venerdì 7 agosto 2015

UN TERMINE GALLICO NEL QUADRATO MAGICO DEL SATOR

Famosissimo è il quadrato magico del Sator, su cui sono stati scritti fiumi di inchiostro:

S A T O R
A R E P O
T E N E T
O P E R A
R O T A S

Appare chiaro a tutti che non si tratta di un testo latino semplice e lineare. Sono in ogni caso convinto che si possano puntualizzare alcune cose importanti a riguardo. 

Questa è la traduzione che propongo:

Il seminatore con l'aratro tiene in azione le ruote 

Termini problematici:   

1) AREPO. Il latino volgare *arepus, dat./abl. arepo, è una parola celtica che significa "aratro (su ruote)". Non fa specie che non compaia nei vocabolari: è un termine che si è diffuso in alcune varietà della lingua parlata a partire dalla Gallia Transalpina. L'accento è sulla prima sillaba. La formula del quadrato è tradotta in un testo biblico greco dei XIV secolo con ὁ σπείρων ἄροτρον ϰρατεί ἔργα τρόχους "il seminatore tiene l'aratro, le opere, le ruote" (cod. Par. gr. 2511 f. 60v). Anche se il traduttore non doveva conoscere bene la grammatica del latino, si nota che ἄροτρον corrisponde AREPO, anche se all'accusativo. Dalla stessa base di AREPO è formato il gallico arepennis, che indica una misura agraria corrispondente al semiiugerum. Di genere maschile, questa vocabolo è sopravvissuto nel latino popolare delle Gallie, dando infine il francese arpent.

2) OPERA. Il termine opera è qui l'ablativo di un vocabolo femminile. Il latino ha opus, gen. operis, di genere neutro, il cui plurale è opera. Come in molti altri casi, nella lingua popolare il neutro plurale è diventato un femminile singolare: di qui la parola opera, gen. operae, da cui il termine tuttora in uso in italiano. Lo stesso è accaduto con fortia, letteralmente "le cose forti", un neutro plurale che è diventato in italiano il femminile singolare forza. Nel quadrato magico non è possibile interpretare questo OPERA come accusativo plurale neutro, dato che dovrebbe essere l'oggetto del verbo TENET e l'uso dell'accusativo plurale femminile ROTAS non avrebbe alcun senso - a meno di non immaginare una congiunzione sottointesa, quasi TENET OPERA (ET) ROTAS, soluzione che non mi piace per nulla. Questo non è il latino dei metallari.

3) ROTAS. Per evitare il cumulo di accusativi, c'è chi ha interpretato questa parola come una forma volgare di rotans, considerando il participio riferito a SATOR. Tuttavia la proposta non regge per motivi semantici: bisogna ammettere che un "seminatore rotante" visto come simbolo della Sorte è qualcosa di una fragilità logica molto spinta.   

A stento le molte assurdità della pseudoscienza occultista fiorite sul testo del quadrato del Sator meritano qualche menzione. La vecchia scappatoia di chi vede in AREPO un nome proprio di persona non è ancora niente in confronto alle stravaganze che si possono reperire nel Web. C'è chi segmenta le parole facendo di ogni lettera un'abbreviazione, trasformando SATOR in una sigla. Cito poi l'interpretazione mirabolante di AREPO come AREOPAGO (ebbene sì, mi è toccato imbattermi anche in questa inconsistenza). A Rino Cammilleri sembra ripugnare sopra ogni cosa il fatto che possano essere esistite parole galliche in latino - per lui la Verità è italiana, non francese :) - dimenticando l'esistenza di vocaboli come carrus, carpentum, benna, petorritum, alauda, betulla, gaesum, cervisia, bracae, etc. 

Spiegazione: Un tempo si credeva che il quadrato magico in questione fosse stato inventato nel Medioevo per ragioni apotropaiche, ma poi si sono scoperte sue raffigurazioni più antiche, risalenti all'epoca dell'Impero Romano. In particolare ne sono stati trovati diversi esemplari a Pompei, al punto che è stato ribattezzato latercolo pompeiano

Il quadrato è una croce cristiana criptica, usata già durante le persecuzioni come segno di riconoscimento. Se si evidenzia la parola TENET nel mezzo della struttura, salta all'occhio una croce palindromica: 

S A T O R
A R E P O
T E N E T
O P E R A
R O T A S

Anagrammando la frase, Felix Grosser ha ottenuto la seguente croce:


Chiaramente la sequenza A O sta per Alpha Omega. Le possibilità che tutto ciò sia frutto del caso è talmente bassa da poter essere scartata. La spiegazione del quadrato come crittografia cristiana ha incontrato molte resistenze per svariati motivi. Innanzitutto per la data precoce dei reperti pompeiani, che sono per necessità anteriori al 79 d.C., data dell'eruzione. È possibile che in epoca tanto antica esistesse a Pompei una comunità cristiana tanto folta e vitale? È possibile che avesse già sviluppato un simbolismo così elaborato, e per giunta utilizzando la lingua latina anziché il greco? Sembrando queste cose piuttosto improbabili, qualche studioso ha preferito cercare un'origine mitraica o ebraica, usando argomenti che non convincono. Sostengo senza indugio l'interpretazione cristiana. Dal momento che questi reperti presuppongono la presenza di una comunità cristiana molto numerosa a Pompei, bisogna partire da tale dato di fatto e approfondire gli studi, piuttosto che cercare interpretazioni implausibili negando una realtà così evidente.    

Riporto un interessante articolo dell'Università di Manitoba, che purtroppo contiene qualche refuso nella traduzione greca del quadrato:

lunedì 3 agosto 2015

UN ENIGMATICO SOSTRATO TOPONOMASTICO IN ISLANDA

I toponimi dell'Islanda sono in massima parte di origine norrena. Siccome la lingua degli isolani è cambiata soprattutto nella pronuncia, ma ha mantenuto integra la struttura delle sue parole, questi toponimi sono tuttora comprensibili. Si tratta di nomi di luogo trasparenti. Alcuni esempi:

Flatey "isola piatta"
  norreno flatr "piatto", ey "isola"
Gullfoss "cascata d'oro"
  norreno gull "oro", fors, foss "cascata"
Ísafjörður "fiordo dei ghiacci"
  norreno íss "ghiaccio", fjǫrðr "fiordo"
Reykjavík "baia dei fumi"
  norreno reykr "fumo", vík "baia"
Varmá "fiume caldo"
  norreno varmr "caldo", 
ǫ́, á "fiume"
Vatnajökull "ghiacciaio delle acque (o dei laghi)"
  norreno vatn "acqua", j
ǫkull "ghiacciaio"

Al loro arrivo agli inizi del IX secolo, i coloni norvegesi trovarono alcuni monaci irlandesi che vivevano come anacoreti nella desolazione. Subito questi asceti lasciarono l'isola per non essere costretti a convivere con i pagani, o furono costretti a farlo (i cristiani non erano trattati molto bene in tale contesto). Questo seppur esiguo popolamento anteriore alla colonizzazzione dell'Islanda ha dato qualche traccia nella toponomastica. Si tratta di qualche toponimo formato a partire dal vocabolo papi "monaco", pl. papar "monaci", la cui radice il norreno sembra aver preso dall'antico irlandese (popa, pobba "padre"). Alcuni esempi:

Papafjörður "Fiordo dei Monaci"
  norreno papar "monaci", fj
ǫrðr "fiordo"
Papey "Isola dei Monaci"
  norreno papar "monaci", ey "isola"
Papýli
"Fattoria dei Monaci"
  norreno papar "monaci", býli "fattoria"

Nel Libro degli Stanziamenti (Landnámabók), che documenta la colonizzazione dell'Islanda, si racconta che i Papar vivevano nel luogo poi detto Kirkjubær á Síðu prima dell'arrivo dei norvegesi, e che per questo motivo nessun pagano poteva stabilirsi in quella terra. Si racconta anche un singolare aneddoto. Il capo norvegese Ketill, detto lo Stolto, prese possesso del paese di Síða. Vi poté vivere e fondare una fattoria, perché era cristiano. Quando morì, un uomo di nome Hildir Eysteinsson volle stabilirsi a Kirkjubær á Síðu, ma prima di poterlo fare morì all'improvviso, e si pensò che fosse perché era pagano. A dispetto di una tale ricchezza di documentazione, non sono state trovate prove archeologiche degli stanziamenti di questi monaci, come ad esempio croci o campane. La cosa non deve stupire: i coloni pagani devono aver distrutto le croci e rifuso le campane per recuperare il metallo.

