venerdì 2 gennaio 2015

 

ALCUNE CONSIDERAZIONI
SU ISAAC ASIMOV
E SU SUO FIGLIO DAVID 

Ho assistito a grottesche manifestazioni di idolatria nei confronti di Isaac Asimov in occasione del suo genetliaco. In alcuni post su Facebook, addirittura alcuni lo hanno celebrato come un santo. Fermo restando il suo genio, non bisogna dimenticare che era innanzitutto un essere umano, non esente da difetti e da lati oscuri. Un conto è riconoscere le doti e i meriti di una persona, un altro è ritenerla un modello di vita e venerarla come un essere semidivino. A questo proposito menzionerò qualcosa che a quanto pare è ignorato dai più e che ritengo doveroso far conoscere alle genti. Il figlio di Isaac, David, nel 1998 fu arrestato per detenzione, produzione e distribuzione di materiale pedopornografico. All'epoca, quando su un quotidiano cartaceo avevo letto la notizia, ne ero rimasto sconvolto. Questo è quanto ho recuperato dall'archivio storico del Corriere, ancor oggi consultabile online: 


Pedofilia: arrestato il figlio di Asimov, maestro della fantascienza

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE NEW YORK - Finisce in carcere per pedofilia il figlio del celebre scrittore di fantascienza Isaac Asimov. E' successo a Santa Rosa, in California, dove la polizia ha confiscato una gigantesca porno - biblioteca a casa Asimov (migliaia di compromettenti dischetti - computer e chilometri di filmati con bimbi nudi e ritratti durante atti osceni) prima di incriminare il 46enne David Asimov per "produzione e distribuzione di pornografia relativa a minori". L'erede del geniale e prolifico autore di "Io Robot" (e di ben 467 libri in 50 anni) aveva inizialmente rifiutato di sborsare i 250 mila dollari della cauzione e si era dichiarato "completamente innocente". Ma alla fine ha trovato un accordo col tribunale, che gli ha accordato la liberta' provvisoria, in attesa del processo che verra' celebrato il prossimo 20 marzo. Il giudice Frank Passalacqua ha posto quattro condizioni al suo rilascio: rispettare il coprifuoco notturno, tenersi alla larga dai bambini, visitare lo psichiatra due volte alla settimana, non usare il computer "fino a contrordine". Quando la scorsa settimana le autorita' avevano fatto irruzione nella costosa abitazione dell'uomo, erano rimaste di stucco. "La villa e' dotata di un sofisticatissimo sistema per la duplicazione e il montaggio in video, di un costosissimo scanner per creare immagini al computer e di migliaia di dischi e videocassette su cui trasferirli - spiega il vice procuratore capo di Santa Rosa Gary Medvigy - e' stato come entrare in un modernissimo studio tv di Hollywood". Questa vicenda riapre tra gli psicologi americani il dibattito d'obbligo sulla difficolta' dei "figli famosi" (trascurati e ignorati dai genitori) e sui probabili "traumi d'infanzia" che, in questo caso particolare, potrebbero aver portato il giovane David verso scelte di vita alquanto diverse da quelle del celebre padre. Di David si sa ben poco, tranne che e' un tipo solitario e senza amici, privo di lavoro fisso. Per scagionarlo, il suo legale vorrebbe sostenere la linea di difesa dell'"eremita", incapace come tale di nuocere alla societa'. "Il mio cliente e' un orso, recluso ed introverso - ha spiegato Andrian - se ha commesso cio' di cui e' accusato e' stato sempre dentro i confini della propria casa. Nel suo mondo di fantasia privato". Per questo, secondo il primo emendamento della costituzione americana che sancisce la liberta' di pensiero e di parola, nessuno lo puo' toccare.
(Alessandra Farkas)

Qualcuno con sdegno mi chiederà: "E con questo?" Certo che un padre non è la stessa cosa di un figlio, sono due persone diverse - e se è vero che le colpe di un padre ricadono sui suoi figli, è altrettanto vero che la proposizione inversa non è poi così difendibile: come si potrebbe imputare a un padre la mostruosità di un figlio? Forse fu colpa di Marco Aurelio, modello di virtù e di sapienza, la scelleratezza infinita di suo figlio Commodo? Tanto più che all'epoca dell'arresto di David Asimov, Isaac era già morto da alcuni anni. Tuttavia è assai verosimile che l'attività del virgulto degenere degli Asimov non fosse qualcosa di improvvisato, e che quindi il suo inizio risalisse a prima della morte dell'augusto genitore. C'è di che meditare. Se io avessi la sventura di avere un figlio e questo installasse apparecchiature sofisticatissime per produrre tonnellate di materiale aberrante, farei un po' fatica a non accorgermene, non credete? Pensateci. Un'intera villa, la dimora degli Asimov, rigurgitante di simile immondizia. Così ha detto il magistrato distrettuale Gary Medvigy, alludendo al materiale pedoporno reperito: "È una quantità immensa. Credetemi, non ci sono abbastanza uomini e ore-uomo per visionarlo tutto". Né si può tacere sul fatto che David Asimov è stato infine condannato a una pena risibile, assolutamente non commisurata all'enormità del suo crimine: sei mesi di arresti domiciliari con braccialetto di monitoraggio elettronico. C'è del torbido, non ci sono dubbi. Detto questo, credo che continuerò a leggere le opere di Isaac Asimov come ho sempre fatto e a trarne diletto - ma non senza una vena di inquietudine.

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: LATINO FRINGILLUS, FRI(N)GILLA, ITALIANO FRINGUELLO

Il nome latino del fringuello mostra una serie di varianti, le più comuni sono fringillus, fringilla e frigilla. Ma ne esiste un'altra, fringuillus, che continuò nel latino volgare dando regolarmente l'italiano fringuello. Fringillus diede invece origine a forme come fringillu e frincillu in diversi dialetti dell'Italia meridionale. Come interpretare questi dati?

