Discendo da una casata nobiliare che ha sempre sostenuto la religione dei Ferengal. A causa delle frequenti unioni tra consanguinei che si sono succedute nel corso dei secoli, ho ereditato un carattere ipereccitabile, lunatico e incline alla paranoia. Dato l’obbligo di nascondere la propria professione religiosa alle potenze del mondo, la mia stirpe è sempre vissuta in uno stato di costante angoscia. In passato il Re perseguitava i Ferengal e i loro credenti con tale acrimonia da condannarli ad essere bruciati vivi a fuoco lento; per fortuna da secoli questo non è più il costume, ma sanzioni pesanti sono ancora in vigore. La più grave delle condanne è l’Intoccabilità. Se filtrasse qualcosa al di fuori delle mura domestiche, tutto sarebbe perduto. Lo stato feudale, le nostre ricchezze, la nostra rispettabilità sociale. Mia madre, mio padre, i miei zii, mia sorella, i miei primi cugini, tutti diventerebbero degli Agoth, evitati e disprezzati persino dai servi. Per quanto mi riguarda, la maledizione non potrebbe arrecarmi un così grave pregiudizio, essendo io già sepolto in questa tomba segreta e traendo il poco fiato a me necessario da una cannuccia fatta passare in un’intercapedine invisibile dall’esterno.
Dovrei andare con ordine nel narrare le mie disgrazie a beneficio dei soli spiriti dell’Etere: nessun essere vivente di figura anche vagamente umana potrebbe ora raccogliere la mia eredità. Ma esiste sempre la speranza che il rantolo della mia agonia possa trasmigrare in un altro universo, ripetuto dalle voci delle larve dei morti per essere finalmente captato da un apparecchio elettromagnetico, trascritto e consegnato ai posteri.
Ricordo il laboratorio del dottor Ansinaskar, in cui avvenivano quei pericolosi esperimenti mesmerici che mi hanno condannato. Quel luogo sinistro era da anni il funto focale di tutta una comunità di cosiddetti Spiriti Liberi, gente che riteneva ogni forma di religione una cariatide della preistoria e che si adoperava per la sua sostituzione con un panteismo indifferenziato. Dal canto mio, cercavo nelle sedute ipnotiche del dottor Ansinaskar la soluzione di un arduo enigma intellettuale: anche se non potevo farne esplicita menzione, intendevo trovare prove che confermassero o smentissero la dottrina della reincarnazione tipica della Fede dei miei Padri.
Avrei dovuto ascoltare gli ammaestramenti dei miei e tenermi alla larga da un simile covo di empietà, ma all’epoca ero spinto dagli ardori di una gioventù scapestrata e ribelle, cosicché ogni volta che mi si ammoniva io ero spinto a far tutto l’opposto.
Durante una seduta particolarmente drammatica, fui sottoposto al fluido mesmerico e qualcosa entrò in me. Vidi un’ombra scorrere vicino alle imponenti lampade di peltro che emanavano la loro lugubre luce nella grande sala. Seguendo i movimenti di quell’entità spettrale, ebbi l’impressione di assistere a una caccia. Un predatore stava balzando sulla preda. Quando il concetto fu chiaro nella mia mente, compresi che la preda ero proprio io: quella cosa entrò dentro di me. Cominciai a parlare…
Rammento ancora ogni dettaglio di quella cruciale esperienza, con una precisione sconosciuta ai ricordi della mia infanzia e della mia adolescenza. Avevo cessato di essere nel mondo che aveva visto la mia nascita. La mia identità era diversa. Pensavo e parlavo con la massima naturalezza in una lingua sconosciuta, le cui bizzarre parole sono riuscito a trattenere nella mia mente. Il mio nome era Edgar Allan Poe.
All’improvviso fui certo di avere un corpo fisico, potei toccare il mio volto con mani che non riconoscevo come mie. Una nebbia impenetrabile rendeva invisibile ogni cosa intorno a me. Camminavo senza meta, barcollando in preda a un orrendo delirio. Mi sembrava di aver bevuto fin quasi a morirne un qualche liquore intossicante che a tratti mi ritornava in bocca con aspri rigurgiti. Le articolazioni mi dolevano, come se qualcuno mi avesse colpito a randellate e fossi a malapena riuscito a sfuggire a gravi fratture. Non ne potevo più del sordo dolore che gravava sulle mie membra martoriate. Le forze mi stavano venendo meno. Mentre pensavo qualcosa, accadde un fatto che mi lasciò sconvolto. Un vento gelido soffiò via la nebbia, mostrando un cielo alieno, atroce, con una luminaria bianca che brillava nel manto nero della notte come un teschio ghignante.
