venerdì 18 maggio 2018

LE ORIGINI DEL BUNGA BUNGA!


Tutti su questo pianeta conoscono la locuzione bunga bunga, con le sole eccezioni degli antropofagi dell'isola di Sentinel e forse di qualche tribù incontattata dell'Amazzonia. Forse. Infatti è possibile che anche tra le più isolate genti della foresta peruviana e brasiliana sia giunta qualche notizia sui festini orgiastici della villa di Hardcore, che tanto scalpore hanno suscitato tra le genti all'epoca del Governo Berlusconi IV. Una grande pubblicità per questo paese, non c'è che dire. Ricordo ancora il sorprendente caso di un connazionale che andò in Botswana, un paese remoto e ancora pagano dell'Africa: appena fece sapere la sua provenienza con un legnoso "Hello, I am from Italy", si sentì salutare così: "ITALIANO BUNGA BUNGA!". Persino in Afghanistan, i Talebani sapevano tutto e ne ridevano. Il colmo si ebbe quando in Argentina fu aperto un bordello intitolato Palacio Berlusconi, il cui proprietario intendeva replicare proprio il famoso rito, il bunga bunga! Quattro sillabe soltanto, che mimano il rumore prodotto dallo stantuffare di un fallo turgido nell'intestino retto, sono bastate a sconvolgere il mondo - anche se a quanto pare si trattava più che altro di lingue che scavavano a fondo negli orifizi femminili. 


Primi tentativi di spiegazione

Sorge a questo punto una domanda. Quali sono le origini del bunga bunga? A quanto è possibile ricostruiere dalla testimonianza dei mass media, la grottesca locuzione cominciò a diffondersi nel 2010. Era a quei tempi opinione comune che Berlusconi avesse appreso il costume del bunga bunga da Muammar Gheddafi, che avrebbe chiamato in quel modo una sessione orgiastica fondata sul sesso anale con prostitute (il condizionale è d'obbligo). L'immaginario italiano trovò naturale far entrare il bunga bunga nel proprio vocabolario, dato che il suono africanoide evocava qualcosa di esotico, sfrenato e primitivo. Oggi queste vocalizzazioni sarebbero definite "razziste", ma soltanto pochi anni fa non ci badava nessuno. Quando venni a conoscenza di questa attribuzione a Gheddafi di una simile onomatopea, rimasi subito molto perplesso e dichiarai il mio scetticismo. Non può avere nulla di arabo, compresi all'istante. Già, perché non è una pretesa così assurda: dal momento che Gheddafi si esprimeva in arabo libico, ci saremmo aspettati un vocabolo tratto da tale lingua, magari adattato in modo grossolano all'italica fonotassi. Non ci pensai troppo a lungo, avendo ben altri problemi - tra l'altro Berlusconi profondeva un impegno indefesso nella causa della censura e dell'annientamento dei blog.


La beffa della Dreadnought

Indagando negli antri del Web, sono riuscito a risalire a una notizia davvero singolare. Nel 1910, esattamente un secolo prima dell'emergere del bunga bunga berlusconiano, un gruppo di rampolli della buona società inglese organizzò una tremenda bravata goliardica. L'ideatore della burla fu il poeta irlandese Horace de Vere Cole, conosciuto per il suo carattere burlone, non dissimile da quello del Marchese del Grillo. Accadde così che lui e cinque suoi amici si travestirono annerendosi il volto, mettendosi barbe posticce, indossando lunghi abiti bianchi e coprendosi il capo con voluminosi turbanti. L'identità di questi buontemponi non è un mistero. Ecco i nominativi: Virginia Stephen, che in seguito sarebbe diventata famosa come Virginia Woolf; suo fratello Adrian Stephen; lo scrittore e  militare Anthony Buxton; l'avvocato dell'Alta Corte Cecil Guy Ridley e il pittore Duncan Grant. Cole intendeva spacciarsi per l'Imperatore dell'Abissinia e presentare gli altri come suoi dignitari, allo scopo di visitare la corazzata britannica Dreadnought (ossia "Intrepida", da to dread "temere" e nought "niente"). Così fu fatto e tutto andò alla perfezione. L'Imperatore fittizio d'Abissinia e i principi fasulli ispezionarono la nave da guerra mostrando grande interesse. Ogni volta che veniva loro mostrata qualche meraviglia della tecnologia dell'epoca, esprimevano un'immensa ammirazione esclamando: "BUNGA BUNGA!". Questi aristocratici rentiers, che non lavoravano o lo facevano per hobby, simulavano conversazioni abissine alterando versi dell'Eneide, appresi nel corso dei loro studi nelle più esclusive università. Virginia Stephen, che in seguito avrebbe incantato le lesbiche di mezzo mondo, si presentò addirittura come Principe Mendex, parola chiaramente derivata dal latino mendax "bugiardo, menzognero". Sembra evidente che l'educazione dei militari britannici non includesse grandi nozioni di lingue classiche, visto che all'Impero servivano soldati con le palle di granito fumante e non filologi classici. Così il comandante della nave, Sir William May, non ebbe la possibilità di accorgersi che lo stavano tirando per il culo. Tutto si concluse per il meglio, nonostante piccoli incidenti (uno scroscio di pioggia minacciò di sciogliere il trucco degli impostori). Invitati a pranzare a bordo della Dreadnought, i finti abissini rifiutarono con una scusa speciosa: non era loro possibile accettare l'invito per via delle complesse norme alimentari a cui erano soggetti i membri della casa imperiale. La beffa non rimase senza conseguenze: lo stesso Cole fece in modo che divenisse di pubblico dominio. In breve, su tutti i principali quotidiani comparve una foto del gruppo assieme al resoconto dell'impresa. La Royal Navy, coperta di ridicolo e oggetto di satira, chiese subito l'arresto dei burloni. Dato l'immenso potere massonico delle università, il gruppo non conobbe il processo e la prigionia. La punzione fu soltanto simbolica. Ai soli uomini fu assestata una bastonata rituale sulle natiche, che aveva più che altro l'effetto di sottoporre i colpevoli a un'umiliazione. Alla pena scampò Virginia Stephen, il cui delicato deretano fu ritenuto degno di rimanere inviolato. Cinque anni dopo, nel 1915, quando la Dreadnought affondò un sommergibile tedesco, un telegramma di congratulazioni riportava soltanto due parole: "BUNGA BUNGA!". Anche il CICAP ha sentito la necessità di occuparsi dell'argomento, per quanto non veda in esso neppure una traccia di paranormale. 



La questione della pronuncia

Sul Western Daily Mercury comparve a caratteri cubitali il titolo "Bunga Bungle!", ossia "il pasticcio del bunga (bunga)", che giocava sull'assonanza. Questo pone un problema. Dal momento che la pronuncia di bungle è /ˈbʌŋɡl/, sorge il dubbio che bunga bunga potesse suonare /ˈbʌŋɡǝ ˈbʌŋɡǝ/ anziché /ˈbʊŋɡǝ ˈbʊŋɡǝ/, come sarebbe invece naturale. Questo anche perché la colorita espressione si è diffusa soprattutto a mezzo stampa, potendo dar quindi origine a pronunce ortografiche. Gli anglofoni posseggono un sistema molto ingegnoso quanto molesto per scrivere correttamente le parole e i nomi propri che sentono pronunciare: ne domandano lo spelling, ossia la ripetizione rituale e salmodiante dei nomi delle lettere dell'alfabeto che compongono la forma scritta. Così il Signor Beauchamp, il cui cognome suona /'bi:tʃǝm/, intonerà una cantilena irritante scandendo con cura maniacale: "bee, ee, a, u, cee, haitch, a, em, pee". Peccato che non sia mai stato elaborato il procedimento inverso, in grado di permettere di ricostruire la corretta pronuncia dalla forma scritta di una parola senza poterla ascoltare direttamente. Senza un simile espediente, un lettore si troverà incapace di articolare correttamente un nome sconosciuto e inventerà pronunce ortografiche. Aleister Crowley inventò un rimedio rudimentale, ma non riuscì a renderlo generale. Aveva composto alcuni versi inequivocabili per spiegare il giusto suono del suo cognome: The name is Crowley, it rhymes with holy. It isn't Crowley that rhymes with fouly. Con Noam Chomsky la cosa non ha funzionato: il cognome è pronunciato dai più con il suono iniziale di cheese, mentre la pronuncia corretta inizia con il suono aspirato di loch. La controversia sulla pronuncia anglofona di bunga bunga è presto risolta facendo un giro in Youtube: è sicuramente /ˈbʌŋɡǝ ˈbʌŋɡǝ/. Avrei dovuto arrivarci subito, data l'assonanza con bum "chiappe" e bumhole "buco del culo", a loro volta di origine onomatopeica. 



