martedì 28 giugno 2022

LA LUCERTOLA NOTTURNA

Uscito in strada, l’uomo è colto da una grande angoscia. La testa gli martella e i pensieri si confondono in rapidi deliri, stemperandosi di continuo gli uni negli altri. Il lucore malato dei lampioni si diffonde sul selciato, rendendo le ombre più nitide, più violente. Oltre il campo visivo si estende il Nulla. L’uomo febbricitante osserva qualcosa muoversi sul marciapiede, vicino al limitare delle erbacce incolori. Una lucertola. Cosa diamine può mai aver spinto quel rettile fuori dalla sua dimora ctonia? Avvicinandosi, percepisce un intenso campo di orrore emanare dalla bestiola. Ogni movimento di quelle zampette sembra irradiarsi in un etere innominabile e nero. Portento d’Abisso, la Terra ha vomitato i suoi figli, li ha espulsi dalla sua bocca! Le Tenebre degli Inferi non ospitano più le creature del Caos, e queste fuggono l’abominio senza nome che pulsa nelle viscere della Morte!

Marco Moretti (Antares666)

venerdì 24 giugno 2022

VENTO DI LIGURIA

Ricordo ancora nitidamente una violenta risonanza sensoriale, un flash che è stato per me come una finestra aperta su un diverso continuum. Mi trovavo in un periodo oscurissimo della mia miserabile esistenza, confinato mio malgrado in uno squallido paese chiamato Cardano al Campo. Camminavo per la via principale, diretto all’edicolante. Un’inaspettata ventata di Liguria onirica mi ha rapito. All’improvviso ero in un altro luogo. Vedevo portici di mattoni di pietra nuda scavati nei costoni di una montagna, con un cielo rilucente di giallo e di azzurro. Un mare di un turchese intensissimo ruggiva, i cavalloni che cercavano di raggiungere la via lastricata di selciato. L’odore di salsedine penetrava nelle mie narici, il verso dei gabbiani giungeva alle mie orecchie. Ma la cosa più sconvolgente di questa esperienza è che mentre la provavo ero un’altra persona. Avevo l’aspetto di una spia con occhiali neri e portavo con me una valigia il cui contenuto capivo essere di inestimabile valore. Quasi certamente consisteva in microfilm. Mi vedevo anche dall’esterno, come se avessi una coscienza extracorporea in grado di guardare la scena quasi fosse proiettata su un teleschermo. Il mio aspetto era molto diverso da quello che ho in realtà: ero un tipo mediterraneo, con i capelli brizzolati e la barba di due o tre giorni. Avrei potuto passare per una specie di gangster mafioso. I miei pensieri scorrevano in una lingua del tutto diversa dalla mia. In quel nido scavato all’interno di una manciata di secondi nella struttura del Tempo, ero persino ignaro di Cardano al Campo, della lingua italiana, dei miei ricordi. Poi, proprio come era venuta, quella percezione empatica si è dissolta per lasciare il posto al vuoto della mia routine. Ogni cosa mi appariva grigia in modo insopportabile, tanto che ho cercato con ogni sforzo di aggrapparmi alla memoria del mio stato alterato per recuperare quel mondo alternativo, quella Liguria con tutta la sua piena consapevolezza. Non ci sono riuscito, ma sono stato colpito da una fortissima sensazione di déjà vu: ho saputo che avevo già vissuto un’altra volta quelle stesse identiche sensazioni a Milano, mentre camminavo in Piazza del Duomo, sotto un porticato nei pressi della Rinascente. Venivo dalla galleria Vittorio Emanuele II, e nel fissare una colonna ero stato trasportato dalla tiepida brezza di sensazioni sconosciute. Anche in quell’occasione, un forellino nel sacco sensoriale si era chiuso proprio quando pensavo di essere riuscito ad impadronirmi del cronotopo e dei ricordi di questa mia esistenza parallela, impedendomi ogni altra agnizione. Poi c’era stata una specie di formattazione, di oblio. Eppure il déjà vu stesso era un canalicolo che dimostrava la natura complessa dell’evento, riportando in vita ciò che era sepolto. Adesso so per certo che un giorno riuscirò a compiere il salto, a trasferirmi fisicamente dall’altra parte. Verrà un ultimo flash, quello della discontinuità, quello del teletrasporto...

Marco "Antares666" Moretti

lunedì 20 giugno 2022

CACCIATORI DI PLESIOSAURI

Non ho ricordi chiari di ciò che mi è accaduto subito dopo la morte. So soltanto che a un certo punto ho preso coscienza del mio corpo di spirito, che doveva avere la forma di una specie di palla impalpabile fluttuante nell’aria. I sensi erano molto acuiti rispetto a quando ero in vita. Passavo per paesi e contrade, fiumi e campi coltivati, muovendomi senza che nessuno mi potesse notare.
Dopo un lungo vagabondare mi sono stancato dell’Inghilterra e ho attraversato il mare. Sono così giunto in Irlanda, nella città di Belfast. Era proprio come la ricordavo, gli anni non l’avevano mutata. Mi divertivo ad osservare la gente per le strade servendomi della mia posizione privilegiata. Potevo guardare persino sotto le gonne delle ragazze, ma la cosa per me non era importante, avendo perso ogni passione assieme al mio involucro biologico. Mi piaceva stare lì e mi ci sarei fermato a lungo. Tanto chi mi avrebbe potuto far fretta? Ero immune da ogni necessità, guidato solo da un’astratta curiosità, una specie di prurito epistemologico.
A un certo punto sono rimasto come di sasso. Ho visto Paul Newman. Che ci faceva lì? A parte il fatto che era morto da anni, lo vedevo in carne e ossa, ed era un uomo sui trent’anni. Diamine, forse era solo un sosia! Doveva essere così, ma qualcosa comunque non mi convinceva. Nel crepuscolo, Paul Newman camminava baldanzoso per Donegall Street. Incredibile. Mi sono messo in mente di seguirlo, ed eccolo entrare in un grandioso tempio indù dai colonnati di marmo bianco ingrigito da tempo. Al suo posto ricordavo l’Università. Da quando mi ero disincarnato, la memoria mi restituiva resoconti molto nitidi e privi di distorsione, non mi potevo sbagliare. Ho deciso allora di proseguire per Academy Street, arrivando fino ad una grande piazza al cui centro vi era un’edicola spagnolesca. La giovane donna che la gestiva era la magrissima e bionda Elena G., una mia compagna del liceo. A rigor di logica, quella piazza non avrebbe dovuto esistere.
Ho percorso la strada che mi restava per arrivare al mare in linea d’aria, attraversando gli edifici. Ogni volta che passavo all’interno di una casa, questa era vuota, come se in città non fosse rimasto quasi nessuno.
Quando sono arrivato allo sbocco del grande estuario del Lagan, l’ho costeggiato per un breve tratto. Qui sorgeva un grande campo di lavori forzati: numerosi galeotti vestiti interamente di jeans lavoravano nell’acqua, molti di loro erano incatenati a pilastri lignei tutti incrostati di cozze. Martellavano grosse pietre che affiorano dall’acqua. Altri condannati, impastoiati con catene che li legavano gli uni agli altri, cercavano di portare sulla spiaggia i frammenti di roccia servendosi di cesti sfondati. Al largo il mare diventava profondo.
Forse avrei fatto meglio a tornarmene in Inghilterra. Osservavo il pelo dell’acqua marina liscia come l’olio, quando a un certo punto ho udito un fischio acuto, come quello di una gigantesca pentola a pressione. Qualcosa si strava muovendo nella densa caligine, in lontananza. Determinato a veder meglio, mi sono diretto verso un molo e mi sono inoltrato sulla superficie delle acque, verso la fonte del rumore.
Scorgevo un piccolo oggetto scuro all’orizzonte, simile a un gioiello nero, che si stagliava con inattesa nitidezza tra le confuse forme di quel panorama dantesco. La luce innaturale di quella sorgente nera era come una fata morgana: nonostante mi stessi allontanando sempre più dalla terraferma, rimaneva sempre alla stessa distanza.
Dopo quello che mi è parso un tempo infinito, sono riuscito ad uscire dalla cappa nebbiosa che sembrava avvolgere il mondo. Quello che mi si è rivelato era l’oceano nel suo costante grigiore. Lo stesso cielo che si rifletteva nelle acque era grigio, anche se non c’erano nubi e si vedeva un piccolo sole pallido e biancastro, che a malapena riusciva ad confondere la sagoma della grande luna.
Una lunga barca di legno scuro che avanzava tra le onde ha attratto la mia attenzione proprio quando avevo preso la mia decisione di tornare verso la riva. A bordo c’erano alcuni uomini robusti che parlavano tra loro in un dialetto gaelico molto aspro, mai udito prima. Il loro comandante era albino e aveva occhi rossi come carboni ardenti. Somigliava un po’ a Klaus Kinski, il volto perennemente contratto in un ghigno di sfida, la lunga chioma madida di sudore che ricadeva sulle spalle, candida come neve. Era dotato di un poderoso arpione dalla lama frastagliata, simile a quelli usati dagli antichi balenieri, ma ben più micidiale. I suoi compagni impugnavano armi meno elaborate ma altrettanto letali.
Non mi risultava che appena fuori Belfast ci fossero marinai dediti alla caccia con l’arpione. Non riuscivo a comprendere il contesto. Quando mi sono avvicinato all’imbarcazione, le acque si sono agitate e l’albino ha scagliato la sua arma emettendo un urlo raggelante. Aveva colpito una gigantesca bestia proprio alla base del suo prodigioso collo, facendone schizzare un violento getto di sangue. Una volta recuperato l’arpione, si è messo a tirare con tutte le sue forze la spessa sagola legata al manico per mezzo di un anello di acciaio. Le vene erano in rilievo sulle sue tempie, come cordoni palpitanti, gli occhi infernali stravolti dal delirio. Gli altri uomini della spedizione si avventarono sui pingui fianchi dell’animale che ancora si dibatteva, lacerandolo a più riprese con le loro lame spietate. Solo allora ho capito senza possibilità di dubbio cos’era quella preda. Un plesiosauro!

Marco "Antares666" Moretti

sabato 18 giugno 2022

FULMINE DI TENEBRA VEGETALE

Il nero si estendeva, come uno squarcio e un albero al contempo. Straziava il cuore del blu violetto, imponendosi tirannicamente alle sbavature azzurrognole, stinte ciocche di capelli ispidi di una fanciulla divina trasfigurata in lucore immateriale davanti ai nostri occhi. Il ruggito del mare non dava tregua: per suo tramite echeggiavano nei nostri labirinti auricolari i lamenti di universi morti. Da eoni la decadenza regnava dovunque, fino ai limiti di quasar che la scienza delle mappature astrali non aveva ancora individuato. Il nero minacciava di sgretolare lo scoglio del Tempo. Era lì, proprio davanti a noi, ineffabile, con quella sua apparenza più solida della materia collassata di una stella a neutroni. D’altronde, non vedevamo di cosa avremmo dovuto preoccuparci: c’eravamo solo noi in tutto quello sperduto avamposto planetario. Nel cielo indistinto turbinavano sbavature di astigmatismo ontologico, pennacchi luminosi che formavano piccoli buchi neri dell’etere, senza struttura geometrica. Il tronco siderale emise un suono quantistico che poteva essere avvertito soltanto dalle nostre menti. L’avrei descritto come un criptosilenzio nato dall’Indeterminazione di Heisenberg, se non fosse stato per la mia rete sinaptica che si cullava nel gorgo di informazioni trascinato dolcemente da quel contatto intatteso. Non c’era possibilità di sfuggire al richiamo. Proprio come le Sirene della prima grande antichità dell’abbandonata Prima Terra, questa forma ci avrebbe attirati tutti nel suo maelström occulto. A fior di labbra intonai la Poesia dell’Iroha in un giapponese dimenticato. Il tronco dell’essere alieno assumeva sempre più consistenza. Allungai una mano per toccare il suo crepitio e lo scoprii caldo, vellutato e duro al contempo, come un tubo di fullerene.

