di una serie di errori di scrittura: prima l'inserimento di una rotica -r-, che avrebbe portato da Macabée "Maccabeo" a Macabrée. Quindi si sarebbe giunti a Macabré e per errore nella scrittura della vocale finale, a Macabre, cosa che avrebbe dato origine a una lettura ortografica con ritrazione dell'accento.
 
Un'altra teoria, che va prontamente dismessa, è quella dell'associazione con San Macario, eremita egiziano che soffriva di piaghe verminose. Quando un cagnotto gli cadeva, lo rimetteva subito sulla carne cancrenosa, dicendo che quella povera creatura aveva il diritto di godersi il suo festino. Così San Macario sarebbe divenuto un improbabile San Macabrio, forse per l'errore di uno scriba in qualche documento. A Pisa, in un dipinto del Campo Santo, un uomo di nome Macario si rivolge ai vivi in nome dei Morti. Nulla giustifica una tale identificazione di San Macario con la Morte, così si deve trattare di un nome attribuito arbitrariamente dall'artista al portavoce dell'Oltretomba. In seguito, questo Macario sarebbe stato identificato in modo abusivo con San Macario.  

A queste complesse elucubrazioni dei romanisti, si oppone una teoria totalmente dissimile quanto diretta, concettualmente semplice, cristallina come la Verità. Il nostro Macabrée trae la sua origine dall'arabo مَقَابِر maqābir "cimiteri", plurale di مَقْبَرَة maqbara "cimitero" (anche مَقْبُرَة maqbura). La mia idea in proposito è questa: ai tempi delle Crociate, sarebbe vissuto in Terrasanta un necrofilo, che si divertiva ad esumare i cadaveri per aspirarne i lezzi. Il suo nome sarebbe quindi passato in Francia, conoscendovi una prodigiosa diffusione. 
 
In ebraico esiste la parola meqaber "scavatore di tombe", attestata come hapax legomenon nel Libro di Geremia (capitolo 14). La parola è sopravvissuta come prestito ebraico nello yiddish (meqaber zayn "essere un seppellitore", "inumare, sotterrare un morto"). Similmente in aramaico meqabrey significa "becchini, inumatori", parola che si adatta splendidamente al francese Macabrée. L'origine ultima sia della forma araba che di quella ebraica e di quella aramaica è il protosemitico *qabru "tomba, sepolcro", con un tipico suffisso *ma-, *mu-, attestato in moltissime lingue afroasiatiche, egiziano antico compreso. Sono propenso a credere che la forma araba e quella aramaica siano migliori candidate rispetto a quella ebraica, in cui la consonante -b- aveva un suono fricativo -v-. Credo inoltre che sia probabile che la sillaba finale della parola ebraica avesse una vocale lunga, essendo piuttosto meqabēr /məqa've:r/. Più che un inumatore, un uomo macabro è un esumatore, che scava per estrarre corpi decomposti. Il suo agire è l'esatto contrario della pietà tipica delle genti semitiche, che non prevedono esumazioni e ricomposizioni di corpi negli ossari. Sono ben determinato nel difendere le mie tesi: Macabrée doveva essere il soprannome attribuito da arabi o da siriani di lingua aramaica a un franco folle che dissotterrava i morti per abusare di loro, provocando immenso scandalo. I romanisti non potranno mai convincermi del contrario. All'origine della parola "macabro" ci sarà più facilmente un necrofilo piuttosto che un precursore di Cristo! 
 
