sabato 18 luglio 2015

MODERAZIONE DEI COMMENTI

Chiedo ai pochi utenti interessati agli argomenti di questo blog di portare la necessaria pazienza: d'ora in poi i commenti saranno moderati. Tutto ciò non comporterà che pochi istanti di disagio all'internauta serio che intenderà apporre in queste pagine un suo intervento, che poi risulterà visibile non appena l'avrò approvato. Il mio augurio è che questo piccolo ostacolo tecnico alla comunicazione non dissuada i lettori davvero interessati dall'intervenire, e soprattutto che non sia inteso come una forma di censura: non avrei mai preso una simile decisione se non vi fossi stato spinto dal corso degli eventi.   

Questi sono gli inconvenienti a cui espone il vegetare nella Blogosfera, spazio ormai sempre più marginale e simile alla Terra Desolata. Pubblicare propri contenuti è da tempo un affare in perdita, ma nonostante ciò non demordo. Oltre a reperire le informazioni è necessario vagliarle, assemblarle, formattarle e categorizzarle, e tutto per un ritorno pressoché nullo. Poi bisogna anche tenere in conto le necessarie operazioni di manutenzione straordinaria, proprio come il proprietario di un'auto si impegna a pulire il suo veicolo dopo che uno stormo di uccelli ha depositato sul parabrezza una pioggia di feci. Tutto ciò non mi scoraggia, e continuerò a farlo finché avrò respiro.

In quest'epoca di estrema decadenza dei diari online, alcuni blogger hanno scelto di diventare vassalli dei media mainstream, perdendo di fatto ogni loro autonomia. Non pochi tra questi infelici, gravati dal vincolo vassallatico contratto, si sono visti censurare i loro post. A una simile condizione di servitù è preferibile la vita dei lupi! Continuo dunque il mio vagabondaggio nelle tenebrose contrade di Mordor, non invidiando di certo la condizione servile di altri che si reputano più fortunati. 

martedì 14 luglio 2015

IL RIDICOLO FETICISMO DEGLI INDOVINELLI

I Poteri del Mondo utilizzano diversivi di ogni genere per distrarre le masse acefale dalla catastrofe incombente e dalla percezione dell'estrema decadenza che pervade ogni nazione del pianeta. Non molto tempo fa i quotidiani online hanno diffuso come di comune accordo un articolo che proponeva un ridicolo indovinello, che a loro detta sarebbe stato proposto a Singapore come test per gli studenti delle scuole superiori (14-16 anni). Ne riportiamo il testo (da Corriere.it):


Il compleanno di Cheryl

Albert e Bernard hanno appena conosciuto Cheryl, e vogliono sapere quando è il suo compleanno. Cheryl dà loro una lista di 10 possibili date:

15 maggio, 16 maggio, 19 maggio
17 giugno, 18 giugno
14 luglio, 16 luglio
14 agosto, 15 agosto, 17 agosto

A questo punto, Cheryl rivela ad Albert solo il mese e a Bernard solo il giorno del suo compleanno. Dopodiché i due parlano tra loro.

Albert: «Non so quando sia il compleanno di Cheryl. Ma so che non lo sa neanche Bernard».
Bernard: «All’inizio non sapevo quando fosse il compleanno di Cheryl. Ma adesso lo so».
Albert: «Ora so anch’io quando è il suo compleanno».

Dunque: quando è il compleanno di Cheryl?

Per trovare la soluzione, bisogna cominciare col comprendere che il problema non è sottodeterminato, ovvero che contiene tutti i dati necessari per arrivare alla soluzione. Ci sono dati che sono mascherati da frasi in apparenza banali, che hanno un potere pari a quello dei dati numerici.

1) Albert non sa quando è il compleanno di Cheryl. Sa però per certo che nemmeno Bernard lo sa.
Questo significa che il compleanno di Cheryl non può cadere né in maggio né in giugno.
Infatti se così fosse, Bernard, che conosce solo il giorno, avrebbe una probabilità di conoscere la data: se Cheryl gli avesse detto 18 o 19, il problema sarebbe risolto all'istante, e Albert non potrebbe affermare con certezza che Bernard non sa la data.

2) Bernard capisce che il compleanno di Cheryl non può essere né di maggio né di giugno. Può quindi cadere soltanto in luglio o in agosto.
Bernard ritiene le informazioni ottenute sufficienti a capire la data. Quindi non è possibile che sia il giorno 14 (ricorre sia in luglio che in agosto e il problema non sarebbe risolvibile).

3) Albert a questo punto afferma di sapere per certo quando è il compleanno di Cheryl. Non può essere di agosto, perché in quel mese ci sono due possibilità e Albert non potrebbe affermare di aver risolto l'indovinello. Così la data è sicuramente il 16 luglio.

Dati mascherati da frasettine in apparenza banali.
a) La frase "io non so" significa che ci sono più possibilità e che non si può decidere con i soli dati a disposizione.
b) La frase "io so" significa che esiste un solo numero possibile, che permette di decidere. 

Secondo non pochi intellettuali questi giochini sarebbero efficaci applicazioni della logica, in grado di educare la gente al suo uso. Così afferma ad esempio Odifreddi in un suo intervento: "Ci siamo disabituati alla logica, la scuola non insegna metodo".   

Notevoli anche le considerazioni dell'amico M. (si dice il peccato ma è bene rendere poco riconoscibile il nominativo del peccatore):

"Non si capisce dove sia lo scandalo di porre a dei sedicenni un banale quesito di logica, che pensandoci bene si risolve in due minuti. Lo scandalo secondo me sta nel pensare che questo tipo di ragionamento sia riservato ai cervelloni."

