lunedì 21 marzo 2016


GLI AMANTI DI SIDDO

Autore: Philip José Farmer
AKA: Un amore a Siddo; Gli amanti
Titolo originale: The Lovers
Prima pubblicazione: 1961
Edizioni italiane:      
      1)
La Tribuna SFBC, 2 III serie [26],
          Aprile 1966     
      2) La Tribuna SFBC, n. 53, Gennaio 1978
      3) Cosmo - Classici della Fantascienza,
      volume n. 119 - Settembre 1991
      4) Urania Collezione, n. 63, Aprile 2008
Editori: La Tribuna; Editrice Nord; Mondadori
Codice (Editrice Nord): 12 119 CO
ISBN: 9788842904168
Traduttori: Ganni Fabrizi; Riccardo Valla

Sinossi (da Goodreads.com):
Per sfuggire all'opprimente tirannia religiosa della Terra del 31° secolo, dedita al culto del Precursore, il linguista Hal Yarrow accetta volentieri una missione sul lontano pianeta Ozagen, ma il peggio della civiltà terrestre lo ha seguito: è Pornsen, il suo Angelo Custode, che vigila su ogni pensiero deviante o peccaminoso... Finché sul pianeta, fra le antiche rovine di una civiltà scomparsa, Yarrow scopre Jeannette, una splendida creatura non propriamente umana. Se nel tirannico regime del Precursore il condizionamento in materia sessuale è rigidissimo, l'amore per un essere alieno è addirittura impensabile. Eppure la lalitha Jeanette è paradossalmente la creatura più umana fra tutte quelle conosciute da Yarrow, il quale però sa fin troppo bene che l'amore per lei equivale alla più terribile delle trasgressioni e verrà considerato un inammissibile atto di ribellione...
Un'opera fra le più acclamate e discusse che ha saputo allargare coraggiosamente gli orizzonti della fantascienza americana.

Recensioni:

Un grande romanzo, che potrebbe ben essere ascritto al genere ucronico, se si potesse dimostrare che il punto di divergenza si trova anche soltanto all'epoca in cui l'autore scriveva. Mentre gli autori appassionati dell'ucronia si fossilizzano sul passato e cercano di capire come sarebbe stata la Storia cambiando qualcosa - e falliscono miseramente - Farmer proietta le sue speculazioni nel futuro. Il suo genio ci regala così un mondo in cui una spaventosa guerra batteriologica ha cambiato completamente la definizione delle nazioni e la distribuzione dei popoli. Il nuovo corso storico mostra un'Europa in cui la lingua più diffusa è l'islandese, seguita dal georgiano. Ovviamente, nell'istante stesso in cui intervengono mondi alieni, si capisce che l'eventuale ucronia si rivela come al solito onirostoria.

PHILIP J. FARMER E IL CONNETTIVISMO

Nel benemerito romanzo di Philip José Farmer esiste una chiara menzione di qualcosa di molto simile al Connettivismo descritto da Alfred Van Vogt in Crociera nell'Infinito. In un mondo atroce e decadente, dominato dall'unione tra Stato e Chiesa (la Schiesa in neolingua), la Scienza è ormai fortemente specializzata e nessuno ha più una preparazione generica. Si rende così necessario l'operato di persone in grado di fornire ai singoli scienziati le informazioni di discipline diverse dalla loro, in modo da permettere la continuazione dei lavori. Sono i Connettivisti. Questi collegatori di scienze sono chiamati Joat, e traggono il loro nome dalla locuzione Jack-of-All-Trades (alla lettera "Giovannino Tutti i Mestieri"). Ancor meglio del Grosvenor di Crociera nell'Infinito, il protagonista si destreggia tra le discipline più disparate. Una cosa notevole, se si considera che opera in condizioni spaventose e precarie. 

