domenica 26 ottobre 2014

IL MISTERIOSO POPOLO ANTROPOFAGO DEGLI ATTACOTTI

Lo storico Ammiano Marcellino (IV secolo d.C) ci parla degli Attacotti come di un popolo di grande bellicosità giunto in Britannia dall'Ibernia (l'attuale Irlanda), citandolo assieme agli Scoti, ai Picti e ai Sassoni: 

"Illud tamen sufficiet dici, quod eo tempore Picti in duas gentes divisi, Dicaledones et Vecturiones, itidemque Attacotti, bellicosa hominum natio, et Scotti per diversa vagantes, multa populabantur."
(Res Gestae, XXVII) 

Esiste poi la notevole testimonianza di San Girolamo, sempre del IV secolo, che ci narra di essersi imbattuto in alcuni Attacotti mentre si trovava a Treviri, nella Gallia Belgica. Nel suo trattato Adversus Iovinianum (Contro Gioviniano) egli descrive le abitudini alimentari di diversi popoli e include alcune considerazioni sulle costumanze selvagge degli Attacotti: cannibalismo e promiscuità sessuale.   

"Quid de reliquis loquar nationibus? Cum ipse adolescentulus in Gallia viderim Atticotos humanis vesci carnibus, et cum per sylvas porcorum greges et armentorum pecudumque reperiant, pastorum nates et foeminarum papillas abscindere, et has solas ciborum delitias arbitrari. Iidem Scoti quasi Platonis rempublicam sequentes, nullam propriam habent coniugem, sed pro libidine, inquit, more pecudum lasciviunt."
(Adversus Iovinianum, II, 7) 
 

"Perché dovrei parlare di altre nazioni quando io stesso da giovane, durante una visita nelle Gallie, ho visto che gli Atticoti, una tribù della Britannia, mangiano carne umana, e che anche se nelle foreste trovano greggi di porci e mandrie di bestiame bovino piccolo e grande, è loro abitudine tagliar via le natiche dei pastori e i seni delle loro donne, e ritenere queste come le migliori leccornie? Gli stessi Scoti, come seguaci della Repubblica di Platone, non hanno mogli proprie, ma come bestie folleggiano spinti dalla libidine."   

Poco oltre egli descrive un diverso popolo aduso a mangiare vermi grassi con la testa nerastra, e un altro che si nutriva di coccodrilli di terra e ramarri.  

Nella sua lettera LXIX (ad Oceano), lo stesso autore raccomanda un'attitudine responsabile verso il matrimonio, e a un certo punto torna a confrontar Scoti e Attacotti alle genti della Repubblica di Platone, che hanno in comune le mogli e non discriminano la loro prole, privi di qualsiasi parvenza di matrinomio. 

"Audiant Ethnici messes Ecclesiae, de quibus quotidie horrea nostra complentur: audiant catechumeni, qui sunt fidei candidati, ne uxores ducant ante baptisma, ne honesta iungant matrimonia, sed Scotorum et Atticotorum ritu ac de Republica Platonis promiscuas uxores, communes liberos habeant."   

Come spesso accade, esiste l'opinione politically correct di alcuni studiosi che tendono a negare la realtà di testimonianze non in linea con il pensiero moderno. A questo scopo essi fanno notare che gli scrittori dell'antichità spesso nelle loro opere attribuivano abitudini esotiche a popolazioni lontane. Così dicono ad esempio: "Strabone scrive in un passo che alcuni Sarmati e Siti erano cannibali, mentre altri non mangiavano alcun tipo di carne". Cercano quindi di convincere che questi non siano resoconti di una realtà di fatto, ma invenzioni. Tutto questo lo fanno per motivi ideologici: se si dovesse ammettere che esistevano popolazioni di antropofagi, sarebbero costretti a giungere a conclusioni negative sulla natura umana. Essendo questi farisei fautori del buonismo e avendo una visione politica delle cose, pensano che la realtà debba piegarsi all'ideologia. Sfortunatamente per i dementi del socio-culturale, sono state trovate prove archeologiche inoppugnabili che testimoniano la diffusione del cannibalismo nell'antica Britannia. Di questo si dovrà parlare in un'altra occasione. 

Cosa possiamo dire in concreto su questo popolo? Il nome degli Attacotti presenta diverse varianti, come Atecocti, Aticotti, Attecotti, Attcoetti, Attacoti, Atticotti, Atecutti e persino Arecotti. L'etimologia non è trasparente, al punto che si è pensato trattarsi di un popolo non indoeuropeo e pre-celtico della Caledonia. L'unica parola celtica che potrebbe avere a che fare con questo nome è *kotto- "vecchio", documentata in antroponimi celtici continentali come Cottus e sopravvissuta nel gallese coth "vecchio". Anche il nome del famoso re alpino Cozio (Cotius), trascrizione di un originale *Kotios, potrebbe risalire a questa radice. La parte iniziale dell'etnonimo Attacotti potrebbe corrispondere al prefisso celtico *ate-, che ha valore iterativo (traduce lat. re-) o intensivo, meno probabilmente alla radice *atta-, *attio- "padre adottivo"Ate-cotti verrebbe quindi da un teonimo significante "Molto Vecchio". Tuttavia la grande varietà di forme fa pensare piuttosto a una falsa etimologia, al tentativo di celtizzare qualcosa di incomprensibile. Resta poi il fatto che la radice celtica *kotto- non ha alcuna connessione attendibile in altre lingue indoeuropee.  

Probabilmente già nel XVII secolo, e di certo nei secoli XVIII e XIX, alcuni autori irlandesi, come ad esempio Charles O'Conor e John O'Donovan, hanno proposto che gli Attacotti fossero una popolazione originaria dell'Irlanda. Questa tesi si fondava sull'assonanza tra la forma latina Attacotti e il termine antico irlandese aithechthúatha, che designa alcuni gruppi di popolazione irlandese ed è tradotto come "tribù vassalle" o "genti tributarie". Nel contesto delle ben attestate scorrerie irlandesi lungo la costa occidentale della Britannia nel periodo del tardo Impero Romano, è stato suggerito che uno o più di questi gruppi tribali corrisponda ai razziatori descritti da Ammiano nel IV secolo. Alla tesi fu data risonanza quando lo storico Charles O'Conor la sostenne nel tardo XVIII secolo (1783). Tuttavia, tutto ciò rimase controverso tra gli studiosi fino al tardo XIX secolo. 

Più tardi gli studiosi hanno respinto questi argomenti criticando la possibile connessione tra l'etnonimo Attacotti e il vocabolo antico irlandese aithechthúatha sulla base dell'etimologia. I precedenti studiosi avevano fondato le loro ipotesi sull'antico irlandese conosciuto dai manoscritti medievali anziché sul proto-ibernico usato nel IV secolo quando gli Attacotti fecero la loro comparsa in Britannia. 

La conoscenza e la comprensione della storia dell'antico irlandese sono state rivoluzionate verso la fine del XIX secolo,  in gran parte grazie agli studi di Rudolf Thurneysen (1857–1940), che è considerato il padre della moderna disciplina della filologia celtica. Egli è arrivato alla conclusione che Attacottiaithechthúatha sono forme non correlate, dato che la protoforma irlandese di aithechthúatha sarebbe *atewia:ko-touta:s, che tra l'altro è un plurale di genere femminile. Questa è troppo lontana dall'aspetto dell'etnonimo Attacotti citato da Ammiano. Anche se recenti ricerche hanno mostrato che le popolazioni irlandesi coinvolte nelle scorrerie ai danni di insediamenti romani della Britannia possono davvero essere classificate tra le genti chiamate nei manoscritti medievali aithechthúatha, il problema di identificazione rimane. Alcune versioni di San Girolamo hanno "Scotos" al posto di "Atticotos" in Adversus Iovinianum, II, 7, tuttavia da questo fatto non si può trarre alcuna conclusione: la semplice assonanza tra aithechthúathaAttacotti è ingannevole e non dimostra nulla. Del resto anche gli Scoti (Scotti), sulla cui provenienza irlandese non sussistono dubbi, hanno un etnonimo che non può essere spiegato nell'ambito della tradizione gaelica. 

mercoledì 22 ottobre 2014

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: DIVUS E DEUS

Alcuni si ostinano a credere che Romolo e Remo tra le altre cose avessero la consonante /v/ nel loro latino arcaico. Costoro sono come quei registi di filmacci da quattro soldi che ritraevano i Romani del V secolo d.C. con un gonnellino da Orazio Coclite: il loro peccato è l'anacronismo. 

