I PRIMI CINQUE MINUTI DOPO LA MORTE
Stavo camminando con grande fatica. Affannandomi, seguivo un impervio sentiero montano. Le cime innevate erano incredibilmente cristalline, il sole bucava il cielo sconfinato come una fornace letale di un giallo caustico. Cauterio dello Spirito, quell’astro feriva le deboli retine dei miei occhi. Mi sembrava di essere trafitto da ogni singolo raggio che arroventava il suolo, i fotoni solari trasformati in dardi in grado di bucare la mia fragile epidermide. Ero un lebbroso. Sentivo come corpi estranei gli arti avvolti in spesse bende sporche di pus e di sangue rappreso. Se la malattia fosse ancora peggiorata, sarei stato costretto a nascondere il mio stesso volto all’azzurro: i miei lineamenti erano già molto deturpati, ricoperti di grossi tuberi rossastri. Ognuno di questi schifosi tumori tendeva ad ulcerarsi, spurgando un umore acre che feriva le mie narici. La mia mano sinistra era ormai priva di dita, la destra era tanto rattrappita che a stento riusciva a stringere il bastone da viaggio. In alto, proprio in cima alla montagna più alta, c’era il Castello del Drago. Dovevo raggiungerlo, perché se non avessi supplicato il malvagio Signore dell’Universo, non avrei mai potuto trovare il mio conforto nell’Annientamento. L’unica vera salvezza che potevo aspettarmi: la Morte Totale, la Morte Definitiva. Dovevo fare ancora molta strada per arrivare lassù. Le ore del giorno sembravano non passare mai: il sole era fisso nel Cielo di Luzabel, come l’occhio di un aguzzino ciclopico. Forse proprio quella grande volta di un turchese assoluto era la restaurazione dell’originale Cielo di Vetro, quello che andò in frantumi quando il Drago mosse ai Buoni Spiriti la Prima Guerra Cosmica. I sassi che formavano il sentiero erano acuminati, e di certo avrebbero tagliato i piedi di un comune viandante fino a farli sanguinare. Essendo colpito dalla più immonda elefantiasi, la mia pelle era insensibile come una suola di cuoio. Non di rado mi capitava di scorgere una scia di orribili liquami dietro di me. A un certo punto ho raggiunto un ruscello che scendeva da un pendio roccioso, attraversando il sentiero e disperdendosi in una gola profonda poco sotto. Mi sono fermato un attimo a riflettere. Il sole non era davvero immobile, sembrava piuttosto un frattale brulicante scosso da perenni convulsioni. La sua radioattività mi si riversava addosso, provocandomi un’abbondante sudorazione. D’un tratto mi sono messo in allarme. Ho visto qualcosa muoversi in lontananza. Un animale, non ci potevano essere dubbi, che stava percorrendo la mia stessa strada, ma nel verso contrario, venendo verso di me. Forse stava scendendo direttamente dal Castello. La sua andatura era traballante. Man mano che si avvicinava, potevo distinguere con sempre maggior chiarezza i particolari di quella sagoma che pareva uscita da un incubo delirante. Era un bruco grande come un cane massiccio. Procedeva sugli pseudopodi, contraendo e rilassando la massa delle sue viscere sotto il pingue mantello scarlatto. Aveva sul grosso capo due decorazioni simili a grandi occhi dalla pupilla nerissima. I veri occhi, composti da ommatidi, erano più sotto. Le fauci robuste e scure avrebbero benissimo potuto lacerarmi una gamba e masticare la mia carne in sfacelo. Il dorso gobbo era ornato da ciuffetti di cernecchi neri, mentre ocelli biancastri marcavano ogni segmento del suo addome. Dalla coda, proprio vicino alla regione anale, si protendevano due lunghi flagelli a segmenti bianchi e neri, molli, che si contorcevano senza sosta. Sono stato preso da un acuto conato di vomito. Qualcosa dentro di me mi diceva di distogliere lo sguardo dalla larva scarlatta, ma poi i miei occhi rimanevano immobili, incapaci di sfuggire all’ipnosi luttuosa che li incatenava. Intorno a quel demone l’aria sembrava tremolare. C’erano sciami di piccole mosche che gli ronzavano attorno, attratte dai suoi effluvi pestiferi. O forse i molesti insetti erano attratti dal colore e dalla consistenza del budello, che ai loro sensi era simile a un gran pezzo di carne? Dovevo scappare. Non c’erano dubbi. Se fossi stato raggiunto, sarei stato dannato. Sembrava che una voce senza parole parlasse dentro di me, muovendosi inquieta nelle profondità della mia anima come un uccello svolazzante. All’inizio facevo fatica ad interpretare quei pensieri muti, la cui origine non conoscevo. Poi però, mentre il bruco infernale si avvicinava inesorabilmente, ho saputo per certo che se non mi fossi nascosto, sarebbe avvenuto qualcosa di assurdo e tremendo: i Demoni dell’Etere avrebbero catturato il mio spirito rinchiudendolo nel corpo del bruco, e avrebbero tolto dalle carni larvali la Legione che vi era rinchiusa, dandole possesso sul corpo lebbroso che indossavo. “Via da me, Cane dei Morti!”, mi sono messo ad urlare mentre mi precipitavo dall’unica via di fuga, un pendio franoso. Il suono delle mie parole sembrava estinguersi in un silenzio ovattato, densissimo, poco dopo che era uscito dalla mia gola. È stata una caduta rovinosa, che mi ha provocato diverse fratture scomposte, ma almeno sono riuscito a sottrarmi a un pericolo tanto atroce. Guardavo in alto, fin dove la mia vista poteva arrivare in quello spazio ricurvo. Dovevo essere rotolato per almeno tre miglia sulle rocce. In cima al pendio, il bruco scarlatto si guardava attorno con aria sospettosa ed irritata, contorcendosi, sollevando il capo e la gobba. Qualcosa lo tratteneva dall’inoltrarsi giù per il pendio. Ho immaginato che fosse in qualche modo consapevole che la sua via in una pietraia tanto perigliosa gli avrebbe arrecato ferite mortali. Poco dopo la ripugnante larva si è ritratta dal bordo del dirupo ed è scomparsa alla mia vista. Una cosa era certa: non potevo sperare di tornare da dove ero venuto. Davanti a me c’era una grande cavità che sembrava essere stata scavata nelle pareti rocciose di una montagna dallo scalpello di un gigante. Una corrente fragorosa di acqua gelida si rovesciava nell’Abisso, scaturendo da una ferita nel fianco dell’altura che mi stava di fronte. Una strana salsedine giungeva fino a me, facendomi bruciare le ferite e le piaghe. Cosa potevo fare in quella circostanza davvero singolare? Al solo pensiero di muovermi, una stanchezza mortale mi colpiva. Sentivo un terrore sordo, assoluto, alla sola idea di gettarmi nella corrente che conduceva in un inconoscibile universo ctonio. L’unica alternativa era rimanere lì al mio posto, a lasciarmi uccidere dagli spietati strali del sole assassino. Mentre giacevo in quel luogo, meditando questi pensieri, mi sono accorto di qualcosa che prima non avevo notato. La mia vista si era espansa in modo incredibile, riusciva a cogliere dettagli che non avrei mai ritenuto possibile notare. Ma da questa nuova visione delle cose non ho avuto nessun giovamento. Mi sono accorto che l’intera realtà che mi teneva prigioniero era composta da un microscopico frattale di minuscoli vermi, intrecciati e brulicanti in un numero talmente grande da non poter neppure essere contato in un milione di eternità.
Marco "Antares666" Moretti
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