Ulteriori evoluzioni 

In seguito alla beffa della Dreadought, la locuzione bunga bunga finì pian piano con l'acquisire un nuovo significato. A un certo punto cominciò a circolare una storiella con tre esploratori come protagonisti. La riporto in estrema sintesi. Questi esploratori si addentrano in una terra impervia e selvaggia dell'Africa profonda, finendo catturati dai nativi. Il capo del villaggio impone ai prigionieri di scegliere due alternative: o la morte o il bunga bunga. Il primo a cui viene chiesto di scegliere opta per il bunga bunga. Viene sodomizzato brutalmente da tutta la tribù e poi bruciato vivo. Il secondo progioniero, temendo che il capo del villaggio abbia capito male la risposta, sceglie anche lui il bunga bunga. Fa la stessa misera fine dell'altro. Il terzo, visti gli orrori a cui i suo compagni sono stati sottoposti, chiede la morte. Il capo allora gli dice: "Hai chiesto la morte e l'avrai, ma prima divertiamoci con un po' di bunga bunga!". La scelta non era un aut aut, ma un et et. La barzelletta giunse in Italia, a quanto pare negli anni '80. Oltre a bunga bunga, si produce la variante bumba bumba. Alcuni pensano erroneamente che la forma bumba bumba sia quella originale, perché l'avrebbe usata Paolo Rossi nel 2001. A quanto pare costoro ignorano gli antefatti, così la loro tesi è da rifiutarsi. Quello che è certo è che Silvio Berlusconi ha riciclato proprio questo materiale, rilanciando la barzelletta. Secondo alcuni lo avrebbe fatto nell'aprile del 2009, un anno prima della diffusione pandemica di questo splendido ritrovato dell'ingegno umano. Associato allo scandalo Ruby e a voci insistenti su festini degni di Jabba the Hutt, il bunga bunga divenne la cifra di un'epoca.



Sabina Began e una falsa etimogia

I media si sono lasciati incantare da una fola meritevole di scherno. Sabina "Ape Regina" Began, nata Sabina Beganović, attrice tedesca di stirpe bosniaca, affermò in un'occasione che il termine bunga bunga sarebbe stato in realtà un suo soprannome. Sabina "Bunga Bunga" Began. Stando alle sue parole, che risalgono al 2011, la rudimentale onomatopea africanoide sarebbe derivata proprio dalla distorsione del suo cognome abbreviato. Un mai attestato Began Began, ripetuto in modo confuso, avrebbe portato proprio al famigerato bunga bunga. Si tratta chiaramente di un depistaggio. Tra l'altro, le affermazioni della Began non rendono in alcun modo conto dei fatti della corazzata Dreadnought e delle attestazioni inequivocabili della barzelletta dei tre esploratori ben prima del 2010. 



Falsi amici

Nel 1852 l'editore scozzese James Hogg aveva citato in una sua opera un toponimo australiano Bunga Bunga, senza peraltro riportare a questo proposito alcunché di eclatante. A parer mio non è stato questo il punto di partenza del bunga bunga di cui stiamo trattando, la cui origine onomatopeica e i cui connotati sessuali sono fuori discussione. La mentalità che ha portato alla beffa della Dreadnought era impregnata di darwinismo e di positivismo: intendeva ridicolizzare i suoni prodotti dalle genti africane, tutte confuse in un gran calderone, attribuendo loro caratteristiche "scimmiesche". A muovere Horace de Vere Cole, la futura Virginia Woolf e gli altri non fu certo un nome di luogo trovato in uno scritto di Hogg. Resta però una domanda. Qual è l'origine del Bunga Bunga australiano? In malese e in molte lingue indonesiane correlate, bunga significa "fiore". Il plurale è bunga-bunga "fiori", ottenuto regolarmente per reduplicazione. Nel XVIII secolo giunsero in Australia genti dall'Indonesia, prima del capitano James Cook. Questi navigatori ebbero contatti con gli aborigeni - in particolare con gli Yolngu - dando loro in prestito alcuni vocaboli. Un affascinante argomento che purtroppo non può essere sviluppato qui, ma prometto che sarà trattato in un'altra occasione.

martedì 15 maggio 2018

ETIMOLOGIA DI BOOMERANG

La parola boomerang proviene in ultima analisi dalla lingua Dharruk (Dharug). Secondo altri la lingua d'origine sarebbe invece il Dharawal (Tharawal, Turuwal, etc.), che è comunque imparentato col Dharruk e ritenuto un suo sottogruppo. Il termine Dharruk è buumarang, mentre in Dharawal troviamo diverse varianti, come wumarang, bumarang e bumarit, che indicano il boomerang usato in combattimento. Per designare un simile strumento usato per la caccia, si usano altre parole, come warrangan e kurra-bodu

Sussiste qualche dubbio sulle modalità di penetrazione del termine in inglese. Il dizionario Etymonline, che a quanto pare considera estinto il Dharruk, riporta che la prima attestazione della forma boomerang risale al 1827. Viene quindi citata un'altra variante, wo-mur-rang, nel 1798. Mentre Etymonline considera l'informazione abbastanza dubbia, in Wikipedia si riesce a risalire al glossatore, David Collins, e alla sua opera, An Account of the English Colony in New South Wales - Appendix XII (Language). Questo wo-mur-rang di Collins è proprio il Dharawal wumarang, fatto e finito. La forma Dharawal bumarit è riportata in un manoscritto anomino del 1970 con l'ortografia Boo-mer-rit e tradotta con "the Scimiter". Nel 1822 è attestato bou-mar-rang con l'esplicita attribuzione ai Dharawal stanziati nell'area di Port Jackson. Gli Eora, che parlavano una dialetto del Dharug, usavano woomera.    

Come si può vedere dall'opera di Dixon e Blake (Handbook of Australian Languages), nelle lingue Margany e Gunya del Queensland il termine per indicare il boomerang è waŋal. Notiamo però che il giavellotto è chiamato wamada, wamadu o biwiny in Margany e wamaṛa in Gunya. Evidentemente la parola imparentata con boomerang è proprio qualla che indica il giavellotto: si capisce subito che wamaṛa / wamada e boomerang sono derivati dalla stessa protoforma. Non è tuttavia facile capire gli slittamenti semantici che hanno portato alla situazione descritta. Il Margany biwiny deve essere derivato da una radice diversa. Un bastone da getto più piccolo, diverso dal boomerang, è chiamato muru in entrambe le lingue in questione, che sono di ceppo Pama-Nyungan.

Wikipedia riporta un'interessante mappa di diffusione dell'uso del boomerang, opera di SuperJew e basata sui dati di Martyman da Canberra, che linko in questa sede con l'apposito codice (è coperta da Copyleft):  

Australia Boomerang Distribution

Le aree in marrone scuro erano abitate da tribù che ignoravano l'uso del boomerang ("Boomerangs not made"). Le aree in giallo erano abitate da tribù che conoscevano soltanto l'uso del boomerang non ritornante ("Only Non-returning Boomerangs made"). Le aree in marrone chiaro erano abitate da tribù che conoscevano l'uso di entrambi i tipi di boomerang, quelli ritornanti e quelli non ritornanti ("Returning & Non-returning Boomerangs made"). 

Possiamo fare alcune riflessioni a partire dalla situazione storica mostrata dalla mappa. Il boomerang era sconosciuto praticamente nell'intera area in cui sono documentate o tuttora parlate lingue non appartenenti alla famiglia Pama-Nyungan. Per rendersene conto, basta osservare una mappa di distribuzione delle lingue australiane. Riporto da Wikipedia la mappa prodotta da Kwamikagami, che ne detiene i diritti di Copyright ma ne concede gentilmente l'uso: 


Le aree color zabaione sono le sedi di tribù di lingua Pama-Nyungan. Le aree di colori diversi (arancione, grigio e verde pistacchio), nel Nord del continente, sono le sedi di tribù di lingua non Pama-Nyungan. 

L'area corrispondente al Queensland è di lingua Pama-Nyungan ma senza uso del boomerang. Posso immaginare che in origine in quella zona fossero parlate lingue non Pama-Nyungan, poi assorbite dai nuovi arrivati, lasciando eventualmente elementi di sostrato. Sarebbe interessante compiere investigazioni. Anche nel Sud del continente c'è un'area in cui il boomerang non era prodotto. Senza dubbio in passato la situazione linguistica era molto più complessa.

A questo punto salta fuori un grave problema. L'archeologia ci dice che il boomerang è antichissimo e che esistono sue raffigurazioni rupestri risalenti ai primi tempi del popolamento dell'Australia, 50.000 anni fa. La linguistica ci porterebbe a credere a un'invenzione molto più recente, corrispondente al diffondersi delle lingue di tipo Pama-Nyungan (resta aperta la questione se si tratti di una famiglia linguistica valida o di una Sprachbund). Come mettere d'accordo queste evidenze discordanti? La realtà deve essere ben più complessa di quanto immaginiamo. Venirne a capo richiederà molto studio. 