La -u- tra due vocali, scritta con la consonante distinta -v- dai moderni, in epoca classica doveva avere il suono /w/, che si è poi trasformato in bilabiale /β/ e quindi in /v/. Se per assurdo fosse esistito il suono /v/ ab aeterno, non si potrebbe spiegare come mai oltre all'originale divus esistesse la forma abbreviata deus. La forma arcaica della parola era deiuos /deiwos/ (attestata nella cosiddetta iscrizione di Duenos come accusativo pl. /deiwo:s/), e da questa regolarmente si è sviluppata la forma divus /di:wus/: il dittongo /ei/ antico si è evoluto in /i:/. Tuttavia oltre alla forma /di:wus/, che pure si è conservata grazie al linguaggio dotto, ha avuto origine la forma contratta /deus/. Vediamo poi che il nominativo plurale dei /dei:/ si è ulteriormente evoluto in dii /dii:/ e infine contratto in di /di:/. Altre forme analoghe si trovano nella flessione di questa parola: dativo e ablativo plurale diis /dii:s/, contratto in dis /di:s/. A maggior ragione simili contrazioni non sarebbero mai state possibili se il suono consonantico intermedio non fosse stato molto fievole.  

Dalla stessa base deriva l'aggettivo divinus /di:'wi:nus/, attestato anche nella forma contratta dinus /di:nus/. In funzione di aggettivo, oltre a divus si trova anche dius /di:us/, f. dia /di:a/, la cui vocale tonica non ha subito correptio. Appartiene alla stessa radice il teonimo Diana, che sta per il più antico Diviana. La semantica potrebbe essere stata influenzata dalla parola etrusca tiv "luna", usata anche come teonimo. Tutti questi sviluppi sono difficili da immaginarsi se il suono fosse stato quello dell'italiano. 

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: SICILIA E SICULUS

Un'alternanza simile a quella vista in facilis - facul, facultas, ricorre anche nel toponimo Sicilia rispetto all'etnonimo Siculus, pl. Siculi. In questo caso possiamo però dire qualcosa di più, visto che nella lingua greca questi nomi ricorrono rispettivamente come Σικελία (Sikelia) e Σικελός (Sikelos), pl. Σικελοί (Sikeloi). A parte la posizione dell'accento, le forme riportate in greco possono ben essere state identiche alle protoforme da cui le parole latine in questione derivano:  

Sikelos > Siculus
Sikeloi > Siculi

L'origine della radice *sik- è sconosciuta e non indoeuropea. Si trova non soltanto nel nome dei Siculi, ma anche in quello dei Sicani, l'originaria popolazione della Sicilia. Questo pone gravi problemi che ancora oggi non sono risolti. I Siculi parlavano una lingua indoeuropea affine al latino, documentata in modo frammentario non soltanto da alcune glosse, ma anche da poche iscrizioni. Già Varrone aveva notato questa somiglianza con il latino. Era risaputo che i Siculi erano migrati dalla penisola e si pensava che avessero tratto il nome da un loro re, mentre i Sicani erano ritenuti i precedenti abitatori dell'isola. La loro origine è sconosciuta, e già nell'antichità regnava la confusione. Dionigi di Alicarnasso attribuiva ai Sicani una provenienza iberica sulla labile base di un idronimo ispanico. A quanto pare non era affatto diffusa l'idea che Siculi e Sicani fossero in qualche modo imparentati, in altre parole la somiglianza dei loro nomi era creduta frutto di una mera coincidenza.

Le soluzioni possibili sono diverse:

1) Sicani e Siculi erano in origine lo stesso popolo, poi i Siculi hanno adottato una lingua indoeuropea italica; 

2) Sicani e Siculi erano popoli diversi, ma la loro denominazione traeva origine da una stessa fonte (come gli Italioti e gli Italici);

3) Sicani e Siculi erano popoli diversi e l'assonanza dei loro nomi era una pura e semplice coincidenza. 

Purtroppo non c'è modo di fare chiarezza. In ogni caso, l'antichità della radice *sik- è indubitabile. Questo prova che in latino la palatalizzazione nel toponimo Sicilia è secondaria e tarda, dato che la sua forma d'origine aveva una consonante velare (dura). Ancora una volta i fautori della pronuncia palatale ecclesiastica ab aeterno non sono capaci di spiegare i dati di fatto. 

martedì 21 ottobre 2014

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: FACILIS E FACUL

I fautori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno pronunciano la parola facilis con un suono palatale, e credono che questa consonante non sia mai mutata per quanto indietro nei secoli si possa risalire. Tuttavia vediamo che non soltanto dall'aggettivo facilis si forma facultas, con suono ovviamente velare, ma che esisteva anche l'avverbio facul

Questo dimostra che il suono della -c- di facilis era velare. Le forme più antiche avevano la -u-, perché la -l finale di parola o seguito da altra consonante aveva un suono particolare, simile alla /l/ dura della lingua russa: per questo motivo la -i- atona si è oscurata e mutata in -u-. Questo suono è descritto dai grammatici ancora in epoca tarda. Prisciano di Cesarea (V. sec.) ci tramanda questo: 

"L triplicem, ut Plinio videtur, sonum habet: exilem quando geminatur secundo loco posita, ut il-le, Metel-lus; plenum, quando finit nomina vel syllabas et quando aliquam habet ante se in eadem sullaba consonantem, ut sol, silva, flavus, clarus; medium in aliis, ut lectus, lectum".
(Institutiones grammaticae, lib. I, 38) 

Consenzio (V sec.) scrive: 

"Romana lingua emendationem habet in hoc quoque distinctione. nam alicubi pinguius, alicubi exilius debet proferri. pinguius, cum uel b sequitur ut in balbo, uel c ut in pulchro, uel f ut in adelfis, uel g ut in alga, uel m ut in pulmone, uel p ut in Calpe. exilius autem proferenda est, ubicumque ab ea uerbum incipit, ut in lepore, lana, lupo, uel ubi in eodem uerbo et prior syllaba in hac finitur et sequens ab ea incipit, ut ille et Allia. haec sunt exempla de his tribus litteris, quas quasi praecipuas praeceptores notauerunt."
(Ars de barbarismis et metaplasmis)

Servio Mario Onorato (IV sec.) condanna altresì l'uso del suono tenue di -l- al posto di quello duro, chiamando questo vizio labdacismo:  

"Labdacismi fiunt, si aut unum <l> tenuius dicis, ut Lucius, aut geminum pinguius, ut Metellus." (Commentarius in artem Donati, De barbarismo)

Le vocali anteriori in facilis e forme flesse (facilem, facili, faciles, facilium, etc.) hanno fatto sì che la -l- non fosse dura, e che la vocale -i- fosse conservata. A questo si deve l'alternanza, che può spiegarsi soltanto ammettendo la correttezza della pronuncia restituta. Se fosse esistito un suono palatale fin dall'inizio, forme come facul e facultas non sarebbero mai esistite, e questo confuta le tesi dei nostri avversari. 