Esistono tuttavia alcuni toponimi islandesi che resistono ad ogni tentativo di plausibile interpretazione.

Bóla (fattoria sullo Skagarfjörður)
Esja (una montagna sul Kjalarnes)
Ferstikla (fattoria presso lo Hvalfjörður)
Hekla (un noto stratovulcano)
Kjós (zona che dà nome alla Kjósarsýsla)
Tintron (un cratere vulcanico nel Lyngdalsheiði)
Vigur (isola nell'Ísafjarðardjúp)
Ölfus (zona nella Árnessýsla, attraversata dal fiume
    Hvíta-Ölfusá)

Per una minima parte di questi nomi alcuni studiosi insistono a proporre un'etimologia norrena, a dispetto delle molte difficoltà. Per esempio, Bóla viene ricondotto al vocabolo ból "giaciglio; abitazione, fattoria", anche se l'uscita (femminile col tema in -n-, gen. Bólu) non sembra avere alcun senso. Esiste un vocabolo bóla "umbone dello scudo; pustola", che è un etimo ancor più improbabile per il toponimo. Kjós viene ricondotto al verbo kjósa "scegliere" e interpretato come "Terra Scelta", anche se i derivati nominali di tale verbo sono r "scelta, decisione" e kostr "scelta", e non risulta che la formazione abbia paralleli. Esiste in norreno una parola hekla "mantello con cappuccio" (gotico hakuls "mantello"), ma tale semantica non si applica verosimilmente a uno stratovulcano. In altri casi, si può solo brancolare nel buio. Né può l'antico irlandese fornire lumi per capire l'origine di questo enigmatico materiale toponomastico: i tentativi fatti per fornire un'etimologia celtica a questi nomi di luogo si sono dimostrati fallimentari. 

Come spiegare tutto questo?
Se si esclude la possibilità di spiegare i toponimi con il norreno, rimangono due soluzioni.

1) I toponimi sono dovuti a un popolo antichissimo che abitava l'Islanda prima dell'arrivo dei coloni norvegesi, che conviveva con i Papar e che è stato assorbito dalle nuove ondate migratorie.
2) I toponimi sono stati portati da norvegesi che provenivano da aree in cui era ancora parlata o almeno conosciuta una lingua diversa dal norreno, la cui origine possiamo tracciare nella popolazione pre-germanica. 

Obiezione alla soluzione 1): Non risulta alcuna descrizione di un simile popolo. I libri che documentano gli stanziamenti norvegesi concordano tutti nel descrivere cerimonie con cui i coloni prendevano  possesso di vaste estensioni di terre disabitate, utilizzando specifici riti. Persino alcuni coloni che erano di fede cristiana per far valere la loro dichiarazione di proprietà sono stati spesso costretti a ricorrere a riti pagani. Non si fa la benché minima menzione dell'interazione con un popolo aborigeno - mentre ad esempio ci sono descrizioni dell'incontro con gli Skrælingar in Vinland.

A parer mio la soluzione 2) è quella giusta.

Sono convinto che si tratti della lingua degli Adogit, popolazione antichissima stanziata nel paese di Halagoland e menzionata da Iordanes nella sua opera Getica:

"Quanto alla Scanzia, soggetto del nostro discorso, essa è abitata da un gran numero di stirpi diverse, sebbene tolomeo non ne ricordi che sette, e non vi alligna nessun tipo di ape, data la rigidità del clima. Nella sua parte settentrionale è popolata dagli Adogit di cui si dice che, d'estate, godano il sole ininterrottamente per quaranta giorni e per quaranta notti; per uno stesso periodo, d'inverno, non vedrebbero la chiara luce: in un'alternanza di tristezza e di gioia allora godono d'un privilegio e soffrono d'una privazione ignoti ad altri popoli. E perché tutto questo? Perché nei giorni più lunghi vedono il sole riportarsi ad oriente lungo l'estremità dell'asse terrestre, mentre per loro non è visibile in quelli più brevi, quando segue il periplo meridionale. Così lo stesso sole che per noi sorge in basso, a questi sembra invece che giri lungo il circuito della terra."

Vari sono i motivi che mi fanno pensare alla sopravvivenza tarda di un idioma diverso dal norreno nel paese di Halogaland. Innanzitutto il termine Adogit non è germanico e non ha alcuna etimologia nota, e non è separabile dal toponimo Hálogaland, la cui base Háloga- è pure fortemente problematica. Si possono notare ben tre fenomeni indicatori di un termine di sostrato preindoeuropeo:

1) Alternanza tra forma iniziante in vocale e forma iniziante con l'aspirazione;
2) Alternanza tra un'occlusiva dentale -d- e una liquida -l-;
3) Presenza nella forma non assimilata di un plurale non indoeuropeo uscente in -it.

Consideriamo poi il nome usato in norreno per indicare un abitante di Halogaland: háleygr, pl. Háleygir. Si noterò la presenza di un dittongo -ey- che alterna con -o- di Hálogaland (e di Adogit). È chiaro che queste variazioni, che non hanno giustificazione alcuna in norreno, si spiegano al di fuori di tale lingua.

A questo punto le possibilità sono due: 

1) Si tratta di una lingua finnica parlata dai Saami, più conosciuti come Lapponi
2) Si tratta della lingua sconosciuta che i Saami parlavano prima di adottare una lingua finnica.

Nella lingua dei Saami sono presenti alcune parole che non hanno alcuna corrispondenza in altre lingue di ceppo uralico, che fanno pensare a un sostrato remotissimo e che potrebbero ben essere residui della lingua degli Adogit. Questo spiegherebbe la presenza dei misteriosi toponimi islandesi. Naturalmente è necessaria un'approfondita analisi sui toponimi della Norvegia per acquisire maggiori informazioni e tentare di capire qualcosa di più su questa ingarbugliata situazione. 

lunedì 27 luglio 2015


LA TRENTUNESIMA ORA 

Sceneggiatura:
    Sandro Battisti
    Francesco Cortonesi
    Giovanni De Matteo
Basata su un soggetto di:    
    Sandro Battisti
    Giovanni De Matteo
    Marco Milani
Regia:
    Marco Cerilli
Interpreti:     
     Francesco Trani
     Giulia Tramentozzi
     Sandro Battisti
Durata: circa 30 min
Colore: colore 

Sinossi (da Hyperhouse):

Un matematico è prossimo alla morte, un cancro lo sta divorando così come un gusto per lo studio dei numeri primi sta divorando la sua creatività: egli è convinto che dietro ogni numero primo si celi un messaggio, un criptico esistere delle dottrine occulte che hanno attraversato le ere degli uomini. Feynman, il matematico, ha una storia con Ilaria, che è anche l’infermiera che segue i suoi frequenti soggiorni in ospedale; lei non sembra interessarsi ai numeri primi e non riesce a capire perché lui si ostini a rincorrere quelle bizzarre teorie, perdendoci il sonno e quel residuo di salute che gli è rimasta. Feynman è tormentato e fa fatica a discernere la realtà dai suoi pensieri, vede cose strane accadergli intorno che s’intrecciano, apparentemente, con i suoi deliri; tutto l’universo sembra parlargli e lui è ora certo di aver trovato la soluzione ai suoi supplizi cerebrali. Ma Feynman è davvero al sicuro quando ritiene la sua scoperta attinente soltanto al mondo sottile delle dottrine occulte e non, invece, passibile di applicazioni pratiche?