I Tasmaniani, il cui livello tecnologico era talmente basso che ignoravano persino sistemi per accendere il fuoco, ignoravano l'uso del boomerang. Non è però chiaro se sia sempre stato così. Jared Diamond ha scritto delle genti di tale isola, dicendo che vi importarono una tecnologia comune alle genti dell'Australia, per poi perderla. Secondo lo studioso, ritrovamenti archeologici dimostrerebbero che in epoche remote era conosciuto in Tasmania l'ago d'osso, di cui non fu trovata traccia alcuna nell'epoca storica. Per spiegare questi singolari fatti, Diamond ipotizzava che nell'isola visse uno sciamano fanatico, una sorta di ayatollah preistorico, che aveva colpito con l'interdetto diversi ritrovati tecnologici che si sono conservati in Australia. Forse un tempo il boomerang era noto ai Tasmaniani, che ne hanno poi abbandonato l'uso? Forse gli aborigeni australiani di lingua non Pama-Nyungan hanno in gran parte subìto un'involuzione tecnologica di questo tipo? Sarebbe bello poter iniziare un serio dibattito.

ETIMOLOGIA DI VOMBATO

La parola vombato, giunta in italiano dall'inglese wombat, deriva dalla lingua Dharruk, la stessa che ha dato anche i nomi del dingo e del koala. La forma d'origine del nome del goffo marsupiale è wambad, con le varianti wambaj e wambag. La trascrizione di queste forme nell'ortografia inglese ha dato anche womback e wombar, come testimoniato dal database Etymonline. A quanto pare è documentata anche una forma womat, con semplificazione del gruppo consonantico -mb-. Queste oscillazioni si spiegano con ogni probabilità ammettendo che la consonante finale avesse un suono che non veniva interpretato correttamente dagli ascoltatori anglofoni, oppure che una protoforma complessa abbia dato origine a esiti diversi. 

Dai documenti rimasti ai nostri giorni, sembra che la parola sia entrata in inglese nel tardo XVIII secolo con la grafia whom-batt, e che la sua introduzione sia opera di un ex galeotto che viveva con gli aborigeni sulle montagne ad ovest di Sidney. Nel 1798, il whom-batt fu descritto al governatore dello stanziamento di Cove, nei pressi di Sidney, come un grosso animale tra l'orso e il tasso ("a large animal between a bear and a badger").

Nella lingua Wiradjuri, parlata nella regione centrale del Nuovo Galles del Sud, la parola per indicare il vombato è wambad, in pratica la stessa usata in Dharruk. Riuscire a ricostruire una lista di nomi del marsupiale in questione in altre lingue non sembra facile: anche siti che hanno permesso di mettere insieme non pochi nomi del dingo, si dimostrano avari in modo sorprendente. La causa sarà da ricercarsi nell'areale del vombato, che non è poi così esteso: se un popolo vive in un'area in cui non ci sono questi animali, non avrà un nome nativo per indicarli.


A questo punto riporto un caso curioso, che ben si spiega guardando gli areali riportati nel sito. Nella lingua Yukulta (Ganggalida), un tempo parlata nel Queensland, il nome del vombato era wampita. Secondo Dixon e Blake (Handbook of Australian Languages), wampita è un prestito dall'inglese wombat. La cosa può sembrare controintuitiva, ma se nel territorio degli Yukulta non c'erano vombati, la spiegazione è immediata.

Nelle lingue dei Tasmaniani, che erano molto dissimili dalle lingue australiane, il vombato era chiamato raoomta, rowoomata, rowitta, drogermutter (l'ultima forma è glossata "badger", ossia "tasso"). L'attribuzione concreta di queste parole ai vari gruppi che vivevano nell'isola si presenta difficile. Tuttavia trovo innegabile che le parole riportate derivino tutte da un'unica protoforma, forse qualcosa che suonava *dragwomatta. La consonante -r finale di una sillaba chiusa è meramente grafica: ad esempio si ha Parlevar per Palawa, nome che si davano questi aborigeni. Non essendo un esperto nella materia, la ricostruzione potrebbe anche esserre fallace. Non so se la cosa sia legittima, ma noto che se potessimo segmentare questa protoforma e considerarla un antico composto, otterremmo *drag-womatta, con il secondo membro -womatta che ricorda in modo sorprendente le forme attestate in Australia. Se questa mia ipotesi potesse essere confermata da qualche specialista, avrei trovato un'isoglossa tra le lingue della Tasmania e dell'Australia Orientale. Il risultato sarebbe di per sé notevole, anche se credo che nessuno ci farà caso, essendo questo portale condannato alla maledizione dell'invisibilità.

Abbiamo ancora un po' di spazio per una curiosità scatologica. I vombati depongono feci cubiche. Molti nel Web si chiedono perché: una domanda tipica è "why do wombats do cube shaped poo?". La risposta a un simile interrogativo non è poi così difficile. I vombati non hanno un ano quadrato. Hanno semplicemente un intestino molto lungo e processi digestivi molto laboriosi, che portano alla produzione di masse compatte di feci con scarso contenuto di acqua. Questi escrementi secchi e densissimi sono plasmati da creste contenute nel colon. L'intestino retto è per sua natura corto e non è quindi in grado di conferire ai blocchi escrementizi la tipica forma cilindrica tipica dei prodotti degli umani e di molti altri animali.

sabato 12 maggio 2018

ETIMOLOGIA DI KOALA

Il nome del koala (pronuncia /kəʊˈɑːlə/, /ˈkwɑːlə/) proviene dal Dharruk (Dharug) gula, con la variante gulawany. Date le difficoltà nel vocalismo, si è tentati di ipotizzare che il vocabolo a noi tutti ben noto si sia in realtà originato in una lingua diversa, anche se evidentemente imparentata con il Dharruk, o da un particolare dialetto di quest'ultimo. Infatti una vocale /u/ non avrebbe potuto evolgersi fino a dare /wa:/ nell'inglese dei coloni. Esiste l'idea che koala possa essere nato da gula tramite un errore di trascrizione di un copista e che poi ne sia derivata una pronuncia ortografica: il dittongo grafico oa sarebbe servito a trascrivere il suono di parole inglesi come toad, load, goal e via discorrendo, finendo quindi equivocato. Se devo essere franco, trovo questa ipotesi piuttosto improbabile, data anche la prevalenza dell'analfabetismo tra il volgo che concretamente usava vocaboli di questo genere. Come ha potuto il dittongo grafico oa finire pronunciato /wa:/ a dispetto del fatto che in un'infinità di parole inglesi suona //, /əʊ/? Resta il fatto che in altre varianti grafiche riscontrate, come colah, colo e kaola, il suono è di certo //, con ogni probabilità un tentativo di rendere /o:/. Forme come coolah, kula e kulla trascrivono invece pronunce con /u:/ o con /ʊ/. Come risolvere la questione? Eureka! Basta partire dalla forma gulawany, dove la -y finale trascrive una semivocale che si appoggia alla nasale /n/. Ecco svelato l'arcano. Da gulawany si è avuta una forma metatetica *guwalany, donde *guwala, *kuwala!  

La stessa forma gula del Dharruk si trova anche nella lingua Ngunnawal, tipica della regione di Canberra. Troviamo poi svariate trascrizioni di forme molto simili e di certo collegate, come cullawine (Nuovo Galles del Sud, Blue Mountains) e koolewong (Nuovo Galles del Sud, regione costiera centrale). Denominazioni più distanti si trovano in altre lingue. Alcune, come karbor (Regione di Murray, forse da *kwal-bor), gooda (forse da un precedente *gula) e kooraban (forse da *gulawan), potrebbero appartenere alla famiglia del Dharruk gula, mentre altre sono senza dubbio formate a partire da radici diverse. Così abbiamo una varietà di forme attestate:

bangaroo 
gumbawur
narnagoon
pucawan
burrunda

barrandang

boorabee 
tugaree

toongool

yarri
 

Vediamo all'istante che alcune sono tra loro imparentate: si può ricostruire un'origine comune per coppie come bangaroo - gumbawur e come burrunda - barrandang. Nella regione di Brisbane, nel Queensland, troviamo altre denominazioni altrettanto stravaganti:

dumbirrbi (lingue Yugara e Turubul)
marrambi (lingua Yugarabul)
borobi (lingua Yugambeh)    

Veniamo ora a un diffuso mito, anche se non certo dannoso come quello di kangaroo tradotto con "non ti capisco". Secondo moltissime persone, il termine koala significherebbe "senz'acqua" o "che non beve". In inglese le glosse più comuni sono "no water" e "no drink", ma non ne mancano di più bizzarre, come "thirst" e "water deficiency". Questa interpretazione non si fonda su evidenze scientifiche di sorta: si tratta di un'ingegnosa falsa etimologia formatasi dalle abitudini potorie del simpatico marsupiale, che ricava la maggior parte dell'acqua che gli serve masticando senza sosta enormi quantitativi di foglie di eucalipto. In realtà è stato constatato che se si dà all'animale dell'acqua in un trogolo, questo la trangugia senz'altro. L'etimologia più plausibile è dalla radice gali-, galu-, gala-, gula- "arrampicarsi", che ricorre nelle lingue della regione di Sidney. Una documentazione molto interessante è riportata in un post del blog Sidney Aboriginal Language Insights, ospitato da Blogspot e ormai morente: 

venerdì 11 maggio 2018

ETIMOLOGIA DI CANGURO

La parola canguro, inglese kangaroo, deriva dalla lingua Guugu Yimithirr: gangurru significa "canguro grigio". La pronuncia trascritta in caratteri IPA è /ɡaŋʊrʊ/. Questo nome fu registrato come kanguru il 12 luglio 1770 nel diario di Sir Joseph Banks, nel luogo ora chiamato Cooktown, sulle rive del fiume Endvour, dove il vascello Endevour stette spiaggiato per quasi sette mesi sotto il comando del luogotenente James Cook, per le necessarie riparazioni dei danni subiti sul Great Barrier Reef. Cook descrisse per la prima volta i canguri nel suo diario il 4 agosto. Il Guugu Yimithirr era proprio la lingua delle genti di quella regione.