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: DECIMUS E DECUMUS

Coloro che pretendono di proiettare agli albori del tempo la pronuncia ecclesiastica del latino ignorano alcune cose che sembrano piccoli dettagli, ma che si rivelano invece di capitale importanza. Così essi credono assurdamente che la parola decimus avesse già in epoca classica lo stesso suono palatale dell'italiano decimo, e tralasciano il fatto che esisteva la variante decumus, che persino i preti della Chiesa Romana pronunciano in modo corretto con il suono duro (velare). Così l'aggettivo decumanus che ne deriva: l'onda immensa (lett. "decupla") è detta unda decumana. Sarei tentato di aggiungere anche gli Agri Decumates, ma l'origine del toponimo è purtroppo sconosciuta.  

Mentre si spiega agevolmente come la forma decimu(m) /dekimu-/ abbia subito nei secoli palatalizzazione fino ad arrivare ad essere pronunciata /dets'imu-/ e a svilupparsi infine nell'italiano decimo, è chiaro che il suono di partenza doveva essere velare. Coloro che ammettono un suono palatale ab aeterno sono del tutto incapaci di spiegare la presenza di decumus.  

La stessa -i- di decimus doveva avere un suono diverso dalla /i/, che è descritto come intermedio tra /i/ e /u/. Ricordiamo che l'Imperatore Claudio fece una riforma ortografica introducendo un segno apposito per indicarlo. La coppia decimus - decumus non è infatti la sola di questo genere. Troviamo anche le seguenti alternanze: 

maximus - maxumus
minimus - minumus
optimus - optumus
pessimus - pessumus 

Le forme con -u- sono soprattutto arcaiche. Si trovano anche forme verbali come legumus per legimus. Si evince quindi che la forma d'origine aveva una vocale posteriore, e che solo in un secondo tempo questa si è evoluta in un suono anteriore /i/. Soltanto dopo che questo è avvenuto, è iniziato il processo di prepalatalizzazione della consonante precedente. 

sabato 18 ottobre 2014

PRONUNCIA RESTITUTA: ALCUNI EQUIVOCI MARCHIANI DA SFATARE

Alcuni hanno ancora al giorno d'oggi un'assurda opinione: credono che la pronuncia restituta del latino derivi da cause recenti e artificiose. In genere citano le seguenti: 

1) La necessità di attribuire a ogni carattere un suono e di scrivere ogni suono con un carattere; 

2) La supposta assenza di suoni palatali nelle lingue del mondo germanico;  

3) L'opposizione alla Chiesa di Roma e alla sua tradizione nei paesi protestanti. 

Persino il famoso Bombolo, quello a cui Er Monnezza dava sberle di continuo, di certo capirebbe subito che queste sono spiegazioni farlocche e degne soltanto di ludibrio. Due sono le origini di questi risibili argomenti: l'ignoranza e la politica, entrambe nemiche giurate della Conoscenza.  

Nel primo caso, si ha un'ignoranza che non è semplice assenza di Conoscenza. La persona che non sa qualcosa è tecnicamente definibile come ignorante, ma non è questo il problema: chi non sa una cosa oggi può tramite lo studio e la ricerca saperla domani. Tutti possono errare, ma colui che segue la Conoscenza si documenterà, elaborerà le informazioni e correggerà i propri errori. Quello che definisce l'ignoranza di cui parlo in questa sede è invece la chiusura alla Conoscenza. La si può chiamare Ignoranza EssenzialeColui che è colpito da Ignoranza Essenziale - perché si tratta di una vera malattia ontologica - non vuole conoscere nulla che vada contro i propri pregiudizi. Come si è fatto un'idea, non prenderà nemmeno in considerazione qualsiasi cosa la possa contraddire. Non leggerà, non commenterà, non cercherà nemmeno di confutare, ma si limiterà ad insulti, assumendo il linguaggio minaccioso dei troll

Nel secondo caso, si ha la manipolazione dei dati di fatto, presentati in modo fuorviante per ingannare gli sprovveduti. La politica fonda la sua stessa esistenza su procedure maliziose. Sappiamo bene che motivi opportunistici possono portare i politicanti ad ignorare la Scienza e a creare a bella posta una realtà inesistente, sostenendo ad esempio che le malattie non possano per principio trasmettersi dalle popolazioni africane a quelle occidentali, perché sostenere il contrario implicherebbe fomentare "xenofobia" e "razzismo" (le virgolette sono d'obbligo, visto che di tali parole si fanno gli usi più impensabili e bizzarri). Allo stesso modo le classi dirigenti delle nazioni ignorano ogni fondamento di fisica nucleare e di radioprotezione, e di fronte a un'imponente contaminazione radioattiva, come quella che colpisce il Giappone e la California, affermano che non esiste alcuna evidenza che l'esposizione ai radionuclidi sia nociva e che i livelli sono nella norma (alzano ad arbitrio il valore massimo tollerabile).

Neppure la linguistica è immune a simili manipolazioni, anche se ovviamente si tratta di una disciplina che non ha la drammaticità della patologia e della fisica. Le procedure tuttavia sono le stesse: nascondere dati di fatto o darne interpretazioni distorte. Un esempio tipico è la teoria trollosa della difficoltà delle genti germaniche a pronunciare suoni palatali, che avrebbe portata i cattedratici inglesi e tedeschi ad "inventarsi" la pronuncia restituta. Ah sì? 

In inglese: English, chip, chop, Winchester, change, cheap, chest, cheese, pitch, jar, John, etc. 

In tedesco: Schuh, Schuster, Deutsch, Deutschland, Peitsche, Nietzsche, etc. 

Quale difficoltà, di grazia?

Per quanto riguarda l'idea di un attentato alla tradizione ecclesiastica ad opera di avversari della Chiesa di Roma, è evidente la natura politica di questa teoria, che non ha la benché minima attinenza con la realtà e ha in sé una forte componente emotiva. Coloro che sono sentimentalmente legati alla pronuncia ecclesiastica non riescono a quanto pare a capire una cosa fondamentale: la pronuncia restituta non è un'arbitraria riforma volta a introdurre una dizione valida per tutto ciò che è scritto in latino. La pronuncia restituta è semplicemente la ricostruzione della fonetica del latino classico. Dovrebbe essere chiaro a tutti che non ha alcun senso utilizzarla nella liturgia, nella lettura di documenti medievali o nei componimenti maccheronici della goliardia. 

domenica 12 ottobre 2014

LA PRONUNCIA ECCLESIASTICA DEL LATINO MOSTRA GRAVI INCONGRUENZE

La pronuncia ecclesiastica o scolastica del latino è paragonabile a un veicolo assemblato alla rinfusa usando pezzi provenienti da una Ferrari con altri provenienti da una Cinquecento. In certi tratti si mostra sorprendentemente arcaica, in certi altri troppo innovativa. Per capire questo, esponiamo in modo sintetico alcuni dati significativi. 

1) La consonante -m finale 

Il latino ecclesiastico mostra sempre una pronuncia forte della consonante finale -m. Così vediamo che solum è pronunciato con la stessa consonante finale dell'inglese fathom e del tedesco Freitum. Una volta mi capitò addirittura di sentire un luminare siciliano pronunciare bacterium come bakketériume.
I Romani avevano la tendenza a pronunciare questo suono in modo molto debole, così lo si trova spesso trascurato nella scrittura già in epoca antica. Doveva essere una lieve nasalizzazione della vocale, che ha lasciato traccia soltanto in alcuni monosillabi come cum e sum

Questo ci tramanda Prisciano di Cesarea (V sec.): 

"M obscurum in extremitate dictionum sonat ut 'templum', apertum in principio ut 'magnus', mediocre in mediis ut 'umbra'."
(Institutiones grammaticae, lib. I, 29)

Nella poesia addirittura le comuni terminazioni -am, -em, -um seguite da vocale scompaiono e non vengono contate come sillaba, cosa che sarebbe inesplicabile se la pronuncia fosse stata quella in uso nelle scuole.  

