CARAVELLA PORTOGHESE
1.
1.
L’uomo in doppiopetto grigio era andato a dormire dopo una massacrante giornata di lavoro, passata con gli occhi incollati davanti allo schermo del suo computer. Senza neppure mangiare qualcosa, si era subito gettato nel letto, sperando di recuperare le sue usurate energie. Aveva faticato non poco a prendere sonno, le vene della testa gli ronzavano per il martellamento sanguigno, le sinapsi friggevano nel suo cranio nel tentativo di ridurre la devastante entropia informativa. L’indomani sarebbe stata una giornata campale: era stato fissato un cruciale tavolo tecnico con le aziende coinvolte nel progetto di distribuzione del nuovo software da lui ideato. La promozione era se possibile ancor più estenuante della realizzazione pratica, e andava condotta attraverso logoranti azioni di marketing subliminale. I neuroni del manager lavoravano ancora a pieno ritmo nel tentativo di deframmentare l’hard disk cerebrale, e durante questo processo l’abbraccio di Morfeo lo sciolse in un bagno di piombo liquido. Un oblio privo di qualsiasi parvenza di attività onirica calò su di lui come un mantello d’un nero siderale assoluto. Dopo un’eternità criogenica, il risveglio avvenne senza che il suono della sveglia gli sibilasse fastidioso nei condotti uditivi. Per lui questa era una cosa del tutto insolita, che ricordava gli fosse mai capitata nell’arco della sua vita lavorativa. Non sentiva premere su di sé il maglio della stanchezza mattutina, come se avesse fatto un giro d’orologio di sonno. Eppure la cosa era impossibile, la sveglia funzionava per mezzo di un contatore quantistico praticamente infallibile. Nulla andava per il verso giusto quella mattina. Non riusciva ad aprire gli occhi, soffocati dagli umori cisposi. Fece per sfregarseli, quando all’improvviso si rese conto di qualcosa di assolutamente anomalo: era bagnato, avvolto in un fluido amniotico. Il senso dell’equilibrio gli fece allora realizzare che si trovava in una posizione impossibile. Fece violenza alla sue palpebre incollate e aprì di colpo gli occhi. Quello che vide lo stordì per la violenza della sua irrealtà. Non poteva essere vero, era una cosa non solo assurda, ma inconcepibile. Galleggiava in un oceano! Erano acque saline che emanavano un leggero sentore di putredine, talmente ricche di minerali da impedire al suo corpo di affondare. Come il Mare di Sodoma. Il cielo era di un colore blu chimico con nervature violacee e fucsia, innaturali e malsane. Le nuvole di un bianco accecante parevano zucchero candito fluttuante in densi banchi di gas radioattivo. Il sole era sfolgorante, ma minuscolo. Anche la sua luce era strana, non avendo la benché minima sfumatura di giallo. Gli occhi dell’uomo smarrito colsero subito quella nota non familiare in quel doloroso chiarore. Nel complesso, gli sembrava che il vecchio caro sole che da milioni di anni aveva donato al mondo la vita fosse stato sostituito da un ciclope rachitico con un faro bianco nel bel mezzo della fronte. Tornò a chiudere gli occhi. Quello stordimento autistico gli sembrava un prodromo di follia incipiente. Aveva letto in alcuni manuali di psicologia di casi in cui persone gravate per lungo tempo da uno stress eccessivo perdevano il lume della ragione fino a non riconoscersi più. Era capitato ad attori famosi come Robert De Niro, che a un certo punto credeva di essere Lucifero. Assodato che in quell’acqua non correva il rischio di affondare, cercò di concentrarsi e di tirare le somme. La sua situazione non somigliava affatto a quella degli attori in preda a confusione della personalità. Lui sapeva perfettamente chi era e cosa aveva fatto finora. Ogni minimo dettaglio della presentazione che avrebbe dovuto tenere erano stampati nella sua memoria in modo micrometrico. Non aveva il benché minimo dubbio su tutto ciò che lo riguardava. Era quello che si trovava all’esterno che non si spiegava!
2.
