LA MORTE NON BARA
“Quindi lei mi sta dicendo che mia moglie è un agente del Mukhabarat?”
“Questo è quanto.”
L’uomo seduto di fronte a me si prese la testa fra le mani.
“Fossi in lei non ne farei una tragedia.”
“Eh già, dopo dieci anni di matrimonio scopro che mia moglie lavora per i servizi segreti iracheni e secondo lei non dovrei fare una piega!”
“La prenda con filosofia.”
“Non dica sciocchezze!”
“Senta, lei ha due opzioni: fingere di non sapere e continuare la vita di sempre. Oppure dire a sua moglie che sa… e poi prendere un bel respiro.”
“Cosa intende dire?”
“Qual è il suo record di immersione in apnea?”
“Non capisco.”
“Mezz’ora sott’acqua resiste?”
“Certo che no.”
“E allora le suggerisco la prima opzione. Grazie per il whisky.”
Vuotai il bicchiere, gli lasciai il conto da pagare e me ne andai. Passando per viuzze laterali poco frequentate, tornai in agenzia. Ne avevo rilevato la proprietà dal mio ex principale, ammalatosi di sclerosi laterale amiotrofica. Livia, la segretaria, era passata alle mie dipendenze.
“Ho provato a chiamarla ma suonava a vuoto.”
Mi ricordai in quell’istante di aver silenziato il cellulare.
“Ci sono novità?”, chiesi.
Livia sorrise in modo enigmatico e indicò il monitor del pc. Mi avvicinai alla scrivania e diedi un’occhiata.
Sulla home page del Corriere spiccava un titolo: “Ucciso il rettore dell’Università di Pavia”.
Mi ci vollero alcuni istanti per riprendermi dallo sbigottimento.
L’articolo conteneva dettagli sconcertanti: il professor Alessio Frugoli era stato ritrovato cadavere in riva al Ticino, in zona Canarazzo, a pochi km dalla città. Sul suo corpo, evidenti segni di torture.
Chiamai subito Lello.
“Hai saputo?”
“Ho saputo.”
“Quando possiamo vederci?”
“Alle 15 in Piazza della Scala.
“Ok”.
Lello si era trasferito a Milano da un anno, in un bilocale situato in Viale Zara, ereditato da suo zio. Quando mi aveva parlato del trasloco credevo scherzasse. Invece era serissimo.
Arrivai in relativo orario. Lello mi aspettava davanti all’ingresso delle Gallerie d’Italia.
“Andiamo in un posto che so io”.
Lo seguii per un discreto tratto di strada. Zoppicava, segno che la sua artrite era andata peggiorando.
Si infilò in un bar che non conoscevo, salutò il proprietario e ordinò una bottiglia di bianco. Ci sedemmo a un tavolo d’angolo.
“Vedrai che casino verrà fuori… stavolta non potranno nascondere la polvere sotto il tappeto.”
“Secondo te perché lo hanno scaricato al Canarazzo?”
“Perché è fuori mano ma non troppo.”
“Ho parlato con un amico al Forlanin: chi ha torturato Frugoli si è accanito.”
“Volevano punirlo.”
“Probabile.”
“Non è probabile, è certo. Se lo hanno torturato è perché volevano vendicarsi e lasciare un messaggio. Ti ho mai detto che l’avevo conosciuto di persona?”
“Davvero?”
“Ti stupisce?”
“No, ma non sapevo…”
“Ora lo sai.”
“In che occasione?”
“A Zurigo.”
“E che ci andava a fare a Zurigo, Frugoli?”
“Lugano è troppo frequentata dagli italiani, avrebbe corso il rischio di essere riconosciuto da qualcuno.”
“Stiamo parlando di?”
“Stiamo parlando di Bdsm. E non solo: Frugoli pippava come un formichiere e questo lo so con assoluta certezza perché l’ho visto coi miei occhi. Saliva da Pavia con un terzetto di compari. Un pastore protestante che frequentava l’ambiente li aveva soprannominati “i porci di Gerasa”, pensa un po’ te.”
“E chi erano gli altri?”
“Lanfetta, il suo assistente e il titolare della Ecogreen Costruzioni Bio, il grassone.”
“Lanfetta? Il docente di lingue protosemitiche?”
“Proprio lui.”
“Ma è una ripugnante cariatide!”
“E un formidabile sporcaccione. A Pavia basta che gratti un poco la patina di vernice bianca e la merda schizza sino al cielo.”
Si fermò per alcuni istanti a riflettere.
“Dimmi di più sulle torture.”
“Bastonature sulle piante dei piedi, tracce di bruciature su tutto il corpo, una quantità incredibile di tagli superficiali, piccole mutilazioni…”
“Lo hanno castigato di brutto.”
Squillò il mio cellulare. Era Livia.
“Indovini un po’.”
“Sarebbe?”
“E’ morto il professor Bongiovanni!”
Ammutolii.
“Mi ha sentito?”
“Sì. Come e quando?”
“Strangolato nel suo appartamento alla Minerva.”
Riagganciai.
“Lello, hanno ucciso il gran maestro Bongiovanni.”
Lello picchiò un tale pugno sul tavolo da far tintinnare i bicchieri.
“Bingo!”
Un bip annunciò l’arrivo di un messaggio Whatsapp sul mio cellulare. Livia, ancora. Lo lessi ad alta voce:
“Segni di torture sul cadavere di Bongiovanni.”
“Lello, poche ore dopo aver scaricato al Canarazzo il cadavere del magnifico, entrano in casa del gran maestro e fanno la festa anche a lui… cosa diavolo sta succedendo?”
“A Pavia vien giù tutto, ecco cosa sta succedendo. Dammi qualche ora, voglio informarmi un po’ in giro.”
Accompagnai Lello alla più vicina fermata della metro.
“A Pavia tra poco ci saranno più agenti della Digos che sampietrini. Stai in campana, Marco.”
Posteggiai vicino al Castello Visconteo. Già che c’ero, feci un giro per i giardini, stranamente semideserti.
Il cellulare mi avvertì dell’arrivo di una mail. Nell’Oggetto si leggeva: “E se guarderai nell’abisso, l’abisso guarderà in te”. Allegato alla mail, un file video. Di norma non apro gli allegati quando si tratta di messaggi provenienti da sconosciuti ma in questo caso dovevo fare un’eccezione. Per forza.