Il grammatico Servio Mario Onorato (IV sec.) chiama miotacismo la pronuncia piena di -m davanti a parola iniziante per vocale, ritenendolo un vizio: 

"Myotacismus fit, quotiens post partem orationis in m littera desinentem sequitur alia pars oationis quae inchoat a vocali, ut 'hominem amicum'. Hoc vitium vitare possumus aut per suspensionem pronuntiandi aut exclusione ipsius m litterae. sed melius est ut suspensione pronuntiandi hoc vitium relinquamus, si enim voluerimus m litteram excludere, vitamus quidem myotacismum, sed cadimus in hiatum."
(Commentarius in artem Donati, De barbarismo) 

2) La consonante -n- nei gruppi -ns- e -mn- 

In epoca classica il nesso consonantico -ns- era pronunciato come -s- in molti casi: la debole nasalizzazione della vocale lunga precedente tendeva a svanire. Inoltre il nesso consonantico -mn- era pronunciato quasi come -m-. Così è tramandato, che nelle parole consul e columna la consonante -n- non veniva pronunciata: /'ko:sul/ e /ko'luma/ devono essere trascrizioni fonetiche attendibili. 

Marco Fabio Quintiliano afferma infatti:
"Columnam et consules exempta n littera legimus."
(Institutio oratoria, lib. I, 29). 

Prisciano parla della pronuncia della consonante /n/ in questi termini:
"N quoque plenior in primis sonat et in ultimis partibus syllabarum, ut nomen, stamen; exilior in mediis, ut amnis, damnum." (Institutiones grammaticae, lib. I, 30). 

Il latino ecclesiastico ha invece i gruppi -ns- e -mn- pronunciati in modo netto: la sillabazione è con-sul, co-lu-mna

Le parole latine entrate in basco in epoca antica mostrano proprio la pronuncia -m-: basco damu "danno" < lat. damnu(m).  

In epoca tarda si è verificata una reazione alla pronuncia di -mn- come -m-, forse perché non si poteva tollerare che una consonante singola -m- facesse posizione: è stato restaurato il nesso consonantico -mn- che ancora oggi si usa nelle scuole e che è alla base delle successive evoluzioni nelle lingue romanze. A riprova di ciò è comparsa una grafia -mpn-: dampnum, calumpnia. Da questo gruppo -mn- in italiano si è avuto regolarmente -nn-: italiano danno < lat. damnu(m)

Ovviamente parole italiane come pensare e mensile non fanno testo, perché sono termini dotti importati dai letterati attingendo direttamente al latino scolastico: forme genuine sono invece pesare e mese

Ne consegue che comunque la si metta, la pronuncia ecclesiastica non riflette la situazione del latino classico. 

3) Le semiconsonanti palatali e il loro effetto 

Il latino ecclesiastico distingue nettamente -i- in funzione semiconsonantica da -e- atona seguita da vocale, pronunciando sempre questa -e- come vocale piena. Così platea è letto /'pla-te-a/, in netta contrapposizione con hospitium, pronunciato /o-'spi-tsjum/. Vediamo che nel latino reale questa -e- atona seguita da vocale è diventata una semiconsonante che si è presto confusa con -i-, e quando l'assibilazione di -t- ha cominciato ad apparire nel II secolo d.C., il fenomeno coinvolgeva sia forme con -i- che forme con -e-.

L'evoluzione del latino platea nelle lingue romanze mostra affricata o sibilante: italiano piazzaspagnolo plazafrancese place (da cui anche inglese place "luogo"); la stessa parola è stata presa a prestito dal tedesco, dando origine a Platz

Anche in questo caso la pronuncia ecclesiastica mescola elementi postclassici da una parte ed elementi troppo arcaici dall'altra.    

4) Le consonanti -t- e -c- seguite da semiconsonante palatale 

Spesso a prova della pretesa palatalizzazione di -c- in epoca antica, vengono fornite coppie come nuntiusnuncius, Fetiales e Feciales, e via discorrendo. Si vede che in realtà chi fa questo si dà la zappa sui piedi. Queste coppie si spiegano semplicemente ammettendo che -t- e -c- seguite da semiconsonante -i- sono venute a confluire in un suono prepalatale /t'/ a partire dal II secolo d.C., il che ha dato origine all'ambiguità grafica. 

Questo mutamento è stato più rapido e precoce di quello che ha intaccato -c- seguito da vocale anteriore, ad esempio in parole come cena /'ke:na/, cista /'kista/, e non può essere usato come prova di una supposta palatalizzazione in tali contesti. Anzi, prova che la pronuncia ecclesiastica è incorerente. Infatti in essa si distingue chiaramente il suono di otium (pronunciato /'o-tsjum/) da quello di tribunicia (pronunciato /tri-bu-'ni-tʃa/), come pure quello di amicitia (pronunciato /a-mi-'tʃi-tsja/) da quello di Lucius (pronunciato /'lu-čus/). Se così fosse stato, non ci sarebbero state grafie come nuncius per nuntius.   

Il passo successivo è l'assibilazione, che ha portato il suono /t'/ derivato da -ti- e da -c- all'assibilazione, che viene descritta abbondantemente dai grammatici latini, che si erano ben resi conto del fenomeno. Un'attestazione precoce si ha in un'iscrizione, CRESCENTSIANUS (140 d.C.), ma a quell'epoca il mutamento non era ancora la regola.

In epoca decisamente tarda Servio parla di un suono simile a un sibilo sviluppato tra -t- e -i-, e si sforza ancora di combatterlo, chiamando questo vizio iotacismo: 

"His ita se habentibus dicit esse quaedam vitia, quibus quidem monen non tribuit, tamen vitanda praecepit. sunt autem iotabismi labdacismi myotacismi hiatus et collisiones. Iotacismi sunt, quotiens post ti vel disyllabam seuitur vocalis, et plerumque supra dictae syllabae in sibilum transeunt, tunc scilicet, quando medium locum tenet, etiam sic positae, sicut dicuntur, ita etiam sonandae sunt, ut 'dies' 'tiaras'.  (Commentarius in artem Donati, De barbarismo)

5) La consonante -d- seguita da semiconsonante palatale 

La pronuncia ecclesiastica mantiene integra la consonante -d- seguita dalla semiconsonante -i-, ad esempio nella parola medius. Quando la -t- si assibilò, la stessa sorte toccò alla -d- in simile contesto, che produsse una consonante affricata sonora -z- /dz/. In italiano rimangono ancora in eredità parole come mezzo, che mostrano questo mutamento. 

Servio ci parla di questo fenomeno di iotacismo insieme all'assibilazione di -ti- (vedi punto precedente), e in altra sede parla della corretta pronuncia della parola Media, indicante una provincia della Persia, raccomandando di pronunciare la -d- senza sibilo : Media fert tristes sucos: di sine sibilo proferenda est: Graecum enim nomen est, et Media provincia est.  (Commentarii in Vergilii Georgica, 2, 126)

Se la pronuncia ecclesiastica prescrive lo iotacismo di -ti-, perché dunque si astiene dallo iotacismo di -di-? Su quali basi? Ancora una volta, si dimostra come la pronuncia ecclesiastica sia raffazzonata e inconsistente, usando diversi pesi e diverse misure in ogni contesto. 