Adesso veniamo al dunque, senza fare sconti a nessuno.

Le parole del professor Odifreddi stupiscono davvero per la loro lontananza dalla realtà delle cose. Certo egli ha ragione da vendere nell'affermare che la scuola non insegna la logica e che per intere generazioni la logica è un libro chiuso. Tuttavia sbaglia in modo grossolano nell'usare la frase "ci siamo disabituati alla logica". Sarebbe infatti necessario postulare che un tempo eravamo abituati alla logica, e poi abbiamo perso dimestichezza. Tuttavia un simile tempo aureo di dimestichezza con la logica, in cui i bambinelli macinavano indovinelli, non è mai esistito - con buona pace di Odifreddi.
Se lasciamo per un attimo da parte la sicumera dei sentenziatori fanatici dei giochini e passiamo ai dati di fatto, ci accorgiamo anzi che le capacità di usare la logica agli inizi del XX secolo erano pressoché nulle per milioni di persone - proprio come adesso, anzi, in modo ancor più drammatico. In Ucraina e in Russia i contadini non sapevano risolvere un indovinello banale come questo:

"In Germania non ci sono cammelli. Non ce n'è neanche uno. Dresda si trova in Germania. Quanti cammelli ci sono a Dresda?"

Ridicola è anche la fede nel potere salvifico della scuola, che dovrebbe insegnare il metodo. Un pietoso condizionale per un'ingenua utopia. Odifreddi non ha ancora capito che la scuola è una fucina di demenza?

Il signor M. sembra confondere la logica con la Settimana Enigmistica. A quanto pare egli ha un culto del rompicapo, del giochino, della masturbazione mentale. Se vogliamo ben vedere, lo scienziato, il cosiddetto "cervellone" non è colui che risolve all'istante il famoso quesito con la Susi. Tutti questi gingilli sono studiati in modo accurato perché siano risolvibili, e si fondano sempre sugli stessi princìpi: dare l'impressione di avere meno dati di quelli che servono, mascherare i dati in forma di frasettine su cui si tende a sorvolare, essere enunciati appositamente in modo da provocare confusione.

Non mi stupirei di scoprire che la massima parte dei cultori degli indovinelli ha profonde carenze nella logica aristotelica elementare. Potrebbero benissimo non saper distinguere un sillogismo da un paralogismo ed essere persino incapaci di negare correttamente una proposizione semplice come "tutti i cavalli sono neri" - dato che fanno uso di una logica deviata e feticista, applicabile solo a casi estremamente particolari, simile a un bonsai che non può essere confrontato con una sequoia. Siamo sempre alle solite: quella che è in auge è la perversa degenerazione che consiste nell'apprendere procedimenti senza capirli. I cosiddetti bambini prodigio, di cui l'iniqua terra d'America è tanto sovrabbondante, non sono in realtà tanti piccoli Einstein: sono innaturali come i piedi rattrappiti delle donne della Cina imperiale. Chi di loro ha mai prodotto anche un solo pensiero di valore?   

La Scienza non è un settimanale di quiz e di rebus. Immaginiamo adesso di mettere gli enigmisti davanti a un problema enunciato in una forma del tutto nuova, senza che sappiano in partenza se ammette una soluzione. Immaginiamo di farli penare per giorni solo perché i più intelligenti tra loro arrivino a concludere che il problema è davvero sottodeterminato, che non può essere risolto. Immaginiamo di introdurli in un universo di atroce vastità, in cui non bastano tre o quattro procedimenti apprenditicci per arrivare a dimostrare qualcosa. Forse la loro prosopopea e la loro spocchia verrebbero meno all'istante.  

LA PRETESA ASSONANZA TRA SOCIUS E SOSIA IN PLAUTO: UN PROBLEMA INESISTENTE

Veniamo ora a un'autentica "chicca", la punta di diamante delle "argomentazioni" di coloro che in questa sonnolenta Italia si ostinano a ritenere che la pronuncia del latino in uso nelle scuole fosse quella di Cesare e di Cicerone - e che addirittura la proiettano nel passato più remoto, attribuendola persino a Romolo e Remo.

Essi partono dall'opera di Plauto, isolano un singolo brano e lo presentano come prova definitiva e inconfutabile delle loro inquiete quanto vane elucubrazioni. Se poi uno li contesta, ecco che lo accusano di essere "disonesto". Queste sono le citazioni dei nostri avversari: 

"C'è invece una testimonianza contraria alla restituta in Plauto e consiste in un gioco di parole, tra "socia" e "sosia" (Amphitruo 218), che sarebbe stato impossibile se davvero si fosse detto "sokia"."

"Errata Corrige post precedente
1) non Socia ma socium
Questo è il brano dell'Amphitrio:
italiano
MERCURIO: Dicevi di essere "Sosia", (servo) di Anfitrione.
SOSIA: Mi ero sbagliato: volevo dire di essere "socio" di Anfitrione.
Latino
MERC.: Amphitruonis te esse aiebas Sosiam.
SOS.: Peccaveram, nam Amphitruonis socium memet esse volui dicere"

Fatto questo, arrivano a ventilare l'ipotesi di un complotto. Così affermano che i fautori della pronuncia restituta del latino, da loro assimilati a una setta occultista, avrebbero usato la loro supposta influenza per tenere nascosti i fatidici versi di Plauto:

"Spero che tu sappia com'è la 'scienza' linguistica, che quel brano è stato proposto più volte per essere emendato, mi riferisco al famoso brano “scomodo” di Plauto, dove non era concepibile che 'Sosia' potesse essere confuso con 'socium', il 'soKium' della restituta, ma nessuna correzione, grazie al cielo, è stata ritenuta del tutto convincente nel 1800 (chiedimi i riferimenti che te li do) e si è preferito nel 1900 passare il brano sotto silenzio, sperando che tutti lo dimenticassero. Invece, stranamente, in silenzio, a differenza di tanti altri persi e corretti, il brano si è conservato."