Il filmato mostrava un uomo nudo, polsi e caviglie legati, sdraiato a pancia in giù a gambe divaricate su una specie di panca da palestra. Una figura femminile con indosso una tuta in latex gli ravanava nel culo con tutta quanta una mano. La videocamera si spostò sino a mostrare il volto dell’uomo legato alla panca. Benché avesse una pallina infilata in bocca non faticai a riconoscerlo. Era il magnifico rettore Alessio Frugoli.
Inoltrai la mail a Lello.
Il telefono squillò dieci minuti dopo.
“Ho visto il filmato.”
“Mi chiedo perché me l’abbiano spedito.”
“Ti hanno messo un’arma in mano. Se divulghi quelle immagini, sputtani il defunto e i suoi sodali.”
“E perché dovrei farlo?”
“Infatti te lo sconsiglio vivamente.”
“E se a farlo fosse il mittente della mail?”
“Lo ha già fatto, inviandotela.”
“Sì ma non capisco il senso. Se non rendo pubblico il filmato, non ha ottenuto nulla!”
“E’ qui che sbagli. Riporre un’arma in un cassetto non significa distruggerla. L’arma è sempre lì, pronta per l’uso. Solo che se premi il grilletto, quella ti esplode in faccia.”
La donna che mi sedeva di fronte in agenzia portava bene i suoi 62 anni.
“Lei capisce che un genitore oggi come oggi ha il diritto di sapere a cosa sta andando incontro suo figlio… Un matrimonio è un passo impegnativo sia dal punto di vista affettivo che finanziario.”
“Certo. Meglio non fare scelte affrettate.”
“Appunto, ed è per questo che mi sono rivolta a lei. So che è una persona seria e discreta.”
“La discrezione è il fulcro della mia deontologia professionale, signora.”
“Non vorrei essere equivocata: mio figlio è un uomo adulto ed è liberissimo di decidere della sua vita. Io intendo solo fare il possibile per evitare che commetta un’imprudenza.”
“Comprendo perfettamente. La contatterò non appena avrò informazioni sulla signorina.”
Quando la cliente fu uscita tornai ad immergermi nella lettura dei quotidiani. I delitti di Pavia campeggiavano su tutte le prime pagine. L’espressione “torture efferate” ricorreva ovunque come un mantra. A Bongiovanni avevano messo una mordacchia per poi sottoporlo, nella sua abitazione, a sevizie di ogni genere. In pieno giorno, senza che nessuno dei vicini si accorgesse di nulla. La sua morte non era stata meno crudele di quella del rettore. E le telecamere del palazzo? Manomesse, tutte quante.
Mentre riflettevo su queste circostanze, si spalancò la porta. Livia dalla soglia mi lanciò un’occhiata diabolica.
“E fanno tre!”.
La osservai incredulo.
“Hanno ammazzato l’avvocato Salteri! Me l’ha detto adesso un mio amico dalla questura di Milano.”
“Come lo hanno ucciso?”
“Un cecchino. Salteri era nel suo studio a San Babila. Gli hanno sparato dal tetto di un palazzo di fronte.
In quel preciso istante squillò il mio cellulare. Era Lello.
“Hai saputo?”
“Un istante fa.”
“Un colpo da maestro: gli hanno scoperchiato la calotta cranica da ottocento metri di distanza! E’ cominciata la mattanza e per una volta tocca ai pesci grossi.”
Salteri, oltre ad essere uno degli avvocati più noti di Milano, era affiliato a una loggia storica, la Lafcadio Ambrosini.
“Sbaglierò ma ho l’impressione che si tratti di una ritorsione.”
“Non sbagli. Qualcuno a Pavia deve aver pensato che bisognasse reagire subito.”
“In modo eclatante, direi.”
“Ora devo andare, ci aggiorniamo.”
Livia, immobile sulla soglia, mi squadrava impassibile.
“Hanno indetto un consiglio comunale straordinario, per stasera. Ci va?”
“Penso proprio di sì.”
Tre ore dopo, raggiunsi la sala consiliare, strapiena di gente come non si vedeva da decenni.
“E’ una ferita a tutta quanta la città… le istituzioni democratiche reagiranno… … questo è il momento di essere uniti… non ci faremo intimidire”.
Nel pronunciare queste parole la voce del sindaco vacillò. Segno che intimidito lo era eccome.
In sala, tra il pubblico, individuai parecchie facce note. Mi assalì un senso di nausea.
Nell’andarmene, incrociai all’uscita il brigadiere Marostica.
“Dove vai così di fretta Marco?”
“Dentro si respira aria pesante.”
“Anche fuori se è per quello.”
“Buonanotte brigadiere.”
L’indomani, al mio risveglio, la prima cosa che vidi fu un geco sulla parete accanto al letto. Poi un altro in bagno, proprio sopra lo sciacquone, e infine un terzo in cucina, accanto al frigo. Sulla strada per l’ufficio mi fermai a far colazione al bar del Turco, così chiamato per via della sua inveterata avversione per il fumo. Dentro c’erano solo due avventori, due vecchie conoscenze, gente che alle nove del mattino invece del caffelatte sorseggia vino bianco. “Marco! Vieni che ti faccio vedere una cosa”. Il Turco prese dal cassetto della cassa un mazzo di carte.
“Scegline una, guardala e mettila via.”
“Fatto.”
“Adesso pensa intensamente a quella carta.”
Chiuse gli occhi e si stropicciò le tempie.
“Pensa alla carta!”
“E’ quello che sto facendo.”
“Fante di fiori!”
Lo guardai basito: aveva indovinato.
“Come cazzo hai fatto?”
“Il bravo prestigiatore non svela mai i suoi segreti. Hai letto la Provincia di oggi?”
“Ho visto la locandina davanti all’edicola: il ministro dell’Interno sarà oggi a Pavia.”
“C’è il centro blindato!”
“E te credo.”