Marco "Antares666" Moretti

giovedì 16 giugno 2022

IL POZZO DEI BRUCHI

Il sole è già tramontato da un pezzo. Camminando per strada, diretto alla mia dimora dopo un’estenuante giornata di lavoro, noto una macchia di bitume sulla strada. Mi fermo un attimo a fissarla, perché mi pare che abbia una forma singolare. Il mio sguardo ne viene subito catturato. All’improvviso si materializza nella mia mente l’immagine di un baratro di asfalto infero da cui emergono innumerevoli bruchi corazzati coperti di aculei, striati di giallo e di nero, senz’occhi, dotati di spaventose mandibole chitinose. Con un movimento rotatorio i bruchi catafratti si allungano dalla loro invisibile radice liquaminosa fino a raggiungere ogni recesso dei territori rocciosi sulle rive. Ne ho la certezza e tremo, sconvolto dall’orrore. Quelle crudeli larve si nutrono dell’Essere e ad ogni morso annientano una parte dell’anima delle miriadi di dannati accalcati sulle rive della gora nera, anima informe che sempre ricresce come il fegato di Prometeo, solo per essere nuovamente divorata in un gorgo di dolore tetro.

Marco "Antares666" Moretti

martedì 14 giugno 2022

PAT BENATAR NUDA

Ci sono tre soli nel cielo. Due sono gialli come quello della realtà di veglia. Uno è più chiaro, quasi bianco, ed ha la forma di una mezzaluna, come se un qualche satellite ne eclissasse la sagoma, invisibile in quel fulgore diurno. Il mare è di un turchese intenso ed è agitato da un vento fortissimo. Onde gigantesche si sollevano, sono impressionanti. Mi trovo qui, inchiodato a questa parete rocciosa, in preda a un senso di vertigine. Non vi pare che se avessi un corpo lo userei per muovermi? Purtroppo, anche il più piccolo spostamento è al di fuori della mia portata, come lo è per un cadavere alzarsi dal letto di morte per bersi un bicchier d’acqua. Solo la mia mente permane vulcanica. Sono spettatore e vittima passiva del paesaggio che mi ha inghiottito e fissato con un chiodo ontologico sulle rocce di questo dirupo. Il vento si fa più forte e mi lambisce l’anima col suo gelo interstiziale. Non dovrei sentire freddo, non vi sembra? I sensi hanno senso solo dove esiste un corpo fatto di materiale genetico, non è così? Ma allora perché sono qui, invisibile persino a me stesso? Non so neanche tramite quali occhi sto percependo questo pianeta trisolare. Sono sempre stato un uomo di buonsenso e un gran lavoratore, e adesso mi trovo imprigionato in un incubo. Nessuna religione ha mai immaginato una cosa simile, ne sono sicuro. Ecco che il vento diventa tempesta e straccia le nuvole, disperdendo quelle strutture di panna montata fino a sgombrare completamente il cielo. I tre soli mi fissano nel loro furente irradiare. Non esiste riparo dalla loro luce violenta eppur priva di ogni traccia di calore. Per un attimo un brandello di nube passa davanti al sole a mezzaluna, e un’ombra sinistra si proietta sulla mia autocoscienza. Il ruggito delle onde, dapprima subliminale, si accresce, come la colonna sonora di un film catastrofico. Mi coglie una paura assurda, che una specie di maremoto possa sradicare l’intera catena montuosa, precipitandomi negli abissi oceanici. Poi cerco di riflettere e di calmarmi. Che fondamento può mai avere la paura in questo contesto? Eppure, a dispetto di tutte le mie elucubrazioni, sono qui, inchiodato all’oggettività dei fatti. Come una lucertola crocefissa, soffro in modo atroce. Mi sembra di essere la vittima di un bambino crudele che si diverte a forare i polmoni di piccoli rettili servendosi di uno spillo e godendo di ogni loro sospiro. Mi trovo ingabbiato in questa trappola dell’Assurdo, non esiste un senso a tutto ciò che devo patire. Perché non riesco a placare la mia mente? Come ha potuto conservarsi ed accrescersi addirittura in lucidità? Quando mi sveglierò?

Marco Moretti (Antares666)

domenica 12 giugno 2022

DEFINITIVAMENTE

Ho appena assunto lo dzoroaph, e subito mi sento sfasato, come se l’intera realtà fosse fatta di cristallo liquido. Davanti a me non c’è più l’appartamento in cui vivo. Quando la vista mi si snebbia e i cristallini cominciano a lavorare in sincrono, scopro di essere in una realtà del tutto diversa da quella in cui sono nato. È tutto capovolto. Forse è soltanto la mia percezione delle cose ad essere mutata, ma sono sicuro che la terra è in alto e che il cielo è in basso. Non so neanche dare una definizione del mio corpo, sono soltanto una palla d’aria densa dotata di organi di senso invisibili e me ne sto lì, in questo cosmo capovolto, senza avere la benché minima connessione con ciò che vedo. Il suolo è un piano indefinitamente esteso, non vi noto alcuna curvatura. Si estende a perdita d’occhio – se mi si passa l’espressione, non avendo più occhi fisici definibili come tali. Appena al di sotto di questo suolo infinito si estende un cielo terso, di un azzurro nauseabondo. Mentre fisso quel colore mi rendo conto per la prima volta di essere affetto da una percezione anormale che mi permette di sentire in me il gusto dei colori. Quel turchese è talmente dolce da darmi le vertigini. In quel cielo assurdo ci sono due grandi soli, bianchi come cristallo di Qualen, talmente intensi da ferire il mio intelletto tromolante. Uno ha la forma di una mezzaluna. Mi penetrano nello spirito con i loro raggi. Mi accorgo del danno che mi provocano, una serie di microferite invisibili fatte di Nulla. Cerco di muovermi. Sarebbe infatti già un gran progresso poter vedere questo universo a me estraneo secondo le prospettive a cui sono abituato. Per quanto mi sforzi, ogni fatica compiuta è del tutto vana. Sento in me una grande ansia, equivalente in quella dimensione dell’acido lattico, ma tutto resta esattamente com’era. Solo dopo un tempo che non potrei misurare, mi rendo conto che il mio unico grado di libertà mi permette di guardare di taglio il panorama, e questo produce un cambiamento inaspettato e notevole: adesso ho davanti a me una donna nuda seduta sul terreno, le gambe piegate e distese di lato. Con una mano sfiora il terreno, mentre l’altra è adagiata sul bacino. La vedo a testa in giù, è ovvio. È anche una bella donna, che mi sovrasta immobile ed eterna. Più intensa diventa la mia attenzione su di lei, più mi pare che cresca in dimensioni, fino a diventare maestosa come un leviatano. Percepisco che lei è sempre la stessa e che questo ingigantirsi stia soltanto nella mia coscienza. Mi perdo nella sua bellezza, che sarebbe molto apprezzata da quegli idioti che mi hanno rifilato lo dzoroaph, se non fosse per la sua assenza di occhi. La vedo con la sua chioma corvina, statica come una foresta di quarzo nero. La pelle sembra anemica, ed è priva di ogni dettaglio. Neanche un neo. Quel volto, con la sua bocca scarlatta e carnosa, è innaturale, teso e senza occhi né palpebre. Liscio come la plastica. Sopra il naso inizia subito la fronte ampia, fino all’attaccatura dei capelli. Stranito, estendo la mia vista ai suoi seni, con capezzoli turgidi e scuri, e mi sposto fin quasi a toccarla tra le gambe con lo sguardo. Il pelo ispido sembra fatto di fili di ferro. È una creatura vivente o è un insieme di pixel? Non so dare una risposta a questo interrogativo, che comincia ad ossessionarmi e mi trasmette l’impressione di essere punto da un ago. Mi concentro su ciò che ho davanti, cambiando la prospettiva nel solo modo che mi è possibile, ed ecco che la donna nuda senz’occhi sparisce. Per uno sfuggevole secondo, mi accorgo che si riduce a un riflesso e intuisco la terribile realtà. Mi sposto ancora lungo il campo visivo, ed ecco di nuovo la donna statuaria davanti a me. Quell’intero mondo è un cristallo incrinato, e io posso contemplare l’ologramma che qualche demiurgo dispettoso si è divertito ad incidere nel suo reticolo molecolare. Mi trovo in un’opera d’arte. Anzi, ne sono ormai parte. L’eternità mi ha fagocitato ed assimilato a questo blocco vetroso decorato. Ma per chi sto formulando i miei pensieri, poi?