Si capisce che si danno diverse possibilità:

1) La variante fringuillus è la più antica e le altre sono derivate per semplificazione della labiovelare sonora (non sarebbe il primo caso in cui una forma arcaica ha dato origine a termini romanzi, mentre le forme classiche corrispondenti non hanno avuto altrettanta fortuna).
2)  La variante fringuillus è la più recente ed è sorta in qualche modo per analogia con un'altra voce, come ad esempio il verbo fringultire "cinguettare", o per ragioni onomatopeiche.
3) Entrambe le forme continuano in modo imperfetto una protoforma più complessa contenente un elemento labiale, come sembra dimostrare il vocabolo greco φρυγίλος "fringuello", che dovrebbe avere la stessa origine.

Qualunque di queste ipotesi sia quella vera, in ogni caso occorre ammettere che la consonante fosse velare (dura) e che in epoca classica si pronunciasse /fri(:)ŋ'gillus/, /fri(:)ŋ'gilla/, /fri:'gilla/.

Coloro che affermano la pronuncia ecclesiastica ab aeterno, pronunciano le parole classiche per fringuello con un suono palatale: /frin'dʒillus/, /frin'dʒilla/, /fri'dʒilla/. Di più, pretendono che Romolo e Remo seguissero questo uso moderno. In questa loro ottica distorta e irreale, la forma /friŋ'gwillus/ da cui deriva l'italiano fringuello sarebbe un completo mistero. Come diamine si sarebbe prodotta? Ovviamente non lo sanno spiegare, perché il loro sistema non è altro che una massa raffazzonata di dati incoerenti.

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: SOCER, SOCERUS E SOCRUS

Esistono in latino diverse forme derivate dall'indoeuropeo *swek'uro- (m.) "padre del marito", *swek'rū- (f.) "madre del marito":

1) socer, gen. soceri "suocero"
2) socerus, gen. soceri "suocero" 
3) socrus, gen. socrus "suocera; suocero"

Dall'accusativo soceru(m) della forma 1) o della forma 2) deriva regolarmente la parola italiana "suocero". La forma 3) era sia maschile che femminile e poteva quindi tradurre anche l'italiano "suocera". Nel latino volgare d'Italia si è conservata soprattutto la forma femminile. In diversi dialetti dell'Italia Meridionale e in Sardegna questo vocabolo è sopravvissuto e ha dato socra, cambiando la terminazione. Ad esempio in napoletano abbiamo salutam' a' socrat' "salutami tua suocera".

Vediamo che in altre lingue indoeuropee si trovano interessanti forme con la stessa origine. Ecco un breve sunto della situazione:

Lingue satem: hanno IE /k'/ assibilato o palatalizzato. Esempi:  

Sanscrito: śvaśura- "suocero", śvaśrū- "suocera"
Avestico: xvasura- "suocero"
Armeno: skesur- "suocero"
Russo: свёкор "padre del marito"
   (l'esito /k/ in questa parola è irregolare)
Lituano: šẽšuras "suocero della donna" 

Lingue centum (kentum): hanno IE /k'/ non assibilato e ridotto a suono puramente velare /k/. Esempi:

Greco: ἑκυρός "suocero", ἑκυρά "suocera"
Celtico: *swekrū, donde gallese chwegr "suocera",

   cornico hweger id.
Gotico: swaihra "suocero"; swaihro "suocera"
   (-ai- suona /ɛ/)
Anglosassone: swēor "suocero; cugino"; sweger

   "suocera"
Antico alto tedesco: swehur "suocero"; swigar
   "suocera"
; swāgur "cognato; genero"
Tedesco moderno: Schwäher "suocero";
   Schwiegermutter "suocera"
; Schwager "cognato;
   genero".

Ne possiamo trarre le seguenti conclusioni:

1) Il suono originale indoeuropeo /k'/ era una velare prepalatale (simile a chi nell'italiano chiedere);
2) Il suono prepalatale /k'/ ha dato una sibilante o un'affricata in un gruppo di lingue e una velare /k/ in un altro gruppo di lingue, tra cui l'antenato del latino;
3) La vocale -u- si è indebolita in -e- nel latino preclassico, e questo spiega le forme socer e socerus;
4) Questa -e- che non è primaria ha dato in epoca tarda palatalizzazione della precedente velare;
5) Questa palatalizzazione, secondaria, non ha nulla a che vedere con quella avvenuta nelle lingue denominate satem;
6) La forma socrus, con /kr/, è rimasta indenne da ogni palatalizzazione. 

Coloro che proiettano il suono palatale della pronuncia ecclesiastica del latino all'infinito nel tempo, non possono comprendere questi dati di fatto: pretendendo di spiegare cose complesse ricorrendo a farfugliamenti semplicistici, non spiegano proprio nulla.

mercoledì 31 dicembre 2014

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULL'ETIMOLOGIA DI APE

Questo scrisse Watt sul suo scomparso blog Etymos a proposito dell'etimologia della parola ape: 

ape - Di etimo incerto, dice il DELI che tra l'altro riporta il latino ape(m). Mentre qualcosina, ma che può bastare rispetto al nulla, ci racconta Semerano: apis -is: se ne ignorò l'etimologia. Deriva da Accadico apu (punta, spina), appu (punta, insetto). 

Questi sono gli interventi da me apposti all'epoca della pubblicazione dell'intervento di Watt:

1) È un caso davvero oscuro. A parer mio la fonte ultima è l'egiziano antico bjj.t ('ape; miele'), anche se tramite una lingua ignota. Si noti in ogni caso come in etrusco il termine apiana 'camomilla; moscatello' potrebbe contenere la stessa radice. L'esito copto della forma egizia è ebiō 'miele' (con l'accento sulla lunga). Il raffronto dato da Semerano non è convincente: le due forme sembrano isolate, e la semantica è poco chiara.

2) Spiego meglio le difficoltà. In nessuno dei libri a mia disposizione ho trovato le forme date da Semerano; non trovo nulla di simile nell'intero database etimologico di Starostin relativo alle lingue afroasiatiche; le due parole non sembrano essere neppure di origine sumerica. La mia impressione è che si tratti di arcaismi o di lemmi marginali che devono essere studiati attentamente. Tra l'altro non è affatto detto che la parola che indica l'insetto sia imparentata con quelle che indicano la punta, la spina (esistono moltissimi insetti sprovvisti di pungiglione e non si capisce bene quale tipo di artropode fosse chiamato appu in accadico). Le omofonie in accadico sono numerosissime.