Evitai Strada Nuova e, facendo il giro largo, mi recai nei pressi del monumento a Garibaldi, in piazza Castello. Qui, seduto sulla panchina di fronte alla fontana, sedeva un individuo sulla sessantina, piuttosto male in arnese, che mi rivolse uno sguardo d’intesa. Era padre Adamo.
Lo conoscevo dai tempi di Genova, città in cui ho vissuto i primi trent’anni della mia vita. All’epoca il suo caso finì sui giornali: un sacerdote sospeso a divinis per atti di esibizionismo e voyeurismo! Qualche anno dopo aver traslocato a Pavia scoprii, non senza stupore, che anche lui ci si era trasferito. Non aveva perso, tuttavia, le vecchie inclinazioni. Assiduo frequentatore di locali notturni, possedeva una conoscenza enciclopedica in materia di attricette e webcam girl.
“Adamo, come va?”
“La facciamo andare.”
“Dia un po’ un’occhiata.”
Avevo salvato sul tablet le foto della signorina consegnatemi dalla cliente.
“Ma io questa la conosco!” esclamò Adamo “E’ la Simona!”.
“Sicuro?”
“Sicurissimo, ci ho fatto dei privé con questa qua, vuoi che non me la ricordi?”
Insomma venne fuori che la signorina aveva un passato di spogliarellista e intrattenitrice in locali milanesi e della bergamasca, fra cui il Vanexa, di cui conoscevo l’ex gestore. Lo avrei contattato nel pomeriggio: mi fidavo delle competenze dello spretato ma mi occorreva una conferma.
E la conferma venne.
I notiziari della sera diedero ampio risalto al discorso del ministro dell’Interno. Quanto basta per convincermi a spegnere il televisore. A mezzanotte in punto ricevetti una chiamata di Lello.
“Sai quando sono i funerali?”
“Domattina alle 10. Le bare saranno esposte nel cortile delle statue. Prorettore vicario in pole position per il discorso.”
“Misure di sicurezza al massimo.”
“Ovvio.”
“Ci andrai?”
“Non credo proprio.”
Riagganciai.
Uscii a fare due passi. In Piazza Petrarca il solito viavai di automobili. Mi diressi al Castello. A un tratto mi sentii chiamare per nome da un tale seduto sul sedile passeggero di una Audi Q7 posteggiata in Viale XI Febbraio.
Mi avvicinai. Era un tizio sulla cinquantina, ben vestito, mai visto prima. E non era solo a bordo.
Mi fece cenno di avvicinarmi.
“Sali.”
“Non ci penso proprio.”
“Calma”, disse lo sconosciuto, “vogliamo solo fare due chiacchiere”.
“Io no.”
Il tizio mi fulminò con lo sguardo.
“Hai preso informazioni su una brava ragazza.”
“Mi pagano per questo.”
“Te la devi scordare.”
“Gratis?”
Sorrise, mettendo in mostra un paio di denti d’oro, e disse a quello alla guida: “Che ti dicevo? E’ uno che sa stare al mondo”, quindi, rivolto a me:
“Quanto costa un’amnesia?”
“Tremila euro.”
Con la massima disinvoltura, il tizio prese dal taschino della giacca una mazzetta di banconote da 500 euro.
Ne contò sei, lentamente.
“Alla signora che diciamo?”
“Che la ragazza è a posto. Non una macchia.”
“Bravo.”
Intascai i soldi. L’autista mise in moto. Rimasi ad osservare la vettura che si allontanava verso il rondò Vittorio Necchi. Quella notte non riuscii a prendere sonno.
“Il commando ha fatto irruzione nel locale e falciato a raffiche di mitra i partecipanti alla riunione.”
Ascoltai incredulo il notiziario televisivo. Non riuscivo a capacitarmi che fosse accaduto davvero. Una strage in una loggia massonica pavese!
A una settimana dall’assassinio di Salteri, tre uomini armati di fucili d’assalto irrompono in una delle più note sedi massoniche della provincia e sterminano i presenti. Un fatto senza precedenti nella storia della Repubblica italiana!
Contai sino a dieci, squillò il cellulare. Era Lello.
“Professionisti. Armi munite di silenziatori.”
“Aspettiamoci di tutto.”
“Golpe compreso.”
Una città in stato d’assedio avrebbe avuto un aspetto più rilassato. In Strada Nuova i passanti, studenti compresi, sgattaiolavano lungo i marciapiedi come animali braccati. Poliziotti ad ogni angolo, armi in pugno. Mi fiondai dal Turco.
“Marcone!”
“Whisky.”
“Lo sai che è morto il Giampiero?”
“Quando?”
“Ieri sera, è caduto dal Ponte coperto.”
“E come cazzo ha fatto?”
“Aveva bevuto più del solito”.
“Se n’è andata una delle più grandi spugne di Pavia. Brindiamo alla sua memoria.”
Tintinnarono i bicchieri. Fu un momento commovente.
Miranda. Che ci faceva Miranda sotto casa mia?
“Quanto tempo. Come mai da queste parti?”
“Hai un attimo da dedicarmi?”
“Non far caso al disordine che c’è in casa.”
“Come se fosse una novità.”
Salimmo.
“Dio mio Marco sei peggiorato”, disse appena entrata. “Pare un campo rom.”
“Se sei venuta per fare dello spirito puoi andartene anche subito.”
“Apprezzo la tua delicatezza.”
“Ho avuto un’ottima maestra. Facciamo in fretta.”
Si accomodò sul divano.
“Ti ricordi Roberto?”
“Quale dei due? Il primo o il secondo?”
“Il secondo.”
“Beh?”
“Mi dà il tormento”
“E quindi?”
“Vorrei che tu gli parlassi.”
“Perché non sei venuta in agenzia a discuterne?”
“Dobbiamo essere così formali? Credevo che in nome della nostra antica amicizia…”
“Hai dieci secondi per uscire. Nove…”
“Stronzo!”
“Otto…”
La udii imprecare lungo le scale.
“Quindi lei mi garantisce che…”
“Non sono emersi elementi tali da far ritenere con certezza che la signorina rappresenti un elemento poco raccomandabile.”
La cliente mi fissò dritto negli occhi.
“Non so perché ma la sua risposta non mi rassicura. Quanto le devo?” tagliò secca.
“Niente.”
“Niente?”