Recensioni:

Il primo cortometraggio connettivista (o mediometraggio, la definizione esatta appare un po' problematica). Un esperimento iniziato nel gennaio 2006, che ho seguito fin dall'inizio sul blog che descriveva ogni fase del suo sviluppo. I risultati si sono rivelati eccellenti, di estremo interesse. Segnalo la magistrale interpretazione di Sandro Battisti nel ruolo di Nephilim, l'agente alieno. Così scrivevo nel resoconto della Prima NextCon, svoltasi a Vimercate il 3 marzo 2007, sul blog splinderiano Supernova Express, purtroppo scomparso:

"Ho rivisto con estremo piacere La trentunesima ora, e mi sono immerso in complessi turbini di purissimi memi matematici. Intuizioni sui numeri primi mi hanno sfiorato come tentacoli, sfuggendomi sempre. Per un attimo mi è quasi parso di poter cogliere il segreto di Feynman, ma la musica delle quasar ancora una volta si è dissolta in me. Più consono alla mia natura, il personaggio di Nephilim rappresenta un'epifania dell'insondabile sempre viva in me."

Il blog di Paolo Marzola, oggi estinto, conteneva una notevole recensione del mediometraggio connettivista, ma purtroppo soltanto un breve frammento si è potuto salvare: il link al portale è attualmente soltanto una pagina piena zeppa di geroglifici informatici, e in tutto il Web non si trova null'altro. Riporto così quanto sono riuscito a recuperare dal mio vecchio blog Esilio a Mordor:

"La trentunesima ora è film di contenuti, poetico senza dubbio, con una storia che potrebbe vagamente ricordare Pi greco il teorema del delirio ma che in realtà cela al suo interno come scatole cinesi svariati argomenti, diciamo che può essere, come molte opere concettuali, analizzato e percepito secondo vari livelli di interpretazione. Personalmente, dopo averlo visto paio di volte per meglio coglierne tutti i riferimenti, sono riuscito ad apprezzare il lato indubbiamente nostalgico e onirico che circonda questa opera prima, l’andamento a spirale della storia che confonde finzione e realtà. I temi che la permeano sono importanti: il mistero della morte prima di tutto che si presenta in forma di visioni e allucinazioni da parte del protagonista, l’amore, il mistero dell’infinito, il dolore che ognuno di noi cela nei momenti di difficoltà o di malattia, per fluisce in un finale estremamente poetico e rivelatore."

Riporto anche la recensione trovata sul blog Neurone Proteso di Masque, a quanto pare ormai spento (l'ultimo post è del 2013):

"Il corto, mi ha ricordato un po’ PI di Darren Aronofsky (ma l’associazione, era abbastanza scontata, avendo entrambi dei matematici ossessionati e malati come protagonisti ;-) ).
Belle le inquadrature, ed anche i colori mi sono piaciuti molto, specie il contrasto fra i colori accesi delle scene nell’ostello ed il buio delle inquadrature esterne. Non so se l’effetto grana nelle inquadrature notturne fosse voluto, ad ogni modo, ci stava bene. :-)
È un film che, mentre lo guardi, al pari di PI, riesce a trasmetterti la paranoia e l’ossessione del protagonista. Capiterà di accorgersi di fare particolare attenzione ai numeri degli autobus che si vedono ed, in generale, a qualsiasi numero che appare sullo schermo. Verrà spontaneo cercare di trovare dei pattern nella grana delle inquadrature notturne. Gli eventi non seguono una cronologia lineare, quindi, è necessaria una seconda visione per cogliere certi particolari. Questo anche perché i dialoghi o, più comunemente, le didascalie (essendo un film quasi muto), sono molto ermetici. La trama sembra quasi funzionale all’atmosfera ed allo scopo dichiarato di coinvolgere lo spettatore nelle paranoie del protagonista."

Altre informazioni e link: 

Un tempo era possibile visualizzare il filmato in streaming, ed esiste tuttora una pagina di Fantascienza.com che ne reca testimonianza. Ho potuto constatare che tutte le pagine che lo permettevano sono sclerotizzate. In Youtube è presente il trailer: 



Per maggiori informazioni, per la storia del corto e per i dettagli sulla lavorazione si rimanda all'attuale blog di Sandro "Zoon" Battisti:


La sceneggiatura completa è consultabile seguendo questo link: 


Esiste tuttora una pagina con le informazioni necessarie per ordinare il cortometraggio. Non so se siano ancora valide, in ogni caso fornisco il link:   

venerdì 24 luglio 2015


MOEBIUS

Titolo originale: Moebius
Lingua originale: Spagnolo
Paese di produzione: Argentina
Anno: 1996
Durata: 88 min
Colore: colore
Audio: sonoro
Genere: Fantascienza, Thriller
Regia: Gustavo Mosquera
Sceneggiatura:
   Gustavo Mosquera,
   Pedro Cristiani,
   Gabriel Lifschitz,
   Arturo Oñatavia,
   Natalia Urruty,
   María Ángeles Mira
Soggetto: Armin Joseph Deutsch
Fotografia: Abel Peñalba
Montaggio:
   Alejandro Brodersohn,
   Pablo Georgelli
Musiche: Mariano Nuñez West
Scenografia: María Ángeles Mira
Interpreti e personaggi:
   Guillermo Angelelli: Daniel Pratt
   Roberto Carnaghi: Marcos Biasi
   Annabella Levy: Abril
   Jorge Petraglia: Mistein
   Miguel Ángel Paludi: Aguirre
   Fernando Llosa: Nazar
   Daniel Di Biase: Kenn
   Jean Pierre Reguerraz: Deckes
   Martín Adjemián: Canotti
   Felipe Méndez: Capo dei trasbordi
   Martín Pavlovsky: Conducente 101
   Fernando Cia: Figas
   Osvaldo Santoro: Vega
   Horacio Roca: Edmundo
   Nora Zinsly: Professoressa
   Sammy Lerner: Vecchietto dell'Archivio
   Rodolfo Franghi: Mussio
   Ricardo Merkin: Maloni
   Samuel Lankes: Guardia finale
   Aldo Niebur: Suonatore di bandoneon
   Alejandro Viola: Assistente di Biasi
   Javier García: Aiutante di Vega
   Jorge Noya: Chofer Unimog
   Luis Sturla: Impiegato Stazione Parque
   John Bolster: Ascensorista
   Jorge Vilela: Aiutante di Maloni
   Néstor Somma: Impiegato Stazione Bolivar
   Paolo Tamarasco: Alunno Città Universitaria
   Sergio Ríos: Passeggero Stazione Dock Sud
   Gabriel Maldonado: Passeggero Staz. Dock Sud