A distanza di tempo sono giunto a una conclusione netta: a fungere da tramite tra la forma egiziana e quella latina è stata la lingua etrusca. A partire dal materiale antroponimico, dalle iscrizioni, dalle glosse e dai resti nella lingua latina si può ricostruire quanto segue:

api-, *apei-, *apai- "ape" (1)
api- "dolce" (2)
*ap-ia "appio", lett. "<erba> delle api" (3)
apia-na "camomilla"; "moscatello" (4)
ap(a)ia-tru "melissa"; "gruccione" (5)
apei-na "apiario"; "apicoltore" (6)

(1) La forma base è attestata come gentilizio Api (m.), Ap-ia (f.). Si nota anche Api-e (m.), da un'originaria forma aggettivale.
(2) L'iscrizione θi api-ta (REE 50 n. 103) significa "questa <è> acqua dolce", ossia dolcificata con miele.
(3) È la forma da cui il latino ha tratto apium "appio, sedano selvatico"
(4) Nel senso di "camomilla" è una glossa dello Pseudo Apuleio (ThLE 415). Nel senso di "moscatello" la parola è penetrata in latino. Attestato anche come gentilizio (CIE 6).
(5) È attestato come gentilizio. Traduce latino apiaster "melissa" e apiastrum "gruccione o merope".
(6) È attestato come gentilizio. Traduce latino apiarium "arnia" e apiarius "apicoltore"

Alcune di queste deduzioni sono state fatte dal prof. Massimo Pittau, che ha introdotto un metodo innovativo e molto interessante per approfondire lo studio del lessico etrusco - anche se purtroppo in diversi casi è giunto a conclusioni inattendibili.

Per quanto riguarda Semerano, i suoi lavori sono da collocarsi nel novero delle opere fantalinguistiche. Negano infatti alla radice ogni fondamento del metodo scientifico, essendo basati sul principio dell'assonanza, seguendo una procedura molto comune nel mondo dell'esoterismo. Forniscono esempi eloquenti di questa ermeneutica coloro che separano dannato da dannare, dannazione e danno per connetterlo direttamente con il greco thanatos - oppure coloro che fanno derivare Maddalena dal toponimo Migdal-Eder, ossia Torre del Gregge (Gen. 35, 21), senza nemmeno cercare la voce in un vocabolario di ebraico, che darebbe Magdalith - chiaramente da Magdala. Così considero tutto questo come un tentativo di abolire la chimica moderna per ritornare a Paracelso e a Cornelio Agrippa. Tra i sostenitori di Semerano si può citare Massimo Cacciari, che ha definito tutto questo "una festa per l'intelligenza". È evidente che l'autore in questione gode di ampio credito in molti atenei per via di una fallacia logica chiamata Reductio ad Hitlerum. L'argomento è il seguente: "Siccome il Nazionalsocialismo ha commesso immensi crimini sulla base del concetto di razza ariana, e questo è a sua volta fondato su considerazioni linguistiche, ne consegue che il concetto di lingua indoeuropea debba essere necessariamente falso". È necessario precisare che si tratta di un paralogismo o sillogismo fallace? Sì, penso che sia necessario.

martedì 30 dicembre 2014

FREITUM È UNA PAROLA TEDESCA A TUTTI GLI EFFETTI

Rudolf Steiner nella sua opera L'economia dell'anima (Die Gesunde Entwickelung des Menschenwesens), si dilunga in una questione di lana caprina sulla frase inglese "The freedom of one cannot prosper without the freedom of all", traduzione dal tedesco "Die Freiheit des Einen kann nicht ohne de Freiheit de Anderen gedeihen". A detta del fondatore dell'antroposofia la traduzione in inglese sarebbe priva di senso. Così egli argomenta: 

"Ne darò la dimostrazione concentrandomi sulla parola significativa nella frase. In inglese la parola è freedom. Se paragoniamo la qualità di questa parola con la corrispondente parola tedesca, si dovrebbe usare Freitum - la terminazione "dom" in inglese corrisponde alla terminazone "tum" in tedesco. Se una simile parola esistesse, potremmo usare freedom impunemente. Freitum si tradurrebbe allora con "freedom", e non ci sarebbe alcun fraintendimento. Ma la parola usata nel testo originale è Freiheit - la terminazione "heit" corrisponde alla terminazione inglese "hood". Per mostrarvi che la traduzione di Freiheit con "freedom" non si armonizza con il genio della lingua, userò un'altra parola tedesca, Irrtum ("errore"), che esprime un fatto definito che accade una volta sola. Se volessimo dare a questa parola l'uscita "heit", dovremmo formare la parola Irreheit. Non troverete questa parola in alcun dizionario tedesco, ma non si andrebbe contro il genio della lingua inventandola. Sarebbe del tutto possibile usarla. Irreheit ci conduce immediatamente all'intima natura dell'essere umano. Non ci sono parole nella lingua tedesca uscenti in "heit" che non puntino a qualcosa di flessibile all'interno di una persona. Tali parole portano il loro significato verso una persona. Invero, è un peccato che noi non usiamo la parola Freitum in tedesco, perché se esistesse, potremmo esprimere il significato della parola inglese "freedom" direttamente, senza circoscriverla."

E ancora:

"Queste cose ci portano dritti nelle profondità della lngua stessa e ci rendono consapevoli del genio della lingua. Di conseguenza, quando scrivo un libro in tedesco, cerco di scegliere parole che possono essere tradotte correttamente in altre lingue - e i miei lettori tedeschi non esitano a chiamarlo stile povero. Ma questo non è sempre possibile. Se, per esempio, un libro è indirizzato alla cultura della Germania, potrebbe essere necessario considerare la sutiazione tedesca per prima. E questo è il motivo per cui ho ripetutamente usato la parola Freiheit, che non dovrebbe mai essere tradotta con "freedom". Il mio libro Die Philosophie der Freiheit non dovrebbe mai essere intitolato in inglese The Philosophy of Freedom. Un titolo inglese corretto per questo libro deve essere ancora trovato."