Esiste un ridicolo mito, molto diffuso e nocivo, che riconduce l'origine del nome kangaroo all'adattamento di una grossolana quanto telegrafica frase aborigena il cui significato sarebbe "non ti capisco". Ricordo fin troppo bene la lettura di un deleterio brano sull'antologia nel primo anno dell'orrida scuola media, in cui si descriveva Cook nell'atto di domandare a un aborigeno il nome degli strani marsupiali saltellanti, ricevendone in risposta "can gu ru", ossia "non ti capisco". Questa vulgata era data per assodata ed era considerata indiscutibile, anche perché confermava i pregiudizi sulle lingue "primitive", le cui parole dovevano essere monosillabi dominati dalla vocale U, creduta un suono "scimmiesco". La religione cattolica, all'epoca ancora vitale, non ostacolava affatto questa visione darwinista tendente all'infraspeciazione. Nel testo scolastico di cui sopra, evidentemente apocrifo, si diceva che Cook avrebbe in seguito scoperto, con grande contrarietà, che i nativi chiamavano i canguri in modo diverso. Ormai era tardi: la parola riportata dall'ufficiale britannico si era già sparsa a macchia d'olio e non era possibile estirparla. Si era così creato un meme, destinato a diffondersi su tutto il pianeta. Questo dannosissimo pacchetto memetico fu confutato solo nel 1972 dal linguista John B. Haviland nel corso delle sue ricerche sulla lingua Guugu Yimithirr. Ovviamente ai lavori di Haviland è stata data ben poca diffusione tra il popolino. Un demente fa presto a creare una falsa etimologia, ma non sono sufficienti diecimila dotti per bloccarne il propagarsi.  

La forma canguro, comune all'italiano e allo spagnolo, presenta una vocale /u/ tonica nella seconda sillaba, che a prima vista non si spiega bene a partire dall'odierna forma inglese kangaroo /kaŋ.ɡəˈɹuː/ (USA /ˌkæŋ.ɡəˈɹu/), che ha l'accento sull'ultima sillaba e una vocale indistinta nella seconda. Tuttavia, basta notare che la parola inglese aveva un tempo la variante kangooroo, in grado di spiegare il vocalismo del nostro canguro. Anche il francese kangourou proviene da kangooroo. Come si può vedere, la variante kangooroo è più vicina dell'odierno kangaroo all'originale Guugu Yimithirr e mi auspicherei il suo ripristino.

Dal momento che esistono in Australia una sessantina di specie diverse di canguri, lascio immaginare l'incredibile numero di vocaboli usati per designare questi animali nelle varie lingue aborigene. Solo per fare un esempio, riporto queste denominazioni del marsupiale nella lingua Alyawarr, che peraltro sono riportate nel database del sito ausil.org.au come se fossero semplici sinonimi: 

aharlparingk
aherr
aherr akwerrk
ahern-areny
aherr ltya
antartwey
arranty
artar
athakwer
ltyayerr
terarl
terreterr
tyantwerr

Trovo verosimile che i vocaboli per indicare i canguri non provengano dai flussi demici dall'Asia che 3.500-4.000 anni fa portarono in Australia il dingo, l'antenato delle lingue Pama-Nyungan e la famiglia estesa. Sempre tenendo conto delle creazioni lessicali arbitrarie in ambito religioso, molti di questi nomi saranno stati presi dalle lingue più antiche come elementi di sostrato, essendo relativi a qualcosa di molto importante nel mondo concettuale dei primi popolatori del continente, il cui stanziamento risale forse a 50.000 anni fa.

giovedì 10 maggio 2018

ETIMOLOGIA DI DINGO

La parola dingo proviene dalla lingua Dharruk (Dharuk, Dharug), propria degli aborigeni dell'area di Sidney, in cui din-gu indica l'animale addomesticato. Nella stessa lingua la femmina del canide fulvo è chiamata tin-gu, mentre l'animale selvatico è chiamato warrigal.

In Australia sono documentate centinaia di lingue aborigene, che usano nomi molto diversi per indicare l'animale. In centinaia di siti Web sono riportate diverse denominazioni senza ulteriori considerazioni. In genere la procedura usata è quella del copia-incolla acritico da fonti precedenti. Ne forniamo un elenco: 

joogoong
mirigung
noggum
boolomo 
papa-inura 
wantibirri 
maliki
kal
dwer-da
kurpany

Se ne trovano anche alcuni altri, soltanto in un numero minore di siti o documenti: 

repeti
palangamwari
kua
aringka 

Alcune denominazioni sono semplici varianti di quelle viste sopra, o in ogni caso forme con esse chiaramente imparentate:

keli (vedi kal)
durda
(vedi dwer-da)
boololomo (vedi boolomo)
warang (vedi warrigal)

Questo è un tipico esempio di documento, i cui autori riportano 17 nomi del dingo, cavandosela con la citazione sintetica del lavoro di un antropologo (Corbett, 2004): 


Il guaio, ben dannoso, è che in nessuna pagina ritornata da Google è spiegato da che lingua proviene ciascuna di queste parole! Un vero flagello del Web: la trasmigrazione di pacchetti di informazione da un sito a un altro senza nessuna critica e senza nessun approfondimento. Né va meglio coi libri cartacei. Il vocabolario Zingarelli riporta la seguente nota etimologica: "dal n. australiano dell'animale (jūnghō, jūgūng, ...)". Si capisce al volo che le forme citate sono trascrizioni fonetiche di joogoong, ma sull'esatta attribuzione regna il silenzio. Si deve trattare di una lingua imparentata con il Dharruk, ma ben distinta, diciamo un po' come il tedesco è distinto dal francese. Lo stesso segmento dello Zingarelli è stato tradotto e riportato dall'Enciclopedia Croata online (http://www.enciklopedija.hr/). A causa della superficialità degli etimologi, pochi nomi australiani del dingo per possono essere identificati. La ricerca si è presentata molto più difficile di quanto apparisse a prima vista. Evidentemente le lingue aborigene australiane non sono ritenute molto interessanti dalla massima parte degli studiosi dagli stessi internauti. 

Per trovare qualche informazione in più, occorre fare ricerche estenutanti. Data la natura erratica del Web, si raccolgono informazioni minime sparse in antri reconditi. Il difficile è integrare questi dati sparsi e trarne qualche conclusione utile.

Sono riuscito a identificare aringka, dato che ho trovato la forma arengke, assai simile e attribuita alla lingua degli Arrernte (Aranda, di ceppo Pama-Nyungan). 

A volte ci si imbatte in notizie davvero curiose. In Mbabaram, il termine dog indica il dingo semidomestico ed è stata usato anche per indicare il cane introdotto dai coloni: uno slittamento semantico di questo genere è comune. La parola non ha nulla a che vedere con l'inglese dog, si tratta di una semplice omofonia. Anche se numerosi internauti incompetenti reputano la parola un prestito coloniale, mi pare chiarissimo che lo Mbabaram dog deriva dalla stessa protoforma comune da cui si è avuto il Dharruk din-gu, che si potrebbe ricostruire come *ndiŋgwuŋg. Da questa protoforma derivano anche noggum e joogoong.

Si può andare avanti a lungo. Le genti di Yarralin, nel Territorio del Nord, chiamano i dingo semidomestici walaku, mentre quelli selvatici sono detti ngurakin. Quest'ultima denominazione ricorre, con alcune varianti minime, in numerose altre lingue: potrebbe essere un antico prestito che si è sparso per motivi culturali.

Nella lingua Yanyuwa (Ngarna) il dingo è chiamato wardali, ma in occasioni cerimoniali riceve il nome yarrarriwira. Il termine rituale evidenzia l'importanza delle invenzioni lessicali in contesti religiosi.