Al manager venne in mente una nozione che il suo psicoterapeuta e maestro di Yoga gli aveva insegnato anni prima. Secondo quell’uomo, seguace della Teoria Olografica di Bohm e di Pribram, tutta la realtà non sarebbe che un’illusione, una costruzione di cui ognuno possiede le chiavi. Non aveva capito granché di quelle astrusità, ma decise comunque di fare una prova. Avrebbe chiuso gli occhi concentrandosi profondamente, e dopo aver raggiunto uno stato di profonda consapevolezza si sarebbe di certo risvegliato nel suo amato letto. Già pregustava quale felicità gli avrebbe portato la liberazione da un incubo tanto reale. Fece del suo meglio, e il tempo che passò in meditazione gli sembrò esteso in modo incredibile. Incrociò le dica e tornò ad aprire gli occhi, sperando di essere riuscito a far sparire l’orrore. Niente da fare. Il ciclope abbacinante lo fissava dal cielo, con un ghigno beffardo. Passarono le ore, nonostante lui pensasse che si trattasse soltanto di un inganno onirico. Nulla di nuovo accadeva, e il sole in tutto quel tempo si era mosso di pochissimo: la sua corsa nella volta celeste era di una lentezza esasperante. Ne approfittò per addormentarsi. Al risveglio tutto si sarebbe dissolto come per incanto e avrebbe ritrovato la sua amata realtà di tutti i giorni. Galleggiò per un tempo che parve infinito, cullato da quegli abissi salini. Dormì profondamente, quindi si svegliò. Prima di prendere completamente coscienza, passò qualche attimo con la sensazione di essere riposato e tranquillo. Quando aprì gli occhi dovette disilludersi. Adesso il piccolo sole bianco era più basso, pur continuando la giornata ad essere più luminosa della più chiara giornata terrestre. Nell’acqua c’erano banchi di sargassi, sembravano le chiome verdi di una gorgone. In lontananza questi accumuli di vegetazione aumentavano in densità: si stava avviando verso un groviglio inestricabile di putrescenza. Mentre le alghe gli passavano vicino, notò che tutta una fauna le popolava. Strano che con quella concentrazione di cloruro di sodio potesse sussistere la vita. Subito pensò che era inutile sottoporre a regolette razionaleggianti quanto i suoi stanchi sensi gli comunicavano: cominciava ad accettare il fatto che fosse lui a doversi adattare alla realtà esterna e non viceversa. Si fece strada in un banco di spessi budelli ramificati di un color verde acido. C’era qualcosa di osceno in quei vegetali, come un subliminale sessuale che non si sapeva spiegare, affondato com’era sotto l’apparenza. Smosse una massa il cui nucleo era più grande di un grosso cavolo e subito ne sgusciarono fuori delle pulci marine. Erano piccoli crostacei scuri, simili a porcellini di terra. Ne raccolse una e la analizzò. Qualcosa di alieno e di innominabile lo colpì. Un’altra pulce più piccola si stava formando nel ventre molle, e già le sue zampette si muovevano in modo indipendente da quelle del genitore non ancora separato. Fu colto da un attacco di nausea e scagliò lontano il ripugnante artropode. Dormire in quella situazione non era certo una prospettiva piacevole. Nuvole cremisi cominciavano a comparire all’orizzonte mentre il sole bianco si stava tingendo di azzurro. Un’aurora gialla e lontana dal punto verso cui era diretto l’astro si stava formando, e quella mancanza di simmetria lo colpiva, anche perché la luce non accennava a diminuire. Tutto fu chiaro quando in mezzo a quelle formazioni di zafferano si alzò un grande sole simile del colore di un tuorlo d’uovo. Il suo corso era più rapido di quello del compagno tramontato, ma nonostante ciò era troppo lento. Cercò di vincere il sonno. Era chiaro che delle correnti lo stavano trasportando, e che quello che poteva fare nuotando non poteva essere di grande utilità. Si avvicinò ad alcuni pesci morti. Se quelli erano pesci, lui non ne aveva mai visto uno in vita sua. Si ricordò dell’immagine di un fossile vivente chiamato celacanto, e decise che era quanto di più simile fosse stoccato nel suo archivio mnemonico. Avevano molti ordini di pinne soprannumerarie e un orrendo becco di pappagallo. Gli occhi grossi erano di un nero così lucido da sembrare palline di ematite. Quando la fame avesse cominciato a fare sentire i suoi morsi, non avrebbe avuto altra scelta che cibarsene. Per il momento il suo stomaco sembrava morto e non gli comunicava la benché minima necessità. Scacciò il pensiero delle pulci di mare e si addormentò di nuovo.
3.
Quando l’uomo si destò dal sonno pesante si sentì invadere dal raccapriccio. Una colonia di pulci marine si era accalcata su di lui, premendo fastidiosamente. Alcuni esemplari erano lunghi quasi una decina di centimetri. Stavano nutrendosi dei brandelli dei vestiti. Cercò di cacciarle via, ma presto si accorse che nuotava in una densa zuppa di quegli animaletti, e in quella poltiglia galleggiavano grandi isole di alghe carnose e fetide. L’odore era un nauseabondo misto di salsedine e di smegma, e sembrava qualcosa di denso, che si muoveva in banchi visibili come tremolii nell’aria caliginosa. Entrambi i soli erano in cielo: quello di un placido giallo tuorlo e quello di un maligno bianco. Alzò lo sguardo ancora appannato per scrutare l’orizzonte e a un tratto si accorse di qualcosa di atroce, una visione apocalittica che incombeva: una massa gelatinosa più alta di una montagna, galleggiante tra le onde. Era un physeter colossale dalla forma di sacco di plastica trasparente, rigonfio e dotato di una spessa cresta gelatinosa. Dalle sue propaggini inferiori si espandeva in acqua una cascata di tentacoli blu, così urticanti da far ribollire ogni cosa nel raggio di molte miglia. Quanto poteva essere grande quell’obbrobrio? Sembrava che le correnti stessero accelerando in modo impressionante, trasportando continenti di rifiuti organici e di carogne verso le cellule gastrozoidi. Si sentiva una vittima inerme catturata da un nastro trasportatore, e le dimensioni del mostro si ingigantivano rapidamente. Man mano che le distanze si riducevano, l’abnormità del sinoforo lo riempiva di una nuova definizione di terrore, qualcosa che trascendeva gli stessi fondamenti biologici delle tempeste adrenaliniche. Non potevano esserci dubbi: in ciò che ora lo sconvolgeva c’era un’essenza metafisica. Vide un filamento blu intenso pieno di vescicole che sembravano di plastica farsi strada tra i mucchi di crostacei decomposti alla deriva. Qualcosa gli sfiorò una gamba e sentì l’acido farsi strada sulle sue gambe e aggredire i tessuti. Lo strazio che provò al contatto con quel liquame caustico era insopportabile, ma nonostante ciò poté constatare che la carne non veniva corrosa. Udì il riverbero di un essere intrappolato eoni prima in quello stesso inferno, e capì che il suo urlo verso il cielo non euclideo non sarebbe mai morto.
Marco "Antares666" Moretti
Nessun commento:
Posta un commento