Certo, certo, ci sono in ballo i terribili Rettiliani, i Rotschild e gli Illuminati. E c'è anche la marmotta che confeziona la cioccolata!  


Motivo di questo complotto: i fautori della restituta tremerebbero di terrore alla sola menzione del gioco di parole tra socium e Sosiam, presentato come evidenza della pronuncia ecclesiastica /'sočus/ vigente dalla notte dei tempi. Magari i sostenitori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno potrebbero sottoporre il caso a Cacioppo e vedersi dedicare qualche minuto in Kazzenger.

Sgombriamo ora il campo da questi vaniloqui cospirazionisti.

Già il Lindsay liquidava questo ridicolo argomento in modo molto efficace. Riporto la traduzione in italiano delle sue considerazioni, affinché tutti gli eventuali lettori le comprendano (The Latin Language, 1894, § 94, pag. 87-88):

« Sul fatto che c e g rimanessero dure davanti ad e, i e consonante (quando non seguiva una vocale), fino al sesto e al settimo secolo d.C., abbiamo una sovrabbondanza di prove. Per il periodo precedente, possiamo notare il fatto che in umbro, dove c (k) davanti a una vocale stretta* divenne una sibilante ed esprimeva il suono con un segno particolare nell'alfabeto latino, la lettera latina c non fu usata per questo suono nelle iscrizioni (dal tempo dei Gracchi) scritte in caratteri latini, ma usava una s modificata, per la precisione una s con un segno simile a un accento grave su di essa, es. desˋen (Lat. decem), sˋesna (Lat. cena). Che Plauto (che tra l'altro era umbro) faccia un gioco di parole su Sosia e socius, non prova nulla (Amph. 383) :

ÁMPHITRUONIS TE ÉSSE AIEBAS SO/SIAM.- PECCÁUERAM :
NAM 'ÁMPHITRUONIS SÓCIUM' DUDUM ME ÉSSE VOLUI DICERE.
 

Egli fa un gioco su arcem ed arcam in Bacch. 943 :

ATQUE HIC EQUOS NON IN ARCEM VERUM IN ARCAM FACIET IMPETUM. » 

*In inglese sono chiamate "narrow vowels" le vocali anteriori.

Le parole arcem /'arkem/ e arcam /'arkam/ sono senza dubbio state ideate come assonanti, avendo radici omofone /ark-/ e desinenze entrambe nasalizzate, seppur con vocali diverse.

Sul fatto stesso che socium e Sosiam fossero stati ritenuti da Plauto come una reale assonanza, mi permetto invece di nutrire qualche dubbio. A prescindere dalla differenza di consonante (che sussisterebbe anche ammettendo una palatalizzazione), la finale -am non poteva somigliare molto a -um. Le vocali atone di arcem e arcam non mostrano la drammatica distanza di una -u- da una -a-, che si trovano ai capi opposti di uno spettro sonoro. Ciò che Plauto intendeva mettere in scena non era un'assonanza, ma un fraintendimento. Ha attribuito alla macchietta Sosia l'idea che Mercurio avesse i tappi di cerume nelle orecchie. 

Né si può ammettere il cosiddetto "argomento di Stalin", così chiamato dal fatto che il dittatore georgiano, parlando male il russo, tendeva a sorvolare sulle desinenze realizzandole in maniera inistinta. Il parlante latino doveva essere per necessità ben attento alle desinenze, specie in epoca antica, essendo esse determinanti nell'attribuire senso compiuto alle frasi, molto più di quanto non fosse la posizione delle parole nella frase. I moderni non sono abituati a tutto ciò e si lasciano spesso ingannare da una frase come "philosophum non facit barba".

Se anche socium e Sosiam fossero stati concepiti come assonanti nella radice, si potrebbe ammettere che Plauto abbia fatto uso a fini scenici di una pronuncia alterata, che presentava per l'appunto il suono /š/ davanti a vocale anteriore. Questo non dimostrerebbe nulla a proposito della pronuncia ecclesiastica, che è del tutto diversa e ha un'affricata /č/ che difficilmente potrebbe essere confusa con una s. Per la natura del suono, una parola con /č/ non sfuggirebbe a un orecchio anche poco attento. 

In altre parole, se anche Plauto avesse inteso usare tratti fonetici della sua nativa lingua umbra, riproducendo socius /'sokjus, 'sokius/ come /'sošjus/, la cosa non avrebbe alcun valore probante. L'intera questione non avrebbe niente a che fare con gli sviluppi del latino nelle lingue romanze. 