Conclusioni 

Cosa possiamo dedurre dalle evidenze sopra riportate? Possiamo affermare senza dubbio che anche se la lingua volgare e colloquiale mutava, la pronuncia classica era ancora ritenuta dalle classi colte la norma a cui conformarsi in epoca abbastanza tarda: i mutamenti volgari erano stigmatizzati dai grammatici. Una volta crollato l'Impero, questi tentativi sono cessati e la trasmissione della lingua aulica può dichiararsi estinta. La pronuncia ecclesiastica è nata dal tentativo di leggere gli antichi documenti ad opera di persone ormai di lingua romanza e prive dei necessari strumenti filologici: non stupisce che mostri così tanta incoerenza.  

Quello che è assolutamente grave è che al giorno d'oggi esistano ancora persone che coniugano incompetenza, arroganza e malizia, cercando di retrodatare la pronuncia ecclesiastica all'età paleolitica, senza tenere in minimo conto le testimonianze stesse dei grammatici dell'antica Roma. 

sabato 11 ottobre 2014


IL TIRANNO DI CERE 

C'era un re in Etruria, che si chiamava Mezenzio (in lingua etrusca Mezentie). Era di una crudeltà indicibile, tanto che amava torturare i ribelli costringendoli al contatto con i cadaveri. Legava i condannati vivi ai morti decomposti, in modo che gli umori pestiferi fluissero senza sosta, portando alla lenta morte miasmatica. Coltivava perversioni indicibili. Si divertiva a far ingoiare sterco ed altre immondizie ai detrattori e ai prigionieri, fino a portarli alla consunzione. Era ritenuto un contemptor divum, uno spregiatore degli dèi. Il sommo Virgilio, che era tra le ultime sopravvivenze dell'Etruria Padana, ancora ricordava questo regnante, al punto di descriverlo nell'Eneide (Libro VIII) con queste parole: 

Mortua quin etiam iungebat corpora vivis, 
Componens manibusque manus atque oribus ora, 
Tormenti genus! et sanie tabosque fluentes, 

Complexu in misero, longa sic morte necabat.

In un lampo di intuizione mi sono visto questo sovrano come un uomo scheletrico dai capelli rossi che parevano di fuoco vivo, gli occhi così chiari da sembrare grigi. In questo bagliore di reminiscenza, ho intuito qualcosa del suo demonismo, ma presto ciò che ho colto mi è sfuggito.

DOTTOR JEKYLL E GENTILE SIGNORA

Anno: 1979

Genere: Commedia 

Regia: Steno (Stefano Vanzina)

Cast: Paolo Villaggio, Edwige Fenech, Gianrico Tedeschi, Gordon Mitchell, Paola Arduini 

Trama (da Cinema Il Sole 24 Ore): 
Consigliere di una potente multinazionale, l'inglese Pantac, che ha invaso il mondo con ogni sorta di prodotti inquinanti e dannosi per la salute, il dottor Jekyll - vero genio del male, prezioso per la ditta - ingoia, erroneamente convinto di farsi una robusta cura di cattiveria, il "siero del bene". Trasformatosi in un pacioso mister Hyde tutto sorrisi e bontà, di cui s'innamora la segretaria miss Barbara Wembley, egli fa fallire un complicato stratagemma, da lui stesso ideato nelle vesti di Jekyll, per coinvolgere la regina d'Inghilterra nella pubblicità di un micidiale "chewing-gum". I capi della Pantac, allarmati, ordinano allora a una squadra di Killer di eliminare quel pericoloso avversario della loro società. Per salvarsi, Hyde ingoia il siero giusto e torna ad essere Jekyll, il che gli complica i rapporti con Barbara, ormai definitivamente convertita al bene; per averne anche lei ingerito il siero. Finalmente, tornato per amore della ragazza nei panni di Hyde, il nostro, aiutato da lei, inventa una soluzione spray del "siero del bene", la quale, sparsa su tutta la Terra, la trasforma in un paradiso di bontà. I capi della Pantac, che le maschere antigas hanno difeso dal contagio, sono arcisoddisfatti; sono loro, infatti, a produrre il miracoloso siero, e i loro affari non sono mai andati così bene.  

Recensione: 

Tra i giudizi più lusinghieri trovati nel Web ci sono "bruttino", "mediocre", "filmaccio", "inaccettabile vaccata". Stroncata dalla critica, questa commediola è tuttavia riuscita in qualche modo profetica, come dimostra una singolare quanto grottesca notizia, pubblicata su Repubblica nel 2007 e tuttora consultabile. 


Sesso e coca a Fuckingham Palace  

È il visconte Linley il reale ricattato  

Secondo il "Sun" potrebbe decidere di raccontare pubblicamente quello che è successo 


I due presunti estorsori dicono che non c'è stato tentativo di ricatto Il visconte Linley

LONDRA - Non è il principe Carlo, non è il principe William, non è il principe Harry, ma è pur sempre il nipote della regina Elisabetta. L'identità del membro della famiglia reale britannica ricattato per una storia di omosessualità e droga sarebbe il visconte David Linley, 45 anni, figlio primogenito della defunta principessa Margaret di Windsor, sorella della regina, e del famoso fotografo inglese Lord Snowdown Linley. 
... 

David Linley è sposato, ha due figli ed è uno dei pochi membri della famiglia reale ad avere ottenuto un considerevole successo personale nel lavoro, come proprietario di un'azienda molto apprezzata di arredamento e design. L'unica volta in cui in passato il suo nome fu legato, indirettamente, a qualche scandalo fu quando un dipendente della sua società, di sesso maschile, fu indicato come la ragione del fallimento del matrimonio di un altro noto personaggio delle cronache londinesi, apparentemente per una relazione omosessuale trai due.  

A parte la differente natura degli atti sessuali, sembra proprio la trama del film di Steno, una delirante storia di fallimentari pornoricatti ai danni della degenerata Grande Casa di Windsor (possa presto essere espulsa dal Landsraad, esiliata a Tupile e costretta a cacciare tartarughe schlag per sopravvivere). Spero soltanto che saremo risparmiati dal mellifluo, nauseabondo profluvio di pestilenziale elisir della bontà: forse una doccia di gas nervino sarebbe meglio. 
 

PIEDIPIATTI (1991)

Regia di Carlo Vanzina 

Sceneggiatura di Carlo Vanzina, Leonardo Benvenuti e Piero De Bernardi

Trama:
Silvio e Vasco sono due poliziotti, uno milanese e l'altro romano. Pur provenendo da ambienti molto diversi (viene addirittura simulata una certa difficoltà ad intendersi), cooperano per neutralizzare una temibile banda di narcotrafficanti che vogliono introdurre una devastante droga in Italia: quel crack che oggi è una triste realtà. Le loro indagini li portano a Milano, dove scoprono che l'insospettabile capo di una fondazione benefica per l'infanzia, il Commendator Rotelli, è in realtà il boss dell'intera organizzazione dello spaccio del crack. Benemerito, stimato persino da Madre Teresa, Rotelli cerca di assassinare i poliziotti, che solo per un fortunato caso riescono a sfuggire alla morte. Contrastati da superiori corrotti, riescono nonostante ogni avversità ad inchiodare il colpevole. A questo punto scatta la caccia al boss, che sta tenendo un ipocrita discorso di beneficenza in un palazzo del Canal Grande. Con le prove trovate a bordo di una nave, Silvio e Vasco smascherano il finto benefattore, ma l'uomo fugge prendendo in ostaggio una bambina. Il criminale fugge per i canali di Venezia usando un gommone, e viene inseguito da Vasco e Silvio a bordo di due motociclette anfibie.  Fortunatamente alla fine la polizia cattura il malvivente, ma a Vasco e Silvio va il merito di averlo smascherato.