Nella mia ricerca, mi sono imbattuto in un sito australiano che mi ha permesso di ottenere una grande mole di informazioni. Questo è il suo url:


Diamo un elenco di forme estratte dal database per ciascuna delle lingue trattate (con "dingo" si intende l'animale selvatico, con "cane" quello semidomestico, oltre al cane europeo):

Alyawarr
dingo: arengk artnwer
cane: anetyerlp-ayerr, arengk, arengk akwerrk, arengk apmer-areny, arengk artnwer, iltyepenh

Bilinarra
dingo: ngurragin
cane: guru, wangani, warlagu

Burarra
dingo: -muworduk, an-mugarla, an-gugurkuja, an-muworduk, an-mugat
cane: gulukula, wartunga

Djinang
dingo: murnibi
cane: guyiligirningi

Golpa
dingo: -
cane: watu

Gurindji
dingo: marrany, ngurrakin, punpulu
cane: kunyarru, kuru, punpulu, wangani, warlaku

Iwaidja
dingo: nurrkakany
cane: naki 

Maung
dingo: jalaj
cane: luluj

Tiwi
dingo: tayama, tayamini (pl. tayampi)
cane: kitarringani (pl. kitarringawi), wankini (pl. wankuwi), arripwatini, pulangumwani (pl. pulangumwawi), pamilampunyini (pl. pamilampunyuwi)

Walmajarri
dingo: marrany
cane: kunyarr

Warlpiri
dingo: kuna-palya, waltaki, warnapari, wingki-warnu (wirnki-warnu)
cane: jarntu, kuna-palya, liyi, maliki, punpulu, wirnki-warnu, wujuju, wungu-warnu

Wik Mungkan
dingo: ngekanam, ku'ngekanam, thoonth-ngekanam 
cane: iwal, ku', thoonth

Altre voci identificate tramite ricerche nel Web, ad esempio tramite l'opera di  Dixon e Blake, Handbook of Australian Languages.


Yugambeh (lingua Pama-Nyungan parlata nel Queensland)
dingo: urugin
cane: noggum

Jaran (lingua parlata dai Potaruwutji)
dingo: kal
cane: -

Nyawaygi
dingo: gawayal
cane: ŋarbu, gawayal

Uradhi
dingo: akwanumu, arkaymu
cane: utaγa

Yukulta
dingo: tyiriya
cane: ŋawuwa

Djapu (Yolngu)
dingo: wärraŋ
cane: wiŋgan

Dharawal, Tharawal, etc. (evidentemente imparentata col
     Dharruk) 
dingo: warigal, warrigal
dingo, cane: mirigung, mirigang, mirrigang, mirragang, merri, miriga, mirreega 

Gundunggura
dingo: miri, mirigan, mirreegang

Gummbaynggir
dingo: marlamgarlu

Wagiman
dingo: ngarrwan, ngarrulan
cane: lamarra

Anangu 
dingo: kurpany, papa inura
cane: papa
Nota: sembra che kurpany fosse il nome di una bestia diabolica di forma canina, non tanto del dingo. 

Si vede che non poche denominazioni sono state finalmente identificate. Altre purtroppo mancano ancora all'appello, ci vorrebbe un po' di tempo per avere un quadro completo. Dall'analisi di questa gran mole di dati scaturisce una seria critica alla ricostruzione di una lingua proto-Pama-Nyungan o addirittura proto-australiana. Non esiste una protoforma comune per indicare un animale non autoctono, introdotto dal sud est asiatico. Si sa per certo che l'Australia non era così isolata come sembrava, e che ci sono stati apporti genetici di popolazioni venute dall'India circa 3.500-4.000 anni fa. Secondo la vulgata corrente, questa migrazione è collegata alla diffusione delle lingue Pama-Nyungan, oltre che all'affermarsi dell'istituzione della famiglia allargata, che ha sostituito la più antica endogamia. In ogni caso è evidente che sono stati questi movimenti demici a importare il dingo nel continente. La parziale domesticazione di questo canide - che non è mai giunta alla selezione di razze - avrebbe dovuto causare l'introduzione di una protoforma comune, rappresentando una straordinaria innovazione culturale. Invece nulla: ovunque regna un incredibile marasma. La spiegazione più semplice è connessa al prevalere di fattori religiosi e tabuistici, oltre che a imponenti fenomeni di prestito intertribale. Non mi convince l'ipotesi dell'attribuzione al nuovo animale di nomi di animali selvatici già noti (e ben poco somiglianti). Del resto, è chiaro che il dingo è stato introdotto come animale semidomestico fin dal principio e che si è in parte inselvatichito in seguito. Altrimenti, se fosse stato solo selvatico, non sarebbe stato portato con sé dai nuovi venuti!

martedì 8 maggio 2018

LA FAKE NEWS DEGLI ECCLESIASTICI RAZZISTI DI MANDURIA: UN ESPERIMENTO ANTROPOLOGICO

Anno del Signore 2018, primo giorno di aprile. Ha destato molto scalpore un singolare episodio. A Manduria c'è stato un problema durante il rito pasquale della lavanda dei piedi: a quanto pare nel gruppo delle persone scelte per il pediluvio erano presenti alcuni migranti, a cui il servizio è stato rifiutato. Enuncio così i fatti per come sono ricostruibili, in quanto sono state diffuse dai mezzi di diffusione di massa più versioni tra loro contrastanti. Accertare l'accaduto non si presenta quindi impresa facile. C'è qualcosa di bizzarro in tutto questo. Riporto a questo punto una breve cronistoria.

1 aprile. Entro nel sito de Il Fatto Quotidiano. Prima leggo che "I frati si sono rifiutati di fare la lavanda dei piedi ai migranti". Poi nell'articolo è riportata la seguente frase: "I due padri officianti il rito nella chiesa di San Michele Arcangelo, a Manduria, si è rifiutato di celebrare il rituale sacro perché tra i fedeli prescelti per partecipare c’erano alcuni immigrati." Salta subito all'occhio la discordanza del soggetto col verbo: "i due frati ... si è rifiutato...". <Con tutta probabilità il solecismo è dovuto alla necessità di correggere al volo la versione appena presentata - pratica che genera refusi a non finire.> Quindi si legge che ad essersi rifiutato di eseguire la lavanda dei piedi è stato solo uno dei due frati.

2 aprile. Entro nel sito del Corriere del Mezzogiorno, ed ecco che i frati (secondo l'articolo erano dell'ordine dei Servi di Maria) si sono addirittura trasformati in un prete! Anche il Corriere della Sera riportava questa versione. Il giorno dopo, 3 aprile, ecco che il titolo del Corriere della Sera era miracolosamente cambiato: nella versione nuova di zecca, il prete era sparito e c'erano di nuovo due frati, che però avrebbero litigato tra loro. Siccome le bugie, come ci insegna Collodi, hanno il naso lungo o le gambe corte, ecco che in Google è rimasta traccia della vecchia versione col prete. Se si digita nel motore di ricerca la chiave corriere razzismo manduria, ecco apparire la seguente chimera: 

Polemica a Manduria - Corriere della Sera
www.corriere.it/.../polemica-manduria-il-prete-si-rifiuta-lavare-piedi-migrati-37ba5864-...
2 apr 2018 - «Io non lavo i piedi ai migranti» Polemica a Manduria e lite tra i frati ... con commenti di questo genere: «Stasera il razzismo è salito sull'altare».

Nell'url c'è il prete scomparso! Sotto, nella descrizione, ci sono i frati.

 

Ora, è mio diritto di cittadino essere informato in modo corretto. Cos'è successo davvero a Manduria? Come mai tanta confusione? Chi ha provocato tutto questo scompiglio? Due frati tra loro concordi? Due frati tra loro litiganti? Un unico frate? Un prete? C'è stata un'improvvisa e prodigiosa metamorfosi di un prete in due frati? È proprio il caso di dirlo: tutto questo puzza, e non di piedi sporchi. Per l'esattezza, puzza di post-verità!

Ovviamente la spiegazione di fatti così nebulosi, presentati con una narrazione incoerente smontabile anche da un bambino di tre anni, per i giornalisti deve essere necessariamente il razzismo. Il razzismo ottocentesco e novecentesco fondato sul darwinismo biologico e sociale, è chiaro. Il razzismo di Adolf Hitler, del Mein Kampf e del Terzo Reich - perché resuscitare questi fantasmi arreca sempre grandissimi vantaggi. Oppure, come molti riportano, il razzismo religioso. Certo, a Manduria ci manca soltanto il Ku Klux Klan. 

sabato 5 maggio 2018

UN MIO CONTRIBUTO ALLA SCIENZA

Sono entrato in un sito di medicina alla ricerca di notizie curiose sulla coprofagia. Questo è il link:


Il brano che ha destato la mia attenzione è il seguente:

I gorilla mangiano le proprie feci e quelle degli altri esemplari. Molti studiosi di etologia attribuiscono questo costume alla necessità di riassorbire i nutrienti lasciati indigesti nel passaggio dei vegetali nell’intestino. Per questo la coprofagia è stata ribattezzata “seconda digestione”. L’ipotesi è contestata, in quanto se un sistema digerente lascia materia utile non digerita tra le feci, a maggior ragione sarà incapace di assimilare gli scarti durante il secondo passaggio. È perciò possibile che tali comportamenti siano originati da parafilie simili a quelle umane. 