Le pronunce guittesche sono sempre state comuni: l'attore per necessità tende a deformare il linguaggio oltre ad ogni limite, creando addirittura propri dialetti che non sono necessariamente parlati da altri. In quest'epoca di oscenità e di degenerazione, i guitti del Circo Zelig e di Striscia la Notizia ci hanno abituati a ogni sorta di alterazione della pronuncia al fine di destare ilarità negli spettatori. C'era uno di questi comici che usava pronunciare la finale come , dando quasi l'impressione di esibirsi in incauti pseudo-francesismi - così se ne usciva sempre con l'esclamazione "un po' di umiltè". Una volta mi capitò di imbattermi in un altro comico, che cantava "la solitüdine" e favoleggiava di una fantomatica partita Seregno-Pitügno (Seregno è la mia città natale, mentre Pitugno è semplice parto di fantasia). Un altro ancora aveva tentato un esperimento bislacco, alterando l'italiano come se la velare -c- del latino non si fosse mai palatalizzata, e così diceva "i miei amiki". Tuttavia non era arrivato a fare altrettanto con -g- e diceva regolarmente "gente", etc. Ricordo anche uno sketch di Gigi e Andrea, in cui quest'ultimo, travestito da anziana signora, sostituiva a ogni /w/ una /v/, dicendo "una svora", "la svocera", e la memoria non m'inganna addirittura "Edvardo". Cosa dedurrebbero ipotetici studiosi di un lontano futuro analizzando simili documenti? Ammettendo che le testimonianze di questo nulla mediatico possano durare tanto, potrebbero essere portati a trarne, specie in mancanza di informazioni, deduzioni erronee.

Conclusioni

Il solo pensiero di espungere o di emendare un brano come quello dell'Amphitruo è un'assurdità. Bisogna partire dai dati di fatto e capire il perché di ciò che si osserva, non piegare la realtà dei fatti alle proprie idee preconcette, come fanno i nostri avversari. In questo post ho preso il dato di fatto e ne ho fornito una spiegazione in linea con quanto sappiamo della fonetica della lingua latina e dei suoi mutamenti nel corso dei secoli. Se poi altri non hanno fiducia nella linguistica e preferiscono votarsi alla pseudoscienza, non farò passare i loro sproloqui: sarò sempre uno strenuo combattente determinato a contrastarli.

venerdì 10 luglio 2015

PROVE ESTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: NEOGRECO SPITI 'CASA'

In greco moderno (neogreco) la parola per dire casa è σπίτι /'spiti/. Questo vocabolo differisce drammaticamente dal greco antico οἶκος /'oikos/, che è andato perduto nell'uso popolare. Qual è l'etimologia di questo singolare σπίτι? Semplice: è il latino hospitium "ospitalità; alloggio"

Come si può vedere, il vocabolo latino, che suonava /(h)o'spitju(m)/ in epoca classica (l'aspirazione iniziale doveva essere tenue e molti parlanti non la realizzavano), è passato in greco prima dell'inizio dell'assibilazione e ha conservato l'occlusiva dentale integra, che si ritrova ancora ai nostri giorni in /'spiti/.

Insistiamo sulla natura volgare del prestito, che non è stato preso da una forma letteraria, ma dalla viva voce. È del tutto evidente che se per assurdo la parola avesse avuto in epoca antica la pronuncia /o'spitsjum/ del latino ecclesiastico, questo suono /ts/ sarebbe stato conservato e trascritto in greco in un modo immediatamente riconoscibile, ad esempio con il digramma τζ: così avremmo avuto *σπίτζι, il che non è.

PROVE ESTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: CAESAR IN GERMANICO COMUNE

Il cognomen Caesar passò direttamente nel germanico comune come *kaisaraz (-az è una semplice desinenza del nominativo singolare maschile dei nomi col tema in -a-), donde ne discende tra l'altro il tedesco moderno Kaiser "Imperatore". Possiamo ipotizzare con ottime basi che il prestito avvenne durante la vita dello stesso Caio Giulio Cesare, che attraversò il Reno e si inoltrò nella Germania. Le popolazioni che ebbero a che fare con lui ne furono molto impressionate e il suo nome conobbe grande fortuna, fino ad essere sulla bocca di tutti i Germani in breve tempo.

Attestazioni in lingue germaniche antiche di discendenti di *kaisar- "Imperatore":

Gotico di Wulfila: Kaisar (IV sec.)
Antico inglese: Cāsere (Beda, VIII sec.)
Antico alto tedesco: Keisar, Keisur, Cheisur, etc.
    
(IX sec.)
Antico sassone: Kēsar, Kēsur (IX sec.)
Norreno: Keisari (saghe islandesi, XIII sec.)

È evidente che queste forme continuano tutte in modo assolutamente regolare la radice del proto-germanico *kaisaraz, l'unica cosa singolare è il tema in nasale in norreno. L'aspetto fonetico del prestito mostra la struttura fonetica che il cognomen aveva in latino classico. Il mutamento di -ai- in -a:- in anglosassone è del tutto regolare (cfr. *stainaz > sta:n "pietra"), come il mutamento di -ai- in -ei- in antico alto tedesco e in norreno, come anche la monottongazione di -ai- in -e:- in antico sassone.

Peccano gravemente contro il metodo scientifico coloro che ritengono il tedesco Kaiser come una forma recente e quindi non comparabile con il nome di Cesare. Costoro hanno le seguenti colpe, che espongo al pubblico ludibrio:

1) Essi non soltanto ignorano le attestazioni delle lingue germaniche antiche, ma si rifiutano di studiare qualsiasi concetto abbia anche lontanamente a che fare con la filologia germanica;
2) Essi credono che il suono delle parole non possa subire mutamenti di sorta col passar dei secoli e negano l'esistenza di leggi fonetiche;
3) Quando fa loro comodo, essi dichiarano una parola tedesca "recente", senza ovviamente porsi il problema delle sue origini, come se fosse scaturita dal nulla;
4) Essi ignorano le fonti e non vogliono fare ricerche per appurare se qualcosa da loro asserito è o meno vero: l'opinione che è loro più utile diventa dogma; 
5) Essi traggono conclusioni generali da fatti particolari.