   Diego Ullua: Passeggero Stazione Dock Sud
   Ignacio Spiaggiari: Passeggero Stazione Dock Sud
   Julio López: Passeggero Stazione Dock Sud
   Fabi
an Kogan: Operaio Garage
   Héctor Fern
ández: Operaio Garage
   Gustavo Machado: Operaio Garage
   Alejandro Yasinski: Yuppie, passeggero dell'86
   Mabel Necol: Maestra, passeggero dell'86
   Adri
án Méndez: Ragazzino, passeggero dell'86
   Rodrigo Fern
ández: Marinaio, passeggero dell'86
   Viviana Necol: Ballerina, passeggero dell'86
   Alfredo Andino: Lettore, passeggero dell'86
   Cynthia Att: Donna incinta, passeggero dell'86
   Fernando Necol: Passeggero dell'86
   Silvia Italiano: Passeggero dell'86 
   Maria Teresa Abad: Impiegata, passeggero dell'86
   Paula del Real: Passeggero dell'86
   Edy Lerner: Passeggero dell'86
   Yamila Kar: Punk, passeggero dell'86
   Moisés Galacovsky: Passeggero dell'86
   Mirta Landini: Passeggero dell'86
   Pablo Messiez: Suicida   
   Natalia Nava: Segretaria
   Fabi
án Bril: Assassino
   Déborah Vidret: Prostituta
   Juan Carrasco: Yuppie col cellulare
   Paulina Montenegro: Scolara
   Manuel Kaselman: Cieco
   Claudio Pardini: Provinciale
   Sebastián Goñi: Ubriacone
   Guillermo El
ías: Operaio Autostrada
   Hector Bordoni: Operaio Autostrada
   Juan Jose Gatt: Operaio Autostrada
   Jose Luis Gratti: Operaio Autostrada
   Raul Colombo: Operaio Autostrada
   Cesar Carlino: Operaio Autostrada
   Claudia Brun: Impiegata Città Universitaria
   Pablo Farina: Voce nelle gallerie (voce)
   Karina Necol: Voce nelle piattaforme (voce)
Società di produzione: Universidad del Cine
Distribuzione: Fama Films
Budget:
250.000 $  
Premi:
   Festival de Cine de La Habana 1996
   Festival de Cine de Bangkok 1998
   Festival de Cine de Puerto Rico 1997
   Festival de Cine Latinoamericano de Huelva 1996
   Festival de Cine Hispano de Miami de 1997
   Viennale 1997

TRAMA:

Ambientato nella labirintica rete metropolitana di Buenos Aires, dove il convoglio UM-86 sparisce misteriosamente nel nulla, portando con sé una trentina di passeggeri. Siccome una simile dematerializzazione appare impossibile alle autorità, ecco che hanno inizio le ricerche per trovarne la vera causa. Daniel Pratt, un giovane topologo (ossia un matematico delle superfici) conduce le indagini partendo dai progetti dell'ultimo ampliamento della rete. Scopre così che il progettista era un suo professore dell'Università, Hugo Mistein, che cerca invano di contattare. Soltanto il fortuito aiuto di una ragazzina permette a Pratt di trovare i primi indizi proprio nella casa deserta del professore, dove saltano fuori una vecchia mappa e alcuni fogli di dati tecnici. La mappa della rete metropolitana si rivela intricatissima e più estesa del previsto, al punto che lo studioso giunge a formulare un'ipotesi surreale per spiegare la sparizione del treno: sarebbe stata proprio la complessità tipologica della rete a generare una discontinuità nella struttura stessa dello spaziotempo, in forma di nastro di Moebius. Il treno sarebbe quindi rimasto intrappolato in un'altra dimensione. Ovviamente le autorità non credono a questa teoria e la coprono di ridicolo, rimuovendo Pratt dal suo posto di investigatore. Guardando un otto volante nel Parque de la Ciudad, il topologo ha un'intuizione e decide di ritornare nel sottosuolo, sicuro che il convoglio scomparso riapparirà presto. Comincia così il suo vagabondaggio attraverso tunnel spettrali e passaggi usati per la manutenzione, quando a un certo punto un treno per poco non lo investe. Scampato all'incidente, prosegue per l'area di manutenzione fino ad arrivare in una stazione chiamata Borges, dove arriva proprio il tremo fantasma UM-86. Stupefatto, Pratt sale sul treno e vi trova i passeggeri in uno stato di trance catatonico, privi di reazioni e con gli occhi fissi nel vuoto. Quando raggiunge la cabina di guida, il matematico delle superfici scopre che al suo interno c'è il professor Mistein. I due si inoltrano in inquietanti discussioni filosofiche, che confermano la validità della teoria del nastro di Moebius. Il giorno seguente, il direttore della Metropolitana di Buenos Aires è convocato nella stazione: il convoglio scomparso è stato ritrovato, completamente vuoto. Nessuna traccia dei passeggeri, a parte il taccuino di Pratt in cui è descritta in dettaglio la sua teoria. Il direttore non fa in tempo a capacitarsi dell'accaduto, quando riceve una chiamata che gli comunica la scomparsa di un altro treno. 

RECENSIONE:

Visto nel 2011 al Cineforum Fantafilm, Moebius mi ha lasciato un profondo senso di inquietudine e di claustrofobia instillata a livello subliminale. La sua visione ha le caratteristiche di una vera e propria discesa agli Inferi, rende l'idea di come furono i viaggi nell'Oltretomba compiuti da Ulisse e da Zamolxis. Il film argentino è stato tratto dal racconto Una metropolitana chiamata Moebius (A Subway Named Möbius), di Armin Joseph Deutsch (1950) - che tuttavia è ambientato a Boston. Scegliendo di ambientare il film a Buenos Aires, Mosquera è stato mosso da un preciso intento politico, che apporta una trasformazione sostanziale alla storia. La sparizione del convoglio nella rete metropolitana della capitale sudamericana rappresenta l'orrido destino dei desaparecidos durante la dittatura. Migliaia di persone di cui non si sono più trovate le tracce: svanite nel nulla. Torturati in modi particolarmente aberranti, alcuni furono soffocati nello sterco, ad altri furono folgorati i genitali e gli orifizi con picanas elettriche. Perché nessuno ritrovasse i corpi, molti prigionieri venivano gettati in stato di stordimento nelle acque del Rio de la Plata o nell'Oceano, dove gli squali ingurgitavano i resti. Erano i famosi vuelos de la muerte. Quando queste cose avvenivano, nel mondo esterno nessuno ne aveva la benché minima idea. Il matematico Daniel Pratt, il cui nome è un chiaro riferimento a Hugo Pratt, è un personaggio atipico, che ricorda più l'investigatore di un noir che il protagonista di un film di fantascienza. Le sue indagini lo portano a un punto di non ritorno in una stazione non a caso intitolata a Jorge Luis Borges. Il fato a cui va incontro è terribile, come quello di Orfeo: una volta che si compie la Catabasi, si appartiene per sempre all'Ade.

Riporto i link a due file pdf di grande interesse su questo capolavoro: 
 
 
CURIOSITÀ:
 
I nomi delle stazioni della metropolitana sono stati cambiati in modo suggestivo. Questa tabella fornisce la corrispondenza tra le stazioni fantomatiche e quelle in cui sono state effettuate le riprese:

Nome nel film                   Location reale
Borges                              Catedral
Ciudad Universitaria        Independencia
Dock Sud                         San José vieja
Parque 1                           Independencia
Parque 2                           San José vieja
Parque 3                           San José
Sur                                   Avenida La Plata
 
INCIPIT:

"La metropolitana è senza dubbio un simbolo dei nostri tempi. Un labirinto dove in silenzio incrociamo i nostri simili senza sapere chi sono e dove vanno. Centinaia di banchine su cui approfittiamo per fare un bilancio, rivedere una situazione e cercare di raggiungere, più che un treno, un cambiamento di vita. È uno strano gioco, ci caliamo in tunnel interminabili, senza renderci conto che ad ogni cambio di treno stiamo cambiando definitivamente il nostro destino." 
 