Con buona pace di Rudolf Steiner, in tedesco non esiste soltanto la parola Freiheit "libertà", ma anche Freitum, termine suscettibile di diverse interpretazioni - il cui uso in origine non corrispondeva perfettamente né al tedesco corrente Freiheit, né all'inglese freedom

Va innanzitutto fatto notare che nel tedesco contemporaneo la parola Freitum è un neologismo che compare come traduzione diretta dell'inglese freedom, soprattutto per esprimere il concetto di politica o filosofia libertaria. Alcuni parlanti ritengono la parola Freiheit inadeguata e la vorrebbero addirittura abolire, in quanto compare nell'inno nazista, la Canzone di Horst Wessel: "Der Tag für Freiheit und für Brot bricht an". A causa del paradossale odio antitedesco così diffuso nell'attuale Germania, ecco che anche le parole del lessico di base sono ritenute gravate da passate colpe. Si segnala l'esistenza di una rivista libertaria online denominata Freitum:


Coloro che oggi usano questa parola, non sembrano essere consapevoli del suo uso passato, fiorente nella fase più antica dell'alto tedesco moderno.

Quello che a noi interessa è proprio la continuazione diretta del medio alto tedesco vrîtuom "libertà". Le occorrenze della parola Freitum (con numerose varianti ortografiche come Vreitum, Freytum, Freythumb) nei secoli XIV-XIX dovrebbero essere considerate di sommo interesse dagli storici e dai filologi, ed è un peccato che siano tanto neglette dai moderni. Il termine era infatti usato per indicare una serie di concetti relativi alle città-stato e compare molto spesso nelle costituzioni municipali e in altri documenti legali. La sua obsolescenza deve essere stata causata dall'Unione Doganale (Zollverein), a cui seguì l'unificazione politica della Germania. 

Questo è l'elenco dei significati della parola:

Privilegio; diritto; diritto cittadino; libertà; libertà di mercato; diritto di asilo 

Questi sono alcuni esempi di frasi in cui ricorre, con la data dell'attestazione:  

1) Haben abgenomen ein chlostewer ab der pfafhait gut ... da wir niht recht zu heten und haben daran ubervaren der pfaffen vreitum (1323)
2) Mit alle dem vreitum und genaden, die in iren hantfesten geschribn stent (1331)
3) Dem obg. gotshaus ze R. seiner recht, freytum und genade, swie ez die hat oder haben sol an seinen laeuten und guten, an gerichten, an vischwaiden ... stät behalten (1332)
4) Statigen wir demselben gotshaus den freytum, den ez innerhalb der portten des chlosters  haben sol (1332)
5) Daz eri vnd sein gotshous di selben hofmarich haben sullen ewichleichen in allen den rechten und  vreitumen, als si daz alt hous ze nachst da be enther gehabt habent (1335)
6) Das der freytumb und die sach ... ewiklich stet und unczebrochen beleib, darumbe so [gib] ich ... den brief (1408)
7) Von der purger puess, dy das gericht pitten vmb dy übertreter des fraytumb (1413)
8) Saecken, die teghen vrydoem desses lande wesen moghen (1420)
9) Adelick fryedom als junckher (1448)
10) Welcher wider der stadt freithun wird handeln (1541)
11) In diesem jahr wurden die Zeidner ... des freitums entblösset, dass ihre gemeine nicht mehr ein markt, sondern ein schlechtes dorf soll heißen (1614)  

Per approfondimenti sugli esempi sopra riportati si rimanda al seguente sito dell'Università di Heidelberg: 


Ulteriori citazioni:

Wir bestaten auch dem vorgenanten Gotshaus ze Fürstenzell all ander Genad, Freytum, und Recht, die unser Vetter Chunich Otto sälig, und auch wir, aller Pfaffhait Edeln, und Unedeln, Arm und Reichen in unsern Land gemainleich gegeben haben. (Monumenta Furstencellensia)

FREYTUM, Freyheit, privilegium. Mon. boic. vol. II p. 484 ad an 1337. "alle die Genad, und Ureitum" b. p. 179 ad an. 1295. "wider die Rechtichait, und wider den Vreytun." Mon. boic. vol. III. p. 365. ad an. 1332. "Freyton." Mon. boic. vol. IX. p. 125. ad an. 1311. It. Freyton, en Eigenthum; item eine Freyung, Asylum.   (Glossarium germanico-latinum vocum obsoletarum primi et medii aevi inprimis bavaricarum, di Lorenz von Westenrieder)

Um jetzt diesen, einer ganzen Kirche, die Millionen gebildeter Menschen in ihrem Schoosse zählt, gemachten Vorwurf in theologischer Hinsicht zu würdigen, wollen wir zuerst untersuchen, was man denn unter dem einerseits so sehr gepriesenen Freythum und dem anderer Seits zu so schmählichem Vorwurfe gemachten Knechtthum zu verstehen habe. (Jahrschrift für Theologie und Kirchenrecht der Katholiken. Ulm, 1820)

Esiste anche un verbo freitumen "liberare", tradotto con "von (Deich-)Lasten befreien".

A chi obietterà che questa parola Freitum è desueta, risponderò che anche moltissime parole italiane sono desuete, eppure nessuno si sognerebbe mai di depennarle dai vocabolari. Certo, se qualcuno entrasse in un bar e ordinasse una pinta di cervogia, desterebbe una grande ilarità o addirittura non sarebbe capito. Tuttavia le parole pinta e cervogia sono parte della nostra eredità culturale, e questo nessuno lo può negare. Sarebbe anche ora che i tedeschi si ricordassero delle loro radici.

giovedì 25 dicembre 2014

'I RIBELLI DEI 50 SOLI' DI A.E. VAN VOGT E IL CONCETTO DI IMMOBILISMO LINGUISTICO

Hwæt! Wē Gārdena      in gēardagum 
þēodcyninga      þrym gefrūnon 
hū ðā æþelingas      ellen fremedon. 
Oft Scyld Scēfing      sceaþena þrēatum 
monegum mǣgþum      meodosetla oftēah 
egsode Eorle      syððan ǣrest wearð 
fēasceaft funden      hē þæs frōfre gebād 
wēox under wolcnum      weorðmyndum þāh 
oð þæt him ǣghwylc      þāra ymbsittendra 
ofer hronrāde      hȳran scolde, 
gomban gyldan      þæt wæs gōd cyning. 
Ðǣm eafera wæs      æfter cenned 
geong in geardum      þone God sende 
folce tō frōfre      fyrenðearfe ongeat 
þæt hīe ǣr drugon      aldorlēase 
lange hwīle      him þæs Līffrēa  
wuldres Wealdend      woroldāre forgeaf: 
Bēowulf wæs brēme      --blǣd wīde sprang-- 
Scyldes eafera      Scedelandum in.
(Beowulf 1-14)