PHILIP J. FARMER E LA RELIGIONE

La teocrazia della Schiesa si fonda sulla religione del Precursore, nella cui figura non è difficile scorgere quella di Ron Hubbard. Persino i tratti fisici delineati dall'autore nella descrizione di un ritratto del Precursore richiamano alla mente quelli del capo religioso americano. Farmer costruisce un possibile corso storico ucronico in cui è prevalsa un'organizzazione che rispecchia in tutto e per tutto la Chiesa di Scientology. Certo, della compagine fantascientifica su cui Hubbard ha fondato la sua setta non c'è traccia. Non si fa menzione del demiurgo Xenu e dell'infernale pianeta Helatrobus: la religione del Precursore ha radici fondamentalmente bibliche e non concede molto alla fantascienza. Sono tuttavia descritti altri aspetti particolarmente significiativi del culto di Ron Hubbard. Per conoscere gli effetti pratici degli insegnamenti di tale congregazione e per capire come sarebbe la società se essa riuscisse ad imporsi, basti leggere con attenzione Gli amanti di Siddo

PHILIP J. FARMER E IL SESSO

The Lovers è ritenuto il primo libro di fantascienza ad affrontare lo scabroso tema del sesso tra umani e alieni. Così è giustamente presentato da Editrice Nord: "Il classico che ha segnato una svolta nella storia della fantascienza". Riconosco senza dubbio la portata rivoluzionaria di questo complesso capolavoro. Va comunque notato che l'argomento dei connubi carnali con gli extraterrestri aveva già fatto capolino nel genere fin dai tempi della protofantascienza. Ad esempio in Shambleau di Catherine Lucille Moore, raccolta di racconti scritti negli anni '30 dello scorso secolo, in cui un pistolero cosmico provava un piacere incredibile tra le braccia di una giovane aliena, perdendosi in un insidioso cupio dissolvi. Nel racconto anonimo The Great Romance, del lontano 1881, sono descritti abitanti del pianeta Venere interessati ad avere rapporti sessuali con esseri umani. 

PHILIP J. FARMER E L'ESOBIOLOGIA

L'autore si sbizzarrisce nella descrizione della fauna di Ozagen e delle sue specie senzienti, e lo fa usando parole tanto vivide che sembra quasi di vivere con i propri occhi le creature più incredibili. In un mondo dominato da insetti, insetti polmonati, pseudo-artropodi endoscheletrati e altre amenità, nel continente di Siddo l'evoluzione aveva favorito i mammiferi, dando luogo addirittura a una specie umanoide, denominata dagli scienziati terrestri Homo Ozagen. Questi umanoidi avevano dato origine a una civiltà del livello di quella babilonese, ma poi erano stati spazzati via da una spaventosa catastrofe, salvo gruppuscoli di superstiti inselvatichiti. Dopo secoli era giunto a Siddo un Cristoforo Colombo degli Insetti. La specie dominante conviveva con una serie di altre specie bizzarre: vengono descritti persino insetti la cui sola funzione è quella di ingurgitare ingenti quantitativi di zuccheri per produrre col loro corpo una bevanda alcolica. E ci sono anche insettoidi mimetici il cui aspetto non è quello degli artropodi...    

PHILIP J. FARMER E L'ESOLINGUISTICA

Ozagen, gioco di parole su "Oz Again", è il nome del pianeta alieno dominato da specie insettoidi. Come l'autore ci spiega, proviene dall'adattamento di un vocabolo di una delle lingue locali, descritta come dotata di una struttura formidabile e talmente complessa da renderne quasi impossibile l'apprendimento. Riporto alcuni passi del romanzo, che descrivono bene la natura della lingua di Siddo: 

"Un altro ostacolo era rappresentato dalla costruzione grammaticale del Siddo. Bastava considerare le coniugazioni dei verbi. Invece di coniugare un verbo o di usare una particella separata per indicare il passato o il futuro, il Siddo usava una parola completamente diversa. Per esempio, l'infinito animato maschile dabhumaksnigalu'ahai, che significava vivere, diventava, all'imperfetto, ksu'u'peli'afo e, al futuro, mai'teipa. Lo stesso uso di una parola completamente diversa vigeva per tutti gli altri tempi. Inoltre, il Siddo non aveva soltanto i tre normali generi (terrestri) maschile, femminile e neutro: aveva anche il genere inanimato e quello spirituale. Per fortuna, i generi si declinavano, benché questo fosse piuttosto difficile per chiunque non fosse nato a Siddo. Il sistema per indicare il genere, però, cambiava secondo i tempi dei verbi.
Tutte le altre parti del discorso, nomi, pronomi, aggettivi, avverbi e congiunzioni, funzionavano secondo lo stesso sistema dei verbi. Per rendere ancora più confuso l'uso della lingua, frequentemente le diverse classi sociali usavano parole diverse per esprimere lo stesso significato." (pag. 60, edizione del 1991)  