CITAZIONI: 
 
Dialogo fra Daniel Pratt e il suo professore nella metropolitana che è entrata nel loop:

Dott. Mistein: "Le è costato raggiungermi, vero?"
Pratt: "Dottor Mistein!"
Dott. Mistein: "Calma, lo so! So che ha tante domande da pormi."
Pratt: "Viaggiamo a una velocità impossibile!"
Dott. Mistein: "Un semplice semplice scambio di binari. Il treno incrocia un nodo dopo una curva. La combinazione giusta al momento giusto per applicare le proprietà del nastro di Moebius."
Pratt: "Ha inventato una macchina perfetta..."
Dott. Mistein: "Non bestemmi, figliolo! L'uomo ha inventato un'infinità di macchine, ma dimentica che egli stesso è una macchina molto più complicata di tutte quelle che ha inventato.
Pratt: "Ora non ci saranno limiti..."
Dott. Mistein: "Non ci sono mai stati. L'uomo non conosce i suoi limiti, né le sue possibilità. Non sa nemmeno fino a che punto non si conosce... Ma certo! Siamo talmente occupati a cercare valori esteriori, che non ci rendiamo conto di ciò che realmente ha valore."
Pratt: "Ma questo è importante! Basterebbe dirlo perché tutto cambi!"
Dott. Mistein: "Però lei lo ha detto! Lo ha spiegato perfettamente! Oggi sono passato per la stazione Parque e ho potuto osservarla attentamente mentre era lì che tentava di spiegare la teoria di Moebius. Forse qualcuno le ha creduto!" 
Pratt: "No. Però a le crederebbero."
Dott. Mistein: "No. Io avrei usato le sue stesse parole. Avrei detto le stesse cose. Il fatto è che viviamo in un mondo dove nessuno più ascolta, mio caro Pratt."
Pratt: "Cosa pensa di fare?"
Dott. Mistein: "Niente."
Pratt: "Come niente?"
Dott. Mistein: "Non si preoccupi Pratt. Arriverà il momento."
Pratt: "E loro non capiscono cosa sta succedendo?"
Dott. Mistein: "Loro... non potranno mai svegliarsi prima di essersi resi conto che si sono addormentati..."  
Dott. Mistein: "Di cosa ha paura, Pratt?"
Pratt: "Le vertigini"
Dott. Mistein: "È normale. Nessuno può trovarsi di fronte all'infinito senza provare le vertigini. Nessuno può sperimentarlo senza sentirsi profondamente disorientato."
Dott. Mistein: "Se noi ci stiamo muovendo alla velocità del pensiero... Come si può essere affascinati da questa vita, privata di attrattive, di ingenuità e di spontaneità? Come non preferire di restare qui nell'oscurità, se là fuori un mare di sordità ci sta trascinando ad essere irrimediabilmente disgraziati?"
Pratt: "Tutto questo non deve andare perduto!"
Dott. Mistein: "Né gli uomini né il tempo spariscono senza lasciare traccia. Restano impressi nelle nostre anime." 

sabato 18 luglio 2015


BUBBA HO-TEP - IL RE È QUI

Titolo originale:  Bubba Ho-tep
Paese di produzione:  Stati Uniti
Anno:  2002
Durata:  92 min
Colore:  colore
Audio:  sonoro
Genere:  orrore, commedia
Regia:  Don Coscarelli
Soggetto:  Joe R. Lansdale (racconto)
Sceneggiatura:  Don Coscarelli
Produttore:  Dac Coscarelli, Don Coscarelli
Produttore esecutivo:  Dac Coscarelli
Casa di produzione:  MGM
Distribuzione (Italia):  Dall'Angelo Pictures
Fotografia:  Adam Janeiro
Montaggio:  Scott J. Gill, Donald Milne
Effetti speciali:
   Robert Kurtzman (make-up),
   David Hartman (effetti visivi)
Musiche:  Brian Tyler
Scenografia: Daniel Vecchione
Costumi:  Shelley Kay
Trucco:  Melanie A. Kay
Interpreti e personaggi:
   Bruce Campbell: Elvis Presley / Sebastian Haff
   Ossie Davis: John "Jack" Fitzgerald Kennedy
   Ella Joyce: l'infermiera masturbatrice
   Bob Ivy: Bubba Ho-Tep
   Heidi Marnhout: Callie, figlia di Bull
Doppiatori italiani:
   Sergio Di Stefano: Elvis Presley / Sebastian Haff
   Germano Longo: John "Jack" Fitzgerald Kennedy
   Alessandra Korompay: l'infermiera masturbatrice
Premi:
   Bram Stoker Awards
   Fant-Asia Film Festival
   U.S. Comedy Arts Festival

TRAMA E RECENSIONE:

Un vero e proprio capolavoro, visto nel 2010 al Cineforum Fantafilm del carissimo amico Andrea Jarok.

Elvis Presley non è morto: si trova in un gerontocomio in Texas, dove nessuno conosce la sua vera identità. Tutti credono che si chiami Sebastian Haff e che sia solo un finto Elvis. I retroscena sono questi: Sebastian Haff ed Elvis Presley si sono scambiati le vite con un patto, che avrebbero potuto rescindere in qualsiasi momento. Tuttavia non appena stipulato questo patto, Sebastian Haff è morto all'improvviso, dando origine alla notizia della morte di Elvis, che quindi è stato creduto un impersonatore. Il patto scritto è andato distrutto in un incendio. Elvis, stanco e malato, costretto su una carrozzina, trascorre le sue giornate nell'ospizio assieme a Jack, un afroamericano che si crede JFK scampato all'attentato e trasformato in un uomo di colore. Un'infermiera masturbatrice si prende cura dei genitali del Re in incognito: con la scusa di pulire la corona del glande dallo smegma, sfrega e accarezza il fallo fino a provocare l'erezione e a far tracimare lo sperma, che raccoglie in un fazzolettino. Ovviamente le sequenze del film mostrano solo il volto estasiato di Elvis-Sebastian, ma quanto accade è di un'evidenza sconcertante. All'improvviso qualcosa in questa vita monotona cambia: tutto ha inizio con un'invasione di ripugnanti scarabei stercorari. Quindi diversi anziani ospiti della struttura muoiono in circostanze misteriose. Sui muri delle latrine compaiono geroglifici egizi, che una volta tradotti si rivelano oscenità. In particolare una frase dice "CLEOPATRA FA LA PORCA". Da una serie di ricerce, Elvis e il suo amico nero vengono a scoprire che l'artefice di tutto questo è una mummia rediviva, Bubba Ho-tep, che trasportata in un museo americano si è risvegliata in seguito a un incidente stradale, vagando alla ricerca di anime da divorare. Traendo uno scarso nutrimento dalle anime deperite di poveri anziani, per continuare la sua terrificante condizione di pseudo-vita, il mostro è costretto ad uccidere in continuazione. La tensione cresce. A un certo punto, il Re in sedia a rotelle si accorge che l'infermiera masturbatrice lo vuole privare della volontà e farlo desistere dalla lotta, così quando lei gli si avvicina una volta di più per manipolarlo e fargli uscire lo sperma, lui con fermezza la respinge. Tutto procede verso l'epilogo. Segue un combattimento spettacolare quanto grottesco, con Elvis che riesce ad aver ragione di Bubba Ho-tep urlandogli: "SUCCHIA L'UCCELLO DI ANUBI!" 

Ricordo ancora alcune osservazioni di Andrea Jarok sul film, che è stato realizzato con una spesa di un milione di dollari e che non ha potuto usufruire di nessuna musica di Elvis Presley perché il pagamento dei diritti di autore sarebbe stato incompatibile con il magro budget. Ancor più interessante è stata la discussione sull'origine del nome Bubba Ho-tep: Andrea ci ha parlato del suffisso -hotep che ricorre nel nome di molti Faraoni e che è stato usato anche da Lovecraft per dare origine al nome Nyarlathotep. In realtà non si tratta di un vero e proprio suffisso, ma di una forma verbale ḥtp(.w) il cui significato è "egli è soddisfatto", "egli è in pace", che i Greci hanno adattato alla fonetica della loro lingua trascrivendola come -ophis: il gruppo consonantico -tp- dell'egiziano antico è stato reso con -ph- /ph/, e un'uscita sigmatica -is è stata aggiunta. 