“A riprova della mia buona fede.”
“Beh, la ringrazio.”
Prese dal divanetto la sua borsa griffata e fece per andarsene. Si arrestò per un istante sulla soglia.
“Nel caso dovessero giungerle alle orecchie nuovi elementi, la pregherei di contattarmi.”
“Non mancherò, signora.”
Appena se ne fu andata andai in bagno a sciacquarmi la faccia.
Lo specchio mi restituì l’immagine di un vecchio farabutto.
Bussarono alla porta.
“Può uscire o se lo sta ancora scrollando?”
“Che c’è Livia?”
“Apra, per favore”
“Mi dia un attimo.”
“Finisca pure senza fretta, mi sto solo pisciando addosso.”
La giornata era trascorsa in modo del tutto improficuo. Non avevo concluso un accidente. Arrivato all’altezza di Via Innocenzo III, mi si materializzò davanti all’improvviso Marostica, in borghese.
“Marco!”
“Cazzo brigadiere, lei mi vuol far venire un infarto.”
“Ti spaventi per così poco? E’ da un po’ che tu ed io non facciamo due chiacchiere.”
“Sono a corto di argomenti.”
“Perché non ti credo?”
“Perché è prevenuto, ecco perché.”
“Vieni, ti offro un caffè.”
“Non a quest’ora. Poi finisce che non dormo.”
“E allora un bianchino, quel cazzo che ti pare, non farla lunga.”
Entrammo al bar di piazza Italia. Mi avvicinai al bancone.
“No, ci sediamo nella saletta. E’ più discreta.”
Per essere discreta lo era: non c’era un’anima.
Ordinai una vodka.
“Dunque, dicevamo. Tu che hai orecchie dappertutto…”
“Insomma.”
“Non fare il modesto. Senti, veniamo al sodo: hai captato qualcosa?”
“Brigadiere, questa domanda va fatta alla polizia politica, non a un semplice investigatore privato.”
“Eppure tu sai sempre tutto.”
“Almeno fosse così.”
“Allora dimmi, in via del tutto confidenziale, quel poco che sai.”
“So quello che lei sa già molto bene: c’è una guerra in corso e in città il più pulito ha la rogna.”
“Quindi non sai una minchia?”
“Perché, cosa credeva? Che avessi sottomano i nomi del commando?”
“No perché in tal caso staresti già dentro a una buca da qualche parte in Oltrepò.”
“E perché proprio in Oltrepò?”
“Per dire.”
La conversazione con Marostica mi aveva messo di malumore. Di tornare a casa non se ne parlava proprio, così mi misi a vagare come un’anima in pena. In Viale Matteotti vidi un tale raggomitolato per terra. Mi avvicinai e lo riconobbi. Era padre Adamo.
“Che è successo, don? Si sente male?”
“Mi hanno picchiato.”
“Chi è stato?”
“Non lo so, due energumeni…”
Lo aiutai a rimettersi in piedi. Aveva la faccia gonfia, un occhio mezzo chiuso.
Lo accompagnai sino a una panchina, quindi andai alla fontanella a bagnare un fazzoletto.
“Non avevo fatto niente di male…”
“Scusi, perché ha giù la braghetta?”
“Ma no, niente, me la sarò scordata aperta a casa.”
“Non mi prenda in giro, don.”
Premendosi il fazzoletto sul viso, Adamo si mise a raccontare.
“Non giudicarmi male, la natura umana è imperfetta. Ero ai giardini del castello…”
“Per puro caso.”
“A un certo punto vedo due ragazze.”
“E non ha potuto fare a meno di esibirsi.”
“Purtroppo no”, sospirò, “poi sono arrivati i fidanzati, e mi hanno rincorso. Correvano forte, mi hanno raggiunto e il resto lo vedi da te.”
“Don, lei deve darsi una calmata… Le prende le pastiglie?”
“Non sempre.”
“O quelle o i cazzotti: cosa preferisce?”
“Le pastiglie.”
“E allora le prenda. Vuole che le chiami un taxi? Ce la fa ad arrivare a casa?”
“No non c’è bisogno, ce la faccio”
Accompagnai lo spretato per un tratto.
“Che brutti tempi stiamo vivendo. Il gesto più innocente viene sistematicamente male interpretato.”
“Sa com’è, c’è gesto e gesto.”
“Vero. Questo è per te, a titolo di ringraziamento.”
Mi porse una pallina avvolta nel cellophane.
“Roba buona eh! Così fai serata con la tua segretaria, la Luciana. Bella gnocca! Te li fa i pompini?”
Non risposi.
“E daglieli due colpetti ogni tanto!”
“Vada a dormire, che è meglio.”
“Per la polverina magica fanno di tutto quelle porcone! Se vuoi te ne presento una, sta al collegio Bellarmino.”
“Scusi don, ma se ci sono ‘ste porcone disposte a tutto per la bamba, come dice lei, perché se ne va in giro a mostrare l’uccello alle ragazze al parco?”
“Perché, come dice il mio consulente finanziario, bisogna diversificare gli investimenti.”
Lo vidi sparire, finalmente, nell’androne condominiale.
Mentre mi allontanavo, mi giunse di nuovo la sua voce.
“Marco!”
Affacciato alla finestra, lo spretato mi osservava con un’espressione stravolta.
“Che c’è ancora?”
“Non me la racconti giusta. Secondo me te la bombi eccome, quella bella maialona!”
La pallina non la buttai, poteva sempre tornare utile. Quella notte, stranamente, riuscii a dormire qualche ora.
“Hai sprecato i migliori anni della tua vita. Preparati ai peggiori.”
Una lettera anonima, scritta in stampatello, nella cassetta delle lettere. La busta non recava traccia di timbro postale, né l’indicazione del destinatario. Mi sforzai di immaginare chi potesse avermela recapitata ma non mi venne in mente nessuno. La riposi in un cassetto.
Un minuto dopo squillò il cellulare.
“Marco, perché non fai un salto da me?”
Era Marostica.
“E' una cosa urgente?”
“Diciamo che è nel reciproco interesse.”
Mezz’ora dopo bussavo alla sua porta.
“Prego Marco, accomodati. Caffè?”
“Non si disturbi.”