LA LINGUA NEOINGLESE-HAWAIIANA 

Una lingua discendente dall'inglese sopravvive in forma degradata e frammista all'hawaiiano, perché il Nordamerica è stato colonizzato dopo la Guerra Apocalittica da discendenti di Americani della Hawaii. Così sono moltissime le parole di origine hawaiiana in essa presenti. Il saluto tipico è aloha, i grattaceli sono chiamati pali "montagne", mentre strutture abitative sotterranee sono chiamate puka "pozzi". A queste si mescolano parole ebraiche provenienti dall'ambito della religione. Così ecco il saluto shalom, più formale di aloha, il termine di rispetto abba usato per rivolgersi a superiori, e alcune parole gergali che affondano le loro radici nella Bibbia. Per dire "buono, accettabile" si usa shib, che è da shibboleth (in origine "spiga"). La sua negazione è in-shib "cattivo, inaccettabile".

LA LINGUA NEOFRANCESE DELLA BAIA
DI HUDSON
 

All'epoca in cui si svolgono i fatti, sopravvivevano su tutto il globo terracqueo soltanto venti parlanti una lingua discendente dal francese dei Franco-Canadesi, tutti abitanti nella Riserva della Baia di Hudson. Tuttavia nel libro non è riportata una descrizione del loro idioma. 

LA LINGUA NEOFRANCESE DI OZAGEN

Farmer si dimostra anche un ottimo conlanger, descrivendo per sommi capi - ma in modo assai vivido - la lingua neofrancese parlata dall'aliena umanoide (lalitha) Jeannette sul pianeta Ozagen. Figlia di una antropoide locale e di un esule giunto su Ozagen da un pianeta colonizzato da Francesi, l'affascinante creatura porta il cognome paterno Rastignac. Consapevole dell'evoluzione graduale delle lingue, l'autore ha compilato una lista di mutamenti fonetici regolari. 

bwa sfa < bon soir
e'uteh < écoutez
fi < oui
fo tami < votre ami
kfe < quoi
maw sheh < mon cher
nespfa < n'est-ce pas
pukfe < pourquoi
sah mfa < c'est moi

su < monsieur
Wuhbopfei
< Le Beau Pays

wuhfvayfvu < levez-vous

Chiaramente il termine lalitha, usato per descrivere le creature della specie di Jeannette, è concepito come una parola aliena delle genti di Siddo, ma l'ispirazione potrebbe essere venuta a Farmer direttamente dal nome Lolita

mercoledì 16 marzo 2016

LA LINGUA ITALIANA AMMALATA DI RENZITE

Così recita un articolo in cui si promette di rendere eterno il perniciosissimo Expo: "Sei esposizioni della XXI Triennale internazionale di Milano saranno allestite nei padiglioni che ospitavano il Future food district e l'Auditorium". E ancora: "L’ingresso da cui accederanno i visitatori, che potranno acquistare un “season pass” da 22 euro con ingressi illimitati o un ticket singolo da 15, dovrebbe essere quello della passerella di Cascina Merlata. La strada che, ormai è ufficiale, porterà Expo alla sua nuova vita."

Che dire? I sintomi della degenerazione linguistica sono sempre più evidenti in Italia. Ormai all'uso della parola "ticket" siamo abituati da tempo. Ora assistiamo alla sua abnorme espansione semantica: sta di fatto rimpiazzando "biglietto" in ogni sua accezione. Di fronte a "season pass" possono soltanto venirmi i conati di vomito. Qualcuno dirà che le parole venivano prese a prestito già nel Neolitico e che è assurdo sostenere posizioni puriste. A tale obiezione controbatto facendo notare che qui siamo di fronte a qualcosa di molto diverso da un sano scambio di lessemi tra lingue vicine. Siamo di fronte a un morbo che ha la sua origine nella politica.  

Quando in una lingua si producono simili fenomeni, il suo destino è segnato. Quello che pochi notano è che i vocaboli e le locuzioni pseudoinglesi che pullulano sotto la tirannia renziana sono chimere, entità fantomatiche: non sono trascrizioni di vocaboli e di locuzioni anglosassoni, ma prodotti di storture concettuali e spesso di oscene pronunce ortografiche. Continua ad agire l'aberrante dottrina scolastica secondo cui la lingua scritta verrebbe prima di quella parlata, oltre all'ingenua fede nell'assoluta sovrapponibilità di tutti gli idiomi del genere umano.

domenica 13 marzo 2016

L'INCONTRO CON BRUCE STERLING: UN'ESPERIENZA DEVASTANTE

Lo scrittore americano Bruce Sterling scrive in un ottimo inglese, peccato che non parli affatto la stessa lingua. Questo è un breve glossario del texano da lui parlato, che ho messo assieme basandomi sul suo intervento alla Convention Connettivista del 28-29 ottobre 2012, tenutasi a Roma.