Riporto un link a un interessante articolo in cui questi argomenti sono discussi:    


Con insopportabile paternalismo la Wikipedia in inglese avverte che la parola macabre non deve essere confusa con Marcabru, che era un famoso trovatore provenzale del XII secolo, animato da una misoginia violentissima (accusava le donne di essere maligne e di puzzare). Aggiungerei allora, a beneficio dei rudi Anglosassoni d'America, che macabre non va confuso nemmeno con Marcab, nome di un pianeta della mitologia di Ron Hubbard, tuttora creduto reale dagli adepti della Chiesa di Scientology. Non è poi impossibile che lo stesso Hubbard, che era uno scrittore di fantascienza oltre che un capo religioso, si sia ispirato proprio alla parola macabre per creare il nome del pianeta in questione, a sua detta popolato da gente malvagia. Marcab sarebbe, in altre parole, il Pianeta Macabro. Così come Helatrobus è il Pianeta Infernale (dall'inglese Hell) e il Demiurgo Xenu è lo Straniero, l'Alieno (dal greco xenos).

martedì 21 gennaio 2020

ETIMOLOGIA DI PETTEGOLO E DI PETTEGOLEZZO

Raimondo Vianello nel corso di una futile trasmissione disquisì sull'origine della parola pettegolezzo, pur non essendo un grande etimologo. A suo dire, pettegolezzo sarebbe derivato da "olezzo di peti", tramite il veneto. L'uomo di spettacolo citò la forma d'origine come "peteoleso" (pron. /peteo'leso/, con -s- che trascrive una sibilante sorda), facendo battute con marcato accento veneziano, stando però attento a non essere troppo esplicito. Ripeteva di continuo "pete-oleso" con uno stacco mediano, come se fosse "péte olèso", più volte, ridacchiando per poi rivolgersi con sarcasmo alle dame presenti e chieder loro - in modo retorico - se avessero capito. 

Il punto è che in italiano lombardo televisivo il termine olezzo ha una consonante affricata sorda (quella che i cruscomani chiamano assurdamente "z aspra"), come in razzismo. Tuttavia nell'italiano toscano olezzo ha una consonante affricata sonora (quella che i cruscomani chiamano assurdamente "z dolce"), come in gazza. Quest'ultima pronuncia dovrebbe essere la più genuina (anche se personalmente non l'ho mai sentita sulla bocca di nessuno), tanto che i romanisti hanno pensato di ricostruire la protoforma latina volgare come *olidiu(m). Mentre la forma lombarda ha la -e- aperta [ɛ] come in cesto, la forma toscana ha la -e- chiusa [e] come in neve. La vocale aperta lombarda ha l'aria di essere secondaria, come spesso accade, di qui la ricostruzione di una -i- nel latino volgare *olidiu(m)

Vianello affermava una falsa etimologia che presupporrebbe quindi un latino volgare *ole:tiu(m), che però non è documentato da nessuna parte, pur esistendo ole:tum "merda". Il termine latino per dire "peto" era pe:ditum, di cui le forme romanze sono contrazioni. Così abbiamo ad esempio il milanese pètt "peto" (< pe:ditum), con un plurale pitt "peti" < *pe:diti:, con tanto di Umlaut palatale (la forma neutra è passata al maschile). Certo, mi si dirà, il consorte della Mondaini non era esattamente un'autorità nel campo della filologia romanza. In ultima analisi la forma latina pe:ditum viene da un precedente *pezdetom, dal verbo *pezdo: "io scorreggio", di chiara origine indoeuropea (*pezd- / *perd-), con parenti in greco (perdomai "io scorreggio") e in germanico (da cui anche l'inglese fart "peto"). 

In veneto in realtà esisteva originariamente soltanto una forma femminile per dire "pettegolo", usata anche quando il soggetto è di sesso maschile: petégola (XVI secolo). In seguito si è avuta anche la forma maschile petégolo. Del vianellismo senza la consonante -g- non ho trovato traccia in letteratura. Questa forma petégola sembra proprio derivare da un precedente *petticula, a sua volta regolare evoluzione di *pe:diticula, che è proprio un diminutivo di *pe:ditum "peto", alla lettera "piccolo peto". Forse era un neutro plurale con valore collettivo, "piccoli peti", piuttosto che un femminile. Per quanto riguarda il derivato pettegolezzo, non ha in sé alcun olezzo: è stato formato da pettegolo con un suffisso -ezzo. In passato erano diffuse anche altre forme, come pettegolume e pettegolata. Una volta capite tutte queste cose, possiamo giungere alla conclusione che Vianello fosse arrivato alla verità per vie traverse e grossolane (l'olezzo non l'aveva azzeccato, ma i peti sì). Il pettegolo è proprio uno scorreggione, un petomane che emette gas fetidi quanto rumorosi dalla bocca anziché dall'ano. 
 