Marco "Antares666" Moretti

mercoledì 8 giugno 2022

UN OSTROGOTO IN IDAHO

Al banchetto nuziale della Principessa Amalaswintha, il nobile Hathureiks aveva bevuto troppo idromele e a causa della sua intemperanza si sentiva gonfio. Chiese così al Re Thiudareiks il permesso di alzarsi dal tavolo per andare a soddisfare i suoi bisogni corporali. Il Grande Re glielo concesse, e così Hathureiks si alzò ed uscì barcollante dalla sala. Dalle finestre entravano refoli di vento. L’aria di Ravenna era fresca, e presto sarebbe calato il tramonto. Mentre si avviava verso le latrine, il nobile inciampò e cadde a terra. Quando si risvegliò, con un gran mal di testa, si accorse con sorpresa di non trovarsi più nella dimora del Re degli Ostrogoti, Thiudareiks, bensì in un pagliaio. L’aria era cambiata, ora aveva una punta di freddo particolarmente fastidiosa. Hathureiks si mise a sedere e si guardò attorno. Tutto ciò che i suoi occhi incontravano gli pareva fuori luogo e stonato. La sua vista fu attirata da un paio di stivali verdognoli, fatti di un materiale che non aveva mai visto in tutta la sua vita. Mentre si domandava che razza di scarpe fossero e chi diamine potesse mai averle fabbricate, cercò di mettersi in piedi. All’improvviso si accorse che il suo gonfiore era sparito, e che anzi aveva una fame terribile, come se tutto il cibo e le bevande che aveva ingurgitato alla festa fossero state già smaltite da molto tempo. Cosa disdicevole per un arimanno, aveva perso la spada, la daga e la cintura. La sua splendida tunica era ora ridotta a brandelli, e anche delle brache non rimaneva granché. Si avviò verso l’ingresso, quando ecco che intravide la sagoma di un uomo.
Hathureiks lo fissò, incuriosito. Si vedeva che era un agricoltore, anche se gli abiti erano di una foggia mai vista prima. Somigliavano solo vagamente ai costumi di un uomo libero dei Goti, nel senso che comprendevano calzoni e una veste affine a una camicia - che non proseguiva oltre la cintola. Poteva star certo che il visitatore non fosse un romano, ma non riusciva a trovare alcun criterio per classificarlo.
- Dannazione! - esclamò l’agricoltore allibito - E tu chi diavolo sei? In vita mia non ho mai visto un uomo come te!
- Manna im Gutthiudos, gabaurans fram kunja Amale. Namo mein Hathureiks - fu la risposta dell’ostrogoto. Entrambi provarono la stranissima sensazione di capire qualcosa di ciò che l’altro aveva detto, pur non afferrando appieno il senso compiuto di ogni parola.
- Ha-thoo-reeks? Uno strano nome! Da dove vieni? - chiese il contadino. Dopo una breve pausa cercò di presentarsi: - Io sono Bernard Faine, di Glenns Ferry, Idaho.
- Ik qam hidre us thiudangardja Thiudareikis Mikilins - affermò Hathureiks cercando di articolare i suoni il meglio possibile, ma l’uomo dell’Idaho non capì affatto la sua risposta. Rimase pensoso per un attimo, mentre osservava l’aspetto di chi aveva di fronte. Era molto alto e magro, di una bellezza insolita per un abitante della Contea di Elmore. Aveva i capelli biondi sciolti che gli arrivavano fino alla cintola, una folta barba dello stesso colore e occhi cerulei. Se fosse stato lavato e agghindato nel modo giusto, le ragazze del paese se lo sarebbero conteso di certo.
La prima cosa che venne in mente a Bernard Faine sulla possibile identità di quel vagabondo fu che si trattasse di una specie di tedesco. Se non fosse stato per la sua strana lingua e i suoi vestiti decisamente inusuali, avrebbe potuto benissimo essere un cantante folk venuto dal Sud e colpito da amnesia.
L’avrebbe portato dai suoi vicini Amish perché gli chiarissero qualcosa, ma al momento era più urgente aiutarlo. Non sembrava essere nel pieno delle sue forze. A questo punto arrivarono il figlio e la figlia di Faine, fiorenti di robusta gioventù. Rimasero basiti nel vedere l’ospite, anche se a causa della loro giovane età non avevano ancora formato pregiudizi troppo solidi. Decisi a comunicare si presentarono, prima lui e poi lei, come Johnny e Kathrine Faine.
Per un istante gli occhi di Hathureiks si illuminarono come il cielo primaverile nel sentirli parlare con il loro accento piano, forse perché gli parve di capire almeno in parte cosa i due stavano dicendo. Qualche parola, qualche fonema frammentario che dimostrava una remota origine comune in quelle stringhe parlate mutuamente incomprensibili. A volte l’ostrogoto trasecolava nell’identificare qualcosa di familiare in mezzo a suoni che sembravano venire da un universo alieno, altre volte invece gli pareva di udire echi dell’ignota lingua latina.
Si presentò a sua volta ai due rampolli, ripetendo la stessa frase che aveva pronunciato per la prima volta davanti all’anziano capofamiglia. Più guardava i tre e più si convinceva che la loro stirpe fosse in qualche modo imparentata con quella dei Goti.
Bernard Faine chiamò sua moglie Ann, che propose a Hathureiks di lasciarsi accompagnare nella fattoria. Lì avrebbe avuto un bagno caldo e sarebbe stato rifocillato. Lui si lasciò docilmente guidare. Quando si fu lavato, gli furono donati abiti nuovi. Non fu facile trovarne della sua misura: alla fine fu rivestito con un elegante completo lasciato alla signora Faine dal suo primo marito all’epoca del divorzio. Non era certo perfetto, ma perlomeno non presentava difficoltà insormontabili all’atto di abbottonare la camicia e di tirare la cerniera dei pantaloni.
A tavola, di fronte a una ciotola piena di latte e di fiocchi di cereali, Hathureiks pronunciò una parola. - Miluks - disse. Bernard Faine ebbe un’illuminazione ed articolò il corrispondente termine inglese. Milk.
La pronuncia della sillaba era oscura, come ormai in tutti gli Stati Uniti, e suonava quasi mook, ma una traccia di articolazione liquida fu sufficiente all’ostrogoto per capire che si trattava di una parola molto simile a quella usata nella sua lingua nativa.
- Millooks - disse a sua volta il capofamiglia, cercando di imitare Hathureiks. - Millooks, latte - ripeté subito dopo, entusiasta.
Kathrine portò in tavola una brocca piena d’acqua. Hathureiks indicò subito il recipiente: - Wato! Thata ist wato!
- Acqua! Questa è acqua! - gli fece eco con gioia il sorridente Bernard Faine, sempre più convinto di aver risolto ogni problema di comunicazione. Water. This is water. La somiglianza era innegabile. Si fece il segno della croce e recitò la consueta preghiera di benedizione, come faceva ogni volta che si accingevano a mangiare. Mentalmente ringraziò il Signore per avergli mandato quell’ospite. Con grande sorpresa di tutti, anche Hathureiks si segnò e recitò quello che sicuramente doveva essere il Padre Nostro nella sua lingua.
- Atta unsar, thu in himinam, weihnai namo thein, qimai thiudinassus theins, wairthai wilja theins, swe in himina jah ana airthai. Hlaif unsarana thana sinteinan gif uns himma daga, jah aflet uns thatei skulans sijaima, swaswe jah weis afletam thaim skulam unsaraim, jah ni briggais uns in fraistubnjai, ak lausei uns af thamma ubilin; unte theina ist thiudangardi jah mahts jah wulthus in aiwins. Amen.
L’ingenua idea che Bernard Faine si stava facendo ne ricevette un po’ un colpo, in quanto la preghiera, pur riconoscibile, si mostrava molto diversa dal corrispondente inglese. Non solo, anche se somigliava di più a quella degli Amish che lui aveva sentito tante volte dai vicini, era comunque lontana. Se la base era di certo uguale a quella dell’inglese e del Pennsylvania Dutch, molte parole erano impenetrabili, e non vi si trovavano affatto termini familiari, che avrebbero dovuto essere simili in tutte le lingue di origine europea. Mentre il capofamiglia meditava su queste cose, l’ostrogoto stava mangiando a quattro palmenti, come se non avesse ingurgitato niente da molti giorni.
Non c’era altra soluzione: era necessario imparare il più possibile da Hathureiks. Nel frattempo disse al figlio di andare a chiamare Amos Guth, che di certo lo avrebbe aiutato a comprendere meglio la situazione. A volte la tecnofobia degli Amish lo angustiava, perché rendeva tutto dannatamente più complicato.
Ora che aveva calmato i morsi della fame, Hathureiks stava impiegando tutte le sue migliori risorse mentali per capire cosa diavolo gli fosse capitato. Una cosa era certa, al di là di ogni dubbio possibile: quello non era il Paradiso promesso dalla Chiesa Ariana, e neppure il Walhalla di cui parlavano i miti pagani della sua gente. Non poteva esserlo. Anche se si stava meglio e più in salute, non vedeva né Wodans né Thunrs sedere sui loro troni, né tantomeno le Orde dei Caduti banchettare. C’era invece gente dall’apparenza comune, che non aveva nessuna caratteristica soprannaturale e non era fatta di puro spirito come angeli e beati. Siccome la ragione doveva in qualche modo essere dei pagani o dei cristiani, si deduceva che quel paese - che contraddiceva ogni racconto - era un paese della Terra degli Umani, popolato da mortali proprio come il paese dei Franchi o quello dei Burgundi. Prova ne era, tra l’altro, il fatto che i nativi avevano bisogno di pregare per ringraziare Dio del cibo.
Doveva esserci stato un grande vento che lo aveva portato oltre le Grandi Montagne, le Alpi, per farlo volare lontano e precipitarlo in una nazione di cui non avrebbe neanche sospettato l’esistenza. Oppure aveva rivissuto l’esperienza dei Sette Savi Dormienti. Si raccontava quella storia persino nella Gutiskandja che aveva visto l’albore dei Goti. Sette cristiani, per sfuggire alle terribili persecuzioni dell’Imperatore Decio, si erano rifugiati in una terra impervia fino ad asserragliarsi in una caverna. Quindi un sonno profondo li avrebbe avvolti facendoli dormire per secoli. Una volta svegli, questi cristiani avrebbero avuto la sorpresa di trovarsi in un mondo che era andato avanti di diversi secoli, un mondo in cui la Fede di Cristo non era più perseguitata con ferocia.
Questa era l’ipotesi che Hathureiks riteneva più probabile. Di certo Bernard Faine non era il dio Wodans, altrimenti sarebbe stato monocolo e non si sarebbe di certo segnato. Ma restava un interrogativo. Se i Sette Savi erano stati fatti dormire da Dio che li voleva salvi dalla furia imperiale, che merito poteva avere lui, un nobile della Corte di Thiudareiks a Ravenna, per essere caduto in uno stato così prodigioso?
Mentre ruminava inconcludenti considerazioni, suonò un campanello. Hathureiks si mise in guardia, perché non aveva mai sentito un suono simile in vita sua. Poi capì che doveva essere l’equivalente del bussare sui battenti o del chiamare a gran voce, perché la porta fu subito aperta. Johnny entrò insieme a un uomo vestito di nero, che salutò e fu fatto accomodare. Bernard Faine lo presentò all’ospite come Amos Guth. Al sentire il suono di quel cognome, Hathureiks fu colto da una grande gioia, perché si pronunciava quasi come il nome del popolo dei Goti.
- Isu thu manna Gutthiudos? Istu razda thein razda Gutne? - gli chiese, pieno di trepidazione, aspettandosi una risposta nella stessa lingua, un appiglio alla realtà conosciuta.
Vedendo che l’uomo vestito di nero era basito e non proseguiva, si presentò brevemente: - Ik im Hathureiks Austragutne, sunus Walareikis Amale.
In realtà la sintassi era molto diversa da quella del Pennsylvanian Dutch, a prescindere da tutto, e l’Amish non la riconobbe; allo stesso modo non riuscì a distinguere i nomi propri di persona e di popolo dai nomi comuni.
- Che razza di tedesco è mai questo? - riuscì infine a dire, pur convinto al pari dell’anziano Faine che quell’idioma fosse in qualche modo connesso alla vasta famiglia delle parlate anglosassoni e germaniche. La giovane Kathrine chiese all’ostrogoto di recitare il Padre Nostro. Così si segnò e iniziò a pregare. Hathureiks, un po’ annoiato, fece altrettanto nella lingua dei Goti.
Come ebbe udito ciò, ad Amos Guth venne un sospetto. Si ricordava vagamente di aver sentito qualcosa di simile in televisione, molti anni prima. Solo che non ricordava il contesto. Si segnò e recitò la preghiera nella sua lingua avita.
- Unser Vadder im Himmel, dei Naame loss heilich sei, dei Reich loss komme. Dei Wille loss gedu sei, uff die Erd wie im Himmel. Unser deeglich Brot gebb uns heit, un vergebb unser Schulde, wie mir die vergewwe wu uns schuldich sinn. Un fiehr uns net in die Versuchung, awwer hald uns vum Iewile. Fer dei is es Reich, die Graft, un die Hallichkeit in Ewichkeit. Amen.
Però, ci siamo quasi, anche se continuo a non capire, pensò Bernard Faine. Amos Guth notò subito la sostanziale identità di diverse radici: unsar, in himinam, namo, thein, qimai, wilja, e via discorrendo, di cui gli balzava all’attenzione la somiglianza ad Unser, im Himmel, Naame, dei, komme, Wille.
Hathureiks dal canto suo si convinse che questo Guth, pur portando il nome delle genti della Gutiskandja, fosse in realtà della stirpe dei Franchi. Gli ricordava vagamente la parlata della prima moglie del suo Sovrano.
All’improvviso l’Amish si ricordò dove aveva sentito la preghiera recitata da Hathureiks. Una decina di anni prima, mentre si trovava proprio dai Faine, non aveva saputo resistere alla tentazione di seguire un programma alla televisione. Era un documentario in bianco e nero, che mostrava lo scrittore John Ronald Reuel Tolkien in una singolare intervista. Prima di parlare al microfono, Tolkien si era segnato e aveva recitato proprio la stessa formula, anche se la pronuncia era un po’ diversa. Atta unsar... Conclusa la sua preghiera, intesa come esorcismo, l’autore del Signore degli Anelli aveva dichiarato senza mezzi termini che l’intero mondo tecnologico è Mordor, ossia l’Inferno. Questa posizione aveva trovato Guth perfettamente d’accordo. In seguito si era procurato i libri di Tolkien e li aveva letti con grande passione, ed aveva anche trovato traccia di quell’intervista. Aveva anche ritrovato i giornali della biblioteca che riportavano la notizia si diceva che l’esorcismo pronunciato contro i maligni poteri di un semplice microfono era il Padre Nostro in una lingua antica - anche se non ricordava più quale.
- Prendi subito il mio carretto e va’ da mia moglie! Dille che non sarò a casa per pranzo! - chiese a Johnny Faine. Quello che aveva scoperto era troppo importante.
Bernard capì all’istante, così portò in soggiorno un proiettore collegato ad un sofisticato lettore cd e al suo pc. Si mise alla testiera, pronto a registrare ogni output.
Dopo due ore tutti erano ancora lì, con gli occhi sgranati davanti allo schermo.
- Hunds! - disse Hathureiks indicando la figura di un cane. Tutti capirono che la parola dog gli era del tutto sconosciuta, ma riconobbero nel vocabolo da lui indicato il termine inglese hound, usato come lemma tecnico per indicare il segugio.
Quando tutti furono abbastanza pratici dell’altrui lessico di base, cominciarono a sorgere problemi. Amos Guth si rese conto che Hathureiks non poteva capire nessuna parola della lingua dotta, e i corrispondenti che forniva di fronte alle immagini proiettate erano del tutto dissimili. Quando comparve un altare, lui lo definì hunslastaths, mentre l’inglese altar gli suonava una parola aliena. Anziché un equivalente di sacrifice, usava la parola hunsl.
Tutta una serie di parole non gli evocavano assolutamente nulla, anche se qualche volta gli pareva di aver già sentito qualcosa che vi poteva somigliare. I suoi pensieri si arrestarono tutti di colpo quando udì il termine philosophy: non era forse quella Philosophia di cui il precettore Boethius aveva invocato così a lungo la consolazione? Ricordava sempre con affetto quell’uomo di immensa sapienza, così pensò bene di pronunciarne il nome, come per una sorta di associazione freudiana.
- Sebereinus Boethius! - disse. A Guth cadde il telecomando di mano. L’intera faccenda stava sfuggendogli di mano. Questo era decisamente troppo anche per lui.