Questa è la procedura dialettica usata:

a) Postulato fallace: Kaiser è forma recente e non analizzabile (cosa non vera);
b) Primo passo dal postulato fallace: Kaiser non può essere utilizzato per fare deduzioni sul suono di Caesar in epoca classica;
c) Secondo passo dal postulato fallace: Caesar non poteva quindi suonare /'kaesar/ (errore logico denominato "non sequitur"). 

Sarebbe anche ora che tutti gli internauti adottassero una strategia semplicissima. Anziché uscirsene con affermazioni arbitrarie dettate dalla loro prosopopea, farebbero meglio a fare qualche semplice ed intelligente ricerca incrociata nel Web per controllare il valore delle proprie affermazioni - e se questo non basta cerchino su libri cartacei.

La scuola italiana è stata fondata su precisi investimenti ideologici. L'avversione per le indagini sulla vera pronuncia del latino classico nasce essenzialmente dal terrore che leggendo correttamente CAESAR si capisca che il suo suono è quasi quello di KAISER - essendo chiaramente i due nomi la stessa identica cosa.

giovedì 9 luglio 2015

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: SVILUPPI DI -G- INTERVOCALICA DAVANTI A -I- IN ITALIANO

Così scrive il Grandgent nel suo Introduzione allo studio del latino volgare:

259. G' verso il quarto secolo diventò prepalatale e si allargò in y, così nel latino popolare come nell'ecclesiastico: Gerapolis per Hierapolis, Per., 61, 3; "calcostegis non calcosteis", App. Pr.: CON.GI.GI = conjugi, S., 349; geinna = jejuna, Stolz, 275, Neumann, 5, Lat. Spr., 473; GENVARIVS, S., 239; GENARIVS, Pirson, 75; agebat = aiebat, Ienubam = Genavam, ingens = iniens, Bon. 173; agebat = aiebat, agere = aiere, Sepulcri, 205; Gepte, Tragani, Troge, Haag, 33; iesta, D'Arbois, 10. Ma prima che ciò avvenisse, frĭgĭdus nella maggior parte dell'impero era divenuto frįgdus (App. Pr., « frigida non fricda »), vĭgĭlat *vįglat e digitus in alcuni luoghi era divenuto dįctus (Franz. ∂, 1, 15-16): cfr. § 233.
Questo y, quando era intervocalico, si fuse, in quasi tutto l'impero, con e o i seguenti, se erano accentati: magĭster > *mayįster > maẹster; così *pa(g)é(n)sis, re(g)ína, vi(g)ínti, ecc.; così è forse da dire la proclitica ma(g)is. Cfr. Agrientum, βειεντι = vigínti, μαειστρο, ecc., Vok., II, 461 (cfr. maestati, Vok. II, 460); trienta, S., 349, Pirson, 97; quarranta = quadraginta, Pirsono, 97; aeliens, colliens, diriens, negliencia, Haag, 34; recolliendo, ecc. F. Diez, Grammaire des langues romanes, I, 250. Postonico e dopo consonante, l'y di regola rimase, tranne quando la sua scomparsa fu portata dall'analogia (come in colliens per *colliente, ecc.); légit, léges, plangit, argéntum. Ma talvolta si fuse nei parossitoni con un i seguente: roitus (= rógitus = rogátus), Vok., II, 461.
La Spagna, una parte del sud-ovest della Gallia, parte della Sardegna, della Sicilia e del sud-ovest d'Italiarimasero al grado y; altrove l'y proseguì il suo sviluppo nelle lingue romanze. Cfr. Lat. Srp., 473 (1)

(1) Un po' di luce sulla seriore pronuncia ecclesiastica ci è data dal ragguaglio contenuto in un frammento di trattato del decimo secolo sulla pronuncia latina, Thurot, 77,, secondo cui g ha il "proprio suono" (cioè quello dell'italiano g in gente) davanti ad e e i, ma è debole davanti ad altre vocali.

Già abbiamo trattato diversi casi di evoluzione della velare -g- intervocalica davanti a vocale anteriore: 


Passiamo ora ad altri casi non meno significativi, anche se non coinvolgono arretramenti dell'accento e cadute di vocali tra due consonanti.

Si vede come in diverse e importanti parole una occlusiva velare -g- intervocalica si è indebolita nella semiconsonante /j/ fino a scomparire se seguita da -e- e da -i-.

Il latino magis si è evoluto in /'majis/, dando origine all'italiano mai e ma.

Il latino magistru(m), accusativo di magister, si è evoluto in /ma'jistru/ e ha finito col dare in italiano maestro

Il latino sagitta si è evoluto in /sa'jitta/ e ha finito col dare in italiano saetta.

Se per assurdo la pronuncia di queste parole avesse avuto ab aeterno la consonante affricata /dʒ/ tipica del latino ecclesiastico, come pretendono i nostri avversari, questa non sarebbe scomparsa nel nulla, dato che non è nella natura di tale suono dileguarsi: avremmo *magi, *magestro e *sagetta

Si vede che la consonante /dʒ/ si è sviluppata a partire da /j/ dove questo non è scomparso: un simile mutamento si riscontra in numerosissime lingue. 

Ovviamente parole come magistrale e sagittario non provano nulla, visto che sono state reintrodotte come parole dotte direttamente dal latino ecclesiastico.  

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: LA NATURA COMPOSTA DI ETIAM

Nel latino ecclesiastico, densissimo di congiunzioni e di avverbi, spicca la parola etiam "anche", pronunciata /'etsjam/. Qual è l'origine di questa congiunzione? Semplice, deriva dalla giustapposizione di et "e" con iam "già". L'assibilazione che ha portato alla pronuncia /'etsjam/ ha agito in posizione sintattica, dato che i fonemi /-t/ e /j-/ dal cui scontro è sorta appartengono a parole diverse.