Cast:

Enrico Montesano
 Brigadiere Vasco Sacchetti

Renato Pozzetto
 Brigadiere Silvio Camurati

Antonio Ballerio
 Rotelli

Anna Benny
 Maria Grazia

Angelo Bernabucci
 Angelo Bertoli, detto 'l'americano'

Victor Cavallo
 Proietti, detto 'Er Soffia'

Roberto Della Casa
 Questore di Milano

Mirella Falco
 Signora Motta

Luigi Petrucci (I)
 Questore di Roma

Norman Sanny
 Carlos

Tony Sperandeo
 Agente Buoncostume

Giorgio Trestini
 Armadio

Also Known As: Cops (1991)

Runtime: 92'

Country: Italy

Language: Italian

Color: Color

Recensione: 

Contro tutti i finti benefattori e tutti i mostri travestiti da salvatori dell'Umanità!

Questo film, definito insulso dalla critica, nasconde in realtà un nocciolo inattaccabile di verità pura: lo Sciacallo, il Mostro, non si presenterà mai come tale alla collettività, ma cercherà di insinuarsi in quegli ambiti che gli garantiscono l'impunità. Così i lupi, mascherati abilmente con pelli finte, fanno strage di agnelli e di capri, e usando il loro ripugnante fariseismo si guadagnano l'approvazione delle masse inebetite dai media asserviti al marketing più disgustoso. 

Una scena memorabile: 
Silvio e Vasco, appostati in una camera presa in affitto, spiano un narcotrafficante servendosi a turno di un cannocchiale. A un certo punto lo vedono mentre fa sesso con la sua amante: una lunga copula. Proprio quando i due agenti si distraggono per ascoltare ciò che sta registrando il microfono, accade qualcosa. La donna si mette a praticare la fellatio al malvivente, che ha un infarto e muore all'improvviso proprio mentre le sta rilasciando in bocca copiosi boli di sperma. Per recuperare il cadavere, il poliziotto milanese interviene in modo subitaneo, spacciandosi per il medico di una fantomatica "unità coronarica volante". La fellatrice si guadagna il nome di "bocca da killer". 

Citazione famosa:
"Giovane aitante massacrato a colpi di lingua".

domenica 5 ottobre 2014


L'EFFETTO DINOSAURO 

Autori: Kit Pedler, Gerry Davis 
Titolo originale: Brainrack
Anno: 1974 
Pubblicazioni italiane: Urania 650 (agosto 1974)
    Unica ristampa in Millemondi
Casa editrice: Arnoldo Mondadori Editore 
Genere: Fantascienza
Traduzione: Bianca Russo 
Copertina: Karol Thole 
Formato: 13 x 19
Pagine: 190 pagg.

Trama (da Mondourania):

"Una delle teorie più accreditate sull'estinzione dei dinosauri afferma che quei bestioni scomparvero dalla faccia della terra perchè il loro cervello troppo piccolo non riusciva più a controllare il loro corpo troppo grande. Lo scienziato-detective protagonista di questo romanzo applica la stessa teoria alla nostra società: il gigantismo che sta sotto gli occhi di tutti, l'inefficienza dei servizi, il caos in cui viviamo, dimostrerebbero che il "cervello" del pachiderma sociale non è ormai più in grado di coordinare e far funzionare niente. E' soltanto un'intuizione intelligente, o davvero qualche male "organico", e scientificamente dimostrabile, minaccia l'umanità? Si tratta di raccogliere dati significativi; ma ben presto si vede che per bloccare una simile indagine ci sono persone disposte a tutto e che la vita di un ricercatore può valere in certi casi molto poco." 
 


Recensioni: 

Mi sono occupato del volume in questione qualche anno fa: avendolo trovato in una bancarella dell'usato, sono stato attratto dal suo titolo e dalla sua trama, così l'ho comprato e l'ho letto. All'epoca ero un blogger attivo nella piattaforma Splinder, ormai scomparsa, così ho subito applicato il concetto portante del romanzo alla situazione di quella fatiscente blogosfera. Questo è ciò che ho scritto su Anobii

Splinder è la dimostrazione vivente dell'EFFETTO DINOSAURO! 

Questo volume di Urania descrive a meraviglia la situazione di Splinder. La Redazione della piattaforma è assolutamente incapace di controllare il pachiderma sociale, le sue capacità sono quelle di un cervello di tyrannosaurus rex, grande come un pacchetto di sigarette e destinato a muovere un corpo alto come un palazzo. 

Sul blog Esilio a Mordor e in Facebook ho approfondito il concetto: 

L'idea portante, mi rendo conto, può essere applicata tale quale alla situazione ormai imperversante nella blogosfera slinderiana: la piattaforma ha assunto proporzioni mastodontiche e le poche persone che ci lavorano stanno perdendo il controllo delle sue membra, pur essendo di certo animate dalla migliore volontà. Certo, ci sono in media quattordici pagine di utenti online, ma in ogni pagina almeno tre spammatori. Così vediamo che moltissimi sono i post che si possono visualizzare nelle pagine delle ultime pubblicazioni, ma almeno il 50% sono automatismi creati da splog-robot. Lo scenario è desolante e destinato a peggiorare di mese in mese. Anzi, ho il sentore che questa peste abbia già messo radici profonde in tutta la Rete. Presto non ci sarà più conoscenza condivisa, ogni cosa diverrà un veicolo di nuove infezioni. Ogni corpo sociale sarà solo un gigante paralitico e senza memoria. Non posso poi fare a meno di notare che l'ex Motime, oggi US.Splinder, detiene un record della presenza di splog. Se uno va in home, si rende conto che ci sono in media più di 5.000 utenti online, per una piattaforma fino a poco fa piccolissima, in cui gli utenti genuini saranno stati poche centinaia. Il tasso di crescita è stato mostruoso, addirittura tumorale. Prima che il contagio divorasse US.Splinder, gli utenti online erano sempre meno di 100. Poi con la crescita subitanea sono arrivati gli splogger. Tutto questo è accaduto perché il sistema immunitario della piattaforma non è stato più in grado di gestire le periferie della rete sociale elefantiaca. È un vero peccato che studiosi del calibro di Barabási non abbiano tenuto conto di questo fenomeno.
(scritto il 27 03 2011)

A distanza di tempo, penso che l'argomento sia sempre attuale. Se i miei contributi relativi alla situazione di Splinder sono obsoleti a causa dell'estinzione della piattaforma, il principio generale resta valido e serve a descrivere questo paese e l'intera società umana. Lo vediamo ogni giorno nelle nostre vite urbanoidi in costante peggioramento: dirigenti inamovibili e inetti, complicatissime procedure di semplificazione che aggiungono al danno la beffa, il moltiplicarsi esponenziale della burocrazia - tanto che si arriverà al giorno in cui nessuno potrà andare al cesso senza avere un protocollo in ingresso e uno in uscita - diritti civili che diventano barzellette perché costretti a passare nei mostruosi ingranaggi della produzione di documenti inutili, scartoffie digitali di quest'epoca di sfacelo, l'uso di un linguaggio orwelliano che chiama "riduzione" l'aumento delle tasse e del numero di elementi parassitari collocati ai vertici degli enti pubblici e privati. Il crollo è inevitabile, è soltanto questione di tempo.  

Non so se rileggerò il libro di Pedler e Davis: la narrazione mi è parsa soporifera e il finale non deve essere eclatante, visto che me lo sono del tutto dimenticato. È un po' come quando si ripongono grandi aspettative in qualcosa che si risolve in nulla di fatto. Ho l'impressione che un'idea geniale sia stata utilizzata male e sprecata, come spesso accade nel mondo della fantascienza.  