Ebbene, la contestazione è interamente opera mia. Anni fa avevo scritto su Wikipedia queste mie obiezioni alle tesi degli etologi seguaci di Piero Angela. Obiezioni che a quanto pare hanno avuto fortuna e si sono diffuse!

giovedì 3 maggio 2018


SNUFF KILLER - LA MORTE IN DIRETTA

Titolo originale: Snuff killer - La morte in diretta
Aka: Snuff movie - La morte in diretta
Paese di produzione: Italia

Lingua originale:
Italiano

Anno:
2003
Durata: 88 min
Genere: Thriller, erotico
Regia: Bruno Mattei
Pseudonimi del regista: Pierre Le Blanc, Vincent
     Dawn
Soggetto: Bruno Mattei, Gianni Paolucci
Sceneggiatura: Bruno Mattei
Produttore: Gianni Paolucci
Casa di produzione: La Perla Nera
Fotografia: Luigi Ciccarese
Montaggio: Elio Lamari, Bruno Mattei
Musiche: Elio Lamari, Bruno Mattei
Costumi: Angela Altiero, Claudio Cosentino
Interpreti e personaggi   
    Carla Dujani Solaro: Michelle
    Gabriele Gori: Jean Luis
    Carlo Mucari: Peter
    Federica Garuti: Lauren
    Anita Auer: Dr. Hades
    Achille Brugnini: Rene
    Albert Ruocco: Roy
    Valerio Alessandrini: Karl
    Raul Tilli: Fidanzato di Lauren
    Antonio Calandrino: David Levy
    Roy Gerace: Agente delle modelle

Trama:

Michelle, la bella ed elegante moglie del politico René, vive a Parigi con la figlia Lauren, che ha diciotto anni. Un sera Lauren esce e non rientra. La mattina successiva, Michelle si rende conto della sua scomparsa. Si rivolge senza esitare a un investigatore, che la informa dell'esistenza del mercato illegale degli snuff movies, filmati in cui le vittime vengono realmente torturate e uccise: il sospetto è che Lauren sia stata rapita per essere utilizzata nella produzione di simile materiale. Michelle decide di calarsi nelle più squallide profondità dell'ambiente della pornografia, prensentandosi a quel mondo di papponi e di larve umane come una donna lasciva desiderosa di esplorare nuove fonti di piacere violento - cosa che poi non è così distante dal vero. Il suo intento è quello di individuare i produttori di snuff e di trarre in salvo la figlia. La sua ricerca non è facile: per trovare una traccia deve fare un pompino a un malvivente sulle cui condizioni igieniche intime è lecito porsi qualche domanda. Presto riesce a prendere contatto con un terribile nano tiroideo che è un emissario dell'organizzazione criminale che produce i filmati di torture e di uccisioni. Michelle, mettendosi a disposizione di questo atroce figuro, arriva fino in Germania, dove risiede fisicamente il capo dell'organizzazione, il Dr. Hades, che si rivela essere una donna dalla singolare quanto sgradevole fisionomia. Un passo falso dopo l'altro - con la protagonista che si getta tra le braccia di un sadico assassino credendolo il suo salvatore - si giunge al finale scontato quanto raffazzonato: Lauren viene trovata e tratta in salvo all'ultimo secondo tramite improbabili acrobazie degli agenti, il Dr. Hades viene catturato assieme ai suoi tirapiedi. In pratica tutto finisce a tarallucci e vino, salvo che per il politicante René, che si ritrova in testa una foresta di corna da far invidia a un cervo reale. 

Recensione:

Guardando il film di Mattei, ci si rende subito conto che la narrazione è derivata da quella di da 8mm - delitto a luci rosse (Joel Schumacher, 1999), con forti influssi di Hardcore (Paul Schrader, 1979). Tale è la somiglianza con la pellicola di Schumacher che intere conversazioni vi sono state prese senza quasi subire modifiche. La principale innovazione è il fatto che la discesa agli Inferi ha come protagonista una donna, cosa che lascia al regista qualche grado di libertà in più. Una fascinosa signora può immergersi nella melma, degradandosi fino a livelli difficilmente concepibili per un investigatore di sesso maschile. Infatti Michelle fa un pompino in cambio di informazioni, si fa penetrare nell'ano per convincere il nano maligno di non essere una spia, infine si concede a un gangster senza avere il minimo sentore della sua natura. Molti spettatori provano un certo sinistro godimento a osservare la discesa di una bella donna nel vortice dell'abiezione, ecco perché la scelta di Mattei è stata capace di compensare le numerose carenze strutturali del film. Diciamo anzi che è stato l'unica carta che valesse la pena di essere giocata. Per essere eufemistici, potremmo dire che Snuff killer è un insieme di sequenze accidentate, qualcosa di indigeribile, con gravi discontinuità nella narrazione. Alcuni critichi hanno fatto notare che i contenuti erotici si mantengono entro i confini del softcore per poter raggiungere un pubblico sufficientemente vasto. Eppure vediamo due scene abbastanza crude. L'orrendo nano dalle membra sproporzionate, la cui laidezza non conosce confini, fa rompere l'ano di una ragazza bionda con un piede di porco. La povera giovane emette urla strazianti e contrae il volto in modo atroce. Nella dimora del Dr. Hades, vediamo un breve snuff scorrere su un video: a una ragazza terrorizzata viene puntata la pistola a una tempia e in breve il cervello misto a sangue le erutta dal cranio. Non sono sequenze da nulla, diciamo che un posto nella storia del cinema, seppur di nicchia, lo meritano di certo.  

Snuff killer fa parte del vasto novero dei film direct-to-video, che sono prodotti a basso costo non destinati alla distribuzione cinematografica, ma commercializzati unicamente per supporti Home video (in questo caso DVD). Anche se la produzione è italiana, il film è stato pensato soprattutto per il mercato estero: è uscito nel 2003 in Russia e soltanto nel marzo dell'anno successivo in Italia. Bruno Mattei ha diretto un certo numero di film erotici e splatter, continuando questa attività febbrile fino alla sua morte avvenuta nel 2007: difficilmente avrebbe potuto farlo dopo il decesso.

Altre recensioni e reazioni nel Web: 

Basta fare qualche ricerca per constatare che il film di Mattei non è particolarmente amato dagli internauti. Riporto il bellissimo e spassoso l'intervento di Uskebasi, apparso su Filmscoop.it

Appare il titolo a caratteri cubitali sia all'inizio che alla fine: "Snuff Movie", ma ufficialmente si chiama "Snuff Killer". Alla regia c'è Vincent Dawn, che ufficialmente si chiama Bruno Mattei. E' la prima persona che usa pseudonimi sia per se stesso che per il film. In effetti è una buona idea complicare le indagini su "chi ha fatto cosa", se hai fatto una cosa del genere.
Parla del porno con una telecamera e una fotografia da film porno.
C'è una milfona alla ricerca della figlia scomparsa e del fallo.
C'è un detective privato che viene eliminato dalla sceneggiatura da un secondo all'altro.
C'è un uomo che è l'esatto incrocio tra Toto Cutugno - Ligabue - e il mio babbo.
C'è un dialogo tra questo ibrido e la milfona da pelle d'oca: parlano come se stessero insieme da 46 anni quando in realtà si conoscono da 6 ore, 5:40 delle quali passate a trombare.
Ci sono momenti morti e sepolti con la milfona che cammina giusto per arrivare a un'ora e venti.
C'è un'ultima frase comica detta dalla sadica cattivona del film, cose del genere si sentono solo nei cartoni animati dei bambini di 5 anni.
Scopro con piacere dagli altri commenti che è pure il gemello incidentato di un altro film.

Tutto questo è Snuff Movie...
Scusate, Snuff Killer.

lunedì 30 aprile 2018


IL PROFUMO DELLA SIGNORA IN NERO

Paese di produzione: Italia
Anno: 1974
Durata: 105 min
Lingua: Italiano
Titoli tradotti: 
   Germania: Das Parfüm der Dame in Schwarz
   Francia: Le Parfum de la dame en noir
   Brasile: O Perfume da Senhora de Negro
   UK: The Perfume of the Lady in Black
   Spagna: El perfume de la mujer de negro 
Genere: Thriller, orrore
Regia: Francesco Barilli
Soggetto: Francesco Barilli,
     Massimo D'Avack
Sceneggiatura: Francesco Barilli,
     Massimo D'Avack
Produttore: Giovanni Bertolucci
Casa di produzione: Euro International Films
Distribuzione (Italia): Euro International Films
Fotografia: Mario Masini
Montaggio: Enzo Micarelli
Musiche: Nicola Piovani
Scenografia: Franco Velchi
Costumi: Piero Cicoletti
Trucco: Manlio Rocchetti
Ispettore di produzione: Attilio Viti
Aiuto regista: Giorgio Scotton
Interpreti e personaggi   
    Mimsy Farmer: Silvia Hacherman
    Maurizio Bonuglia: Roberto
    Mario Scaccia: Signor Rossetti
    Jho Jhenkins: Andy
    Nike Arrighi: Orchidea
    Daniela Barnes (Lara Wendel): Silvia bambina
    Alexandra "Aleka" Paizi: Signora Cardini
    Renata Zamengo: Marta Hacherman, madre
          defunta di Silvia
    Roberta Cadringher: Antiquaria
    Sergio Forcina: Antiquario
    Gabriele Bentivoglio: Garzone del tassidermista
    Luigi Antonio Guerra: Collega di Silvia
    Carla Mancini: Elisabetta
    Donna Jordan: Francesca Vincenzi
    Orazio Orlando: Nicola
    Margherita Horowitz (non accreditata): Signora
         Lovati
    Aldo Valletti: Uomo della setta
    Ugo Carboni: Uomo della setta
    Renato Chiantoni: Luigi, il portinaio
Doppiatori originali    
    Vittoria Febbi: Silvia Hacherman
    Michele Gammino: Roberto
    Laura Gianoli: Francesca
    Lydia Simoneschi: Signora Lovati
Colonna sonora:
  1. Mimsy (2:46)
  2. Il profumo della signora in nero (2:07)
  3. Rondo' in Mib Magg. K371 (Mozart) (3:21)
  4. Mimsy (2:22)
  5. Silvia's Nightmare (1:53)
  6. Mimsy (3:26)
  7. Silvia (1:57)
  8. Mimsy End (1:37)
  9. Il profumo della signora in nero (2:09)
  10. Mimsy (1:41)
  11. Silvia (2:36)
  12. ll profumo della signora in nero (3:09)
  13. Scaring Little Girl (2:30)
  14. Il profumo della signora in nero (2:18)
  15. Scaring Little Girl (5:01)
  16. Mimsy (2:02)
  17. Scaring Little Girl (2:21)
  18. Silvia (1:39)
  19. Mimsy (1:38)
  20. Mimsy End (1:53)