Ci credereste se vi dicessi che questo è inglese? So per certo che moltissimi non lo riterrebbero possibile, e questo perché le genti faticano molto a capire che le lingue cambiano durante i secoli fino a diventare irriconoscibili. Coloro che si trovassero a trasecolare apprendendo che il brano da me riportato è in antico inglese, faticherebbero ancor di più a credere ai loro sensi se dicessi loro che la separazione temporale tra la lingua del Beowulf e quella odierna non è poi così grande. Ancora 1.000 anni fa, in Inghilterra, la lingua corrente non distava troppo da quella del brano da me riportato. Certo, molti vocaboli sono poetici, ricercati, e non si saranno trovati nella parlata di un fabbro, tuttavia quanto ho detto non è troppo impreciso. Lo stesso Re Aroldo II d'Inghilterra, caduto nella Battaglia di Hastings, non sarebbe stato in grado di comprendere i discorsi di Obama. Se consideriamo poi che all'epoca di Shakespeare la lingua inglese aveva già una forma ben riconoscibile ai moderni, vediamo che i cambiamenti drastici, sia fonetici che lessicali, che ci separano dall'antico inglese sono avvenuti in un lasso di tempo davvero breve, durante il dominio dei Normanni sull'Inghilterra. 

Questa è la traduzione dei versi sopra riportati:

“Udite! Noi dei Danesi delle Lance nei giorni lontani,
di quei re delle nazioni --  udite di quella gloria, 
di come quei nobili  compirono fatti coraggiosi. 
Spesso Scyld, figlio di Scef, dagli eserciti nemici 
a molte genti strappò le panche dell’idromele; 
e terrorizzò i terribili Eruli dopo che dapprima 
fu trovato senza aiuto e indigente, seppe poi ripagare per questo:- 
egli divenne grande sotto il cielo, prosperò in onori, 
finché a lui ognuna delle tribù confinanti 
oltre la Via delle Balene si dovette sottomettere, 
e pagare tributo: - egli era un buon re! 
A lui nacque poi un erede,  
un giovane nei cortili, Dio lo mandò 
a confortare le genti; aveva visto l'angoscia terribile 
che avevano sofferto prima, senza un capo
per lungo periodo; per questo il Signore della Vita, 
il Re della Gloria, concesse loro onore sulla terra: 
Beowulf fu famoso – si diffuse lontano la sua fama, 
dell'erede di Scyld, nelle terre di Scandinavia.”   

Cosa c'entra tutto questo con il libro I ribelli dei 50 soli di Alfred E. Van Vogt? Più di un lettore di fantascienza risponderà sdegnato dicendo che non c'entra proprio nulla. E qui si sbaglierebbe di grosso. Infatti nel libro dello scrittore di Winnipeg si parla di gruppi di persone anglofone vissute in totale isolamento su un pianeta selvaggio e tagliato fuori da ogni comunicazione. Ebbene, secondo l'autore di SF, questi anglosassoni remoti sarebbero stati in grado di parlare un perfetto inglese standard ancora dopo 15.000 anni dalla dispersione dei loro capostipiti. Questo senza contare che tra i tempi attuali e la diaspora degli anglosassoni immaginata da Van Vogt senza dubbio si estende un lasso temporale di altre migliaia di anni. Un tempo sufficiente a far gemmare diverse famiglie linguistiche a partire da una sola lingua d'origine, dando vita a idiomi tra loro distanti come il finnico dal russo, come il turco dall'islandese. Di fronte alle solidissime evidenze da me riportate sopra, l'ipotesi dell'immobilismo linguistico è di una tale patente assurdità da meritare di essere schernita. Se almeno ne I ribelli dei 50 soli ci fosse qualcosa di grande, una creazione concettuale in grado di compensare l'assurdo scenario linguistico dell'inglese immutabile, potrei anche mitigare la severità del mio giudizio. Se devo esser franco, la lettura del libro non ha destato in me alcun senso di meraviglia. L'opera non mi pare geniale sotto nessun aspetto.

LA LEGGENDA DI BEOWULF

Titolo originale: Beowulf
Nazione: USA
Anno: 2007
Genere: fantasy
Durata: 115
Produzione: Warner Bros
Distribuzione: Warner Bros
Regia: Robert Zemeckis
Attori:
  Ray Winstone: Beowulf
  Anthony Hopkins: Re Hrothgar 
  John Malkovich: Unferth 
  Robin Wright Penn: Regina Wealtheow
  Brendan Gleeson: Wiglaf
  Crispin Glover: Grendel
  Alison Lohman: Ursula
  Charlotte Salt: Estrith 
  Chris Coppola: Olaf
  Sebastian Roché: Wulfgar
  Lesle Zemeckis: Yrsa
  Angelina Jolie: Madre di Grendel 
  Costas Mandylor: Hondshew
Doppiatori italiani:  
  Francesco Pannofino: Beowulf
  Dario Penne: Re Hrothgar
  Roberto Pedicini: Unferth
  Chiara Colizzi: Regina Wealtheow
  Emanuela Rossi: Madre di Grendel
  Roberto Draghetti: Wiglaf
  Massimo Popolizio: Grendel
  Domitilla D'Amico: Ursula
  Oreste Baldini: Hondshew
 Emanuela D'Amico: Yrsa
 Giacomo Vitullo: Olaf 
 


Note:
La storia narrata nel film è l’adattamento di un antichissimo poema epico scritto in lingua inglese arcaica, e datato intorno al VII secolo. Il nome del suo autore, o dei suoi autori, è sconosciuto. Unica certezza è che si tratti del più lungo poema epico in lingua anglosassone mai scritto.