Sempre su Anobii, l'utente VM71 ha scritto questa recensione: 

L'inizio dell'estinzione 

Riflessione amara sulla parabola discendente dell'intelligenza umana in una società che si affida in maniera massiccia alla tecnologia. La visione ecologista contro il nucleare e l'inquinamento prodotto dalle auto è ancora valida oggi, anche se l'opera è di 35 anni fa. Lo stile ed i personaggi, molto british, rendono questo romanzo estremamente piacevole. In appendice si trova un articolo di divulgazione scientifica di Asimov: interessante ma un po' pesante. 

sabato 4 ottobre 2014

UN NUOVO ARGOMENTO CONTRO L'ORIGINE ETRUSCA DELLA GORGIA TOSCANA

Nella lingua longobarda esisteva il vocabolo *gahagi "bosco riservato", che ci è attestato nella forma latinizzata gahagium. Di questa parola è nota la comune variante *kahagi, attestata come cahagium: il prefisso germanico ga- ha spessissimo la variante ca- in longobardo. Questa desonorizzazione è ben nota nell'area dell'alto tedesco: il prefisso ka- si trova anche in antico bavarese. L'origine ultima del prefisso è la stessa forma indoeuropea *kom- da cui discende anche il ben noto latino cum, com-, con-, co-. La radice hagi- che forma la parola *ga-hagi è la stessa che si trova nell'inglese haw "recinzione" e hedge "siepe; barriera", nel tedesco Hain "boschetto", Hag "siepe" e Hecke "siepe, cespuglio; macchia". Il perfetto corrispondente tedesco di *gahagi è Gehege "recinto"

Veniamo ora alle evoluzioni del longobardismo in questione nei volgari italiani. A settentrione evolve in gaggio e in gazzo. In Toscana presenta invece un ben diverso sviluppo: diviene infatti cafaggio, con la variante caggio. Dalla parola cafaggio deriva anche cafaggiaio, che significa "boscaiolo". La consonante velare longobarda /g/, seguita da semiconsonante palatale si è palatalizzata in volgare neolatino, ma non è questo ciò che intendo rimarcare. Quello che salta agli occhi è lo sviluppo toscano della consonante longobarda /h/. Occorre innanzitutto dire che la /h/ iniziale di parola originaria ha cessato presto di essere pronunciata: in Rotari troviano arigawerc "attrezzature militari" per harigawerc - alla lettera "opera dell'esercito" - e così pure andegawerc "attrezzi di casa" per handegawerc - alla lettera "opera manuale" (trascrivo con -w- la sequenza -uu- dei codici). Il suono permaneva invece tra due vocali: gamahalos, glossato confabulati, e via discorrendo. In altre parole, quando nuove aspirate (fricative e affricate) si sono sviluppate a partire dalla seconda rotazione consonantica, /h/ iniziale non si pronunciava più. 

Reductio ad absurdum 

Ora, se nelle parlate toscane dei secoli VIII-XI fosse esistita la gorgia come parte dell'eredità etrusca, sarebbe esistito il suono /h/. I nostri avversari affermano questo esplicitamente. Si dimostra che se questo fosse accaduto, il termine cahagium non sarebbe passato in toscano come cafaggio, ma come *cahaggio, e sarebbe stato scritto in modo ipercorretto come *cacaggio. Invece vediamo come la /h/ intervocalica longobarda è stata adottata come /f/. Questo perché /f/ era il suono toscano dell'epoca più vicino a /h/. Non esisteva dunque alcuna gorgia, che si è sviluppata in epoca successiva.
Q.E.D. 

LA PAROLA LAUNEHILD IN UN DOCUMENTO DI DIRITTO LONGOBARDO DEL XII SECOLO

Anche dopo che la lingua dei Longobardi fu uscita dall'uso corrente, dovette permanerne una qualche conoscenza tra le persone che continuavano a professare il Diritto Longobardo e tra i notai. Alcuni glossari legali sono giunti fino a noi, con traduzioni di voci longobarde contenute nei codici. Di certo quelli che abbiamo non sono gli unici esistenti e molte forme saranno andate perdute. Ecco un'altra cosa che difficilmente sarà menzionata nelle scuole: ancora nel XII secolo esistevano persone che si appellavano alle leggi dei Longobardi, riconoscendosi di origine diversa dal resto della popolazione. Casi del genere non sono affatto rari e se ne trovano notevoli documentazioni. Come spiegare il fenomeno? Sarebbero necessari studi approfonditi, i cui risultati metterebbero senza dubbio in crisi certa retorica scolastica. 

Ne riporto un esempio molto interessante, tratto dal sito dell'Università di Pavia:  


Si tratta di una carta promissionis che fu scritta nel maggio 1132 a Milano. In essa si parla di una certa Druda, moglie del milanese Mustus Burro, professante la legge dei Longobardi. Essendo in contesa con il prete ufficiale di San Giovanni in Laterano di Milano, certo Obizzo, con il documento in questione la donna promette di non infastidire lui e la sua chiesa, a cui il marito aveva evidentemente donato delle proprietà. La promessa viene fatta anche a nome degli eredi, menzionati in fondo al documento. Si stabilisce la pena di cinquanta denari d'argento in caso di violazione della promessa, e per sancire questo atto di generosità, Druda riceve un pagamento che con vocabolo longobardo è chiamato launehild. La parola ricorre due volte. Rimando al sito per approfondimenti sul testo, limitandomi ad enucleare alcuni passaggi chiave.  

All'inizio del documento si trova la professione di Legge Longobarda: "promitto atque spondeo me ego Druda cuniux Musti qui dicitur Burro, de suprascripta civitate, qui professi sumus lege vivere Longobardorum mihi que supra Drudae ipso Mussto iugali et mundoaldo meo". Si noterà la presenza del termine mundoald (qui dotato di desinenza latina -o), che indica colui che esercità l'autorità, detta mundium nei codici. Il vocabolo è formato dalle radici mund- "mano, autorità" (cfr. tedesco Vormund "tutore"; mündig "maggiorenne") e wald- "dominare" (cfr. tedesco walten).  

Verso la fine dell'atto si trovano le menzioni del risarcimento, indicato senza alcuna desinenza latina: "Quidem et anc adfirmandam promissionis cartam accepi ego que supra Druda a te predicto Obizone presbitero exinde launehild crosinam unam". E ancora, dove ricorrono le croci sostitutive delle firme: "Signum + manus suprascripte Drude qui hanc cartam promisionis ut supra fieri rogavit et suprascriptum launehild accepit." 

La parola originale era launegild "controprestazione", composta da -gild "pagamento" (cfr. tedesco Geld) e da laun- "ricompensa" (cfr. tedesco Lohn). La consonante -g- mostrava una certa tendenza a mutarsi in -ch- tra due vocali e in certi gruppi consonantici, come attestato in numerosissimi antroponimi, e quindi a divenire una semplice -h-. Così si trova la variante launechild. La forma launehild, che dimostra chiaramente la natura aspirata del suono -ch- in launechild, di cui è la naturale evoluzione, è attestata anche a Milano, come in molti altri luoghi. 

Nonostante questi mutamenti fonetici siano chiaramente dissimili da qualsiasi cosa si trovi nelle lingue romanze, esiste sempre qualcuno che cerca di ricondurli alla gorgia toscana. Affermare a più riprese che nessun vernacolo toscano ha mai intaccato la consonante sonora /g/ non sembra servire a molto: ci si trova davanti a un muro di gomma, visto che non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. Spero sia di qualche utilità rimarcare le attestazioni di consonanti aspirate in Lombardia e in Veneto, in contesti molto simili a quelli in cui ricorrono in Toscana. La forma launehild rappresenta la pronuncia più recente del lemma, in uso tra gli ultimi parlanti della lingua in diverse regioni d'Italia. Questo implica una trasmissione in epoca tarda attraverso genuina usura fonetica popolare e non un'influenza esterna proveniente dal volgare neolatino. 