Ritornai in me urlando come un ossesso. E forse ero proprio questo: un posseduto dai demoni. Un dolore simile a quello di una pugnalata mi squarciò il cranio, solo a fatica riuscii a riconoscere le persone che mi stavano intorno. Dissero che avevo a lungo delirato in una lingua composta prevalentemente da parole brevi e impastate, una favella incomprensibile mai udita da orecchio umano.
Quando ci si desta da un sogno, ogni dettaglio tende a sfocarsi e alla fine svanisce nel nulla. Solo eccezionalmente si riesce ad imprimere qualche vicenda onirica nella memoria. Ancor più raro è che parole udite tra le brume oniriche possano conservarsi per più di qualche istante alla luce della coscienza vigile. Invece a me accadeva di poter parlare, sapevo come identificare correttamente ogni oggetto servendomi di quell’idioma astruso. Di più, cominciai a farmi portare fogli di carta e ad esercitarmi a scrivere. Che assurdità: quella lingua non si scriveva come la nostra, tramite alcune centinaia di geroglifici, ma servendosi soltanto di ventisei semplici caratteri, più o meno corrispondenti ai suoni emessi dalla glottide. Una cosa davvero stravagante. Cercai di parlarne con mio cugino Khlarn, che mi derise sonoramente. Temendo di esser preso per folle, non feci più menzione ad alcuno di quello che rimase il mio segreto. Dipinsi con inchiostro nero i caratteri che formavano il mio nome arcano. Non senza fatica tracciai su un foglio color crema tre parole: “Edgar Allan Poe”.
Avevo vissuto i peggiori istanti della vita terrena di un uomo che ora si confondeva con il mio essere. “Ne sono certo”, pensai, “Esistono innumerevoli mondi abitati da umani, come il nostro”. Qualche dettaglio emerse dall’oscurità. Mi vedevo intento a scrivere un racconto intitolato “The Black Cat”, ossia “Il gatto nero”. Era una storia terribile che parlava di un uomo che in preda all’ebbrezza finiva con l’uccidere sua moglie a colpi d’ascia per poi murarla insieme a un gatto nero in una cripta.
Cercai di trascrivere il racconto, ma fui colto dalla confusione ed accantonai ben presto il progetto. La mia fronte bruciava di febbre. Non stavo affatto bene, così decisi di mettermi a letto. Fu quello l’inizio di una lunga malattia. Il medico di famiglia disse che era una febbre maligna e che molto difficilmente l’avrei superata. Per quanto il mio corpo sudasse e ribollisse, non per questo la mia mente smetteva di funzionare. Anzi, nella compressione e nell’infiammazione dell’encefalo, raggiungevo una saggezza mai vista prima tra le genti. Ogni tanto, quando le forze me lo permettevano, mi mettevo a sedere sul letto e trascrivevo alcune delle mie illuminazioni.
Questo ad esempio scrissi nel giorno 257 dell’anno 1758 dalla Grande Unificazione: “Il nostro oscuro mondo, che i miei simili stoltamente reputano essere il solo esistente, non possiede luminarie celesti visibili come il mondo di origine di Edgar Allan Poe. Di giorno, un vago chiarore rischiara le eterne coltri di nubi, di notte regna incontrastato l’Abisso. Un anno si definisce come il tempo che intercorre tra il Giorno del Drago, il più lungo del ciclo e il Giorno del Lupo, in cui quasi non c’è luce. Il motivo di questi cicli era però finora un mistero imperscrutabile. Ora so quello che tutti i sapienti ignorano: c’è una grande lampada oltre quelle nubi grigie a volte calme e a volte vorticose che intristiscono e consumano gli umori dell’umanità.”
Quando i miei venivano a trovarmi, nascondevo con cura i miei scritti sotto il cuscino. Ma tanto a loro non interessavano i miei vaneggiamenti. Mia zia mi disse che pregava il Vero Dio, Balagon, affinché confondesse i demoni che mi stavano divorando. Per i Ferengal tutto l’universo fisico è opera del Demonio, Beylghilflar, e il Vero Dio non ha alcun potere sugli elementi terreni; si dice però che in alcune circostanze possa proteggere gli Spiriti caduti nella prigionia della materia.