Certo, stando ad alcuni buontemponi, gli argomenti da me trattati avrebbero il potere di far inflaccidire l'uccello persino a Rocco, ma una cosa è sicura: non hanno alcun effetto sull'uccello di Anubi, che è sempre e comunque durissimo - e auguro a tutti i miei detrattori di attaccarsi presto a tale turgida asta. 😀

MODERAZIONE DEI COMMENTI

Chiedo ai pochi utenti interessati agli argomenti di questo blog di portare la necessaria pazienza: d'ora in poi i commenti saranno moderati. Tutto ciò non comporterà che pochi istanti di disagio all'internauta serio che intenderà apporre in queste pagine un suo intervento, che poi risulterà visibile non appena l'avrò approvato. Il mio augurio è che questo piccolo ostacolo tecnico alla comunicazione non dissuada i lettori davvero interessati dall'intervenire, e soprattutto che non sia inteso come una forma di censura: non avrei mai preso una simile decisione se non vi fossi stato spinto dal corso degli eventi.   

Questi sono gli inconvenienti a cui espone il vegetare nella Blogosfera, spazio ormai sempre più marginale e simile alla Terra Desolata. Pubblicare propri contenuti è da tempo un affare in perdita, ma nonostante ciò non demordo. Oltre a reperire le informazioni è necessario vagliarle, assemblarle, formattarle e categorizzarle, e tutto per un ritorno pressoché nullo. Poi bisogna anche tenere in conto le necessarie operazioni di manutenzione straordinaria, proprio come il proprietario di un'auto si impegna a pulire il suo veicolo dopo che uno stormo di uccelli ha depositato sul parabrezza una pioggia di feci. Tutto ciò non mi scoraggia, e continuerò a farlo finché avrò respiro.

In quest'epoca di estrema decadenza dei diari online, alcuni blogger hanno scelto di diventare vassalli dei media mainstream, perdendo di fatto ogni loro autonomia. Non pochi tra questi infelici, gravati dal vincolo vassallatico contratto, si sono visti censurare i loro post. A una simile condizione di servitù è preferibile la vita dei lupi! Continuo dunque il mio vagabondaggio nelle tenebrose contrade di Mordor, non invidiando di certo la condizione servile di altri che si reputano più fortunati. 

martedì 14 luglio 2015

IL RIDICOLO FETICISMO DEGLI INDOVINELLI

I Poteri del Mondo utilizzano diversivi di ogni genere per distrarre le masse acefale dalla catastrofe incombente e dalla percezione dell'estrema decadenza che pervade ogni nazione del pianeta. Non molto tempo fa i quotidiani online hanno diffuso come di comune accordo un articolo che proponeva un ridicolo indovinello, che a loro detta sarebbe stato proposto a Singapore come test per gli studenti delle scuole superiori (14-16 anni). Ne riportiamo il testo (da Corriere.it):


Il compleanno di Cheryl

Albert e Bernard hanno appena conosciuto Cheryl, e vogliono sapere quando è il suo compleanno. Cheryl dà loro una lista di 10 possibili date:

15 maggio, 16 maggio, 19 maggio
17 giugno, 18 giugno
14 luglio, 16 luglio
14 agosto, 15 agosto, 17 agosto

A questo punto, Cheryl rivela ad Albert solo il mese e a Bernard solo il giorno del suo compleanno. Dopodiché i due parlano tra loro.

Albert: «Non so quando sia il compleanno di Cheryl. Ma so che non lo sa neanche Bernard».
Bernard: «All’inizio non sapevo quando fosse il compleanno di Cheryl. Ma adesso lo so».
Albert: «Ora so anch’io quando è il suo compleanno».

Dunque: quando è il compleanno di Cheryl?

Per trovare la soluzione, bisogna cominciare col comprendere che il problema non è sottodeterminato, ovvero che contiene tutti i dati necessari per arrivare alla soluzione. Ci sono dati che sono mascherati da frasi in apparenza banali, che hanno un potere pari a quello dei dati numerici.

1) Albert non sa quando è il compleanno di Cheryl. Sa però per certo che nemmeno Bernard lo sa.
Questo significa che il compleanno di Cheryl non può cadere né in maggio né in giugno.
Infatti se così fosse, Bernard, che conosce solo il giorno, avrebbe una probabilità di conoscere la data: se Cheryl gli avesse detto 18 o 19, il problema sarebbe risolto all'istante, e Albert non potrebbe affermare con certezza che Bernard non sa la data.

2) Bernard capisce che il compleanno di Cheryl non può essere né di maggio né di giugno. Può quindi cadere soltanto in luglio o in agosto.
Bernard ritiene le informazioni ottenute sufficienti a capire la data. Quindi non è possibile che sia il giorno 14 (ricorre sia in luglio che in agosto e il problema non sarebbe risolvibile).

3) Albert a questo punto afferma di sapere per certo quando è il compleanno di Cheryl. Non può essere di agosto, perché in quel mese ci sono due possibilità e Albert non potrebbe affermare di aver risolto l'indovinello. Così la data è sicuramente il 16 luglio.

Dati mascherati da frasettine in apparenza banali.
a) La frase "io non so" significa che ci sono più possibilità e che non si può decidere con i soli dati a disposizione.
b) La frase "io so" significa che esiste un solo numero possibile, che permette di decidere. 

Secondo non pochi intellettuali questi giochini sarebbero efficaci applicazioni della logica, in grado di educare la gente al suo uso. Così afferma ad esempio Odifreddi in un suo intervento: "Ci siamo disabituati alla logica, la scuola non insegna metodo".   

Notevoli anche le considerazioni dell'amico M. (si dice il peccato ma è bene rendere poco riconoscibile il nominativo del peccatore):

"Non si capisce dove sia lo scandalo di porre a dei sedicenni un banale quesito di logica, che pensandoci bene si risolve in due minuti. Lo scandalo secondo me sta nel pensare che questo tipo di ragionamento sia riservato ai cervelloni."

Adesso veniamo al dunque, senza fare sconti a nessuno.

Le parole del professor Odifreddi stupiscono davvero per la loro lontananza dalla realtà delle cose. Certo egli ha ragione da vendere nell'affermare che la scuola non insegna la logica e che per intere generazioni la logica è un libro chiuso. Tuttavia sbaglia in modo grossolano nell'usare la frase "ci siamo disabituati alla logica". Sarebbe infatti necessario postulare che un tempo eravamo abituati alla logica, e poi abbiamo perso dimestichezza. Tuttavia un simile tempo aureo di dimestichezza con la logica, in cui i bambinelli macinavano indovinelli, non è mai esistito - con buona pace di Odifreddi.
Se lasciamo per un attimo da parte la sicumera dei sentenziatori fanatici dei giochini e passiamo ai dati di fatto, ci accorgiamo anzi che le capacità di usare la logica agli inizi del XX secolo erano pressoché nulle per milioni di persone - proprio come adesso, anzi, in modo ancor più drammatico. In Ucraina e in Russia i contadini non sapevano risolvere un indovinello banale come questo:

"In Germania non ci sono cammelli. Non ce n'è neanche uno. Dresda si trova in Germania. Quanti cammelli ci sono a Dresda?"

Ridicola è anche la fede nel potere salvifico della scuola, che dovrebbe insegnare il metodo. Un pietoso condizionale per un'ingenua utopia. Odifreddi non ha ancora capito che la scuola è una fucina di demenza?

Il signor M. sembra confondere la logica con la Settimana Enigmistica. A quanto pare egli ha un culto del rompicapo, del giochino, della masturbazione mentale. Se vogliamo ben vedere, lo scienziato, il cosiddetto "cervellone" non è colui che risolve all'istante il famoso quesito con la Susi. Tutti questi gingilli sono studiati in modo accurato perché siano risolvibili, e si fondano sempre sugli stessi princìpi: dare l'impressione di avere meno dati di quelli che servono, mascherare i dati in forma di frasettine su cui si tende a sorvolare, essere enunciati appositamente in modo da provocare confusione.