AGMEWIEWE /agmewi'ɛwe/ = augmented reality
INEGUERE /ine'gwɛre/ = integrated
INENEA /ine'nea/ = internet
KANSE /'khanse/ = concept
KAZMEGOWA /kazme'gɔwa/ = cosmic horror
MAQUASA /'makwasa/ = Microsoft
MEMWE /'mɛmwe/ = memory
NOMOWIEWE /nomowi'ɛwe/ = normal reality
PALA /'phala/ = pilot
PHAA /pha:/ = power
QUENYA /'kwenja/ = Ucraina
SABAWOWO /saba'wɔwo/ = cyberwarrior
VECHOWIEWE /vetʃowi'ɛwe/ = virtual reality
WAQUEA /wa'kwɛa/ = Lovecraft
WIRO /'wiro/ = little

Non solo per lui "Internet" suona come per noi "In Enea", ma è stato capace di parlare di Manzoni e dei Promessi Sposi senza che delle parole italiane si cogliesse una benché minima eco.

Già mi ero imbattuto in un parlante della stessa lingua durante un convegno scientifico, ed ero riuscito a trascrivere altre voci simili, potendo così effettuare un confronto con i tratti fonetici più tipici:

CHAANDJE /'tsa:ndʒe/ = challenges
IGNOMEGO /ig'nɔmego/ = economical
NESAWE /'nesawe/ = necessary
NUQUIOPHAA /'nukwjopha:/ = nuclear power
PAUSE /'phause/ = policy, policies
QUAME /'kwame/ = climate
WIÑUBO /wi'ɲubo/ = renewable
WIÑUBWENDJE /wiɲubw'ɛndʒe/ = renewable energies

Non oso pensare a un reading con brani tratti dalla Matrice Spezzata in lingua originale da parte dello stesso Sterling: se Shakespeare fosse presente, di certo direbbe che a scandire la lettura è un Mohicano o un Wampanoag. Faccio i miei vivissimi complimenti a Francesco Verso, che ha funto da interprete alla Convention: egli conosce il texano di Sterling alla perfezione, oltre a numerose altre lingue neoinglesi. La sua traduzione mi ha aiutato non poco a compilare il glossario. Devo comporre un dizionario completo - che un giorno presenterò allo stesso Sterling (già mi immagino il suo immenso stupore, dato che di certo è assurdamente convinto che l'inglese sia una lingua unica e monolitica) - in modo che questa stramba parlata non abbia più misteri per nessuno.

LA BABELE DEI CONVEGNI SCIENTIFICI INTERNAZIONALI


L'articolo ha un titolo che non mancherà di stupire molti: "Perché i parlanti di madrelingua inglese non riescono ad essere capiti in inglese e rimangono indietro negli affari globali". Era ora che qualcuno se ne accorgesse. Se devo essere sincero la cosa mi fa sentire sollevato. 

Con buona pace del mondo scolastico, la lingua inglese non è affatto una realtà monolitica. È un crogiolo di tanti differenti dialetti, tra loro così diversi da riuscire mutuamente quasi inintelligibili. Si tratta cioè di lingue separanti. Se il funesto genere umano durerà abbastanza, ne nasceranno di certo molte lingue neoinglesi tra loro completamente incomprensibili, così come dal latino volgare ne sono uscite le lingue neolatine a noi tanto familiari. Anzi, è possibile ipotizzare che i gradienti saranno ancora maggiori, tanto che le lingue neoinglesi più dissimili saranno tra loro distanti come il gaelico dal gallese.

Ogni varietà della lingua inglese ha una fonetica complessa, ricca di suoni difficili a riprodursi e ad afferrarsi. Questa realtà sfugge a molti, ma è incontrovertibile. Nel mondo anglosassone i sordastri sono discriminati e considerati ai limiti della subumanità, proprio perché non riescono ad afferrare bene le frasi pronunciate nella loro stessa lingua. Basta che sfugga un suono, una consonante finale o una parolina smozzicata e possono originarsi gravi fraintendimenti. Tuttavia non è infrequente che un anglosassone non sordastro abbia a sua volta gravi difficoltà nell'intendere la favella del suo prossimo: per non essere schernito e ghettizzato, tenderà a fingere di aver capito l'interlocutore.