Recensione:
Riporto questo scritto del carissimo amico 7di9: una bellissima recensione de La leggenda di Beowulf, pellicola diretta da Robert Zemeckis, su Real Dark Dream. Il testo, pubblicato a suo tempo su Esilio a Mordor, per fortuna non è andato perduto, dato che è ancora consultabile in questa pagina:


Eroe di una tribù di origine svedese e figlio di un sovrano, Beowulf è un guerriero, nel senso più puro del termine, un combattente che decide di partire per una fredda regione della Danimarca al fine di uccidere il temibile demone che la infesta. E' questa in sintesi la trama del film diretto da Robert Zemeckis, il quale ripropone, dopo Polar Express, una tipologia di cinema visivamente costruito attraverso la grafica virtuale generata al computer.
 La colonna sonora è certamente uno degli elementi maggiormente riusciti della produzione. Alan Silvestri svolge un lavoro egregio, salvifico per certi versi. Il ritmo delle melodie è sempre incalzante e ben orchestrato quando le scene di guerra o di combattimento lo richiedono. Ed è incontrovertibile quanto questo aspetto aiuti sicuramente a meglio immedesimarsi nella storia. E' dunque d’obbligo riconoscere l’effetto riparatore che la musica opera in certe scene, le quali sarebbero risultate sicuramente meno digeribili e meno fluide, oltre che maggiormente macchinose, se private del loro accompagnamento orchestrale. Non si può dire lo stesso dell’effetto prodotto dalla recitazione dei personaggi, i cui volti perlopiù immobili e le cui pupille prive di vita non fanno che spingere lo spettatore lontano da una qualunque parvenza di partecipazione, di immedesimazione con le vicende narrate. Nonostante però la tendenziale, e a tratti fastidiosa, rigidità  dei volti dei personaggi, le cui espressioni sono limitate, la tecnica tridimensionale è sicuramente di buona fattura – anche se ancora lontanissima da un’accettabile verosimiglianza in grado di sostituire, nella forma e nella sostanza, la recitazione, ma soprattutto la profondità recitativa – di attori in carne e ossa. In ogni caso, nota di merito deve essere riconosciuta per l’ambientazione, perfettamente ricostruita: il freddo, la neve e la temperatura proibitiva sono realmente percepibili. Bisogna ammettere che da questo punto di vista la regia ha svolto un ottimo lavoro, contrapponendo i colori freddi della flora danese ai toni accessi e maggiormente caldi degli abiti dei personaggi, che sembrano quasi ricoperti di fuoco e lapilli.
 L’intera storia è costantemente immersa in una densa atmosfera di mistero, lugubre, profondamente oscura, che riesce a conferire maggiore forza alle figure dei demoni che la infestano. Particolarmente coinvolgente, e ben fotografata, è la scena del primo attacco di Grendel, il mostro che Beowulf ha promesso di uccidere. Violento al punto giusto, e caricato di un’equilibrata dose di effetti sanguinolenti, il momento dell’attacco del mostro è una sapiente macchina di suspense, dove le urla della creatura si mescolano alle luci blu, spettrali, del luogo, schiacciando le parole e le grida degli abitanti impauriti e alla disperata ricerca di una via di fuga.
 Anche se accademica e sufficientemente fluida, la regia risente di un movimento di macchina troppo stereotipato, raramente arricchito da guizzi originali, che in molti tratti tende ad un tipo di ripresa vicina a quella di un moderno videogioco, con riprese che risultano poco plausibili, e per questo abbastanza inaccettabili per l’occhio dello spettatore: l’effetto fake del film è comunque diffuso più o meno in tutti gli strati della pellicola, e difficilmente viene via, contribuendo non poco ad alienare dallo schermo chi assiste alla proiezione.
 I dialoghi, funzionali, risentono dell’arcaicità  del testo originario dell’opera. Sopra le righe, la sceneggiatura potrebbe risultare irritante in certi frangenti, anche se mediata da diversi e ben dosati spunti ironici. Le esigenze da epopea sono però pienamente rispettate: l’intera storia è a tutti gli effetti un inno atto a glorificare le gesta dell’eroe Beowulf, nel bene e nel male. A parte questo, la scelta degli sceneggiatori Roger Avary e Neil Gaiman di non adattare il tono leggendario e altisonante dei dialoghi originali dell’poema ad un linguaggio filmico maggiormente fruibile è da premiare, soprattutto considerando la tendenziale piattezza –  tanto dialogica quanto sintattica – di molti degli script moderni, soprattutto quelli destinati ad un pubblico eterogeneo.
 La trama è semplice – potrebbe definirsi minimale –  ed è giocata su di un paio di nodi narrativi che vengono reiterati per ben tre volte fino alla conclusione del film. Visti i difetti evidenziati finora, è palese come un simile intreccio diegetico non possa che peggiorare la già  precaria stabilità  del film. L’effetto finale sarebbe sicuramente cambiato se sullo schermo ci fossero stati attori reali, con espressioni realmente umane. L’empatia abita altrove, ed è un vero peccato, poiché l’operazione di voler riproporre una storia tanto antica, ancestrale, nel nostro tempo è scelta da ammirare, sicuramente coraggiosa.

Considerazioni: 
Aggiungo a questo punto qualche mio breve commento. Ottima la recitazione del poema in anglosassone, verso la fine del film. Non mancano però gli anacronismi: solo per fare un esempio si cita l'Islanda, che all'epoca della stesura del poema non era ancora stata raggiunta dai coloni norvegesi. Il tentativo di inserire in un contesto storico eventi più o meno liberamente ispirati al Beowulf, genera talvolta effetti surreali, ma questo è inevitabile: si è forse mai dato un solo americano in grado di produrre un film seguendo alla lettera una fonte senza apportarvi alcuna modifica? La mia opinione sul film è in ogni caso nettamente positiva. L'unica cosa davvero inguardabile è la strega con i tacchi a spillo.

domenica 21 dicembre 2014

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: I NOMI DELLA II DECLINAZIONE IN -R

Come è ben noto, la terminazione caratteristica del nominativo singolare dei nomi latini ascritti alla II declinazione è -us. Questa uscita proviene dall'antico latino -os, che continua la terminazione indoeuropea. È anche ben noto che alcuni nomi non hanno questa uscita, e hanno una ben precisa caratteristica: la loro radice termina in -r e non mostrano alcuna desinenza al nominativo singolare. Identico discorso per gli aggettivi il cui nominativo singolare maschile ha queste caratteristiche.