“Immagino tu conosca il motivo di questo colloquio.”
“A dire il vero, no.”
“Fai le ore piccole, ti svegli sempre tardi e non sei aggiornato sulle novità. Dovresti saperlo che il mattino ha l'oro in bocca.”
“Mi ha convocato per dispensarmi consigli di vita?”
Marostica si fece serio.
“Stamattina Adamo Sarti è stato trovato impiccato alla ringhiera della scala nel suo condominio, con le mani legate dietro alla schiena. Vi conoscevate vero?”
“Lo conoscevate meglio voi, visto che era un vostro informatore.”
“Quand'è l'ultima volta che l'hai visto?”
“Ieri notte, dopo le 11, steso sull'Allea di Viale Matteotti. Lo avevano gonfiato di botte.”
“Chi?”
“Dei giovanotti, così ha detto.”
“E poi?”
“L'ho aiutato ad alzarsi, l'ho accompagnato verso casa e me ne sono andato. Stop.”
“Secondo te chi l'ha ucciso?”
“Non ne ho la minima idea.”
“Non ti pare strano che quello incontra a te e poche ore dopo finisce appeso?”
“Diciamo meglio: quello incontra dei tizi che lo riempiono di botte e poi finisce appeso. Io non c’entro un cazzo.”
“E pensare che una volta Pavia era una noiosa città di provincia…”
“I bei tempi andati.”
“Tieni occhi e orecchie bene aperti, Marco.”
“Come sempre, brigadiere.”
Accanto all’ingresso dell’agenzia, un gatto rosso mangiava crocchette da una ciotola. Era un randagio che faceva spesso tappa da quelle parti. Entrai e non vidi Livia. Un istante dopo udii dei rumori provenire dal bagno, come se qualcuno stesse sferrando calci alla porta. Aprii e la vidi seduta a terra, imbavagliata, le mani legate dietro la schiena. La liberai dalla fascetta di plastica e dalla ball gag che le avevano ficcato in bocca.
“Che è successo Livia? E’ ferita?”
“Due stronzi con il passamontagna sono entrati e mi hanno legata. Mi hanno chiesto dov’è la cassaforte, ho detto loro che la chiave ce l’ha solo lei, mi hanno messo la pallina in bocca e sono andati a rovistare nel suo ufficio.”
“Le hanno fatto del male?”
“Vuol sapere se mi hanno stuprata? No, non mi hanno violentata ma mi hanno sbatacchiato l’uccello in faccia, quelle merde. Ed è una cosa che non sopporto.”
“Hanno detto qualcosa di particolare?”
“A parte ‘Non urlare se no ti ammazziamo’, no.”
“Bastardi!”
“Millecento euro al mese non ripagano questo schifo.”
“Mi spiace, Livia, davvero.”
Andai in ufficio: avevano vuotato tutti i cassetti sul pavimento e il notebook era sparito.
“In che razza di casino si è cacciato?”
“Livia, le assicuro che non ho combinato nulla che possa giustificare tutto questo. Non riesco a immaginare cosa credessero di trovare.”
“Fossi in lei non ne parlerei a Marostica. Non servirebbe a niente. E poi non ho voglia di rispondere a domande sgradevoli.”
“Vero. Non servirebbe a niente.”
“Le do una mano a sistemare. Da solo non combinerebbe granché.”
I funerali delle dodici vittime della strage paralizzarono la città. Non avevo mai visto in vita mia tante facce fintamente contrite. Mi rifiutai di guardare un solo programma televisivo, di leggere un solo articolo di giornale sull’argomento.
Lello mi chiamò anche quella sera, dopo le 22.
“Non hai idea della quantità di stronzate che stanno dicendo in tele.”
“Immagino.”
“Senti, secondo me la visita all’agenzia era per farti capire che loro sanno che tu sai.”
“Cosa so, io? Niente! E non me ne importa nulla delle loro faide!”
“Magari è per via del filmato.”
“E che c’entro io col filmato? Me lo hanno inviato e da me si è fermato! Io mi faccio i fatti miei.”
“Probabilmente volevano incoraggiarti a continuare così.”
“Potevano trovare un altro modo, quei figli di puttana!”
“E’ gente che non va per il sottile, lo sai bene.”
“Comunque sia hanno passato il limite.”
“E quindi?”
“E quindi cosa?”
“Ti metti a fare il giustiziere della notte? E a chi spari, visto che manco sai chi sono?”
“Ma quale giustiziere della notte, a me basta solo che non mi rompano i coglioni!”
“Secondo me la cosa si chiude qui.”
“Voglio sperare.”
“E certo. Vivi e lascia vivere.”
“Lascia ammazzare, vorrai dire.”
Al brigadiere non dissi una parola dell’accaduto. Il giorno dopo, a mezzogiorno circa, ricevetti una chiamata in agenzia. Era una donna.
“Possiamo incontrarci?”
“La porta dell’agenzia è aperta, venga quando vuole.”
“Pensavo a qualcosa di più discreto.”
“Qui è discreto.”
“Non potrò essere lì prima delle 18”
“Nessun problema. Posso sapere il suo nome?”
“Simona.”
“A dopo.”
Cosa poteva volere da me quella donna? Lo avrei scoperto presto.
Dal giorno dell’intrusione tenevo sempre a portata di mano la Beretta APX (anagramma di Pax, ci avete fatto caso? Quelli di Gardone Val Trompia hanno un morboso senso dell’umorismo). Non che fossi convinto servisse a qualcosa ma averla accanto mi dava maggiore tranquillità.
In ogni caso, all’occorrenza non avrei esitato a usarla.
Livia se ne andò alle 17, come suo solito.
Alle 18 e 10 suonarono all’ingresso.
Andai ad aprire.
Dove avevo già visto quello sguardo? Quella chioma di capelli neri e lisci? E quel sorriso indecifrabile?
Le dissi di entrare.
Era il tipo di donna che non passa inosservata.
Ci sedemmo in ufficio, la scrivania a fare da linea di demarcazione.
Indossava una gonna a tubino in pelle e un top bianco.
“La ascolto.”
“Volevo ringraziarla.”
“Di cosa?”
“Lo sa benissimo.”