- Ni kann ik hwat’ist filausaufja, ni thatohun hwat’ist, ak gaman ik thatei Boethius sinteino mathlida bi thizai waiht du alamannam, rodjands razda sildaleika.
Bernard Faine, che si era premunito di un registratore, riuscì a immortalare in un file mp3 quanto detto da Hathureiks. Presto la frase fu tradotta. Tramite la ricerca nella Rete, era stato trovato un dizionario i cui vocaboli collimavano con quelli raccolti. La lingua era etichettata come Gotico, ed era indicata come l’idioma usato da Wulfila per la sua famosa traduzione della Bibbia. L’ostrogoto aveva detto di non sapere cosa fosse la filosofia, di non averne la minima idea, ma di ricordare che Boethius ne parlava sempre a tutti, usando una lingua meravigliosa - e si suppone non comprensibile ai suoi ascoltatori.
Ma com’era possibile tutto questo? Non aveva il benché minimo senso, e su questo sia Faine che Guth concordavano. Non era possibile anche solo pensare che un uomo potesse essere prelevato dall’epoca dei Regni Barbarici e scaraventato nell’Idaho del XXI secolo. Il caso più simile sarebbe stato quello di John Titor, il crononauta che a quanto pare era venuto dal futuro di una linea temporale parallela. Se ne era parlato molto a lungo, senza mai poter arrivare a conclusioni certe. Eppure anche questa analogia sembrava forzata, dal momento che Hathureiks non era giunto dal futuro, bensì dal passato, e non era stato certo sbalzato dal suo cronotopo per mezzo di una qualche tecnologia.
Soltanto dopo una lunghissima discussione Bernard Faine riuscì ad averla vinta e a convincere Amos Guth della plausibilità della teoria del wormhole. Un cunicolo spontaneo si sarebbe formato come un ponte in grado di connettere due regioni molto distanti dello spaziotempo, e un evento estremamente improbabile era occorso: un essere umano ci era passato dentro senza averne alcun danno, riapparendo in un altro luogo e in un altro secolo. Sulla natura di questo cunicolo, regnava il buio concettuale più assoluto.
Una cosa era certa, quale che fosse l’origine di questo incidente cosmico: degli agricoltori di Glenns Ferry non potevano assolutamente gestirlo, pur con tutta la loro buona volontà e la loro istruzione autodidatta. Esisteva una sola alternativa: dovevano recarsi al più presto all’Università dell’Idaho, a Boise. Lì avrebbero potuto di certo sottoporre Hathureiks all’esame di ogni genere di luminari.
Bernard Faine telefonò a Julius Schulz, un suo cugino che lavorava al Dipartimento di Fisica, e gli descrisse in dettaglio la complessa situazione in cui si era venuto a trovare così all’improvviso. Decise che sarebbero partiti la mattina prima dell’alba con la sua macchina, in quanto un viaggio con il carretto di Guth non sarebbe stato auspicabile. Assieme a sua moglie Ann, preparò ogni cosa in fretta e furia. Un solo giorno non sarebbe bastato di certo, così prese con sé un po’ di soldi.
Quando arrivarono al campus, Julius Schulz era già lì ad attenderli, pieno di trepidazione per l’eccezionalità della scoperta che gli avevano comunicato.
- Salve Julius! - lo salutarono. Lui rispose al saluto e strinse loro la mano.
- Questo è Hathureiks l’Ostrogoto! - disse Amos Guth presentando il viaggiatore nel tempo. Era davvero imponente e di una virile bellezza che lo facevano spiccare tra molti uomini, e lo studioso dovette riconoscerlo. Per un attimo nella sua mente si agitò l’idea che Hathureiks rappresentasse un essere primordiale e incontaminato, e che dai suoi tempi l’intera umanità fosse molto degenerata. La consunzione genetica, pensò, per poi cacciare in un angolo del cervello questa locuzione.
- Hails! - disse con impeto Hathureiks. Strinse la mano di Schulz, anche se tra il suo popolo quello non era un saluto, bensì un modo di sancire un contratto. La rapidità con cui aveva imparato molte cose, tra cui l’uso delle forchette, era sorprendente. Pur capendo abbastanza bene l’inglese essenziale, aveva difficoltà ad articolarne i suoni sfuggenti e preferiva usare la lingua dei suoi Padri.
- Non avrei mai pensato di sentire pronunciare la lingua di Wulfila dalla viva voce di un suo parlante! - disse Julius Schulz. Quella singola parola, hails, gli faceva una strana impressione, come di sfasamento. Conosceva bene i Faine e i Guth, e sapeva che erano persone di onestà cristallina, così non gli era mai venuta neanche di striscio l’idea che la faccenda potesse essere un complicato imbroglio.
- Anche per noi è stata una sorpresa, di quelle che non possono che capitare una volta sola nel corso di una vita! - concordò l’Amish.
Bernard Faine propose di andare a mangiare qualcosa, e l’invito fu da tutti ben accolto. Julius Schulz li guidò alla mensa universitaria. Mentre mangiavano, discussero di innumerevoli dettagli. Ogni circostanza fu spiegata più volte con comodo davanti a una birra e a un hamburger, destando un’impressione sempre crescente nel membro del Dipartimento di Fisica. Pur avendo le idee ancora confuse, Bernard Faine fece vertere la conversazione sull’ipotesi del wormhole, chiedendo a suo cugino se un evento simile fosse possibile o se si trattasse di una mera farneticazione fantascientifica.
- In teoria un wormhole dovrebbe formarsi a causa del collasso di una stella supergigante - spiegò Schulz - Una stella con una massa talmente grande da impedire persino la formazione di un orizzonte degli eventi. Uhmm, mi aspetterei di trovarne uno in una regione dello spazio profondo, non certo qui sulla Terra.
Nonostante sempre più voci lo attaccassero nella comunità scientifica, il Principio della Censura Cosmica godeva ancora di un certo credito, e pochi fisici amavano discuterne in pubblico senza un intenso sentore di disagio. Per non parlare della teoria dei Molti Mondi, che era riprovata e tacciata di eresia dagli organi di controllo del pensiero accademico.
Eppure in un qualche modo questa anomalia, questo essere sconveniente, bisognerà pur spiegarlo, pensò il fisico depresso.
- Statemi a sentire - disse dopo una lunga pausa - Dobbiamo cominciare a sottoporre Hathureiks a tutta una serie di esami. Lo porteremo dai medici e dai biologi, che dovranno sottoporlo ad analisi del sangue, elettroencefalogramma e mappatura genetica approfondita. Posso far sì che al caso sia data la massima priorità.
Faine era ansioso di conoscere la verità. - Per noi non ci sono problemi - replicò - Spero che potremo restare al campus per tutto il tempo necessario.
- Certamente - lo rassicurò Julius Schulz - Siete miei ospiti. Dopo le analisi fisiologiche dovremo portarlo al dipartimento di Linguistica e poi a quello di Psicologia. Il soggetto sarà sottoposto a regressione ipnotica.
- Potremo consultare liberamente tutte le informazioni che saranno così ottenute, o sarà un segreto di Stato? - domandò Amos Guth. - Spero che non interverranno i Militari - aggiunse Bernard Faine, angosciato da una simile prospettiva. Più di una volta l’Esercito era intervenuto sottraendo ed occultando per sempre conoscenze che sarebbero state di diritto un patrimonio dell’umanità.
Lo studioso li rassicurò: - Vi posso garantire che avrete libero accesso a tutti i risultati delle analisi, e che l’Esercito non ne saprà nulla. Dopo aver fatto tutti questi studi, verrete da me insieme a Hathureiks al Dipartimento di Fisica. Farò venire anche un filosofo.
Fu così che il nobiluomo ostrogoto fu consegnato all’Università dell’Idaho per gli accertamenti. Ogni volta che finiva un esame e che i risultati venivano elaborati con la massima celerità, Faine e Guth ne venivano informati. Un universitario era stato incaricato da Julius Schulz di spiegare loro ogni cosa, pur senza scendere troppo in incomprensibili dettagli tecnici, in modo che non ci fosse nulla di nascosto.
Ogni test non fece altro che confermare l’origine di Hathureiks. Le tutte le sequenze del DNA mostravano compatibilità con quelle estratte dal materiale archeologico tramite le più moderne tecnologie. Non c’erano dubbi, quello era un membro della famiglia degli Amali, un consanguineo stretto di Thiudareiks, Teodorico il Grande. I marcatori genetici confermavano l’origine scandinava della dinastia. Il sistema immunologico dimostrava che non apparteneva agli ultimi secoli della Storia umana, e per impedire l’insorgere di malattie anche gravi a partire da banali incidenti gli furono iniettati molti sieri. Anche la tolleranza al fondo radioattivo era esigua: se non fossero intervenuti prontamente, sarebbe di certo morto di leucemia o di cancro nel giro di pochi mesi.
- Tu non sai il pericolo che stavi correndo, ragazzo biondo! - gli dicevano sempre i medici con simpatia. Ormai era un simbolo per l’Università, e tutti gli volevano bene. La sua incredibile mitezza contraddiceva tutti i luoghi comuni sui cosiddetti Barbari. Coloro che chiamavano vandali i devastatori e gli imbrattatori, si sarebbero di certo stupiti non poco nel sapere che un uomo così buono era un parente stretto proprio del popolo dei Vandali.
Quando Hathureiks passò al Dipartimento di Psicologia, divenne presto una miniera di informazioni. Tutto ciò che diceva in stato di ipnosi era accuratamente registrato su supporto digitale, trascritto e inviato a una moltitudine di studiosi. Ne emersero l’intera versione della Bibbia di Wulfila, una quindicina di poemi epici pagani del tutto sconosciuti, che parlavano delle origini dei Goti e delle mitiche imprese dei loro sovrani, più un centinaio di bellissime poesie. Alcune erano struggenti, come il Canto di Berigs, altre erano resoconti di battaglie e di antichi massacri.
Il tempo passò. Ci furono poche novità, a parte le telefonate furibonde di Ann Faine che reclamava suo marito, spalleggiata dalla famiglia Guth. Hathureiks in quei giorni era felice come mai era stato nella sua vita passata, e si divertiva a giocare a football americano nella squadra universitaria. Dicevano che sarebbe diventato un campione di importanza mondiale, in quanto senza bisogno di doparsi conseguiva ottimi risultati e ci metteva un immenso entusiasmo. A dispetto della sua fisionomia segaligna, aveva una grande forza, superiore alla media. Era un eccezionale compagno di banchetti per gli studenti. Quando scoprì il whiskey divenne subito un suo fervido estimatore, dichiarando che nemmeno la bevanda più fine servita alla Corte di Thiudareiks poteva competere con quel potente liquore nato dal fuoco. I suoi successi con le donne erano già leggendari dopo una settimana. Ogni notte andava a trovare due o tre ragazze diverse, una dopo l’altra. Si fece la reputazione di uno stallone instancabile, di un amante che tutte si sarebbero contese anche a costo di usare le unghie.
Quando Bernard Faine ed Amos Guth furono convocati nell’Aula Magna, vi trovarono una rappresentanza dell’intermo ambiente accademico di Boise. Professori insigni erano giunti dalla California salendo sul primo aereo.
- Ragazzi, voi diventerete famosi! - disse loro Julius Schulz - Hathureiks è giunto qui da un cronotopo del tutto diverso, e con il suo prezioso contributo ha fatto progredire incomparabilmente molte scienze.
- Immagino che per questo non potrete ridarcelo - azzardò Amos Guth.
- Dobbiamo mandarlo all’Università della California, e credo che vorranno fargli fare il giro del mondo - rispose il fisico - Se resterà tempo.
- Come sarebbe a dire se resterà tempo? - chiese Bernard Faine.
- Quando i Professori avranno finito il loro discorso, venite nel mio ufficio al Dipartimento di Fisica, così vi spiegherò in dettaglio cosa ho scoperto - disse suo cugino, con tono sibillino. I due ebbero uno strano presentimento, ma non dissero nulla. Il discorso, ampolloso e contorto, durò più di un’ora. La cerimonia terminò con abbracci e baci accademici. Sia a Bernard Faine che ad Amos Guth fu conferita una laurea honoris causa in Lingue e Letterature Straniere.
Verso sera si recarono da Schulz. Questi li accolse con aria grave e li fece entrare. La sensazione che qualcosa non andasse si intensificò.
Si accomodarono, e il fisico chiese loro se volevano un bourbon. Consapevoli della gravità della situazione e prevedendo una seduta difficile, entrambi accettarono con piacere.
- Nessuno sembra averci pensato - esordì Julius Schulz - In qualsiasi modo Hathureiks sia giunto fin qui dal suo tempo di origine, ora è nel nostro Universo un elemento estraneo. I bilanci di massa-energia non tornano più per causa sua. Può sembrare una cosa insignificante la presenza di un uomo in più in un cosmo tanto vasto, ma qui si viene a toccare la quantistica.
- Temo di non avere nozioni sufficienti per capire argomenti tanto difficili - disse Faine - Figuriamoci poi il mio amico, che notoriamente condanna il mondo moderno, vivendo come nel XVIII secolo.
- Cercherò di spiegarmi in termini più semplici - lo tranquillizzò Schulz - Immagina che tutto l’Universo sia una nuvola composta da innumerevoli goccioline microscopiche. Queste goccioline formano strutture confuse che sono tutte governate però da leggi ferree che non ammettono eccezioni. Che non devono ammetterne.
- In altre parole - disse Amos Guth - Stai parlando di un Disegno Intelligente. Pensavo che voi scienziati negaste Dio.
- Mettiamola così - rispose lo studioso - Nell’ordine che governa il cosmo, tutto è stabilito dai numeri. Se pensi che sia Dio la causa di ciò, per me va benissimo, non è questo il problema. Il problema è che questi numeri, sono etichette che descrivono le goccioline di cui stiamo parlando. Ognuna ha determinati numeri che la distinguono. Il punto è che tutti questi numeri sono tra loro legati. Se ne cambia uno, devono cambiare anche tutti gli altri, all’istante. Cosa accade ora se anche una singola gocciolina che non appartiene all’Universo vi capita dentro per sbaglio? Se una regola che non ammette eccezioni viene difatto violata? Ci sono due soluzioni soltanto. O la gocciolina estranea si dissolve sparendo nel nulla, o viene intaccata e decade l’intera struttura dell’Universo!
Faine era perplesso. - Continuo a non capire - borbottò. In realtà un guizzo una specie di campanello di allarme stava suonando all’impazzata nel suo cranio.
Julius Schulz continuò la sua esposizione.
- Il filosofo Philip Kindred Stein mi ha dato la conferma di tutte le mie deduzioni, gli sembra tutto plausibile. Hathureiks è una chimera, un masso erratico caduto qui da un regno che per quanto ci riguarda dovrebbe appartenere alla non-esistenza, in quanto assolutamente separato dalla struttura olografica del nostro Continuum. Nel migliore dei casi, l’ostrogoto comincerà ad ammalarsi e si disgregherà fino a cadere in polvere e a svanire. Se questo non accadrà, tutto ciò che vediamo sarà condannato. Tutto. Noi, l’intero pianeta, il sistema solare, la nostra galassia, tutto ciò che esiste fin oltre gli oggetti quasi stellari più remoti. Non ci sarà scampo, l’opera che i religiosi pensano essere di Dio sarà corrotta e diverrà un tremolio nel Nulla per poi tacere in eterno.
- Questo Universo potrebbe non avere difese immunitarie sufficienti, potrebbe cadere in trappola - proseguì - Guai se la struttura di Hathureiks fosse stata incorporata nell’Ologramma. Quanto vengo a sapere è molto preoccupante. Mi risulta che abbia amato molte ragazze, e qualcuna di loro potrebbe portare il suo seme nel ventre.
Un terrore abissale si dipinse sui volti di Faine e del suo amico.
- Credo che adesso dovremmo andare da lui e stargli vicini - disse Amos Guth alzandosi dalla sedia. Mentre si avviava alla porta insieme a Bernard Faine, l’occhio gli cadde su un quadro appeso alla parete. Una riproduzione del Violinista di Chagall. Un pezzo di cornice era stato smangiato, come se dei grossi tarli lo avessero rosicchiato. Trasecolando, l’Amish si avvicinò al dipinto, notando la natura frattale di quello sfregio.