Nomi con nom. sing. in -us:

asinus "asino" (gen. asini)
caseus
"formaggio" (gen. casei)
digitus "dito" (gen. digiti)
equus "cavallo"  (gen. equi)
murus "muro" (gen. muri)

Aggettivi con nom. sing. m. in -us:

albus "bianco" (f. alba, n. album)
bonus "buono" (f. bona, n. bonum)
magnus "grande" (f. magna, n. magnum)
malus "cattivo" (f. mala, n. malum)
parvus "piccolo" (f. parva, n. parvum)

Nomi dalla radice in -r con nom. sing. senza terminazione in -us:

ager "campo" (gen. agri)
gener "genero" (gen. generi)
magister
"maestro" (gen. magistri)

puer "bambino" (gen. pueri)
vir "uomo" (gen. viri)

Aggettivi dalla radice in -r con nom. sing. m. senza terminazione in -us:

macer "magro" (f. macra, n. macrum
niger "nero" (f. nigra, n. nigrum)
piger "pigro" (f. pigra, n. pigrum)
pulcher "bello" (f. pulchra, n. pulchrum)
satur "sazio" (f. satura, n. saturum)

Sono consapevole del fatto che nel mondo della scuola non è costume interrogarsi sui dettagli di quanto si apprende, ma a questa triste situazione va messa la parola fine. Per questo cercherò di riassumere in termini comprensibili le ragioni dell'aspetto delle parole qui trattate. 

Nel latino arcaico la terminazione del nominativo singolare maschile -os era usata in tutti questi casi, anche quando la radice terminava in -r. Così si elencano le seguenti protoforme, trascritte con un'ortografia più adatta:

*agros "campo"
*makros "magro"
*nigros "nero"
*pigros "pigro"
*sakros "sacro" (1)
*wiros "uomo"

(1) = SAKROS, attestato in CIL I2 1

Il passo successivo fu la caduta di -o- quando la radice terminava in -r (quando preceduta da altra consonante, la rotica in questione diventava sillabica):

*agṛs 
*makṛs 
*nigṛs
*pigṛs
*sakṛs
*wirs. 

Infine la sequenza -rs diveniva -rr e si creava una vocale di sostegno -e- dove necessario:

*agerr 
*makerr 
*nigerr
*pigerr
*sakerr
*wirr 

A questo punto si è giunti alle forme attestate.

Si noterà che la stessa assimilazione -rs- > -rr- è avvenuta nel corpo delle parole:

curro "io corro" < *kurso:
ferre
"portare" < *ferse
porrum "porro" <
*porsom
torreo
"io arrostisco" < *torseo:

In particolare, il mutamento che abbiamo visto colpire il nominativo singolare in -os compare anche nei superlativi:

pigerrimus "il più pigro" < *pigersomos < *pigrisomos
sacerrimus "il più sacro" < *sakersomos < *sakrisomos
taeterrimus "il più orribile" < *taitersomos < *taitrisomos

A scanso di equivoci, faccio subito notare che dove si ha -rs- in latino classico, questo viene dalla semplificazione di un nesso complesso:

farsus "ripieno" < *farksos
Mars
"Marte" < *Ma:worts
ursus "orso" < *urksos 
vorsus "in direzione di" < *werts(t)os < *werttos

Oppure si trova in parole che sono prestiti:

arsis "arsi, tempo forte" < greco ἄρσις
marsup(p)ium "sacco, tasca" < greco μαρσίππιον
marsus "marso" < sabellico *ma:rsies < *ma:wortios 
versus, vorsus "misura di cento piedi quadrati" < etrusco vers- "cento"
(2)

(2) Da non confondersi col quasi omofono vers(e) "fuoco", glossato uerse da Festo e attestato nel composto acnaś-vers "fuoco del possesso" (Lamine di Pyrgi), oltre che in alcuni gentilizi. Nel Liber Linteus troviamo versum spanza, che traduco con "e cento piattini", essendo a mio avviso la connessione con la parola "fuoco" incompatibile con la morfologia. Su un cippo (ET Ta 1.94) leggiamo mi versna apurval, verosimilmente "io sono l'estensione di cento unità di Apurvi" (il gentilizio è d'incerta lettura). 

Veniamo dunque a coloro che attribuiscono al latino la pronuncia ecclesiastica ab aeterno. Costoro pronunciano le parole in cui -er è preceduto dalle lettere -c- e -g- usando suoni palatali:

ager /'adʒer/ 
macer /'matʃer/

niger /'nidʒer/ 
piger /'pidʒer/

Il problema è che assurdamente pensano che fosse così già nel Paleolitico. Ora, alla luce di quanto sopra esposto, si capisce che questa è una aberrazione. La palatalizzazione è tarda, secondaria e non può in alcun modo essere proiettata indietro a tempi remoti, dato che questo andrebbe contro la stessa struttura delle parole in questione - struttura che non avrebbe avuto motivo di formarsi.

sabato 20 dicembre 2014

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: LE DECINE DA 20 A 90

In latino le decine da 20 a 90 forniscono prove dirette e molto interessanti del trattamento della consonante velare (dura) /g/ davanti a vocale anteriore /i/. Riporto i numerali in questione:

viginti
triginta
quadraginta
quinquaginta
sexaginta
septuaginta
octoginta
nonaginta 

Questa è la pronuncia classica dei numerali elencati, che ha dovunque il suono duro /g/ (la gh di ghiro):

/wi:'ginti:/
/tri:'ginta:/
/kwadra:'ginta:/
/kwinkwa:'ginta:/
/seksa:'ginta:/
/septua:'ginta:/
/okto:'ginta:/
/no:na:'ginta:/ 

Questa è una panoramica delle decine da 20 a 90 in quattro lingue romanze (italiano, antico provenzale, spagnolo e francese):

Italiano

venti
trenta
quaranta
cinquanta
sessanta
settanta
ottanta
novanta
 

Occitano (antico provenzale) 

vint
trenta
quaranta
cinquanta
seissanta
setanta
ochanta
nonanta

Spagnolo

veinte
treinta
cuarenta
cincuenta
sesenta
setenta
ochenta
noventa

Francese:

vingt
trente
quarante
cinquante 
soixante

N.B. Le decine superiori si formano in altro modo: soixante-dix, quatre-vingt, quatre-vingt-dix.