Non mi stupirei di scoprire che la massima parte dei cultori degli indovinelli ha profonde carenze nella logica aristotelica elementare. Potrebbero benissimo non saper distinguere un sillogismo da un paralogismo ed essere persino incapaci di negare correttamente una proposizione semplice come "tutti i cavalli sono neri" - dato che fanno uso di una logica deviata e feticista, applicabile solo a casi estremamente particolari, simile a un bonsai che non può essere confrontato con una sequoia. Siamo sempre alle solite: quella che è in auge è la perversa degenerazione che consiste nell'apprendere procedimenti senza capirli. I cosiddetti bambini prodigio, di cui l'iniqua terra d'America è tanto sovrabbondante, non sono in realtà tanti piccoli Einstein: sono innaturali come i piedi rattrappiti delle donne della Cina imperiale. Chi di loro ha mai prodotto anche un solo pensiero di valore?   

La Scienza non è un settimanale di quiz e di rebus. Immaginiamo adesso di mettere gli enigmisti davanti a un problema enunciato in una forma del tutto nuova, senza che sappiano in partenza se ammette una soluzione. Immaginiamo di farli penare per giorni solo perché i più intelligenti tra loro arrivino a concludere che il problema è davvero sottodeterminato, che non può essere risolto. Immaginiamo di introdurli in un universo di atroce vastità, in cui non bastano tre o quattro procedimenti apprenditicci per arrivare a dimostrare qualcosa. Forse la loro prosopopea e la loro spocchia verrebbero meno all'istante.  

LA PRETESA ASSONANZA TRA SOCIUS E SOSIA IN PLAUTO: UN PROBLEMA INESISTENTE

Veniamo ora a un'autentica "chicca", la punta di diamante delle "argomentazioni" di coloro che in questa sonnolenta Italia si ostinano a ritenere che la pronuncia del latino in uso nelle scuole fosse quella di Cesare e di Cicerone - e che addirittura la proiettano nel passato più remoto, attribuendola persino a Romolo e Remo.

Essi partono dall'opera di Plauto, isolano un singolo brano e lo presentano come prova definitiva e inconfutabile delle loro inquiete quanto vane elucubrazioni. Se poi uno li contesta, ecco che lo accusano di essere "disonesto". Queste sono le citazioni dei nostri avversari: 

"C'è invece una testimonianza contraria alla restituta in Plauto e consiste in un gioco di parole, tra "socia" e "sosia" (Amphitruo 218), che sarebbe stato impossibile se davvero si fosse detto "sokia"."

"Errata Corrige post precedente
1) non Socia ma socium
Questo è il brano dell'Amphitrio:
italiano
MERCURIO: Dicevi di essere "Sosia", (servo) di Anfitrione.
SOSIA: Mi ero sbagliato: volevo dire di essere "socio" di Anfitrione.
Latino
MERC.: Amphitruonis te esse aiebas Sosiam.
SOS.: Peccaveram, nam Amphitruonis socium memet esse volui dicere"

Fatto questo, arrivano a ventilare l'ipotesi di un complotto. Così affermano che i fautori della pronuncia restituta del latino, da loro assimilati a una setta occultista, avrebbero usato la loro supposta influenza per tenere nascosti i fatidici versi di Plauto:

"Spero che tu sappia com'è la 'scienza' linguistica, che quel brano è stato proposto più volte per essere emendato, mi riferisco al famoso brano “scomodo” di Plauto, dove non era concepibile che 'Sosia' potesse essere confuso con 'socium', il 'soKium' della restituta, ma nessuna correzione, grazie al cielo, è stata ritenuta del tutto convincente nel 1800 (chiedimi i riferimenti che te li do) e si è preferito nel 1900 passare il brano sotto silenzio, sperando che tutti lo dimenticassero. Invece, stranamente, in silenzio, a differenza di tanti altri persi e corretti, il brano si è conservato."

Certo, certo, ci sono in ballo i terribili Rettiliani, i Rotschild e gli Illuminati. E c'è anche la marmotta che confeziona la cioccolata!  


Motivo di questo complotto: i fautori della restituta tremerebbero di terrore alla sola menzione del gioco di parole tra socium e Sosiam, presentato come evidenza della pronuncia ecclesiastica /'sočus/ vigente dalla notte dei tempi. Magari i sostenitori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno potrebbero sottoporre il caso a Cacioppo e vedersi dedicare qualche minuto in Kazzenger.

Sgombriamo ora il campo da questi vaniloqui cospirazionisti.

Già il Lindsay liquidava questo ridicolo argomento in modo molto efficace. Riporto la traduzione in italiano delle sue considerazioni, affinché tutti gli eventuali lettori le comprendano (The Latin Language, 1894, § 94, pag. 87-88):

« Sul fatto che c e g rimanessero dure davanti ad e, i e consonante (quando non seguiva una vocale), fino al sesto e al settimo secolo d.C., abbiamo una sovrabbondanza di prove. Per il periodo precedente, possiamo notare il fatto che in umbro, dove c (k) davanti a una vocale stretta* divenne una sibilante ed esprimeva il suono con un segno particolare nell'alfabeto latino, la lettera latina c non fu usata per questo suono nelle iscrizioni (dal tempo dei Gracchi) scritte in caratteri latini, ma usava una s modificata, per la precisione una s con un segno simile a un accento grave su di essa, es. desˋen (Lat. decem), sˋesna (Lat. cena). Che Plauto (che tra l'altro era umbro) faccia un gioco di parole su Sosia e socius, non prova nulla (Amph. 383) :

ÁMPHITRUONIS TE ÉSSE AIEBAS SO/SIAM.- PECCÁUERAM :
NAM 'ÁMPHITRUONIS SÓCIUM' DUDUM ME ÉSSE VOLUI DICERE.
 

Egli fa un gioco su arcem ed arcam in Bacch. 943 :

ATQUE HIC EQUOS NON IN ARCEM VERUM IN ARCAM FACIET IMPETUM. » 

*In inglese sono chiamate "narrow vowels" le vocali anteriori.

Le parole arcem /'arkem/ e arcam /'arkam/ sono senza dubbio state ideate come assonanti, avendo radici omofone /ark-/ e desinenze entrambe nasalizzate, seppur con vocali diverse.

Sul fatto stesso che socium e Sosiam fossero stati ritenuti da Plauto come una reale assonanza, mi permetto invece di nutrire qualche dubbio. A prescindere dalla differenza di consonante (che sussisterebbe anche ammettendo una palatalizzazione), la finale -am non poteva somigliare molto a -um. Le vocali atone di arcem e arcam non mostrano la drammatica distanza di una -u- da una -a-, che si trovano ai capi opposti di uno spettro sonoro. Ciò che Plauto intendeva mettere in scena non era un'assonanza, ma un fraintendimento. Ha attribuito alla macchietta Sosia l'idea che Mercurio avesse i tappi di cerume nelle orecchie. 

Né si può ammettere il cosiddetto "argomento di Stalin", così chiamato dal fatto che il dittatore georgiano, parlando male il russo, tendeva a sorvolare sulle desinenze realizzandole in maniera inistinta. Il parlante latino doveva essere per necessità ben attento alle desinenze, specie in epoca antica, essendo esse determinanti nell'attribuire senso compiuto alle frasi, molto più di quanto non fosse la posizione delle parole nella frase. I moderni non sono abituati a tutto ciò e si lasciano spesso ingannare da una frase come "philosophum non facit barba".