Sempre avvolta nel suo nero abito da Perfetta, mia zia usciva molto raramente dalla sua cella, e sentiva che presto avrebbe abbandonato la vita terrena astenendosi da ogni cibo. Mi salutò, dicendomi che probabilmente quella sarebbe stata l’ultima volta in cui qualcuno l’avrebbe vista viva. Rimasi molto scosso dalle sue parole.
Contro ogni previsione, accadde che proprio nel Giorno del Lupo di quell’anno di sciagure, cominciassi a stare meglio. Il nuovo ciclo del tempo coincise con la mia convalescenza. Diminuirono febbri e sudori, e nel giro di dodici giorni fui in grado di riprendere le mie attività.
Con più folle audacia che buon senno, ripresi a frequentare il laboratorio del dottor Ansinaskar. Non volevo ammettere con me stesso che stavo giocando con il fuoco, che stavo sfidando quegli stessi demoni che molto a malincuore avevano mollato la presa dei loro artigli, lasciandomi indebitamente libero. Non seppi essere grato al Vero Dio della recuperata salute, anzi, sfidai lo Spirito immischiandomi con gente sacrilega e materialista. Fu in una delle prime sedute di quell’anno 1759 che conobbi una bellissima fanciulla. Mi colpì tanto la sua eterea bellezza che decisi di farne la mia sposa. Si chiamava Vlensild, ed era la figlia del Duca di Kutughar. Fui subito attratto dalle sue chiome bionde, lunghissime e lisce, dai suoi occhi cerulei, dalle sue membra delicate ed esili, dal candore marmoreo della sua pelle tanto sottile da lasciar intravedere l’azzurro delle vene.
Cominciai a corteggiare la nobildonna. Bruciavo d’amore per lei, tanto che ogni giorno senza di lei mi sembrava un supplizio. Contavo di chiederla presto in sposa, anche se non sapevo come far mandare giù questo amaro boccone alla mia famiglia. Tutti erano infatti concordi nel definire il matrimonio meretricio, lupanare infetto e opera di Beylghilflar. L’unione carnale era possibile solo all’interno della stirpe e al solo scopo di trasmettere la Fede dei Ferengal fino alla Fine dei Tempi. Stando a questa logica, avrei dovuto unirmi a una mia cugina o meglio ancora a mia sorella. Era inammissibile un matrimonio d’amore, perché proprio l’amore era riconosciuto come Male Assoluto. Inoltre il padre di Vlensild, il Duca Hasturk, odiava mortalmente i Ferengal, e i suoi antenati ne avevano bruciati vivi molti. La religione dell’eterea Vlensild era quella del Regno Unificato, la ripugnante Om Bohokhrift, ossia un culto idolatra dei demoni e dei vampiri.
Se avessi continuato nella mia insana passione per una donna della stirpe di Kutughar, discendente proprio dai più feroci carnefici dei miei correligionari, mi sarei macchiato di una tale infamia che sarei stato rinnegato ed escluso dal Sacramento del Fuoco. Persino mia madre mi avrebbe maledetto, e stando ai dogmi dei Ferengal sarei stato dannato in eterno. Come fare?
Preso in una morsa, scisso e conteso tra le mie necessità e quelle della mia famiglia, non osai prendere la decisione di far morire la cosa sul nascere, come avrei invece dovuto fare. Continuai a blandire la mia adorata, e presto arrivai ad avere da lei il permesso di poterle baciare le mani. Accostare le mie labbra a quella pelle mi faceva quasi svenire dall’emozione: non avevo mai potuto toccare una donna una sola volta in vita mia prima di allora.
I miei sospettavano che le mie continue uscite notturne nascondessero qualcosa di turpe. Quasi prevedendo un futuro nefasto, mio padre mi ammonì, dicendo che avrebbe ricevuto con minor pena la notizia della mia morte, piuttosto che quella di una mia azione disonesta. Mi disse altresì che se proprio non potevo fare a meno di peccare, meglio sarebbe stato giacersi con una donna prezzolata che con una prostituta legittima: nel primo caso il male non sarebbe durato oltre l’avventura.