Marco "Antares666" Moretti

lunedì 6 giugno 2022

NUDO, SULLE RIVE DEL MARE DI AZOV

1.

La notte è pervasa da correnti gelide, e io sono nudo. Non ho con me alcun abito, e non capisco come sia potuto accadere. Non vedo nulla, tanto l’oscurità è impenetrabile. Pece che mi copre, inchiostro criogenico che avvolge ogni dettaglio di questo paesaggio invisibile. Sento dell’erba sotto i miei piedi. Forse sono un sonnambulo e non me ne sono mai accorto prima. Mi sembra di cogliere il lontano ululato di un lupo solitario, ma naturalmente questa non può essere che una mia impressione.
Uno strano contrasto lentamente invade i miei occhi, come se qualche fotone avesse cominciato a colpire i miei nervi, fuggito da una sorgente sconosciuta. Ancora qualche minuto ed ecco un debole chiarore all’orizzonte. Penso che stia sorgendo il sole, e cerco la strada di casa. Devo essermi allontanato non poco dalla città durante il mio peregrinare notturno in stato di incoscienza. Non distinguo alcun edificio tra le ombre. Ecco che finalmente la causa di quel lucore si rende manifesta: non è il sole come credevo, ma la luna. Una luna piena, grande, che inonda la terra con il suo benevolo mantello di argento vivo. Quasi faccio fatica a fissarne il volto. Quando guardo attorno a me, tremando per il freddo e per la paura, mi rendo conto che il territorio non ha nulla a che vedere con qualsiasi cosa mi sia nota. Davanti a me si estende un mare grigio, all’orizzonte del quale si possono vedere delle alte catene montuose come miraggi evanescenti. Un mare interno, chiuso. Questa rivelazione è troppo per me. Non riesco a farmene una ragione. Proprio ieri ero incolonnato nel traffico suburbano e ho consumato due ore in coda per giungere distrutto al mio loculo abitativo, dopo il calar del sole. Per miglia e miglia non esiste un solo giardinetto pubblico, solo qualche aiuola rinsecchita sprofondata in un oceano di cemento popolato da esseri più simili a ombre che a umani. Non è possibile che mi sia spinto fin qui con il solo aiuto delle mie gambe, affette da varici per la mia vita anaerobia in ufficio.
Se non trovo qualcosa da mettermi addosso finirò col morire assiderato. Questa consapevolezza mi desta come un pugno nello stomaco dalle mie meditazioni. Un minimo abbassamento della temperatura dell’aria ha innescato ancestrali meccanismi di sopravvivenza. Nulla. Intorno a me non c’è nulla che possa offrirmi riparo, soltanto distese erbose e alberi ritorti. Sento le mie forze mancare, perdersi nella morsa dei brividi. All’improvviso mi sembra di cogliere qualcosa, e la speranza torna a crescere in me. Forse sono i deboli raggi di una torcia quei guizzi di luce pallida che fendono il buio davanti a me…
Quando mi sveglio mi ritrovo a letto, e per qualche istante penso che sia stato soltanto un brutto, orrendo sogno. Mi accorgo però che quello non è il mio letto, quella non è la mia casa. L’ambiente è spoglio e senza ornamenti, il riscaldamento è garantito da una stufa rudimentale fatta di ghisa e alimentata a legna.
- Was istu, adelmanne? – mi chiede una giovane donna. Indossa una strana veste lunga, bianca e grigia, finemente decorata con svastiche, aquile stilizzate e soli i cui raggi interni sembrano fulmini. Ma quello che più mi stupisce è la lingua in cui si è rivolta a me. Sembra una specie di dialetto tedesco, forse tirolese o qualcosa di simile.
- Siltha! Du is manne gutz ja bertz, ik kan’tha! – continua stringendomi una mano e guardandomi con occhi dolci. C’è qualcosa che non va nel suo tedesco. Somiglia a quello che ho imparato a scuola, ma non riesco ad afferrarlo completamente. La pettinatura della ragazza è complicata e anacronistica. I suoi capelli biondi sono raccolti in crocchie e fissati dietro alla nuca con spilloni di rame. Un uomo entra nella camera. Sembra uno Schützen, a conferma della mia ipotesi. Poi ci penso. In Tirolo non esiste il mare. E anche se quella gente fosse tirolese, come ci sarei finito? Lo osservo. Avanza con una certa baldanza. Il naso è paonazzo e l’andatura malferma, è evidente che si è intossicato con qualche bevanda alcolica.
- Bi Wuden heligen, du is gedrunkens! – urla lei. Questa volta capisco alla perfezione la frase, e il senso di irrealtà torna ad aggredirmi. Collego l’accenno a Wotan agli strani disegni sulle vesti della donna e penso che forse sono stato rapito da nostalgici del III Reich.
L’uomo mastica le parole, ma riesce comunque a districarsi abbastanza bene in quella selva di consonanti.
- Ja, ik im gedrunkens, fuls mid mido gudem! – dice ridacchiando per l’ebbrezza, come se qualcosa di irresistibilmente comico avesse colpito la sua attenzione.
- Wem chlaftu den mido? Wis habem niwecht chlef for unsrem barnem du iten ja du wastes gild for mido! – lo aggredisce lei. Mi consolo pensando che dovunque io sia finito, le femmine sono uguali a quelle di qualsiasi altra parte del mondo.
- Ik habeda mild sum dath’ik chlaf fram Russikem – si difende l’ubriaco. La giovane sbianca come se di colpo avesse perso tutto il suo sangue da una ferita invisibile. Leggo il terrore assoluto sul suo volto, come se ne andasse della sopravvivenza di tutta la sua gente.
L’uomo diventa per un istante itterico, quindi inizia a vomitare copiosamente. Sta così male che sembra essere in fin di vita. La moglie cerca di sostenerlo mentre lui si libera di una gran massa di liquame bilioso. Arrivano i figli. Il più adulto dice qualcosa alla madre, riceve delle istruzioni ed esce dalla casa, mentre gli altri due iniziano a darsi da fare per pulire il pavimento. Passano pochi minuti ed ecco la suocera, armata di un grosso randello. È una donna alta e robusta, di aspetto somiglia molto a Ingrid Bergman.
- Arga! – urla all’uomo disteso, e inizia a prenderlo a calci. Gli dà una serie di bastonate, incurante dei suoi lamenti, quindi esplode in un violento attacco verbale: - Bi Wudenes blud! Du is ens fule chliftz! Jaf de Russikens ufkunnen’tha, de sandend hir ene hanse Merene du afslachen allens uns!
I bambini rimuovono il vomito con aria rassegnata, dandosi il cambio per riempire il secchio d’acqua, come se fossero abituati da tempo a scenate simili. Sembra che ce la mettano tutta per far scomparire le prove di un efferato delitto. A riprova di questo mio sospetto, vedo che l’ubriaco viene trascinato dalla matriarca e dalla moglie e condotto in un vano sotterraneo attraverso una botola. Fatto questo, le due donne riemergono nella stanza e posizionano sul passaggio segreto un tappeto.
Il tutto mi pare un po’ troppo per una semplice sbornia, non riesco in alcun modo a ridurre ad una spiegazione razionale il comportamento di quella gente. Forse sono di un puritanesimo estremo, ma tutto il loro terrore e il loro trafficare sembrano piuttosto nati dall’esigenza di nascondere quanto accaduto ad estranei ostili.
Più osservo le cose e collego i dettagli, più assurda mi appare l’ipotesi che si tratti di neonazisti di un isolato villaggio nato da qualche esperimento procreativo. Nessun ritratto di Hitler, nessuno che indossa l’Armband, e non vi è traccia del saluto con il braccio teso. A dire il vero, non vedo neppure un segno che possa indicare una qualche tecnologia da XX secolo. Niente telefono, niente televisione, niente elettricità.