È ben chiaro e di per sé autoevidente che /'etjam/ senza assibilazione deve essere stata la forma di partenza, perché questo ci dice l'etimologia. Sostenere che debba essere stato /'etsjam/ da sempre è un palpabile controsenso.

Così accade che i sostenitori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno debbano rinunciare all'etimologia della congiunzione in questione, scegliendo assurdamente di ritenerla una parola inanalizzabile pur di salvare il loro preconcetto dogmatico.

Casi di alterazione di consonanti in condizioni simili si davano nel latino tardo e volgare, perdurando ancora nelle lingue romanze. Ad esempio abbiamo il latino postea "poi, in seguito", alla lettera post ea "dopo queste cose", che si è evoluto nell'italiano poscia (ormai in disuso). Allo stesso modo ante id "davanti a ciò" si è evoluto nell'italiano anzi; confronta anche latino antea "una volta, in precedenza", per ante ea "prima di queste cose".  

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: IL DITTONGO SECONDARIO IN AES E L'AGGETTIVO AHENUS

Il vocabolo latino aes, gen. aeris "rame, bronzo", deriva da un precedente *aies-, che corrisponde al sanscrito ayas- "metallo; ferro". La pronuncia ecclesiastica di questo vocabolo mostra una vocale /e/. Non è possibile ciò che vanno affermando i nostri avversari, che questo vocabolo avesse una vocale /e/ ab aeterno. Notiamo innanzitutto il derivato aggettivale ahenus /a'e:nus/ "bronzeo" (variante aheneus /a'e:neus/) presente ad esempio nel cognomen Ahenobarbus, alla lettera "dalla barba del color del rame". Questo aggettivo deriva da un originario *aiesnos. Questi sono gli sviluppi occorsi:

1) *àies /'ajes/ > aes /aes/
2) *àiesnos /'ajesnos/ > *aèsnos /a'eznos/ > ahenus /a'e:nus/

Nel primo caso la semiconsonante mediana si è dileguata e si è formato un dittongo secondario.
Nel secondo caso l'accento si è spostato sulla seconda sillaba e si è creato un iato, marcato graficamente da una lettera h, a cui non corrisponde alcuna aspirazione (come del resto in altre occorrenze di -h- mediana già documentati dai grammatici). L'ipotesi più probabile è che gli antichi usassero il carattere h per marcare un'occlusiva glottidale che ricorreva per separare vocali non appartenenti alla stessa sillaba.

L'opposizione tra aes, aeris e ahenus prova che forme come /aes/, /'aeris/ hanno un loro fondamento etimologico inattaccabile e sono anteriori a forme monottongate come /ɛ:s/, /'ɛ:ris/ sviluppatesi in seguito.

mercoledì 1 luglio 2015

LINGUA LONGOBARDA E LINGUA CIMBRA: SECONDI O TERZI CUGINI - parte 5

Conclusioni

Il diverso trattamento dei dittonghi proto-germanici /ai/ e /au/ in sillaba tonica nella lingua dei Longobardi e in quella dei Cimbri è subito evidente dagli esempi da me riportati, basta solo avere un po' di pazienza. Trovo strano che la cosa sia sfuggita in modo sistematico a Schweizer, Bellotto e Bidese. Eppure è sufficiente confrontare una lista di radici estratte da antroponimi longobardi con i corrispondenti vocaboli cimbri per capirlo senza possibilità di errore. Ecco una sintesi: 

1) Dove l'antico alto tedesco ha il monottongo /o:/ dal proto-germanico /au/, il cimbro ha il dittongo [ɔɑ̯] (es. proat "pane").
2) Dove l'antico alto tedesco ha il dittongo /ou/ dal proto-germanico /au/, il cimbro ha il monottongo [o:], ben diverso dal suono [
ɔɑ̯] di cui sopra (es. pome "albero").

Da questi fatti si può dedurre una semplice prova empirica, che a partire da un qualsiasi dialetto tedesco odierno è in grado di smentire all'istante ogni tentativo di ritenerlo un discendente della lingua longobarda. Si prendano ad esempio le seguenti parole: "rosso" (tedesco standard rot), "pane" (tedesco standard Brot) e "morte" (tedesco standard Tod). Se qualcuno fosse in grado di trovare anche una sola varietà di tedesco in cui tali parole hanno lo stesso dittongo delle parole per dire "albero" (tedesco standard Baum), "polvere" (tedesco standard Staub) e "porro" (tedesco standard Lauch), allora si sarebbe trovato qualcosa di davvero eccezionale. Questo però non avviene. Ne consegue che le varietà della lingua cimbra non discendono dalla lingua dei Longobardi, che si è separata dal resto dell'antico alto tedesco molto tempo prima.

Qualcuno potrebbe obiettare che sto comparando due lingue sfasate di oltre mille anni, dato che i lemmi del longobardo ricostruito si basano su materiale del VII-VIII secolo e quelli del cimbro di Giazza su attestazioni e documenti del XIX-XX secolo. In altre parole, il longobardo avrebbe potuto subire cambiamenti fonetici anche notevoli se fosse sopravvissuto fino ad oggi. Questo è vero, e in effetti ci sono prove di mutamenti davvero bizzarri nella fase finale della lingua. Tuttavia non sarebbero stati gli stessi sviluppi occorsi in altre varietà dell'antico alto tedesco, a causa dell'isolamento delle popolazioni longobarde dopo la fine del Regno. 