Non diedi ascolto a nessuno di questi saggi consigli e insistei con il mio amore proibito per la figlia del Duca Hasturk. Era una cosa grossa, se appena ci avessi pensato avrei capito che non aveva il minimo senso bramare di unirmi nella carne a lei: sarebbe stato come copulare con l’assassina dei miei cari.
Il profumo della pelle di Vlensild mi inebriava e mi faceva perdere ogni cognizione. Così accadde che una notte, appena usciti dalla riunione nel laboratorio di Ansinaskar, lei mi prese da parte e mi baciò in bocca. Sentii la sua lingua e la assaporai. Tutto accadde come per automatismo. Lei si spogliò, mostrandomi qualcosa che non avevo mai visto. Non potei resistere. Mi guidò all’atto con mille impudicizie, così fornicai con lei e finii con l’emettere il mio seme nel suo ventre.
Stavo tornando a casa in carrozza, quando un dolore insopportabile mi annientò. Era come se mi avessero conficcato una lama all’interno della scatola cranica per poi scoperchiarmi e mettere a nudo il cervello. Ebbi la sensazione che un corvo si fosse posato sulla mia fronte per immergere il becco nella materia grigia sanguinolenta. Vedendo in che stato ero, il cocchiere mi sorresse, non senza fatica, e mi trascinò fino al castello. Quello che sarebbe seguito non potevo far altro che accettarlo.
Sapevo di non poter evitare la riunione di famiglia. Con il mio comportamento stravagante avevo troppo spesso minacciato di valicare i limiti ultimi dei tabù che gravavano sulla mia stirpe. Le mie frequentazioni non erano passate inosservate, così mia madre aveva riunito il parentado al completo per tenermi una predica. Forse mentre ero privo di sensi avevo rivelato qualcosa di cruciale, perché quando entrai nella grande sala, vidi che le espressioni di tutti erano funeree come non le avevo mai viste. Mio zio Gasthn, che era l’Anziano dei Perfetti, mi fissò a lungo. Non leggevo commiserazione nei suoi occhi, ma qualcosa di molto più tremendo. Se fossi morto, in fondo sarebbero stati felici per me: avrei abbandonato l’involucro corporale e avrei potuto conseguire una migliore rinascita. No, quello non era il mio funerale. Mi guardavano come se avessi subìto la Condanna Eterna.
Mia madre prese la parola. Mi disse, col tono più grave, che quanto avevo fatto era tanto perverso ed infame che nulla poteva purificarmi. Il mio commercio carnale con la figlia di un persecutore comportava una colpa tremenda e rivelava in pieno la mia natura diabolica. Non ero un Figlio della Luce, ma un Figlio di Beylghilflar. Non avrei potuto perciò abitare più nella dimora avita, non avrei più potuto turbare la santità di quei luoghi che avevano dato ai Ferengal tanti Perfetti. Fu così che fui allontanato, ma con tutte le garanzie che il mio rango terreno comportava davanti agli occhi dei principi di questo mondo. Non avrei avuto di che lamentarmi. Mi fu concesso di abitare nel castello di Altoghand e mi fu assegnata una notevole rendita, purché conducessi la mia esistenza lontano dagli altri membri della famiglia.
Altoghand si trovava oltre un territorio desolato. Era un luogo impervio e isolato, in cui sorgeva un’imponente dimora turrita costituita da enormi blocchi di basalto nero. In passato l’avamposto era servito ai Ferengal come rifugio dalle persecuzioni. La strada per raggiungere la fortezza si prestava a trappole micidiali e poteva essere interrotta in più punti, tagliando fuori ogni tentativo di invasione. Io sapevo i sentieri segreti che mi avrebbero permesso un viaggio relativamente sicuro, evitando le morene e i punti più franosi. In attesa di ultimare i preparativi per il trasloco, andai ad abitare in una locanda che si trovava non lontano dal laboratorio del dottor Ansinaskar. Passò qualche mese senza che potessi rivedere la mia amata Vlensild. Mi fu detto che non stava bene e che il suo augusto genitore le aveva revocato il permesso di uscire come aveva saputo che frequentava il Circolo dei Mesmeristi.