EVIDENZE DELLA TARDA SOPRAVVIVENZA DELLA LINGUA LONGOBARDA

Interessanti attestazioni di importanti parole longobarde si trovano in atti notarili e in altri documenti di epoca sorprendentemente tarda. A tutto ciò non sembra esser fatta molta pubblicità in Italia, a causa dei pregiudizi degli autori, che ancora chiamano "gotico" e "longobardo" qualsiasi cosa riesca loro ripugnante sotto il profilo linguistico, estetico e persino morale. Peggio ancora, c'è chi cerca di far violenza ai dati per affermare le proprie idee preconcette. A un simile scempio va posta la parola fine.
Cominciamo con la seguente citazione:

Ego Pedreuerto notario rogitus ad iam dicto Staualene in hanc cartolam ih me subscripsi. (anno 872) 

Il documento in questione è un atto notarile scritto ad Asti, che risale in pratica a un secolo dopo l'estinzione del Regno Longobardo. Eppure il pronome longobardo ih è stato conservato nell'atto, come prova eloquente del fatto che esisteva ancora una lingua parlata chiaramente germanica. I fautori della scomparsa precoce della lingua balbettano e farfugliano applicando un ragionamento circolare. Siccome essi assumono per dogma che non poteva esistere nulla di germanico nell'Italia del tardo IX secolo, dicono che questo ih in realtà sarebbe il latino hic, nonostante non vi sia somiglianza grafica tra le due parole. Non possono riportare alcun caso in cui una forma ih sarebbe scritta per hic: la loro sicumera viene soltanto dal fatto che hanno assunto come vero il loro pregiudizio. Proprio come quelli che quando vedono un fulmine globulare in cielo dicono che è la Madonna, anche se tra la figura di una donna in cielo e quella di una sfera lucente non sussiste somiglianza veruna. Noi però sappiamo, ed è pienamente documentabile, che in antico alto tedesco ih significa "io": non è necessario pretendere l'attestazione del pronome nell'attuale forma tedesca ich

Sempre da documenti e atti notarili:

Paulus Drancus (anno 812), "giovane gagliardo" (1) 

Julianus Dungo (anno 818, Abbazia di Nonantola), "grasso", "pesante" (2) 

Johannis Zanvidi filii quondam Petri Zanvidi (anno 919, Chioggia), "coi denti dagli spazi larghi" 

Benedictus Scarnafol (anno 1003, Abbazia di Farfa), "sporcaccione" (3)

(1) cfr. norreno drengr "ragazzo"
(2) cfr. norreno þungr "grave"
(3) cfr. antico alto tedesco scarno "sterco", antico inglese scearn id., norreno skarn

A quanti affermano che Zanvidi (gen.) non sarebbe altro che un derivato di Gian Vito, faccio notare che siamo agli inizi del X secolo e che Zanvidus è chiaramente un soprannome che in un caso si applica a Petrus e in un altro a Johannes. Non ha la struttura di un nome proprio Gian Vito: se fosse stato ritenuto un ipocoristico di Johannes, non sarebbe stato apposto a tale nome. In tale epoca non si può ancora parlare di veri e propri cognomi. Nel Codice Diplomatico Padovano in cui si trova l'attestazione di Zanvidi, non sembrano esserci evidenze dell'ipocoristico Zan(i) per Johannes in epoca tanto precoce. Si ha invece la prova che alcune persone si definivano appartenenti alla nazione dei Longobardi, professandone il diritto. 

Affermo con forza l'idea di Wilhelm Bruckner contro quella dei romanisti: esistevano ancora famiglie in grado di parlare la lingua longobarda in epoca tarda. I soprannomi sopra riportati danno il senso di una lingua germanica viva, colloquiale, opposta al pur approssimativo latino degli atti notarili. Allo stesso modo capita ai nostri giorni che parlanti dialettali abbiano un nome colloquiale nel loro idioma vernacolo, di uso familiare, che viene apposto al nominativo italiano negli annunci funebri. La differenza è che spesso i soprannomi dialettali odierni sono oscuri, mentre quelli longobardi dei secoli IX-XI appaiono chiarissimi e comprensibili a chiunque abbia qualche nozione di filologia germanica. 

Da una cronaca anomima del tardo X secolo: 

Defunctus ut diximus Grimoalt, Idelrici filius Grimoalt, quem lingua todesca, quod olim Langobardi loquebantur, stoleseyz fuit appellatus, quod nos in nostro eloquio, qui ante optulibus principis et regis milites hic inde sedendo perordinat possumus vocitare, in principali dignitate est elevatus. Chronicon Salernitanum (anno 978)  

Il termine stoleseyz è una variante tarda di stolesazo "funzionario regio", derivato dalle radici stol- "sedia" e saz- "sedere". Questo mutamento fonetico, prova una tarda applicazione di un Umlaut in -i-, che non appare nei testi più antichi. Una forma con un suffisso *-io aggiunto a una radice con vocale breve è all'origine della forma stoleseyz (confronta medio alto tedesco stuol-sezze; < proto-germanico *-satjan-), mentre una forma con suffisso -o aggiunto a una radice con vocale lunga è all'origine di stolesazo (confronta medio alto tedesco stuolsaze; < proto-germanico *-se:tan-). Tutto ciò non sarebbe potuto accadere se la lingua fosse morta rapidamente: è chiaro che l'autore del Chronicon non ha semplicemente copiato la forma attestata nei documenti più antichi. Vediamo che nel tardo X secolo ancora permaneva una certa capacità di comprendere la lingua, che pure l'autore del Chronicon afferma essere uscita dall'uso corrente. Evidentemente la morte della lingua longobarda non avvenne dovunque nello stesso tempo, come vorrebbero gli autori dei manuali scolastici italiani, ma in tempi diversi presso comunità diverse, a seconda anche della densità della popolazione di origine germanica: l'autore del Chronicon si sarà riferito alla situazione di Salerno. Appare in ogni caso chiaro che se il longobardo fosse stato dimenticato nel VII secolo, come per ragioni ideologiche qualcuno vorrebbe, non sarebbe neanche perdurata memoria della sua esistenza nel X secolo.

L'ottima studiosa Giovanna Princi Braccini ha recentemente citato un incantesimo antiemorragico longobardo scritto a margine del ms. Vat. lat. 5359. Purtroppo non sono riuscito a reperire il suo lavoro e non ho potuto quindi analizzare il testo della formula. Attraverso l'analisi dei documenti disponibili, compresa l'Historia Langobardorum di Paolo Diacono e il Chronicon Salernitanum, l'autrice giunge a conclusioni cautelative, collocando l'estinzione della lingua dei Longobardi in qualche momento indefinito tra i primi e gli ultimi decenni del secolo VIII - in ogni caso non "prestissimo" come voluto dalla tradizione del mondo scolastico italiano. Tale stima permetterebbe di identificare il declino del longobardo con la fine del Regno. A parer mio un conto è la fine di una lingua come normale mezzo di comunicazione, un altro è invece la morte degli ultimi gruppi superstiti di parlanti: non sarebbe il primo caso di lingue credute estinte in un certo periodo di cui sono saltati fuori parlanti isolati anche dopo un secolo o più.
Lo studio in cui Princi Braccini tratta l'interessante questione è il seguente:  

Giovanna Princi Braccini Vecchi e nuovi indizi sui tempi della morte della lingua dei Longobardi

Studi in memoria di Giulia Caterina Mastrelli Anzilotti Firenze, Istituto di studi per l'Alto Adige 2001 = Archivio per l'Alto Adige. Rivista di studi alpini, Firenze 93-94 (1999-2000) 353-74