Altri diranno che ho fornito in realtà una prova della quasi identità tra longobardo e cimbro, dato che sono numerosissime le coincidenze e le quasi coincidenze tra i vocaboli da me riportati. Si tratta tuttavia di un'osservazione abbastanza oziosa, visto che si tratta in ogni caso di lingue discendenti da un antenato comune che condividono numerose caratteristiche. Queste somiglianze non sono infatti di alcun aiuto al fine di dimostrare o di confutare l'ipotesi di una continuità tra longobardo e cimbro - mentre le divergenze nello sviluppo dei dittonghi hanno il potere di fornire la confutazione, per quanto possano sembrare dettagli insignificanti.

In entrambe le lingue esistono parole distinte grazie all'opposizione di fonemi con cui i parlanti lingue romanze hanno poca dimestichezza, e numerosi contesti fonetici sono sorprendentemente simili. Riporto pochi esempi.

Due coppie minime in longobardo:

graus [graʊ̯s] "orribile"  
graus [graʊ̯s̪] "grande" 

ring [riŋg] "anello"
rinc [riŋkh] "guerriero"

Una coppia minima in cimbro di Giazza: 

nauc [naʊ̯k] "nuovo"
nauk [naʊ̯kx] "schiaccia!"

Se tante sono le somiglianze, altrettante sono le differenze, anche nel lessico. Esistono moltissime parole longobarde che non hanno nessun corrispondente in cimbro. Il cimbro ignora ad esempio alcune comuni denominazioni del maiale, che invece si trovano in longobardo:

gris [gri:s] "maiale"
pair [paɪ̯r] "porco"

Esiste tutto un mondo concettuale che i Cimbri non hanno conservato, un patrimonio relativo a termini poetici, kenningar, vocaboli dotti e simili. I Longobardi mantenevano, come tutti i Germani antichi, questa eredità di tempi remoti, che è lontanissima dai concetti del mondo moderno. Anche i nomi di divinità pagane sono da tempo immemorabile sprofondati nell'oblio in tutta l'area cimbra, mentre in longobardo rimasero a lungo vitali. Data la grande disparità cronologica, non si può fare un raffronto sensato basandosi su queste realtà.

Non tutto il materiale lessicale del cimbro è arcaico: esistono moltissimi prestiti da varietà di romanzo, che in numerosi casi hanno subito mutamenti fonetici come la formazione di dittonghi da vocali lunghe. Questi sono alcuni esempi: 

bronzi~ [bron'tsi:n] "campanello delle vacche" 
cami~ [ka'mi:n] "camino" 
casu~ [ka'zu:n] "baita, malga" 
catzoul [ka'tsɔʊ̯l] "cazzuola" 
comau~ [ko'maʊ̯n] "comune" 
presau~ [pre'zaʊ̯n] "prigione" 
rami~ [ra'mi:n] "contenitore di rame" 
roncau~ [roŋ'kaʊ̯n] "roncola" 
 
I prestiti dal tardo latino e dal protoromanzo in longobardo erano con ogni probabilità abbastanza numerosi, ma mi sento di dire che erano di diverso genere rispetto a quelli che si trovano in cimbro. Solo per fare un esempio si deduce l'esistenza di castel ['kastel] "castello" e di castelman ['kastelman] "castellano", a partire dall'antroponimo Castelmannus.  

Si possono citare infine alcuni falsi amici, parole che suonano in modo identico o quasi in longobardo e in cimbro, pur avendo significato dissimile:

Longobardo maur [maʊ̯r] "terreno paludoso" (n.)
Cimbro
maur [maʊ̯r] "muro"

Longobardo paissan ['paɪ̯s̪s̪an] "frenare"
Cimbro paizan ['paɪ̯s̪s̪an] "mordere"

Longobardo parn [parn] "bambino"
Cimbro parn [parn] "greppia, presepe"

Longobardo raude ['raʊ̯de] "rossi"
Cimbro raude ['raʊ̯de] "rogna"

Longobardo rinc [riŋkh] "guerriero"
Cimbro rink [riŋkx] "anello" 

L'idea classica dell'origine dei Cimbri a partire da ondate di colonizzazione dalla Baviera rimane valida. Al massimo si può retrodatare l'inizio di tale popolamento al XI secolo, come alcuni suggeriscono con fondati argomenti (Panieri, 2008). Non sono riuscito a trovare vocaboli cimbri risalenti a un possibile sostrato longobardo: se anche i Bavaresi si fossero innestati su una precedente popolazione longobarda, ne avrebbero sostituito completamente la lingua. 
 

LINGUA LONGOBARDA E LINGUA CIMBRA: SECONDI O TERZI CUGINI - parte 4

Raccolta di locuzioni e di frasi

Note: 

Longobardo = conlang neolongobarda  

Cimbro = cimbro di Giazza (Ljetzan)  
     Fonti: Cappelletti-Schweizer 1942, con alcuni adattamenti ortografici - salvo diversamente indicato. Alcune locuzioni cimbre sono state formate a partire dal materiale contenuto nella  suddetta opera. 

Trascrizione fonetica in caratteri IPA.  

Il longobardo conserva il genitivo, mentre il cimbro di Giazza lo ha rimpiazzato con una costruzione diversa: 

Longobardo peron erza ['pɛron 'ɛrtsa] "cuore di orso" 
Cimbro heartz on pearen ['hɛɑ̯rts on 'pɛɑ̯ren]*

Longobardo rammes federa ['rammes 'fɛdera]
    "piuma di corvo"
 

Cimbro vedar on rame ['vɛdar on 'rame] 

Longobardo ulfes plod ['ulfes 'plo:d] "sangue di lupo"  
Cimbro pljuat on bolve ['pljuɑ̯t on 'bɔlve] 

Longobardo mines fader us ['mi:nes 'fader 'u:s]
    "la casa di mio padre" 

 Cimbro iz haus on maime vater [is̪ 'haʊ̯s on maɪ̯me 'vater]

*Cappelletti-Schweizer riporta paime hearte dentro al cuore, evidentemente un refuso per paime heartze, come provato da altre fonti (es. mai heartz "il mio cuore" si trova in Piazzola, 2004). 