Trama:

Silvia Hacherman è una splendida ashkenazita dalla fisionomia nordica e dai capelli biondissimi (solo alla fine si scoprirà che è tinta). Vive a Roma, dove dirige con entusiasmo un laboratorio chimico. Ha tutto ciò che una donna potrebbe volere dalla vita. Il suo fidanzato, Roberto, è un uomo assai prestante e dotato. Le pur brevi sequenze hot dicono molto sui loro rapporti: lui la cavalca con irruenza, leccandole con avidità gli orifizi dopo il coito e ingerendo il seme appena iniettato nel canale procreativo. Tuttavia, qualcosa nell'esistenza di Silvia non va per il verso giusto. A ossessionarla sono i ricordi della sua traumatica infanzia. Figlia di un marinaio, da bambina viveva con la madre. Questa, una fascinosa signora dalle chiome corvine, approfittando dell'assenza del marito si era tirata in casa un robusto energumeno dai tratti oltremodo grotteschi, tali da far apparire delicato anche il più rude ominide della più buia preistoria. Silvia è perseguitata da tremendi flash: vede il pitecantropo nell'atto di possedere carnalmente la madre, ancheggiando come un osceno priapo sempre martellante. Quando gli occhi del bruto incrociano quelli della bambina, si accende in lui una passione mostruosa. Così esce dalla vagina della donna e avanza verso la piccola Silvia, con il membro eretto e il volto stravolto dalla libidine più belluina. Lei non sta certo a subire violenza: afferra un paio di forbici e ferisce il mostro bucandolo sotto un occhio, facendolo arretrare urlante. Questo però non è tutto. Adirata con la madre, rea di essersi concessa a un uomo tanto ripugnante, la bambina la spinge giù dal balcone, facendola precipitare sulla ringhiera acuminata. La donna resta uccisa sul colpo. Proprio questo è l'atroce segreto che la bellissima Hacherman si porta dietro, anno dopo anno, cercando con ogni mezzo di seppellirlo negli antri dell'Oblio. Il punto è che non esiste sepoltura abbastanza profonda per simili aberrazioni, che risalgono come un cadavere gettato in una palude. Sconvolta dalla paranoia e dalla schizofrenia, Silvia non si rende conto che tutte le persone che la circondano nutrono nei suoi confronti attenzioni morbose e sospette. Il fidanzato, Roberto, ha sì un poderoso Schwanzstücker, ma non sembra capire quali voragini albergano nella sua donna: ha un comportamento molto futile in ogni occasione. Non lavorando e vivendo di rendita, il bellimbusto ha molto tempo libero. Accade così che un giorno invita Silvia a una cena per farle conoscere un caro amico, Andy, un elegante mandingo giunto dall'Africa. Questo Andy non è un selvaggio giunto dalla giungla. È un esponente dell'alta borghesia africana e un professore in una delle pseudoscienze più nocive: la sociologia. Silvia rimane colpita da un suo discorso sui riti stregonici, descritti come una realtà onnipresente e sinistra che pervade l'intero Continente Nero. Per Silvia è l'inizio di una discesa agli Inferi. Durante una partita a tennis con Andy, si punge un dito e non capisce che la ferita è il punto d'ingresso di un potente allucinogeno. La sua vita rimane sconvolta da orride visioni, così dense da sembrare reali. Si trova davanti a sé stessa da bambina, riuscendo a parlare e a interagire fisicamente con questa sua copia. In seguito fa la conoscenza di una sensitiva cieca che riesce a leggerle nel profondo dell'anima, minacciando di far emergere davanti a tutti gli orrori più reconditi. La situazione precipita, tanto che la povera Silvia arriva a credere di essere stuprata dall'energumeno, Nicola, e di averlo ucciso fracassandogli il cranio. Queste allucinazioni sono così destabilizzanti che in un crescendo la portano al suicidio. A questo punto si comprende una verità sconvolgente: tutti coloro che circondavano la morta erano adepti di una mostruosa setta cannibalica! Ci sono tutti, Roberto, Andy, l'anziano vicino petulante, la fiorista, la veggente cieca e molti altri. Rapiscono il suo corpo, lo denudano, lo collocano in un sotterraneo. Quindi il suo ventre, che un tempo tanti uomini avevano desiderato, viene squarciato da Roberto con un pugnale sacrificale. Andy strappa per primo un pezzo di fegato alla vittima, seguito da uno spiritato signor Rossetti che ne approfitta per abbuffarsi. Uno dopo l'altro, posseduti da una bramosia demoniaca, tutti immergono le mani nelle viscere della morta, prendendo ciascuno un boccone da ingurgitare. La medium si lecca le dita cosparse di sangue, persa in un sogno erotico. Finita l'orgia, la conventicola si disperde nelle tenebre dei cunicoli. 

 

Recensione:

Ritengo Il profumo della signora in nero un grande capolavoro horror e thriller. Purtroppo è stato a lungo sottovalutato dalla critica, che in non poche occasioni si è dimostrata più acida di un pastone gastrico. Soltanto in tempi più recenti hanno fatto la loro comparsa giudizi positivi. Girando nel Web mi sono imbattuto in una serie di recensioni, alcune molto stringate e puramente descrittive, altre più estese, che tuttavia sembrano tutte fotocopie dello stesso prototipo. L'argomento che ossessiona i critici a quanto pare è la supposta derivazione del film di Barilli da Rosemary's Baby (1968) di Roman Polanski. Sono considerate fonti di ispirazione anche Repulsion (1965) e L'inquilino del terzo piano (1976), sempre di Polanski, anche se le tesi addotte non mi sembrano molto convincenti. Altri recensori colgono differenze o analogie con qualche opera di Dario Argento, creduto il metro e la misura dell'horror. Sono esasperato da questo modo gratuito di commentare i film, come se esistessero sempre e soltanto in funzione di qualche legame esterno con opere ritenute più autorevoli. Gli argomenti che più interessano, ad esempio i riti africani e la natura della setta degli antropofagi, non vengono nemmeno sfiorati. Per molti sembra quasi un'ossessione la Roma deserta, estiva e straniante mostrata dal regista. Passa invece del tutto inosservato il carattere surreale dell'intera vicenda. Le allucinazioni che colpiscono Silvia, facendola sprofondare nel solipsismo, sono mostrate senza alcuna soluzione di continuità con la realtà dei fatti. In questo modo lo stesso spettatore non capisce nemmeno più cosa sia reale e cosa sia frutto della droga, perché gli organi di senso non percepiscono differenza alcuna nelle sequenze: soltanto l'inverosimiglianza degli accadimenti funge da campanello d'allarme. Notevole la scena in cui Silvia infrange l'immagine della madre sulla lapide, provocando la fuoriuscita di alcuni coleotteri neri - insetti di abitudini necrofaghe che non possono essere scaturiti dalla putredine contenuta nella tomba. Se devo essere sincero, sono molto scettico sull'esistenza di un allucinogeno in grado di provocare visioni indistinguibili dalla realtà di veglia, né credo che a Barilli interessasse davvero presentare qualcosa di plausibile. Trovo infine meritevole di nota la struggente colonna musicale, opera di un ottimo Nicola Piovani. 

 

Un conato di Africa reale in un mare di menzogne 

Senza rendersene conto, il sociologo Andy rompe un grande tabù. Parla delle grandi e moderne città dell'Africa. Si tenga conto che all'epoca in cui il film è stato girato, le convinzioni prevalenti in Italia sulla situazione dell'Africa subsahariana erano modellate dai mass media e dalla Chiesa Romana. Questi potentati avevano inculcato nelle plebi idee molto lontane dal vero. A sud del Sahara, a sentir la pretaglia e i giornalisti sciacalli, c'erano soltanto sconfinate foreste in cui vivevano poche tribù selvagge perennemente piagate da tremende carestie, dove nessuno poteva contare nemmeno su un boccone di pane. Nessuna nazione, soltanto villaggi. L'Africa era dipinta come un immenso lebbrosario, un luogo desolato in cui vegetavano soltanto bambini moribondi dal ventre gonfio di vermi. Nel '74 non si poteva dire, per nessun motivo, che nell'Africa Nera c'erano enormi metropoli con grattacieli svettanti. Quello di Barilli è stato forse un lapsus? Quale fosse la sua intenzione, di certo le parole sulle metropoli africane sono passate inosservate al pubblico e ai critici. Viene squarciato il velo su quella che giù allora era una realtà in turbolenta crescita, che avrebbe poi sversato in Europa le proprie eccedenze demografiche. Per sdrammatizzare, richiamiamo l'attenzione sull'uso della pubblicità occulta: il regista ci presenta Andy non lontano da una bottiglia di buon whisky J&B! 