2.

I giorni passano in modo abbastanza tranquillo e senza altri incidenti. Tra l’altro, una volta smaltita la sbronza, l’uomo è ritornato alla vita di tutti i giorni come se nulla fosse, anche se si capisce che la suocera non gli ha perdonato del tutto la sua bravata. Approfitto del riposo che posso concedermi, e presto riesco a recuperare un po’ di forze. Quando sono abbastanza sano da potermi alzare, mi danno degli abiti tradizionali e mi fanno sedere alla loro tavola. Il vitto è costituito per lo più da latte e da una specie di porridge. Solo raramente viene servita una birra asprigna e leggera, in quantità del tutto insufficiente ad inebriare. Mi impegno al massimo per imparare la loro lingua il più in fretta possibile, facendo anche affidamento sulle mie reminiscenze di tedesco scolastico, e presto riesco seppure in modo stentato a comunicare e ad approfondire la mia conoscenza. Mi rendo conto che la lingua presenta molte caratteristiche del tedesco, ma è differente e non poche parole nulla hanno a che vedere con quelle che mi sono familiari. D’altronde con una maestra adorabile come la ragazza che mi ha curato, non posso che fare progressi strabilianti. Noto però che sta bene attenta a mostrarsi troppo gentile con me in presenza del marito e soprattutto dell’austera matriarca. Non conoscendo i costumi di quella gente in materia di relazioni sessuali, e intuendone anzi la natura puritana, mi astengo dal dar corda a quelli che a volte mi appaiono come velati tentativi di seduzione. Non vorrei trovarmi con la testa rotta dal randello di Ingrid Bergman o con un coltello dell’ubriacone, infilato nel ventre.
Pian piano riesco ad immedesimarsi in quel mondo angusto. L’uomo si chiama Ermenrix e sua moglie Amelswinde. La casa è retta dalla madre di lei, Ermengarde. I tre figli della coppia sono Theoderix, Kunegunde e Hanala. Mi sono presentato loro con il mio vero nome, Gian Marco Stanga, ma a parte una blanda curiosità sul suo strano suono e sulla sua origine esotica, non se la sono sentiti di indagare troppo a fondo sulla mia provenienza. Ho detto loro che vengo dall’Italia, ma il nome della mia terra d’origine non diceva loro nulla, non l’avevano mai sentita nominare. Tutta la loro conoscenza del mondo potrebbe stare nella prima pagina di un quotidiano. Soltanto quando ho detto loro che sono di Venezia, ho avuto un inatteso riscontro: a quanto pare una spedizione di mercanti della Serenissima aveva fatto visita al loro villaggio una ventina di anni prima. Indagando sulle loro pur esigue cognizioni storiche e geografiche, sono riuscito a formarmi un’idea. Non ho più dubbi a proposito di ciò che mi è capitato: per quanto incredibile possa sembrare, sono stato sbalzato dal mio cronotopo e sono finito in una linea temporale parallela. Tutto quello che ho scoperto conferma la mia spiegazione. Siamo in Crimea, nei pressi del Mare di Azov, e le genti che mi hanno dato ospitalità non sono tedeschi del Tirolo, bensì lontani discendenti dei Goti di Re Ermanarico. Sono così tante le cose che vorrei apprendere, ma mi scontro quasi sempre contro gravi limitazioni. Per esempio, quando cerco di capire in che anno siamo, mi accorgo che tale nozione non ha per i miei ospiti alcun senso: essendo rimasti pagani, il computo degli anni a partire dalla nascita di Cristo non è da loro neppure concepito.
Imparare è l’unico modo di non morire di noia: nonostante tutti i miei tentativi, non riesco a convincere nessuno a portarmi fuori di casa. È come se avessero terrore che qualcuno potesse fare la spia vedendo uno sconosciuto nel villaggio. Nel complesso non si può dire che la loro vita sociale sia movimentata. Molto raramente ricevono qualche visita, ma anche se si tratta di parenti stretti, mi costringono a non farmi vedere perché la mia inconsueta fisionomia non desti sospetto e non inciti alla delazione. Matura sempre più in me l’idea che quello non sia un paese libero, ma terra di conquista.
Quando acquisto un po’ più di familiarità con la bella Amelswinde, vengo a sapere cos’è successo la notte in cui ho ripreso i sensi. Ermenrix aveva rubato del miele ai Russi e l’aveva usato per farne un barile di idromele, scolandoselo tutto. Un simile furto sarebbe come minimo stato punito con la morte, se fosse stato scoperto. I miei sospetti trovano conferma. I Russi dominano la Crimea, opprimendo duramente le sue genti. Goti, Greci, Unni, Tartari Crimeani e Khazari sono assoggettati a un durissimo regime fiscale da parte della Repubblica Nichilista di Moscovia. I più temuti tra tutti i soldati Russi sono gli incursori Meren. Scopro che i Meren sono una popolazione che vive nelle regioni degli Urali. Hanno i capelli rossi e gli occhi con la plica mongolica, la pelle così chiara da sembrare anemica. Praticano sacrifici umani e cannibalismo, e sono talmente feroci da essere ritenuti demoni dagli stessi Tartari.

3.