Archeocomparativismo 

False etimologie imperversavano ancora nel XIX secolo. Così alcuni associavano pettegolo a un artificioso *puticulus "ragazzino", supposto diminutivo di putus "ragazzo" (da cui deriva putto, che però presuppone *pu:ttus con vocale lunga e consonante doppia). A parte il fatto che il vocalismo è incompatibile e che la semantica fa schifo, in realtà si trova soltanto un puticulus "pozzetto", diminutivo di puteus "pozzo", che non c'entra una beata fava. Reputo assurdo anche l'accostamento a petere "andare verso": anche qui la semantica fa schifo, a prescindere dalle difficoltà fonetiche (-t- in veneto avrebbe avuto la lenizione) e grammaticali (la morfologia non si spiega). Queste paretimologie grottesche sono state davvero proposte da qualche parruccone e si possono facilmente trovare nel Web: 

sabato 18 gennaio 2020

PRONUNCIA ORTOGRAFICA DI NOMI GENOVESI, VENETI E SICILIANI IN ITALIANO

Accadde molto tempo fa. Non importa, ci sono traumi che non si dimenticano. Ci sono ferite che non rimarginano. Una stoltissima annunciatrice televisiva disse che sarebbe stata trasmessa La Venexiana, film erotico di Carlo Bolognini (1986), vagamente ispirato all'omonima commedia composta da un anonimo autore nel XVI secolo. C'è un piccolo problema. L'annunciatrice in questione - possa Yog-Sothoth divorare in eterno la sua anima, defecarla, vomitarla e ingurgitarla di nuovo in un eterno ciclo di dannazione atelorroica - pronunciò la lettera -x- di Venexiana come un gruppo consonantico /ks/, uscendosene con un'oscenità innominabile: una pronuncia ortografica escrementizia, ossia /vene'ksjana/, mentre deve essere /vene'sjana/. Infatti in veneto la lettera x trascrive la sibilante s sorda e la sibilante sonora /z/ come nell'italiano rosa, ad esempio in xe "è", voce del verbo esser "essere" da pronunciarsi /ze/, non certo /*kse/ come fanno alcuni. Un tempo anche Venexia era pronunciata con la consonante sonora /z/, ma questo uso sembra essere tramontato. La televisione - sia dannato in eterno nella Geenna quel porco del suo inventore - ha sì una colpa fondamentale nella diffusione del peggior materiale fecale ideologico. Non bisogna però dimenticare che un'istituzione diabolica, creata direttamente dal Principio del Male, ossia il sistema scolastico, è responsabile dello sterco che la televisione poi diffonde. L'annunciatrice microcefala che ha inventato un gruppo consonantico /ks/ inesistente, avrebbe potuto chiedersi da dove diavolo si sarebbe dovuta originare una pronuncia tanto insensata, Diabole Domine! Invece nulla. Perché vige la totale sottomissione ai dettami di una scuola demente in cui il corpo docente insegna che la lettera x va pronunciata sempre e comuncue /ks/, indipendentemente dal contesto. Su Splinder, la piattaforma blogosferica oggi sparita nel Nulla, esisteva un blogger che si faceva chiamare Rosso Venexiano. Ebbene, in un'occasione ho sentuto una tipa pronunciare il nick come /'rosso vene'ksjano/, quando avrebbe fatto bene a dire /'rosso vene'sjano/ (a parte il fatto che in veneto sarebbe Roso Venexiàn). Ho quasi avuto una sincope! Maledetta -k- intrusiva, io ti esorcizzo!

