sabato 18 giugno 2022

FULMINE DI TENEBRA VEGETALE

Il nero si estendeva, come uno squarcio e un albero al contempo. Straziava il cuore del blu violetto, imponendosi tirannicamente alle sbavature azzurrognole, stinte ciocche di capelli ispidi di una fanciulla divina trasfigurata in lucore immateriale davanti ai nostri occhi. Il ruggito del mare non dava tregua: per suo tramite echeggiavano nei nostri labirinti auricolari i lamenti di universi morti. Da eoni la decadenza regnava dovunque, fino ai limiti di quasar che la scienza delle mappature astrali non aveva ancora individuato. Il nero minacciava di sgretolare lo scoglio del Tempo. Era lì, proprio davanti a noi, ineffabile, con quella sua apparenza più solida della materia collassata di una stella a neutroni. D’altronde, non vedevamo di cosa avremmo dovuto preoccuparci: c’eravamo solo noi in tutto quello sperduto avamposto planetario. Nel cielo indistinto turbinavano sbavature di astigmatismo ontologico, pennacchi luminosi che formavano piccoli buchi neri dell’etere, senza struttura geometrica. Il tronco siderale emise un suono quantistico che poteva essere avvertito soltanto dalle nostre menti. L’avrei descritto come un criptosilenzio nato dall’Indeterminazione di Heisenberg, se non fosse stato per la mia rete sinaptica che si cullava nel gorgo di informazioni trascinato dolcemente da quel contatto intatteso. Non c’era possibilità di sfuggire al richiamo. Proprio come le Sirene della prima grande antichità dell’abbandonata Prima Terra, questa forma ci avrebbe attirati tutti nel suo maelström occulto. A fior di labbra intonai la Poesia dell’Iroha in un giapponese dimenticato. Il tronco dell’essere alieno assumeva sempre più consistenza. Allungai una mano per toccare il suo crepitio e lo scoprii caldo, vellutato e duro al contempo, come un tubo di fullerene.

Marco "Antares666" Moretti

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