È passato ormai quasi un mese, ma nessuno vuole saperne di lasciarmi andare. Lontano dal mio popolo, non saprei cosa fare, mi dicono. Alla fine, dopo lunghe discussioni, riesco a farmi promettere che mi faranno sapere come arrivare fino a Sebastopoli, dove dovrebbe essere facile trovare una nave diretta a Venezia.
Finalmente si prospetta l’occasione di curiosare un po’ fuori dalle mura domestiche. Ci sarà presto un matrimonio, e nessun membro della famiglia potrà mancare ai festeggiamenti, neppure i bambini. Avranno soltanto due scelte: o portarmi con loro spacciandomi per un improbabile lontano cugino oppure rinchiudermi in casa. Ma queste case non sono certo impenetrabili. Aspetto così che tutti si siano allontanati, quindi forzo la fragile serratura di una porta posteriore ed esco. La visione del villaggio mi colpisce come un pugno allo stomaco. Le poche case hanno il tetto coperto di torba. Ho la conferma dell’assenza dei manufatti tecnologici a cui sono abituato nel mio mondo d’origine. C’è un solo edificio in muratura, del tutto diverso dagli altri. Vi sventola una bandiera rossa con una falce e martello in nero, identica a quella del frontespizio del Libro Nero del Comunismo. Alcuni cavalli sono legati a un palo di ferro arrugginito. C’è anche un’automobile scoperta che si direbbe del primo XX secolo, atta al trasporto di militari. Vedo solo un uomo in uniforme grigia. È seduto vicino alla porta d’ingresso, addormentato con una bottiglia di vodka in mano. Il mio giro di ricognizione ha successo, e prima della fine dei bagordi riesco ad essere di nuovo in casa come se nulla fosse successo. Ciò che ho visto mi lascia perplesso. Ogni casa del villaggio evidentemente corrisponde ad un nucleo familiare più o meno esteso. Alcune stalle e gli attrezzi agricoli indicano quale sia il sostentamento. Un solo forno è usato da tutti per la cottura del pane. I fasti nuziali di questi contadini consistono in un po’ di formaggio, in un maiale arrostito e in qualche bottiglione di idromele, di certo spillati da una riserva tenuta sotto chiave per anni, ben lontana dalla bramosia del non certo astemio Ermenrix. In tutto ci saranno state venti persone al tavolo del banchetto. Non si può certo dire che i Goti di Crimea siano un popolo numeroso e in espansione.
Ormai le prime luci dell’alba stanno comparendo ad Oriente, e il cielo comincia a schiarirsi. Amelswinde, Ermengarde e i bambini rientrano rintronate per il troppo cibo ingerito durante il banchetto. Non vedo però Ermenrix, e quando lo faccio loro notare, si stupiscono e si allarmano. Parlano a lungo tra loro, incerte sul da farsi. A questo punto la porta si apre, e ne entra un giovane uomo alto e biondo, con gli occhi azzurrissimi e il volto pieno di efelidi. Con tutta probabilità è un parente stretto di Amelswinde, forse un suo primo cugino a giudicare dalla somiglianza.
- Dem nachte Ermenrix idda du Russikem bidentz for brinnwate! Hired is alle! – esclama trafelato il gigante ariano. È in allarme, sa per certo che qualcosa di orribile sta per succedere. Le due donne fanno per seguirlo, impugnando dei bastoni e facendo cenno ai bambini di non muoversi per nessun motivo. Capisco che l’ubriacone ha sfidato ogni buon senso ed è andato dai Russi a chiedere dell’acquavite per completare la sua colossale sbornia.
Prima che le donne possano muoversi e dirigersi verso l’ingresso, la porta si apre una seconda volta e ne entra proprio Ermenrix. Barcollante e insanguinato, sembra l’incarnazione di un incubo. Impugna un fucile ancora caldo.
- Enen Russiken kwaldik! – urla. Ha ucciso un russo! All’improvviso si sentono versi raggelanti. Prima che qualcuno possa fermarmi vado alla porta e vedo l’orrore. Una decina di Meren stanno percuotendo a morte dei cavalli con spranghe di ferro, urlando selvaggiamente e ridendo come pazzi. Rompono loro le costole, abbattono colpi spaventosi sul cranio. Vedo uno stallone che barcolla e perde un ruscello di sangue dal naso e dalla bocca. A questo punto uno dei Meren estrae un coltellaccio lungo e acuminato e lo affonda nel torace dell’animale. Appena questi si impenna, cercando di scalciare e di colpire gli aggressori, essi gli squarciano il ventre con le lance, facendone fuoriuscire masse di intestini. Una cavalla viene colpita al collo e stramazza a terra. Non contenti della loro opera, i Meren si accaniscono sui cavalli moribondi con inenarrabile ferocia. Li scorticano, strappano masse di carne dai loro fianchi, tagliano i tendini, fracassano le ossa. Più le vittime sono inermi, più la crudeltà aumenta in un infernale crescendo. È un incubo. Non appena riesco a vincere l’orrore e la paura, rientro in casa e chiudo la porta col chiavistello. Troppo tardi. Dopo pochi istanti dei colpi di fucile la fanno saltare, e due Meren fanno irruzione nella casa.
Visti da vicino sono ancora più terribili. Occhi a mandorla, di un grigio glaciale, che irradiano un odio demoniaco verso ogni vivente. I capelli sono di un color rosso che avevo finora visto solo in alcuni inglesi. Portano lunghi baffi, anch’essi rutili. Indossano al braccio destro un Armband del color del sangue con la falce e il martello in nero. Quella vista mi sembra irreale, ma presto ciò che si scatena mi desta dalla mia ipnosi. Uno dei due incursori spara a sangue freddo e uccide Ermengarde. Amelswinde cade subito dopo, accasciandosi sul pavimento con la gola recisa. Arrivano altri soldati della stessa orribile etnia. Mentre alcuni catturano i bambini e li portano via per sacrificarli ai loro demoni, altri spogliano Ermenrix, gli bucano l’addome con i coltelli, quindi si calano i pantaloni e lo violentano a turno usando quei fori come cavità sessuali. Il gigante biondo dal volto lentigginoso trema come un fuscello, terrorizzato fin nel midollo osseo. Paralizzato contro la parete, si augura solo di morire in fretta, spera che un colpo parta e lo raggiunga in fronte. Capisco dall’odore che ha rilasciato gli escrementi. In quella girandola di atrocità, nessuno sembra essersi accorto di me, mingherlino come sono. Approfitto dell’attimo favorevole per afferrare il fucile con cui il povero Ermenrix ha ucciso un russo e faccio partire un colpo, spappolando il cranio di un Meren.
Il tempo sembra essersi fermato. L’arma mi cade di mano. I carnefici si girano verso di me, fissandomi con un’intensità insopportabile. L’unica cosa che ricordo è quello sguardo assassino, assolutamente inumano.

Marco "Antares666" Moretti

sabato 4 giugno 2022

IL FATO DI XAD

1. Prologo

Intendo raccontarvi una storia mirabile e sinistra, ambientata in un tetro mondo che conosce soltanto la luce di un piccolo sole grigio che ottunde i viventi con i suoi raggi nocivi, come un messaggero di prossima sventura, istante per istante. Il vento alza la polvere. Il vento stesso sembra polvere. Nelle piazze si radunano uomini in armi, marciando e intonando strani inni di guerra. Battaglie. Sirene che urlano. Vetri rotti. Esplosioni di bombe. Una guerra endemica, uno stato di rivolta perenne che non porta a nulla. Canzoni di esaltazione inumana le cui note si innalzano al cielo spento e si perdono in lontananza nei vicoli. Un’ideologia della violenza come strumento di darwinismo sociale. E dall’altra parte dello schieramento, convulsa irrazionalità, la follia ossimorica di chi uccide in nome della Vita, di chi massacra di botte in nome della Nonviolenza. Fuochi sul muri, che rendono nero e untuoso ogni intonaco. Porte divelte, cadaveri bruciati per strada con taniche di benzina. C’è chi giura di aver visto corvi morti trascinati dal vento disfarsi in mulinelli di scintille nere. C’è chi giura di aver visto bambine pallide alle finestre di case diroccate. C’è chi giura di aver sentito sospiri echeggiare per le vie notturne senza una causa apparente. Avrà mai fine tutto questo marasma? Sorgeranno nuovi giorni dopo questa Era dei Lupi? Mentre dall’alto del suo inespugnabile Palazzo il Ministro Somnyu invita alla calma e nega in sostanza l’entità degli scontri, centinaia di giovani muoiono invano. Il vecchissimo Presidente Morranu, del tutto estraniato dalla realtà, continua ad invitare la gente all’ottimismo. “Il declino non esiste”, questo è il suo motto.

2. Xad odia

Incapace di lasciare la tomba, incapace di svincolarsi dalla carcassa, lo spirito di Xad odia. Odia tutto e tutti i viventi. Eppure in vita era stato animato da tante utopie. Veleno. Ora Xad sa. Tutto ciò per cui ha vissuto è solo veleno, solo menzogna. Questa consapevolezza non gli è però di alcun aiuto. Tutto gli pare paradossale. L’unica cosa di cui è ricco è il tempo, che sembra non scorrere mai, quasi fosse cristallizzato nell’intorno di pochi istanti. Xad sfrutta questa ricchezza sconosciuta ai vivi per cercare di capire qualcosa della sua orrida situazione presente. Eternamente presente.

3. Morte e reminiscenza

Era tra i fanatici Aphitnah, quando una notte molti coltelli stroncarono la sua esistenza terrena, versando il suo sangue tra le immondizie che cospargevano la sordida via dell’agguato. All’inizio Xad non era neppure capace di accorgersi di essere morto. Pensava che l’avesse colto una paralisi maligna, del tipo sindrome dell’uomo incapsulato, che non gli permetteva di muovere neppure un muscolo. Vedeva i suoi compagni ricomporre il suo corpo e coprirlo con un sudario, e cercava in preda al panico di dire loro qualcosa, di fare capire loro che lui viveva, che non dovevano seppellirlo. Nessun nervo, nessun muscolo gli obbediva. Così dopo la veglia funebre fu chiuso nella bara e portato al cimitero. Poco alla volta si rese conto di non avere bisogno alcuno di respirare...

4. Tempi di scheletrificazione

Xad coglie nella sua squallida prigionia il rumore dell’erba che cresce, il gorgoglio del flusso mucoso secreto per stillicidio dalle ghiandole salivari degli uccelli. Non gli servono occhi per vedere, non gli serve la luce per discernere gli oggetti e i loro dettagli più insignificanti dalle ombre del sottosuolo. È cosciente come mai fu in vita. Coglie con agghiacciante lucidità il formarsi di metilmercaptano nelle sue carni, e per ingannare il tempo che gli sembra immobile, Xad elabora mappe mentali dello sfacelo della sua carcassa. Si costruisce una ragnatela simbolica atta a descrivere i gradienti di concentrazione degli enzimi putrefattivi, sonda dedali di canalicoli morti nel loro implacabile rattrappirsi, percepisce l’ammorbante accumulo dei gas cadaverici nei diverticoli del suo ventre gonfio, il loro fuoriuscire dai tessuti, molecola dopo molecola. Avverte la gioia delle larve intestinali, gongolanti in quel fetido brodo di morte. Se solo pochi istanti vissuti al rallentatore gli mostrano tutto questo, come potrebbe mai lo spirito di Xad sopportare i miliardi di eoni che ancora lo separano dalla libertà? Ma sarebbe mai venuto quel momento? O il suo essere si sarebbe disperso con la polvere del corpo?

5. Occhi composti

Occhi sinistri osservano il corpo di Xad nel suo decomporsi. Il Gobbo Nero è una presenza discreta, al punto che per molto tempo lo spirito di Xad non è stato capace di accorgersi di lui... Non è un Gobbo Nero come tutti gli altri, non somiglia ai terrori notturni che funestano i sonni degli infanti facendoli destare madidi di sudore in preda alla tachicardia, quando non li uccidono con un improvviso blocco respiratorio. Questo è un omino molto particolare, che si distingue anche nella tenebra più fitta per i suoi giganteschi occhi di insetto. Ommatidi fissi, lucidi, di un duro nero iridescente e assassino. Non un filo di anima sembra filtrare da quei pozzi infernali che ora fissano gelidi il cadavere immobile nel marmo.

6. Perfezione postuma

Ora Xad sa. Sa perché il sesso genera tanto dolore. Sa perché l’unione tra maschio e femmina è l’impulso contaminante alla radice di ogni male. Xad sente l’odore della propria salma-carcere. Quella puzza di formaggio marcio misto a qualcosa che ricorda lo sterco grasso. Quel sentore afoso ed opprimente familiare a chiunque abbia annusato effluvi cadaverici filtranti da una lapide mal messa in una tomba murale. Nessuno se ne dimentica una volta che l’ha sentito anche soltanto una volta. Quello è l’odore dell’Uomo, quella è la fragranza delle sue pelle. Ogni persona porta su di sé il marchio d’infamia della propria creazione, per quanto possa darsi da fare a rimuoverlo lavandosi.

7. La Preghiera di Xad

Oh vermi, mi consegno all’oscenità della vostra masticazione!
Liberatemi da questa maschera!
Oh Nulla, mi consegno al Tuo oblio!
Immergimi nel pozzo da cui non c’è ritorno!
Fa’ sì che io cessi di esistere e non sia mai esistito!
Oh predatori degli Inferi, cancellate ogni mia impronta dai labirinti del divenire!
Liberatemi da questa insopportabile finzione!
Oh Baratro, inghiotti la mia ontologia, bevi il mio noumeno!
Che ogni vibrazione cessi nella sostanza astrale che ancora mi fa ragionare!