L'uso del dativo e dell'accusativo è invece molto simile nelle due lingue: 

Longobardo minemo proder ['mi:nemo 'pro:der]
     "a mio fratello"

Cimbro maime pruodar [maɪ̯me 'pruo̯dar] 

Longobardo thisemo man ['θisemo 'man]
    "a quest'uomo"
 

Cimbro disame manne ['disame 'manne]

Longobardo godan tach ['go:dan 'taχ] "buon giorno"
Cimbro
guatan tak ['guɑ̯tan 'takh

Longobardo godan tach allen ['go:dan 'taχ 'alle:n]
    "buon giorno a tutti"

Cimbro
guatan tak in aljan
['guɑ̯tan 'takx in 'aʎan] 

Alcune forme verbali e una breve miscellanea di frasi

Longobardo ih quidu thir [iç 'khwidu θir] "io ti dico"
Cimbro i kudedar [i 'kxudedar]


Longobardo ih quidu imo [iç 'khwidu imo] "io gli dico"
Cimbro i kudeime [i 'kxudeime] 


Longobardo er quidit mir [ɛr 'khwidit mir]
     "egli mi dice"

Cimbro er kaupar [
ɛr 'kxaʊ̯par]  

Longobardo se quedand uns [se: 'khwɛdand uns]
    "essi ci dicono"

Cimbro si kounus [si
'kx
ɔʊ̯nus]   

Longobardo guemo chipistu thaz? [gwɛmo 'kipistu 'θats]
    "a chi dai questo?"
 

Cimbro beme gisto daz [bɛme 'gisto 'das̪] 

Longobardo guiu suigostu? [gwiʊ̯ 'swi:go:stu?]
    "perché taci?"

Cimbro bau sbaigasto [baʊ̯ 'zbaɪ̯gasto?] 

Longobardo iz ist min [its ist 'mi:n] "è mio" 
Cimbro z ist mai~ [s̪ist main]  

Longobardo min proder ist god [mi:n 'pro:der ist 'go:d]
    "mio fratello è buono"
 

Cimbro mai~ pruodar ist guat [main 'pruo̯dar ist 'guɑ̯t] 

Longobardo ther passi guirdit graus [θɛr 'paʃʃi 'gwirdit 'graʊ̯s̪]
    "il torrente si ingrossa"
 
Cimbro
inj pax kint groaz [i
ɲ 'pax kxint 'grɔɑ̯s̪]

Longobardo ther und geng in themo use [θɛr 'und 'ge:ŋg in θɛmo 
   'u:se] "il cane è andato nella casa"
Cimbro inj hunt ist gangat inj ime hause
     [iɲ 'hunt ist 'gaŋgat iɲ ime 'ha
ʊ̯ze]

Longobardo ther und nist indar themo use, er is undar themo tische
  [θɛr 'und nist 'indar θɛmo 'u:se, 'ɛr ist 'undar θɛmo 'tiske]
    "il cane non è dietro la casa, è sotto il tavolo"

Cimbro inj hunt ist nicht hintar me hause, er ist unter me tisch
  [iɲ 'hunt ist 'niçt 'hintar me 'haʊ̯ze, 'ɛr ist 'unter me 'tiʃ]
 

Longobardo the undos ni sind indar then usiron, se sind undar then
  tiscon [θe: 'undos ni sind 'indar θe:n 'u:siron, se: sind 'undar θe:n
  'tiskon]
    "i cani non sono dietro le case, sono sotto i tavoli"

Cimbro de hunte sain nicht hintar de hausar, se sind untar de tische
  [de 'hunte sain 'niçt 'hintar me 'haʊ̯zar, 'se sain 'untar de 'tiʃe]

Longobardo min moder scal queman morgine tzo princan mir gild
  min [
mi:n 'mo:der skal 'khwɛman 'mɔrgine tso: 'priŋkan mir 'gild
  'mi:n]
     "mia madre deve venire domani a portarmi il mio denaro"
 
Cimbro mai
~ muatar mougat ken morgan tze pringamar maine
  marcitan [maɪ̯n 'mu
ɑ̯tar 'mɔʊ̯gat 'kxɛ:n 'mɔrgan tse 'priŋgamar
  maɪ̯ne mar'kitan]

Chiudiamo infine con una stringata sentenza che farà saltare i nervi alle donzelle 😀: 

Longobardo Guaz tot thius magat mit theru alesnu cahandon?
  Iz guari patz si abedi nadela andi fadom.
  [gwats 'to:t θiʊ̯s 'magat mit θɛru 'alesnu ka'handon? its 'gwa:ri
  'pats si: 'aβe:di 'na:dela andi 'fadom]
    "Che cosa fa quella ragazza con la lesina in mano? Sarebbe
    meglio se avesse ago e  filo."

Cimbro
Ba tuat disa diarn pitar aal in de hênte? Iz bêr paz, mo si
   hête a nadal un vann.
    [ba 'tuɑ̯t diza 'diɑ̯rn pitar 'a:l in de 'hænte? is̪ b
æ:r 'pas̪ mo si 
    'hæ:te a 'na:dal un 'van]