“La questione, per quanto mi riguarda, è risolta.”
“Tengo molto a Giulio.”
“Bene.”
“La gente giudica senza sapere di cosa parla.”
“Purtroppo.”
“Gente che, fra l’altro, farebbe meglio a guardare i propri peccati prima di scagliarsi contro quelli degli altri.”
“Vero. Nel suo caso però la faccenda può dirsi chiusa.”
“Ci sposiamo a settembre.”
“Meglio di così…”
“Grazie anche a lei.”
“Non c’è di che. Mi sono limitato a tradire la mia deontologia professionale e a vendere per denaro il mio silenzio.”
“E chi non si vende, a questo mondo? Siamo tutti in vendita, in un modo o nell’altro.”
“Già.”
“Si vede che la sua parola ha un valore, se bisogna pagare perché stia zitto.”
“Mettiamola così: ho un certo credito, in giro. Ora si tratta solo di capire se questo credito avrà un futuro oppure no. Gradisce qualcosa da bere?”
“No, grazie, anzi, è meglio che vada. Il mio fidanzato mi aspetta.”
“Non facciamolo aspettare, allora.”
Quella sera avrei cenato in trattoria ma lungo il tragitto mi fermai dal Turco.
“Marco, vieni che ti mostro una cosa.”
Da sotto il bancone tirò fuori un foglio, una volantino con il testo bilingue russo-inglese. Nel bel mezzo, la foto a colori di un lanciagranate RPG-7.
“Ti interessa?”
“Dico ma sei ammattito? Che me ne faccio di questo coso, ci ammazzo le mosche?”
“E’ una replica, mica è vero!”
“E vorrei anche vedere!”
“Dai, non ti arrabbiare, stasera la bevuta è gratis.”
Mi sedetti a un tavolino. La televisione era accesa col volume a zero. In un angolo, un avventore abituale fissava il vuoto.
Squillò il cellulare. Una voce femminile che non riconobbi pronunciò queste parole:
“Ore 21, chiesa del Carmine, navata destra, primo pilastro. La contatterò io.”
Chi diamine era, stavolta?
Avevo bevuto troppo. Arrivai in Carmine con una certa fatica, rasentando i muri. La chiesa era piena di anziani: una distesa di teste canute. La locandina all’ingresso annunciava la lettura di brani scelti dal ‘Diario di guerra di Edmondo Bazzelli’.
Presi posto su una sedia nel punto stabilito.
Il pubblico salutò con un applauso l’apparizione di un bellimbusto imbrillantinato che si piazzò al microfono e, dopo una prolissa introduzione, cominciò a leggere le pagine del Diario. Si atteggiava manco fosse Vittorio Gassman.
Improvvisamente mi giunse alle narici una ventata greve e nauseabonda di gas intestinali, sfiatati da chissà chi, forse dal fotografo obeso seduto alla mia destra. Un prete dall’espressione malvagia si materializzò all’improvviso da dietro il pilastro, saettando occhiate ostili sul pubblico.
Ebbi l’impressione di trovarmi in un obitorio, circondato da cadaveri ai primi stadi della decomposizione. La situazione era del tutto insostenibile.
Stavo per andarmene quando mi sentii toccare a una spalla.
Mi girai e vidi una donna sulla quarantina, con un abito a tubino nero. Una figura del tutto fuori posto in quella sede. Con un cenno del viso mi invitò a seguirla.
Non esitai un istante. Sul sagrato della chiesa, ripresi finalmente fiato.
La sconosciuta discese i gradini con un’eleganza sapientemente coltivata.
Abito Ralph Lauren, acconciatura “di tendenza” con chignon basso, trucco non vistoso: bel tipo davvero.
“Beh? Dove andiamo?”
“Ho la macchina posteggiata qui vicino.”
La macchina era una Lexus LC 500.
Salii a bordo.
La signora in nero partì sgommando.
Dall’impianto stereo uscirono le note di una canzone che conoscevo bene: “My Weak Side” di Mr.Kitty.
“Non ha risposta alla mia domanda: dove siamo diretti?”
“A fare un giro.”
E facciamolo ‘sto giro, pensai.
“Posso sapere come ti chiami?”
“Florinda.”
“Come la Bolkan.”
“Ecco, bravo, proprio lei. Piaceva a mio padre.”
“Ho visto di recente un film di Fulci con la Bolkan, Non si sevizia un paperino. Pare sia un film di culto. A me non è piaciuto per niente, a parte una sequenza.”
“Quella della Bouchet che adesca il ragazzino?”
“Indovinato.”
“Siete così prevedibili, voi uomini. A me la Bolkan piace soprattutto in Metti una sera a cena.”
“Anche a me, se è per quello.”
Alla rotonda di Viale Indipendenza svoltò a sinistra e, di lì, in Viale Golgi. Imboccata la tangenziale Ovest, seguì le indicazioni per Bereguardo.
“Marco, posso darti del tu, vero?”
“Naturalmente.”
“Se adesso io mi fermassi in una piazzola e ti facessi un pompino, tu avresti qualcosa in contrario?”
“Non credo proprio.”
“Non mi fraintendere: la mia ero solo una curiosità di carattere, diciamo così, antropologico.”
“Antropologia a parte, dove siamo diretti?”
“Hai altri impegni?”
“Nessun impegno: vorrei solo capire.”
“Non c’è niente da capire. Ascolta qui.”
Un tocco al trackpad ed ecco uscire dalle casse ‘Go with the Flow’ dei Queens of the Stone Age.
Se non altro, sarebbe stata una notte diversa dalle altre.
Ci lasciammo alle spalle Bereguardo. Dopo alcuni km svoltammo in una strada sterrata che si inoltrava in un bosco. Procedemmo a lenta andatura per una decina di minuti. Il bosco si infittiva in modo inquietante, avvolgendo la strada come in un bozzolo. Vidi apparire alla nostra sinistra un muro di cinta. Lo costeggiammo sino ad arrivare nei pressi dell’entrata, un cancello imponente oltre il quale si apriva una tenuta di campagna.
Il cancello si aprì: eravamo attesi.
Percorso un viale coperto di ghiaia illuminato da faretti, giungemmo dinanzi a una villa nobiliare, relativamente ben conservata.