Roberto Benigni, attore e comico di cui non ho alcuna stima, in un'occasione ebbe a dire che il cognome Craxi in realtà si dovrebbe scrivere Crasi e che la lettera x il celebre Bettino se l'è messa per far colpo. Questa opinione non era poi così lontana dal vero. Lo stesso politico socialista lo riconobbe nel corso di un'intervista. La vera pronuncia del suo cognome, anche se non è proprio il Crasi postulato dal comico toscano, è Crasci. Infatti in siciliano la lettera x si usa per trascrivere il suono palatale che in italiano è reso con sc davanti a vocali anteriori (e, i). Oggi questo uso è in declino, ma un tempo era generale e si scriveva xumi "fiume", xuri "fiore", etc. Facendo sfoggio di una gran simpatia, lo stesso Craxi disse che esiste anche una variante tronca del suo cognome, la più antica, che suona Crascì. Resta da capire per quale motivo ideologico lo stesso possessore di questo cognome abbia sempre tollerato l'abominevole pronuncia ortografica /'kraksi/ (che in Meridione spesso diventava /'krakkissi/ e simili). Forse sapeva bene che contro la belluina ignoranza del volgo crasso non è possibile andare, pena l'impopolarità. Così ha fatto dell'errore delle plebi scolarizzate una specie di vessillo, un nome d'arte - cosa che alla fine l'ha perduto. Per il resto, devo riportare che mi sono imbattuto in una siciliana matura malata di pronuncia ortografica, che giungeva nei suoi eccessi a risultati inverecondi. Apparteneva alla mala genia dei burosauri e pronunciava la stessa lingua italiana in modo assurdo e grottesco, tanto da articolare EX INAM come EKISSÌNAME /ekis'siname/: un suo interlocutore andò su tutte le furie, pensando che gli stesse parlando di una fantomatica entità denominata EKISSÌNAMA, al plurale. Per scrivere in siciliano, oggi si usano ortografie italianizzate, ad esempio ciumi "fiume", sciuri "fiore", il che almeno ha evitato ulteriori tremendi abusi. Maledetta -k- intrusiva, io ti esorcizzo! 

Veniamo ora all'augusta e inclita città marinara di Genova. Tutti sanno dell'esistenza del patriota Nino Bixio, genovese doc. Ecco, ora rivolgo una domanda retorica a tutti gli utenti. Come pronunciate il cognome Bixio? Immagino che lo facciate come la scuola maledetta vi ha insegnato, ossia attribuendo a quella strana, singolare -x- il valore di un gruppo consolantico /ks/. Così ecco che Bixio lo pronunciate /'biksjo/. Invece nell'ortografia tradizionale genovese la lettera x suona come j nel francese jour: è una fricativa palatale sonora /ʒ/. Così il genovese quaexi "quasi" suona /'kwɛʒi/. Ricordo che il carissimo amico Kremo riportava la cosa parlando della microtoponomastica del circondario genovese e di Torriglia in occasione di una mia visita. Il cognome Bixio si deve pronunciare /'biʒu/. Proprio come il francese bijou, ma con l'accento sulla prima sillaba. L'etimologia è la stessa dell'italiano bigio "grigiastro". Adesso, e qui son dolori, veniamo a come la pronuncia ortografica di Bixio è stata adattata nel Meridione d'Italia. Data la difficoltà endemica a pronunciare il gruppo consonantico /ks/, si sono prodotte molteplici pronunce aberranti: bìkissio /'bikissjo/, bìkkissjo /'bikkissjo/ e addirittura bikìssjo /bi'kissjo/, con l'accento su una sillaba inesistente, come se significasse "Colui che bacia due volte". Ma se lo avessero chiamato Nino Bigio non sarebbe stato meglio per lui e per tutti? Maledetta -k- intrusiva, io ti esorcizzo!