I convegni scientifici internazionali sono il terreno migliore per comprendere appieno la portata del problema. L'infinita varietà dell'inglese dei relatori può soltanto richiamare alla mente la narrazione biblica della Torre di Babele. Quella che le genti credono una lingua unica e ben definita si stempera in una quantità di lingue bislacche, i cui suoni sono incerti alle orecchie di tutti. Subito spiccano le grottesche pronunce ortografiche ostentate dai rappresentanti meno acculturati della nostra nazione, ma l'incomunicabilità riguarda anche coloro che la cosiddetta lingua di Shakespeare dovrebbero averla assimilata col latte materno. In pratica ogni relatore parla una sua lingua, spesso quasi priva di riscontro rispetto a quello che dovrebbe essere uno standard universalmente riconosciuto.   

Ricordo un relatore inglese che era un guitto paragonabile al toscanaccio Maligni. Somigliava vagamente a Fred Astaire e strabuzzava continuamente gli occhi dalle orbite quando sghignazzava, fino a diventare quasi una brutta copia di Marty Feldman... o di Jimmy Savile. Il suo parlato era un'impenetrabile mitraglietta di sillabe monche. Se avesse parlato in pictico o in qualche altra lingua perduta del Neolitico avrei capito di più, non ci sono dubbi. Il bello è che egli si affidava alla mimica guittesca per scandire i suoi interventi. Quando accelerava assurdamente il ritmo del suo parlato interrompendolo subito con una brusca pausa, era un segnale convenuto: la platea doveva ridere. Ecco quindi una torma di manager e di fellatrici sghignazzare in modo convulso, come se avessero capito ogni sillaba di quell'idioma inconsistente. Non potevo credere che fosse davvero inglese la lingua che parlava. Sembrava piuttosto un grammelot, come quel biascicare indistinto tipico di certe esibizioni di Adriano Celentano e di Dario Fo! E tutti quegli idioti che ridevano! Io ero il solo ad avere un'espressione torva e a non ridere. Mi sentivo come quel famoso uomo che non alzava il braccio nel saluto nazista in mezzo a una folla osannante, all'epoca del Führer. Per documentare l'attuale Dittatura della Felicità, forse tra qualche decennio useranno una foto della ridanciana platea, scrivendo "Be this guy" vicino alla mia immagine evidenziata con un cerchietto grigio.

A questo punto riporto alcune perle che mi sono annotato nel corso degli anni. Un relatore di cui non ricordo la nazionalità amava sincopare le parole, generando non poche ambiguità.

anal = annual
disgust = discussed
ewpin = European
form = forum
nessary = necessary
pope = pulp
satisfary = satisfactory 

Sì, proprio così, per questo relatore, Quentin Tarantino avrebbe diretto "Pope Fiction". La polpa di legno, era da lui chiamata "wood pope", alla lettera un "Papa di legno". Guardacaso, quando parlava di "anal emissions" anziché di "annual emissions", nessuna delle messaline presenti in sala rideva.

Notevole anche lo pseudoinglese di un parlante tedesco: 

all saw = also
cities in the sows = cities in the South
feature = future
industrial sauces = industrial sources
sauce emissions = those emissions
sink = thing
sunsink = something

C'era poi una inglese terribile, una bionda volgarissima che aveva trasformato la sua lingua a tal punto che per trascriverla è meglio usare l'ortografia italiana: 

dio picci = the all picture
imputata = input data
mo' dite = more detail
sette = sector

Ogni volta che diceva "dio picci" anche l'intonazione era benignesca, tanto che sembrava proprio di sentire una bestemmia.

Un nativo dell'Ingilterra meridionale - forse era di Brighton - parlava nel suo dialetto, caratterizzato da complicate rotazioni delle vocali e dei dittonghi. 

/i:/ => /ei/ (con /e/ molto chiusa)
   
free /frei/    
    see /sei/

/ei/ => /ai/
   
say /sai/
    Spain /spain/

/ai/ => /ɔi/
   
buy /bɔi/
   
fine /fɔin/     

La differenza tra questo dialetto e le varità americane è massima: in parole come God, stop, hot la vocale è una /o/ chiusa, come in "ora" e con una lieve tendenza a /u/, mentre gli Americani hanno una chiara /a:/, addirittura lunga.