Florinda spense il motore e scese dall’auto. La seguii senza fare domande.
Saliti i pochi gradini che conducevano all’ingresso, non dovemmo far altro che spingere il portone, oltre il quale si apriva un corridoio le cui finestre erano schermate da tende di velluto. Alle pareti, stampe che raffiguravano scene di caccia… all’uomo.
Al termine del salone si apriva un salone, arredato in modo bizzarro, dominato al centro da una specie di trono. Su di esso, sedeva un personaggio a dir poco singolare.
Non avevo mai visto in vita mia un uomo così piccolo. Sembrava tale e quale ad Harry Earles, il nanetto biondo del film di Tod Browning “Freaks”. Identico sia nell’aspetto che nell’abbigliamento, mi osservava con un sorriso indecifrabile.
Florinda, poco lontano, stava versando un drink.
“Non dirmi che non ti piace il Talisker”.
“Infatti non lo dico”, le risposi.
Mi passò il bicchiere.
L’omino alzò la mano sinistra.
“Viviamo tempi difficili, non crede?”
“Altroché.”
“Basta un nonnulla, e ci si ritrova su un tavolo settorio.”
“Già, a volte basta davvero poco.”
“Una parola di troppo.”
“Anche.”
“Florinda cara, unisciti a noi.”
“Sono qui.”
“Ora le mostro una cosa.”
Schioccò le dita. Dal fondo del salone si fecero avanti due individui corpulenti, il volto celato da maschere, spingendo una cabina munita di rotelle coperta da un telo colorato.
A un cenno del nano, fu tolto il telo.
La “cabina” altro non era che una gabbia. Al suo interno, un uomo sulla sessantina, nudo e in manette. Una gag ball gli impediva di proferire parola.
“Lo riconosce?”
Feci segno di no al padrone di casa.
“Eppure dovrebbe. Lo osservi bene.”
Non lo riconobbi.
“Come, lei non conosce l’illustre professor Corsati?”
Corsati? Il temutissimo ordinario di Diritto delle società offshore? E che ci faceva, rinchiuso in gabbia come un animale, in una villa sperduta nella Valle del Ticino?
“E’ uno sporcaccione, sa, il professore? Ma noi gli vogliamo bene lo stesso, vero Florinda?”
“Come no. Un bene dell’anima.”
Florinda si accostò alla gabbia del professore e gli strizzò crudelmente i testicoli.
“Accadono brutte cose. Cose di cui, onestamente, vorremmo non dover essere testimoni.”
“Posso socratizzarlo, zio?”
“Non ora, Florinda. Non vorrei turbare la sensibilità del nostro ospite. Ci occuperemo di lui in un secondo tempo. Marco, mi dica: ha mai seviziato qualcuno?”
“Sinceramente no.”
Lo zio mi fissò incredulo, come se avessi pronunciato la cosa più inverosimile al mondo.
“Se mettessimo un po’ di musica?” Florinda si diede ad armeggiare con un impianto stereo.
Ai quattro angoli del salone erano collocati diffusori acustici Enigma Veyron System.
Poco dopo, l’ambiente fu inondato dai bassi di “Bind, Torture, Kill”, album del 2006 dei Suicide Commando.
“Lei mi sorprende, Marco. Trovo bizzarro questo suo moralismo.”
“Non è moralismo. E’ solo che non mi attira l’idea.”
“Desidero offrirle un’opportunità unica.”
“La ascolto.”
“Le piacerebbe sottoporre a waterboarding il professore? Se vuole può farlo, adesso. I miei collaboratori saranno lieti di aiutarla.”
“Anch’io!”, esclamò Florinda
Non avrei potuto essere maggiormente consapevole del fatto di trovarmi in mezzo a dei pericolosissimi psicopatici. Soppesai con cura le parole.
“La ringrazio, davvero, ma non sono dell’umore giusto.”
Il nanetto non dissimulò il proprio disappunto.
“Non le va a genio proprio nulla, a quanto pare.”
“Qualcosa sì, zio. Penso proprio che mi si scoperebbe volentieri.”
Mi vidi rivolgere un’occhiata di disapprovazione – non so fino a che punto sincera.
“Davvero?”
“In questo momento gradirei un altro bicchiere di whisky.”
Lo zio scese dal trono servendosi di una scaletta in legno coi gradini imbottiti.
“Portatemi il professore!”
Florinda si sedette accanto a me sul divano.
“Sta’ a vedere Marco, ora lo zio ne combina una delle sue”.
“Sono finiti i giorni dei tuoi trionfi, miserabile!”
I due, aperta la gabbia, afferrarono e lo trascinarono di fronte allo zio.
“Tenetelo forte!”
Lo zio, fatti pochi passi, estrasse da un braciere un ferro da marchiatura per bovini e lo calcò sulla schiena dello sventurato.
Odore di carne bruciata si diffuse in tutto il locale insieme allo straziante muggito di dolore del professore.
“Summum ius, summa iniuria!” esclamò il nanetto.
“Che ti avevo detto? Lo zio è capriccioso.”
Il professore fu gettato nuovamente nella gabbia.
Lo zio sembrò acquietarsi. Tornatosi a sedere, mi rivolse lo sguardo più placido del mondo.
“Nel preciso istante in cui ha varcato la porta di questa villa lei è diventato nostro complice. Se ne rende conto, vero?”
Preferii non contraddirlo.
“Le cose cambiano. Equilibri che sembravano immodificabili si sgretolano nel volgere di poche ore. La città sul Ticino non sarà mai più la stessa. Molti dovranno perire.”
“Credevo che la mattanza fosse finita.”
“Finita? Ma se è appena cominciata! Non mi guardi così, la strage nella loggia non è opera mia. Io sono un umile artigiano… faccio la mia parte, do il mio piccolo contributo, nient’altro.”
Florinda mi si strinse addosso.
“Siamo formichine che lavorano a un più grande disegno, Marco.”
“Non riesco a seguirvi… Sinceramente.”
“Go with the flow, Marco, go with the flow”, mi sussurrò Florinda.
All’improvviso mi si annebbiò la vista. Cos’aveva messo nel whisky, la stronza? Piombai in un sonno di piombo.