Se anche socium e Sosiam fossero stati concepiti come assonanti nella radice, si potrebbe ammettere che Plauto abbia fatto uso a fini scenici di una pronuncia alterata, che presentava per l'appunto il suono /š/ davanti a vocale anteriore. Questo non dimostrerebbe nulla a proposito della pronuncia ecclesiastica, che è del tutto diversa e ha un'affricata /č/ che difficilmente potrebbe essere confusa con una s. Per la natura del suono, una parola con /č/ non sfuggirebbe a un orecchio anche poco attento. 

In altre parole, se anche Plauto avesse inteso usare tratti fonetici della sua nativa lingua umbra, riproducendo socius /'sokjus, 'sokius/ come /'sošjus/, la cosa non avrebbe alcun valore probante. L'intera questione non avrebbe niente a che fare con gli sviluppi del latino nelle lingue romanze. 

Le pronunce guittesche sono sempre state comuni: l'attore per necessità tende a deformare il linguaggio oltre ad ogni limite, creando addirittura propri dialetti che non sono necessariamente parlati da altri. In quest'epoca di oscenità e di degenerazione, i guitti del Circo Zelig e di Striscia la Notizia ci hanno abituati a ogni sorta di alterazione della pronuncia al fine di destare ilarità negli spettatori. C'era uno di questi comici che usava pronunciare la finale come , dando quasi l'impressione di esibirsi in incauti pseudo-francesismi - così se ne usciva sempre con l'esclamazione "un po' di umiltè". Una volta mi capitò di imbattermi in un altro comico, che cantava "la solitüdine" e favoleggiava di una fantomatica partita Seregno-Pitügno (Seregno è la mia città natale, mentre Pitugno è semplice parto di fantasia). Un altro ancora aveva tentato un esperimento bislacco, alterando l'italiano come se la velare -c- del latino non si fosse mai palatalizzata, e così diceva "i miei amiki". Tuttavia non era arrivato a fare altrettanto con -g- e diceva regolarmente "gente", etc. Ricordo anche uno sketch di Gigi e Andrea, in cui quest'ultimo, travestito da anziana signora, sostituiva a ogni /w/ una /v/, dicendo "una svora", "la svocera", e la memoria non m'inganna addirittura "Edvardo". Cosa dedurrebbero ipotetici studiosi di un lontano futuro analizzando simili documenti? Ammettendo che le testimonianze di questo nulla mediatico possano durare tanto, potrebbero essere portati a trarne, specie in mancanza di informazioni, deduzioni erronee.

Conclusioni

Il solo pensiero di espungere o di emendare un brano come quello dell'Amphitruo è un'assurdità. Bisogna partire dai dati di fatto e capire il perché di ciò che si osserva, non piegare la realtà dei fatti alle proprie idee preconcette, come fanno i nostri avversari. In questo post ho preso il dato di fatto e ne ho fornito una spiegazione in linea con quanto sappiamo della fonetica della lingua latina e dei suoi mutamenti nel corso dei secoli. Se poi altri non hanno fiducia nella linguistica e preferiscono votarsi alla pseudoscienza, non farò passare i loro sproloqui: sarò sempre uno strenuo combattente determinato a contrastarli.

venerdì 10 luglio 2015

PROVE ESTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: NEOGRECO SPITI 'CASA'

In greco moderno (neogreco) la parola per dire casa è σπίτι /'spiti/. Questo vocabolo differisce drammaticamente dal greco antico οἶκος /'oikos/, che è andato perduto nell'uso popolare. Qual è l'etimologia di questo singolare σπίτι? Semplice: è il latino hospitium "ospitalità; alloggio"

Come si può vedere, il vocabolo latino, che suonava /(h)o'spitju(m)/ in epoca classica (l'aspirazione iniziale doveva essere tenue e molti parlanti non la realizzavano), è passato in greco prima dell'inizio dell'assibilazione e ha conservato l'occlusiva dentale integra, che si ritrova ancora ai nostri giorni in /'spiti/.

Insistiamo sulla natura volgare del prestito, che non è stato preso da una forma letteraria, ma dalla viva voce. È del tutto evidente che se per assurdo la parola avesse avuto in epoca antica la pronuncia /o'spitsjum/ del latino ecclesiastico, questo suono /ts/ sarebbe stato conservato e trascritto in greco in un modo immediatamente riconoscibile, ad esempio con il digramma τζ: così avremmo avuto *σπίτζι, il che non è.

PROVE ESTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: CAESAR IN GERMANICO COMUNE

Il cognomen Caesar passò direttamente nel germanico comune come *kaisaraz (-az è una semplice desinenza del nominativo singolare maschile dei nomi col tema in -a-), donde ne discende tra l'altro il tedesco moderno Kaiser "Imperatore". Possiamo ipotizzare con ottime basi che il prestito avvenne durante la vita dello stesso Caio Giulio Cesare, che attraversò il Reno e si inoltrò nella Germania. Le popolazioni che ebbero a che fare con lui ne furono molto impressionate e il suo nome conobbe grande fortuna, fino ad essere sulla bocca di tutti i Germani in breve tempo.

Attestazioni in lingue germaniche antiche di discendenti di *kaisar- "Imperatore":

Gotico di Wulfila: Kaisar (IV sec.)
Antico inglese: Cāsere (Beda, VIII sec.)
Antico alto tedesco: Keisar, Keisur, Cheisur, etc.
    
(IX sec.)
Antico sassone: Kēsar, Kēsur (IX sec.)
Norreno: Keisari (saghe islandesi, XIII sec.)

È evidente che queste forme continuano tutte in modo assolutamente regolare la radice del proto-germanico *kaisaraz, l'unica cosa singolare è il tema in nasale in norreno. L'aspetto fonetico del prestito mostra la struttura fonetica che il cognomen aveva in latino classico. Il mutamento di -ai- in -a:- in anglosassone è del tutto regolare (cfr. *stainaz > sta:n "pietra"), come il mutamento di -ai- in -ei- in antico alto tedesco e in norreno, come anche la monottongazione di -ai- in -e:- in antico sassone.

Peccano gravemente contro il metodo scientifico coloro che ritengono il tedesco Kaiser come una forma recente e quindi non comparabile con il nome di Cesare. Costoro hanno le seguenti colpe, che espongo al pubblico ludibrio:

1) Essi non soltanto ignorano le attestazioni delle lingue germaniche antiche, ma si rifiutano di studiare qualsiasi concetto abbia anche lontanamente a che fare con la filologia germanica;
2) Essi credono che il suono delle parole non possa subire mutamenti di sorta col passar dei secoli e negano l'esistenza di leggi fonetiche;
3) Quando fa loro comodo, essi dichiarano una parola tedesca "recente", senza ovviamente porsi il problema delle sue origini, come se fosse scaturita dal nulla;
4) Essi ignorano le fonti e non vogliono fare ricerche per appurare se qualcosa da loro asserito è o meno vero: l'opinione che è loro più utile diventa dogma; 
5) Essi traggono conclusioni generali da fatti particolari.

Questa è la procedura dialettica usata:

a) Postulato fallace: Kaiser è forma recente e non analizzabile (cosa non vera);
b) Primo passo dal postulato fallace: Kaiser non può essere utilizzato per fare deduzioni sul suono di Caesar in epoca classica;
c) Secondo passo dal postulato fallace: Caesar non poteva quindi suonare /'kaesar/ (errore logico denominato "non sequitur"). 

Sarebbe anche ora che tutti gli internauti adottassero una strategia semplicissima. Anziché uscirsene con affermazioni arbitrarie dettate dalla loro prosopopea, farebbero meglio a fare qualche semplice ed intelligente ricerca incrociata nel Web per controllare il valore delle proprie affermazioni - e se questo non basta cerchino su libri cartacei.

La scuola italiana è stata fondata su precisi investimenti ideologici. L'avversione per le indagini sulla vera pronuncia del latino classico nasce essenzialmente dal terrore che leggendo correttamente CAESAR si capisca che il suo suono è quasi quello di KAISER - essendo chiaramente i due nomi la stessa identica cosa.