Sentivo che prima o poi mi sarei imbattuto in un ostacolo insormontabile. Quando finalmente lei si fece viva, una notte in cui il gracchiare dei corvi sembrava rivelare sintomi di natura turbata, per poco non persi i sensi dalla gioia. Mi disse che era fuggita eludendo la sorveglianza delle guardie ducali e che di certo i suoi l’avrebbero presto cercata. Quello che aggiunse mi diede un tremito ancora maggiore. La fornicazione che c’era stata tra noi l’aveva resa gravida. Se l’avessi presa con me, si sarebbe concessa in matrimonio e saremmo vissuti insieme per il resto delle nostre vite. Con il cuore che mi palpitava in gola accettai.
Andammo in un tempio della religione Om Bohokhrift e giurammo fedeltà reciproca davanti a uno dei suoi stregoni. Una cerimonia riservata che si svolse in gran fretta e col favore della notte per paura che i sicari del Duca potessero rintracciarci. Quando il sacerdote benedisse la nostra unione aspergendoci di sangue sacrificale, potei finalmente baciare la sposa. Sollevai il suo velo nero e accostai le mie labbra alle sue. Ora che la mia Vlensild era incinta avevo un’immane responsabilità. Le credenze ereditate dai miei stabilivano infatti che una donna morta in quello stato sarebbe stata destinata ad ardere in eterno nel fuoco nero degli Inferi. Anche se contemplando i suoi bellissimi occhi e il suo radioso sorriso non potevo credere che quanto asserivano i Ferengal fosse vero, non sapevo trovare un solo argomento razionale per escluderne a priori la possibilità. Pensai che troppe volte le cose più incredibili accadono. Chi l’avrebbe mai detto che le diavolerie faalu del dottor Ansinaskar mi avrebbero reso incerto persino della mia identità? Eppure era accaduto. Non potevo correre rischi.
Il grigio lucore del giorno iniziava appena a filtrare dalla coltre di nubi chiamata cielo, quando partimmo in carrozza per Altoghand. Non c’era più il cocchiere della mia famiglia, e anche il veicolo non era lo stesso. Mio cugino Khlarn non aveva esitato ad accaparrarsi dei beni tanto importanti, così avevo comperato una carrozza nuova, più modesta ma funzionale, e avevo affittato un conducente tramite il gestore della locanda in cui alloggiavo.
Il viaggio proseguì per tre giorni e tre notti, con soste limitate al minimo indispensabile per cambiare i cavalli. Raggiunti i confini della pietraia, ci toccò proseguire a piedi. La strada non era abbastanza larga perché un veicolo potesse percorrerla. Mia moglie propose di assoldare una guida, ma io sapevo di non poter rivelare la strada che intendevo percorrere. Se lo avessi fatto, sarei stato costretto ad uccidere la guida una volta arrivati. La cosa mi ripugnava al punto che opposi alla richiesta di Vlensild un netto rifiuto. Le dissi che sarei bastato io per difenderla da ogni insidia, e cha avrebbe dovuto togliersi quel ridicolo abito nuziale che ancora indossava. Lei si limitò a sistemarsi la veste in modo che non desse troppo fastidio e ribatté che avrei dovuto condurla nel castello così addobbata, come da tradizione Om Bohokhrift. Mio malgrado fui costretto a cedere. Nonostante la mia baldanza, dovetti riconoscere che la strada fu lunga e difficile. In certi punti vidi distintamente ombre guizzanti che si agitavano. Mi parve anche di sentire dei versi strazianti che lì per lì non fui capace di interpretare. In ogni caso erano inquietanti e mi fecero venire la pelle d’oca. Non erano lupi, sembravano più felini.
Mentre procedevamo, meditai amaramente sulla mia breve esistenza. Avremmo dovuto restarcene tagliati fuori dal mondo per molto tempo, e non era garantita la nostra sopravvivenza. A quanto ne sapevo restava nella dimora di Altoghand un solo custode assai in là con gli anni. Non era possibile avere alcuna assistenza medica. Ogni malattia poteva condurci alla morte. Quello che non volevo ammettere era che non avevamo alcuna scelta. Esplorai il mondo alternativo da cui tanto avevo imparato, per vedere se le conoscenze di Edgar Allan Poe avrebbero potuto essermi d’aiuto. Niente da fare. L’Edgar Allan Poe che ero diventato mi evocava una gran quantità di vicende turbinose e confuse. Per quanto potessi capire, il mondo dalle grandi luminarie celesti era più complesso del nostro, ma nella sostanza non troppo diverso. “La stessa gretta miserabile umanità dovunque”, sogghignai sardonico.