Mi svegliai, intirizzito, sul sedile posteriore di un’automobile, con una gran voglia di pisciare e un discreto mal di testa.
Scesi dalla vettura. Mi trovavo nel cortile di un autodemolitore e non c’era nessuno in giro. Svuotai la vescica e tastai le tasche della giacca: non mi avevano sottratto nulla, a cominciare dal cellulare.
Lo accesi. Erano le 6 e un quarto del mattino e mi trovavo a pochi km da Milano. Per quale motivo mi avessero scaricato lì, lo sapeva soltanto il diavolo.
Squillò il telefono. Numero sconosciuto, voce maschile ignota.
“Il cancello è accostato, esci. Segui la strada, avanti duecento metri arrivi alla statale. Alla tua destra c’è la fermata dell’autobus.”
Mi attenni alle istruzioni ricevute.
Lungo il tragitto digitai il numero di Lello.
“Sei a casa?”
“Sì. Tutto bene?”
“Mica tanto. Ti va se passo da te entro un’oretta?”
“Certo.”
Quando mi aprì la porta, notai nel suo sguardo un attimo di sbigottimento.
“Marco, sei pallidissimo. Che è successo?”
“Ti spiace se mi siedo?”
“Stai scherzando, vieni, accomodati, ti preparo qualcosa di caldo.”
Mi sdraiai sul divano.
Dopo poco Lello tornò porgendomi una tazza di camomilla. Ne bevvi un sorso.
“Che ti è capitato?”, chiese sedendosi in poltrona.
Gli raccontai l’avventura della notte precedente.
“Marco, la situazione sta prendendo una brutta piega, vogliono metterti in mezzo a tutti i costi. Forse è meglio se vieni via da Pavia per un po’. Puoi venire a stare da me.”
“Non ci capisco più niente.”
“Immagino che Corsati non sia più nel novero dei vivi.”
“Non ne ho la minima idea, so solo che lo hanno marchiato a fuoco sotto i miei occhi.”
“Che ti ha detto il nano? ‘E’ appena cominciata’?”
“Esatto.”
“Scorrerà altro sangue allora.”
“Sicuro.”
“Potremmo fare delle ricerche in merito alla villa che mi hai descritto, ma qualcosa mi dice che è meglio lasciar perdere.”
“Infatti.”
“Senti, Marco, tu a Pavia per un po’ non devi mettere piede. Molla tutto.”
“E a Livia che dico?”
“Le dici che per un mesetto l’agenzia chiude, che le paghi comunque il salario e ti rifarai vivo al più presto”
“Cazzo.”
“Credimi, è la cosa migliore.”
“Non servirebbe a niente Lello. Se vogliono mi possono beccare benissimo anche qui.”
“Come vuoi, in ogni caso per te la porta è sempre aperta.”
“Se non ti dispiace me ne sto qui un’oretta, poi vado.”
“Stai quanto vuoi.”
Rientrai a Pavia in treno nel primo pomeriggio.
Durante il tragitto ricevetti un sms da un numero sconosciuto:
“Basilica di San Pietro in Ciel d’Oro, cripta di Severino Boezio, ore 18”.
Non esitai a rispondere.
“Avete rotto i coglioni!”
Due minuti dopo:
“Fai il bravo, Marco.”
Era quella puttana di Florinda, ne ero certo. Passai dall’agenzia, presi la pistola dal cassetto e alle 17 e 45 mi recai all’appuntamento.
In chiesa non c’era anima viva.
Raggiunsi l’ingresso della cripta.
Al suo interno, di fronte all’altare, vidi lei. Vestita esattamente come Clara Calamai nella scena finale di Profondo Rosso.
“Dove hai trovato questo impermeabile? Da un noleggio costumi?”.
“Lo zio ti manda i suoi saluti e un piccolo dono.”
Mi porse una scatola.
La aprii: conteneva una chiave.
“E quindi?”
“Apre la cassetta di sicurezza nella camera 26 dell’Hotel Alba. Tanti auguri, Marco. Esco prima io. Tu aspetta qualche minuto.”
La afferrai per un polso e le impedii di muoversi.
“No, adesso tu aspetti!”
“Mi fai male.”
“Per chi mi avete preso? Dopo lo scherzo di ieri notte, adesso dovrei partecipare a una caccia al tesoro?”
“Mi metto a strillare sai? Dico che hai cercato di violentarmi!”
“E chi vuoi che ti senta? La chiesa è deserta.”
Allentai la stretta.
“Sai che ti dico? Riprenditi la chiave, non so che farmene.”
“No, Marco: è tua.”
Mi si strinse contro e mi diede un bacio.
“Lasciami andare ora.”
“Usciamo insieme, tu avanti a me di un passo.”
“Come vuoi.”
Ci separammo una volta giunti in Viale Matteotti.
Conoscevo il portiere dell’Hotel Alba. Era un ex pugile, un tipo a posto. Quando mi vide arrivare, quella sera, non disse una sola parola. Si limitò a porgermi la chiave della camera 26.
Salii al piano. Il corridoio del secondo piano era deserto, la stanza era in perfetto ordine. Aprii la cassetta di sicurezza. Conteneva una chiavetta usb.
“Ma puttana di quella troia!”.
Scesi le scale imprecando. Quasi mi dimenticai di rendere la chiave della stanza al portiere.
Una volta a casa, accesi il portatile e inserii la chiavetta.
Conteneva un solo file, intitolato “Morituri”.
Era un elenco di nomi, parecchi dei quali a me noti.
Nomi di persone destinate a morire di morte violenta.
Spensi il notebook.
“Cazzo”.
Per ragioni che non riuscivo a capire, volevano che sapessi chi stavano per uccidere. Stavolta non avrei parlato a nessuno della cosa, neppure a Lello. Accadesse quel che doveva accadere.
Non chiusi occhio, quella notte. L’alba mi sorprese seduto in poltrona, in tinello, in compagnia di una bottiglia di whisky semivuota.
Erano decine di nomi, perdio. Una mattanza.
Andai in bagno a lavarmi la faccia, quindi indossai la giacca ed uscii.
In fondo, era un giorno come un altro.
Pietro Ferrari, giugno 2019