8. L’Infinito nella Pietra

Giacigli funebri, visti come estensioni più insondabili delle vastità siderali... Marmi intrisi del sudore e dello spurgo del Tristo Mietitore, lapidi che occultano i segreti ultimi degli Dèi dell’Annientamento. Nel campo visivo distorto del cervello morente si diffrangono figure del tutto nuove, sagome di astronavi affusolate dirette verso un inconoscibile iperspazio… Una caverna prende forma nei bassifondi della consapevolezza, e il suo richiamo è dolce. Attira il viandante come la melodia di una sensuale sirena, e dal festino illusorio in cui sono profusi gli ultimi colori dell’esistenza terrena, ecco che si passa a un nero assoluto che promette la fine di ogni affanno: il Riposo…

9. Autolisi della mente

La Montagna della Morte sorge dagli Inferi come un lento e mostruoso leviatano. All’inizio è solo un piccolo ostacolo sul Cammino della Vita, ma presto cresce in modo inarrestabile e oscura ogni cosa con la sua ombra minacciosa. La Terra di Psyche trema, si spacca, e la sua geografia neurale viene sconvolta. La Montagna cancella il Cammino, ne disperde l’essere e il ricordo, per estendere il suo nero manto sull’intero orizzonte. Tutto è futile, tutto è inutile entropia: il DNA, la sua lotta per sopravvivere, l’agonia dello sperma che cola dall’uretra nell’istante del trapasso, teso verso un’impossibile immortalità. Quell’ultima erezione, vana e convulsa contrattura del violato, simulante un coito con il vuoto sotto gli occhi del Cielo del Nulla. Come un ragno gettato nell’Abisso, che dimena impazzito le sue zampe cercando un inesistente appiglio, l’intero universo che muore lentamente nel suo ottuplice sguardo.

10. L’incarico

Ille Tumleh ha ormai smesso di guardare fuori dal suo studio umido e fungoso. Quella finestra è poco più di una feritoia incassata in un muro spesso da cui essuda una fetida muffa grigia. Sul lato opposto della stanza è appeso il grigio ritratto di un uomo smunto dal volto allungato e dagli occhi vuoti. Nessuno ha mai saputo chi fosse, ma non c’era una sola persona che potesse guardarlo senza provare un indefinito senso di contagio orrorifico. Tumleh sa anche il perché, e sa che sarebbe molto difficile per qualsiasi persona razionale accettare quella sua spiegazione. Quel quadro appartiene a un altro universo, è una reliquia extra-continuum, un reperto erratico sfuggito alle leggi della quantistica. Tumleh conosce soltanto il nome dell’uomo, ma non osa pronunciarlo per timore che il suo suono possa produrre una qualche disgrazia. E che strano suono, talmente esotico che non si riesce a capire da quale lingua possa essersi generato… Lav-Krapht... Proprio mentre ci pensa, il campanello suona e una lettera viene fatta scivolare sotto la porta.

11. Un mito funesto

Ille Tumleh medita sulla strana richiesta pervenuta al suo ufficio investigativo. Un uomo misterioso privo persino di pseudonimo è interessato a recuperare ad ogni costo un oggetto capace di gettare sul mondo intero sventure indicibili. Acclusa alla lettera è la narrazione di uno strano mito di origine sconosciuta, di cui è stata trovata traccia in un’iscrizione petroglifica della remota Terra di Remus. Si dice che 36.000 cicli solari prima, durante l’avvicinamento del pianeta oscuro Uribin, dalla sua Porta Dimensionale sia scaturito Spur, il Demiurgo-Insettoide. Un umanoide grigio che poteva sopravvivere soltanto lontano da qualsiasi radiazione stellare. Chiuso nella sua arca di piombo uranifero, sarebbe caduto nelle profondità di Edre, in attesa di essere di nuovo liberato dai sommovimenti tettonici che lo avrebbero riportato in superficie e reso immortale. Seguendo i calcoli contenuti nell’opera dei Grandi Necromanti di Nahtap, la sua presenza sarà presto localizzata…

12. L’antico Ateneo

L’università di Mahkra regna la desolazione. I mattoni sono erosi dalla lebbra dell’umidità, dalle muffe, da grasse fungosità. Dovunque per strada ci sono scorie e rottami, sembra che la cittadella accademica sia stata abbandonata da tempo. Ille Tumleh non incontra anima viva sul percorso che porta alla Biblioteca. Oltre a lui, l’unico essere dotato di moto proprio è un ratto bianco che corre a nascondersi in un diverticolo ctonio. Lacere bandiere politiche sono appese sui tetti dei dormitori dai vetri rotti. Sfilacciate, hanno ormai quasi perso i loro colori. Alcune appartengono a movimenti nati da poco e già paiono vecchie di decenni. Mentre procede, l’investigatore medita sul mito e sul senso della sua ricerca. Non ci sono dubbi che il sarcofago del Demiurgo-Insettoide è il responsabile dell’atroce stato di decadenza dell’intero pianeta. Se sarà scoperchiato, la sua potenza contaminante non potrà essere contrastata. Un rumore infrange quella quiete quasi assoluta, distraendo l’uomo dalle sue anguste meditazioni. Alza gli occhi e li rivolge a un muro, su cui campeggia una scritta tracciata di fresco: XAD ODIA.

13. ITIPVTVLHTAVSAL

Ille Tumleh rimane a lungo ad osservare quella scritta. La fissa senza poter distogliere lo sguardo, come se ne fosse rimasto ipnotizzato. Una corrente tellurica di immagini subliminali trasmette il nero più assoluto nella sua anima. Non riesce a muoversi. È rimasto profondamente impressionato da quello che avrebbe dovuto essere solo uno slogan. Si immagina una larva malefica covante nel corpo in decomposizione di un giovane precocemente stroncato, nel marmo di una tomba. Una proiezione, uno spettro. L’ombra di un’ombra, ma ancora capace di rancore, di furia. Una cosa inquietante... I pensieri sorsero come da un pozzo indefinito. ITIPVTVLHTAVSAL. Così gli antichi Ansar chiamavano nella loro lingua l’essere che non poteva sfuggire da un luogo di sepoltura, murato per sempre in un letto di dolore.
- La cosa più assurda di questa vicenda acherontica – rifletté - è che questo Xad un tempo era un Edarmak. Poi all'improvviso, quasi a causa di un colpo in testa, divenne un Aphitnah pazzo... Forse un coagulo sanguigno gli ha fatto cedere la materia grigia? Non posso fare a meno di meditare... Quello che noi siamo può essere etichettato in vari modi, a seconda del contesto in cui siamo nostro malgrado costretti a vivere. Comunque possiamo definirci, come disse Naroic, la passione trae il suo assoluto dalla miseria delle ghiandole...

14. Ascesi

La Biblioteca è l’estremo sacrario della Conoscenza Occulta, un faro nella notte dell’Ignoranza che appesta i mondi. Soltanto a Makhra si trovano i terribili testi scritti nella lingua di Nahtap, soltanto lì sono disponibili i difficili manuali necessari per decrittarli. Il sole sorge e tramonta tre volte senza che alcun cibo venga ingerito, ma alla fine di questo periodo di studio e di astinenza, lo studioso sa tutto…

15. Nella nuda terra

Ille Tumleh ha aspettato l’estinzione della tenue luce solare e il tramonto della luna maggiore. Ora soltanto la luna minore emana un fioco riverbero di un giallastro tubercolotico. La sua superficie pustolosa è a malapena visibile, offuscata da una corona cinerea che ne assorbe la poca luce. L’investigatore entra scavalcando un muro cadente e si ritrova nei campi di inumazione. I necrofori non hanno ancora finito il loro lavoro quella notte. Portano su un baroccio alcune ragazze morte. Giovani, bellissime e nude. Sputando e imprecando, spalano il terriccio cedevole e scavata una fossa comune ci gettano dentro i cadaveri. Presto ricoprono tutto con la terra, senza lasciare un solo segno. Una tristezza abissale scuote Ille Tumleh. C’è qualcosa di mostruoso, di iniquo, ma non sa dire cosa.

16. Orfano di tutti i cieli

Il cimitero resta deserto. Dalla zona adibita alla consunzione rapida dei cadaveri della classe bassa e dei colpiti da pregiudizio, Ille Tumleh si sposta verso le sepolture della classe media. Una serie di cappelle di pietra contengono fino a una decina di corpi. Da una di queste costruzioni sente uscire un fumo mortifero: è vicino alla tomba dove giace Xad. Anche la luna minore tramonta, disperdendo gli ultimi soffi del crepuscolo. L’investigatore è solo, senza l’aiuto di alcuna luminaria celeste. Per vedere in quella densa oscurità indossa un paio di occhiali a diamanti rossi. Ciò che gli interessa si trova nella zona ove sono tumulati i nobili, dove le bare sono trasparenti ed esposte in cappelle trasparenti, dove chiunque può contemplare il progresso della putrefazione…

17. Sarcofagi

Il Commissario incaricato di svolgere l’indagine non sa cosa fare, la mancanza di indizi sembra totale. Un altro caso di scomparsa di persona neutrale denunciato nel giro di cinque giorni. A un tratto è attirato da un’agenda ricoperta di pelle nera, che fino ad allora era sfuggita al suo sguardo inquisitore. Fa cenno a un suo assistente, quindi si siede, apre una pagina a caso del Diario di Ille Tumleh e comincia a leggere:
“Mi circondano. Mi trovo nel cimitero dalle bare di vetro, in una notte illune e senza stelle. Lampi di fotoni sprizzano dai miei occhi rossi e fendono la coltre di tenebra. I miei stivali lasciano impronte profonde nel terreno molliccio. All’improvviso sento rumori sospetti e mi nascondo dietro una cappella gentilizia. Due figure avvolte in pesanti mantelli si dirigono verso i campi di inumazione ventennale, armati di pesanti vanghe. Iniziano a scavare e presto portano alla luce una sepoltura del tutto diversa dalle altre. La bara non è trasparente come tutte le altre, ma fatta di un metallo più denso del piombo. A malapena i profanatori riescono a issarla servendosi di un paranco. Iniziano ad armeggiare, ma nessun loro strumento riesce a scalfirla. All’improvviso il coperchio si apre come se fosse dotato di vita propria, e all’incerta luce delle torce degli intrusi ecco mostrarsi qualcosa di raccapricciante: un antico demone grigio in stato di ibernazione. I suoi occhi di insetto irradiano tutti gli orrori dell’universo concentrati in pochi guizzi di alienità. I due uomini emettono urla strazianti, inconcepibili, morendo di follia nel giro di una manciata di secondi.” 
 
18. L’Orizzonte incancrenisce

Distese che si riempiono di fumo. Sembra una nebbia ma non lo è. Sono i tentacoli di qualcosa che si sta intrudendo nel tessuto stesso del cosmo. Xad è consapevole e si inebria di queste radiazioni lattiginose. Man mano che i viventi si indeboliscono, lui acquista forza. Ora lo sa per certo, la sua densità si accresce. Chi mai potrà fermarlo? Un guizzo di empatia chitinosa accende in lui un’estasi maligna.

19. Profanazione - L’Epilogo

Il condottiero Hcabssor ordina la distruzione della tomba di Xad e la cremazione del suo cadavere, per porre fine all’annosa maledizione. Da tempo ormai gli alberi non danno più frutti, come se da quel sepolcro spirasse un vento capace di congelare i germogli e di bruciare i fiori... Molti giovani sono impazziti per l’influsso empatico dello spirito di Xad, capace di trasmettere flash di immagini orripilanti nelle menti più suggestionabili. Ormai è a tutti chiaro, è come se un eclissi perenne fosse calato sul sole già grigio. I cani ululano di continuo nel modo più straziante, la terra muore e diventa scura e gelida come basalto di Xor. Così gli squadristi di Hcabssor irrompono nel cimitero e devastano la tomba, appiccando fuoco ai resti mortali di Xad dopo averli cosparsi di pece. Per esaugurazione tracciano svastiche destrorse tutto intorno al luogo della rovina. Ma un getto di polvere si alza dal rogo e si allontana nella nebbia, quasi fosse dotato di volontà propria...

Marco "Antares666" Moretti