Quando giungemmo al castello di Altoghand sospirai di sollievo. Dopo tanta sofferenza avevamo il nostro nido d’amore a portata di mano. Ci ero stato soltanto una volta, quando ero ancora un infante. Adesso le mura del maniero mi sembravano ancor più scure e minacciose, forse perché la decadenza era nel frattempo proseguita apportando nuove corrosioni. Un muschio grigio nerastro si insinuava dovunque, intaccando i blocchi di roccia, che pure avrebbero dovuto essere incorruttibili. Dovunque volgessi gli occhi notavo asperità lebbrose e rivoli di umidità.
Percorsi il ponte sul fossato dall’acqua zeppa di fetide alghe. Mi feci coraggio e sollevai il pesante batacchio che serviva ad avvisare della presenza di visitatori. Lo mollai, facendolo cozzare contro una spessa lastra di bronzo che ornava il portone. Il suono rimbombò a lungo, diffondendosi in echi spettrali. Dopo pochi minuti di attesa, il custode venne ad aprire e ci accolse degnamente.
Presi Vlensild e la sollevai, piegandomi alle costumanze della sua religione. La sua corporatura era tanto esigua che non mi fu difficile farle attraversare la soglia senza toccare terra. Ci rinfrescammo e ci rifocillammo, ma lei non volle sentire ragioni: pretendeva di indossare quell’osceno sudario pagano durante l’accoppiamento. Avrei dovuto spiegarle che tanto, visto che avevano commesso peccato e che lei portava in grembo un demonio, il matrimonio poteva dirsi già più che consumato. Invece assecondai la sua immonda lascivia. Dopo che si fu lavata, si denudò completamente e si rimise l’abito nuziale. Io non vedevo l’ora di possederla. Siccome si trovava in stato di gravidanza, mi pregò di prenderla da dietro, per non urtare troppo i miei preconcetti sulla procreazione. Solo l’idea mi produsse una violenta eccitazione. In cambio la presi di nuovo tra le braccia e la sollevai. Le avrei fatto varcare la stanza nuziale senza il minimo contatto col pavimento. Il custode prese una torcia da una parete e ci fece strada.
Vlensild non si aspettava che la stanza fosse in realtà una cripta. Era naturale che fosse così: essendo ogni forma di sesso detestata dai Ferengal, doveva essere consumato nel sottosuolo, dove Balagon non avrebbe mai potuto assistere alle sconcezze dei suoi figli caduti dal Cielo. La luce tremolante della torcia illuminava le pareti di quell’inferno ctonio, mettendo in evidenza ogni tanto delle strutture ad arco fatte di mattoni e di calce. Non potevo dire alla mia sposa che lì dentro erano state murate vive delle persone. Quando ero un bambino, mia zia mi raccontava sempre che spesso ad Altoghand si sentivano i lamenti dei morti, anime dannate rinchiuse in recessi angusti per le loro innominabili colpe. Sarà stata la suggestione, ma proprio mentre ci pensavo udii un verso raccapricciante. Adesso lo riconobbi: era l’urlo di un felino rabbioso.
Chiesi a Vlensild e al custode se avessero sentito nulla, ma loro negarono.
La camera da letto sembrava in tutto e per tutto un sepolcro. Il grande letto era tutto nero e coperto da un baldacchino dello stesso colore. Ai quattro angoli della stanza c’erano altrettanti sarcofagi in marmo massiccio, ornati da sculture di scheletri grotteschi. Le macabre figure sembravano modellate nel burro, tanta era la maestria con cui erano state intagliate. Dalle orbite dei teschi l’oscurità sembrava irradiare, il nero del marmo era come una lampada che divorasse la luce. Alzai gli occhi al soffitto. Sembrava di essere in un ossario: tutto era stata ricoperto da resti umani ripuliti. Persino i lampadari erano formati da spine dorsali e da decine di teschi deformi.