 

Alcune note sull'esoterismo cannibalico 

Andy non è giunto in Italia su un barcone. Negli anni in cui il film fu girato non erano ancora iniziati i grandi flussi migratori dall'Africa. La presenza del bizzarro sociologo nel tessuto del film è dunque ancor più sorprendente. Un elemento incongruo, quasi erratico. Non dico che sia come vedere un marziano, anche se poco ci manca. Le chiavi di lettura della narrazione barilliana sono due. 

1) Andy è riuscito a trapiantare a Roma una setta di adoratori diabolici i cui riti sono eminentemente africani. Avrebbe quindi portato in Italia una realtà in precedenza sconosciuta.
2) Andy si è aggregato a una realtà autoctona, a dimostrazione che le sètte sataniche sono un fatto ubiquitario su questo pianeta, una realtà non etichettabile come esclusiva del contesto africano. 

La prima possibilità è quella che sembra più verosimile nel contesto del film. Si nota che a un certo punto Andy compare assieme ad alcuni suoi conterranei, che sembrano avere qualche ruolo nell'organizzazione settaria e nella sua diffusione. Anche la moglie del sociologo sembra svolgere una parte importante. Durante l'orgia cannibalica, è proprio Andy a porgere a Roberto il coltello con cui viene squarciato il cadavere della splendida Silvia Hacherman, svolgendo così un ruolo di primaria importanza. Secondo alcuni critici, il responsabile dell'attecchimento dei riti antropofagi a Roma sarebbe invece Roberto, uomo ambiguo e malvagio. La pellicola di Barilli non si sofferma troppo su questi aspetti cruciali. Resta un fatto a mio avviso grande come un macigno. Il cannibalismo non si trasmette come il raffreddore. Pur esistendo antropofagi in Europa, come in altre parti del mondo, il tabù nei confronti del consumo di carne umana resta fortissimo in gran parte della popolazione autoctona. Non è dimostrato che sia possibile spingere una persona che nutre orrore per gli atti cannibalici a desiderare di compierli. Ancor più difficile è pensare che gli abitanti di un condominio - tutti romani de Roma - possano essere convertiti in massa a una religione esoterica africana implicante ingestione di organi umani. Perché ciò possa avvenire, dovrebbero infatti adottare una visione della realtà e una religiosità a loro del tutto estranea. Fatte queste considerazioni, sono assai scettico sul presupposto centrale del film, che è la natura trasmissibile di riti cannibalici alloctoni. In questo senso, il finale mi pare allucinatorio quasi quanto la comparsa di Silvia bambina.


Le società segrete africane 

Senza dubbio è vero che in Africa esistono moltissime società segrete che praticano riti cruenti. In questa galassia di sètte, alcune hanno finalità politiche, altre hanno invece intenti di purificazione, altre ancora hanno tutte le caratteristiche di gruppi criminali. Non sempre è facile tracciare una linea di demarcazione. Resta però un fatto innegabile: queste sono organizzazioni la cui base è etnica. L'Africa subsahariana non è un fazzoletto di terra: comprende un enorme numero di popoli diversi tra loro. Così accade che ogni setta in genere inizia ai suoi riti soltanto membri della stessa etnia che costituisce la sua precipua ragion d'essere, potendo in taluni casi estendersi a qualche gruppo finitimo o arrivare a diventare tipica di una nazione. Solo per fare un esempio, si può citare la società dei Mau-Mau, una terribile setta politica che seminò il terrore in Kenya negli anni '50 fino ai primi anni '60 dello scorso secolo, combattendo una feroce guerriglia contro l'esercito britannico. Tra i Mau-Mau sono attestate pratiche atroci di cannibalismo e di tortura di animali: gli adepti erano convinti che sottoporre leoni e altre fiere a spaventose sevizie, bevendone il sangue, potesse trasfondere in loro forze soprannaturali, rendendoli invulnerabili alle pallottole. I Mau-Mau sono nati e cresciuti tra i Kikuyu, estendendosi soltanto in un secondo tempo tra gli altri gruppi tribali. In Congo esistono i seguenti gruppi settari: Nkamba, Nkanda, Nkimba (società religiose); Ikung, Malanda, Nda (associazioni sacerdotali); Mwaungu, Ngi (custodi di tabù e leggi); Ndembo, Mukanda (società di mutuo soccorso); Bweti (società politica). L'elenco è ben lungi dall'essere esaustivo. Se si volesse fare un censimento di queste associazioni nell'intero Continente Nero, sarebbe necessario compilare ponderosi volumi. Una trattazione a parte merita la religione voodoo, tipica dell'Africa occidentale ed esportata nelle Americhe nel corso dei secoli a causa della deportazione di un immenso numero di schiavi. Altamente esoterica e sincretica, questa religione mescola elementi cristiani a culti di demoni primordiali e pervade un grandissimo numero di sètte. Il potere del sangue versato vi riveste un ruolo fondamentale. La Nigeria attuale è tutta un brulicare di gruppi criminali di una violenza inenarrabile e impregnati di culti sanguinari di tipo voodoo. In genere si danno nomi inglesi e sono caratterizzati da una grande aggressività. Nel corso delle nostre vite assistiamo al preoccupante diffondersi di queste confraternite in Europa a causa degli imponenti flussi demici dall'Africa occidentale. Si può citare a questo proposito il caso raccapricciante di Pamela M. (RIP), del cui stupro e del cui smembramento sono stati accusati alcuni nigeriani. Non è assurdo ipotizzare l'appartenenza degli assassini a una pericolosa associazione; gli organi della ragazza uccisa, mai ritrovati, potrebbero essere stati divorati. Tuttavia va detto questo: non si è potuto dimostrare che anche solo una di queste maligne associazioni abbia mai iniziato anche soltanto una persona di etnia caucasica. In altre parole, siamo di fronte a un patogeno sociale le cui conseguenze ci possono uccidere, ma che non possiamo contrarre. Il desolante quadro della realtà dei fatti, pur includendo crimini oltremodo brutali e aberrazioni di ogni genere, si fonda su dinamiche alquanto dissimili da quelle che ci mostra Barilli nella sua pellicola.

 

Il meme della psiche che materializza 

Il Morandini definisce il presente film "Indigesto cocktail di psicanalisi, horror cruento e cinema esotico di spavento di un ex attore (...) che pur rivela un gusto figurativo non comune". Questo giudizio, non certo eulogistico, ha a parer mio il suo fondamento in una singolare credenza molto diffusa nello scorso secolo: le masse acefale avevano distorto la falsa scienza della psicologia, arrivando a credere che la mente umana, e in particolar modo il cosiddetto inconscio, avesse il potere di materializzare entità fisiche in carne ed ossa, dotate di codice genetico proprio come gli esseri viventi. Ecco così che l'inquietante bambina con l'aspetto di Silvia da piccola non sarebbe altro che il prodotto di una tale forza psichica. Anche la madre di Silvia e l'orrendo Nicola avrebbero questa origine. Negli anni '70 il pubblico trovava molto facile credere a un simile processo di formazione di entità fisiche dal nulla, cosa che ovviamente non ha in sé alcunché di reale. Questa superstizione ai nostri giorni sembra essersi molto affievolita, anche se non escludo che in futuro possa riprendere vigore.

 

Una traduzione discrepante

Il film può essere visto in streaming in Youtube, in italiano con sottotitoli in spagnolo. Mi è saltata all'occhio la differenza tra alcune parole del molesto Rossetti, interpretato da un ottimo Mario Scaccia, e la loro traduzione scritta. L'anziano signore, che si rivelerà un cannibale particolarmente efferato, a un certo punto dice: "Mi hanno messo in pensione". Dal tono della voce traspare una certa rassegnazione, ma nulla di che. La versione in spagnolo è invece un ben più drammatico "Me obligaron a retirarme". La spiegazione non sembra difficile. In Spagna non sussistono le aspettative messianiche nella pensione così tipiche dell'Italia. Mentre da noi il pensionamento è visto come una condizione paradisiaca, per i nostri cugini iberici a quanto pare è inteso quasi come una maledizione, come un obbligo, un grosso rospo da mandar giù con un abbondante cucchiaio di bicarbonato. Posso immaginare che gli spagnoli comprendano senza troppe difficoltà una verità di per sé evidente: quando si va in pensione si diventa invalidi e dementi. E si muore. Dopo lunga macerazione nella merda, in un gerontocomio. Da noi ci si culla nell'idea idilliaca che la pensione sia l'inizio di un cinquantennio di vita in perfetta salute. Sono cose che dovrebbero farci pensare.