Nella pronuncia ecclesiastica del latino, i numerali in questione suonano in questo modo, con l'affricata /dʒ/ (la g di giorno):

/vi'dʒinti/
/tri'dʒinta/
/kwadra'dʒinta/
/kwinkwa'dʒinta/
/seksa'dʒinta/
/septwa'dʒinta/
/okto'dʒinta/
/nona'dʒinta/ 

Come si può ben vedere, gli esiti nelle lingue romanze sono del tutto incompatibili con la pronuncia ecclesiastica sopra riportata e puntano invece a una pronuncia del latino volgare tardo con una debole semiconsonante /j/:

/'βi:(j)inti/
/'tri:(j)inta/
/kwa'dra:(j)inta/
/kwin'kwa:(j)inta/
/se'ksa:(j)inta/
/sep'twa:(j)inta/
/ok'twa:(j)inta/

/no'na:(j)inta/ 

Le forme per 80 e 90 nelle lingue romanze considerate sono chiaramente analogiche, a parte l'occitano nonanta, e non continuano direttamente quelle latine.

Si vede che nella terminazione -aginta l'accento è retratto e che la consonante /g/ non si è palatalizzata in /dʒ/, ma in /j/ (la i di iena), per poi addirittura sparire: si è così formato un dittongo -ai-. Si vede con la massima evidenza che mentre in Italia la terminazione -áinta risultante ha dato -anta, il dittongo -ai- si è invece monottongato in -e- in Spagna, dove si è avuto lo sviluppo -enta. Il processo di usura fonetica è stato abbastanza rapido: come riportato dal Grandgent, troviamo quarranta per quadraginta in un'iscrizione forse da datarsi al V secolo (Pirson, 97).

Per quanto riguarda viginti e triginta, la prima vocale -i-, lunga in latino classico, ha subito correptio ed ha attratto l'accento. In un'iscrizione ravennate del VI secolo in caratteri greci abbiamo βειεντι (Schuchardt, Vok. II, 461). I grammatici ancora in epoca abbastanza tarda cercarono di opporsi alle abitudini fonetiche della plebe nella pronuncia dei numerali: per esempio Consenzio segnala tríginta come una falsa pronuncia. La retrazione dell'accento sorse chiaramente quando i numerali erano usati prima del sostantivo a cui si riferivano: c'era la tendenza ad allontanare il più possibile l'accento secondario da quello principale, così quadragínta hómines divenne quadráginta hómines. In ogni caso non è un mistero che anomalie fonetiche si incontrano molto spesso nei numerali.

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: I PERFETTI CONTRATTI

In latino le voci del perfetto sono formate a partire da un apposito tema verbale, usato anche per il piuccheperfetto e per il futuro anteriore. Quando il tema del perfetto termina in -v- preceduto da vocale, si presentano spesso forme contratte in tutti i tempi e i modi derivati.
Questo è il perfetto indicativo del verbo laudare "lodare":

I sing.      laudavi
II sing.     laudavisti 
III sing.    laudavit
I pl.          laudavimus
II pl.         laudavistis
III pl.        laudaverunt

Le forme contratte sono laudasti per laudavisti; laudastis per laudavistis; laudarunt per laudaverunt. Forme contratte del piuccheperfetto indicativo: laudaram per laudaveram; laudaras per laudaveras; laudarat per laudaverat, etc. Forme contratte del piuccheperfetto congiuntivo: laudassem per laudavissem; laudasses per laudavisses; laudasset per laudavisset, etc. Futuro anteriore: laudaro per laudavero; laudaris per laudaveris; laudarit per laudaverit, etc. Perfetto congiuntivo: laudarim per laudaverim, etc. Così l'infinito perfetto attivo può essere laudasse anziché laudavisse

Allo stesso modo si comporta il verbo noscere "venire a sapere", il cui perfetto ha valore di presente indicativo:

I sing.     novi
II sing.    novisti
III sing.   novit
I pl.         novimus
II pl.        novistis
III pl.       noverunt

Le forme contratte sono nosti per novisti; nostis per novistis; norunt per noverunt. Forme contratte del piuccheperfetto indicativo: noram per noveram; noras per noveras; norat per noverat, etc. Forme contratte del piuccheperfetto congiuntivo: nossem per novissem; nosses per novisses; nosset per novisset, etc. Futuro anteriore: noro per novero; noris per noveris; norit per noverit, etc. Perfetto congiuntivo: norim per noverim, etc. Così l'infinito perfetto attivo può essere nosse anziché novisse

A questo punto i soliti fautori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno, che proiettano pronunce moderne all'infinito fin nel Paleolitico, dovrebbero spiegare la causa di tutte queste forme contratte. Ovviamente non possono produrre che balbettamenti.

Per fissare le idee, se amavisti fosse stato pronunciato /ama'visti/ fin dall'inizio, con tale accento e con tale suono intervocalico, non sarebbe potuta sorgere nessuna contrazione. Invece si spiega tutto molto facilmente ammettendo la pronuncia originale /a'ma:wisti:/, con accento sulla terzultima sillaba, donde si sarebbe perso il suono /w/, dando origine ad /a'ma:isti:/, e quindi ad /a'ma:sti:/. A questo punto sarebbe scattato lo spostamento dell'accento nella forma non contratta, portando ad /ama:'wisti:/

Tutto è molto semplice. In realtà, nella lingua latina volgare sono attestate anche altre forme contratte che non si trovano nel sermo nobilis. Così Grandgent ci riporta il caso di un'iscrizione di Pompei in cui si trova triumphaut per triumphavit (Densusianu, I, 152). Tale uscita -aut per -avit è l'esatto predecessore dell'italiano . Anche le forme italiane come amai e amammo presuppongono contrazioni con dileguo dell'antica /w/, e di questo fenomeno abbiamo diretta testimonianza. Probo cita calcai per calcavi; probai per probavi; edificai per aedificavi (Schuchardt, Vok., II, 476). In Gregorio di Tours abbiamo caelebramus per celebravimus; memoramus per memoravimusvocitamus per vocitavimus (Bon., 440). Le evidenze storiche mostrano che la pronuncia ecclesiastica è posticcia e ricostruita in modo artificioso molto tempo dopo la fine del latino classico, attribuendo al latino una pronuncia romanza.