Una torcia ardeva ad ogni angolo della camera, assicurando una fioca illuminazione. Non perdemmo tempo. Mia moglie si mise sul letto sulle ginocchia e sui gomiti dopo aver alzato la nera veste nuziale. Mi parve di vedere un’ombra guizzare, ma non ci feci caso. Ero pieno di libidine, così misi allo scoperto la mia virilità e iniziai a possederla come lei desiderava. Ancora quel dannato, indescrivibile verso! Era evidente che l’anziano servitore aveva permesso a qualche gatto di vivere nel castello. Adesso gli infelici animali erano in calore e si dilaniavano. Nonostante la paura e il disagio che quelle bestie mi mettevano, il mio ardore non diminuiva. Vlensild gemeva di piacere. L’indomani avrei dato disposizioni perché quelle bestie immonde fossero cacciate via o uccise. Meglio uccise, conclusi.
Un rumore nuovo mi vece balzare sul chi vive. Questa volta sembrava che un grande vaso fosse caduto e si fosse rotto in mille pezzi. Ancora i gatti. Accidenti a loro, così non potevo andare avanti. Mi tirai fuori dalla mia adorata e mi incamminai verso l’ingresso. Presi una torcia e mi affacciai al corridoio. Uscii per vedere cosa stava succedendo. Proprio in quel momento accadde la sciagura. Un sibilo intensissimo, come una freccia di acciaio che fendesse l’aria. Poi l’urlo agghiacciante di Vlensild. Fortissimo, senza fine. Entrai e quando vidi ciò che stava accadendo i capelli mi si rizzarono come gli aculei di un istrice. Un piccolo gatto nero come la notte era balzato sul volto di mia moglie, dilaniandolo crudelmente con i suoi artigli affilati come rasoi! Aveva la testa piccolissima, con le orbite scavate al cui interno non si vedevano gli occhi, quasi fossero nere ferite nel bitume. Il corpo inarcato mostrava il pelo eretto, gli artigli scavavano negli occhi e nel volto di Vlensild, che ormai era del tutto cieca. Non riuscivo a reagire, ero paralizzato dal terrore, i muscoli mi erano diventati talmente rigidi che mi sembrava di essermi trasformato in un blocco basaltico. Il felino demoniaco era solido, ma al contempo sembrava che la sua sostanza fosse ombra condensata. Non era un essere naturale! Quando potei assumere di nuovo il controllo sul mio corpo, la mia Vlensild amatissima era stata uccisa. Ciò che seguì, avvenne in una frazione di secondo. Il gatto dell’Inferno girò il muso verso di me, preparandosi a balzare. Non avevo tempo di pensare, scattai e fuggii a precipizio per il corridoio, stando bene attento a non mollare la torcia. Corsi ed urlai fino ad esaurire il fiato nei polmoni. Mi accorsi che il custode non c’era: aveva pensato bene di dileguarsi, o forse Beylghilflar se lo era preso prima di esigere mia moglie in tributo. Le ombre balzavano dietro di me, i versi dei felini crebbero in intensità e in numero. Mi girai per un attimo indietro, solo per vedere la piccola figura di uno di quel mostri catapultarsi a mo’ di proiettile. Aprii un portone e lo chiusi, mentre i miei persecutori si accanivano contro l’inatteso ostacolo. Mi fermai a riposare un po’.
Proprio quando sembrava tutto finito, con orrore mi resi conto che c’era un altro felino che saliva da una rampa di scale. Mi precipitai in un corridoio laterale, fino a giungere a un vasto salone dove si trovavano le catacombe. Nelle pareti erano scavati molti loculi in cui potei distinguere di sfuggita resti di ossa e di marciume. Il tanfo dei secoli mi avvolse e mi saturò. Come se la mia mano fosse guidata da una potenza soprannaturale, puntai la torcia verso il centro della stanza, scoprendo una botola che conduceva nel sottosuolo. Mi infilai dentro e mossi la pesante lastra quadrata di marmo per occludere il passaggio. Ero in una tomba. Dovetti sdraiarmi, perché non c’era molto spazio. La fiamma morente illuminò i corpi consunti di alcuni uomini rinsecchiti, di cui si erano conservate alla perfezione le barbe canute. Cercai in tasca e trovai qualcosa di molto utile: la cannuccia che mi serviva per inalare i vapori delle erbe aromatiche. Vidi una crepa nei pressi della lastra marmorea e vi infilai la cannuccia, quindi estinsi in tutta fretta il fuoco. Ecco, avevo trovato la mia ultima dimora. Fuori centinaia di felini impazziti cozzavano contro la botola nel tentativo di entrare: non potevano smettere, semplicemente non potevano.