Potrei andare avanti per ore. Ho in giro un gran numero di appunti sepolti tra montagne di scartoffie, la cui utilità consiste proprio in elenchi di termini che ho udito con le mie orecchie nel corso degli anni, trascritti in svariati modi.

Le soluzioni a questo caos sono soltanto due:
1) Ricorrere a interpreti
2) Abolire l'uso dell'inglese nei convegni scientifici e ricorrere al latino. Per questa finalità la pronuncia ecclesiastica va più che bene, l'importante è avere una lingua pratica che non si presta a fraintendimenti.

mercoledì 9 marzo 2016


LA GRANDE ATTUALITÀ
DELL'OPERA DI JONATHAN SWIFT

Si direbbe che l'unica opera di Jonathan Swift nota alle masse sia una versione abbreviata del suo capolavoro, che narra le peregrinazioni di Gulliver tra i minuscoli abitanti di Lilliput e tra i giganti di Brobdingnag. A quanto pare la versione completa dei Viaggi di Gulliver è molto meno conosciuta, tanto che ben pochi hanno sentito anche soltanto una menzione di Lagado e della sua Accademia. Un vero peccato, perché i passi che ne parlano sono profetici. Si direbbe quasi che il caustico e geniale pamphlettista abbia visto il presente mostruoso in cui siamo condannati a vivere e ne abbia tratto spunto per la sua satira corrosiva. A Lagado regna la follia. La realtà oggettiva delle cose e dei fatti non ha alcun valore in quel luogo: i suoi abitanti pensano di poterla adattare ai loro deliri. La stessa calamità colpisce questa umanità terminale, proprio in questi Ultimi Giorni. I chierici traditori sono sempre esistiti in ambito universitario: non mancano casi in cui la Scienza è corrotta dalla politica e dalla convenienza. Tuttavia è nella Rete che si è formata la vera Accademia di Lagado. Mezzi semplici come forum, blog e siti hanno permesso il pullulare della pseudoscienza, moltiplicando a dismisura le stronzate concepite da menti distorte e facendole percolare capillarmente nella società intera. L'Ignoranza diventa Legge. I pacchetti memetici sostituiscono il Pensiero. Ogni parvenza di Logica viene derisa e aggredita ogni giorno da deleterie conventicole di "ricercatori indipendenti" e dai loro entusiasti sostenitori, che nei casi peggiori arrivano a formare vere e proprie orde di bulli. 

Riporto in questa sede la vivida descrizione di Lagado e dei suoi falsi scienziati, fatta dal grande irlandese nel suo romanzo satirico: 

Quarant'anni prima, alcuni personaggi di Lagado erano andati a Laputa per affari o per divertimento; e dopo esservi rimasti cinque mesi ridiscesero con un'infarinatura di matematica e una gran dose di spiriti volatili incorporati in quell'area regione. Codesti messeri, dopo il loro ritorno, avevano cominciato a criticare tutto quanto si faceva nel paese, e avevano deciso di ricostruire su nuove basi tanto le arti quanto le scienze; a questo fine si fecero rilasciare un decreto per la creazione di un'accademia d'ingegneri a Lagado. Presto la mania delle accademie si diffuse talmente, che ogni cittadino del regno volle avere la sua.
In codesti collegi, gli scienziati avevano scoperto un gran numero di nuovi metodi per l'architettura e l'agricoltura, e nuovi strumenti e utensili per tutti i mestieri, per mezzo dei quali un uomo solo poteva innalzare un palazzo così solido da sfidare i secoli senza mai richiedere alcun restauro. I prodotti della terra dovevano, in virtù dei loro ritrovati, nascere in tutte le stagioni, cento volte più grossi dei soliti: insomma essi concepirono non so quanti meravigliosi disegni. Ci fu però un piccolo inconveniente: che neppur uno di codesti disegni era giunto, fino allora, alla necessaria perfezione, sicché in poco tempo tutta la campagna fu rovinata, le case caddero a pezzi e il popolo restò senza vesti e senza cibo. Ma lungi dello scoraggiarsi, codesti scienziati si ostinavano sempre più nelle loro ricerche, non si sapeva se spinti dalla speranza o dalla disperazione.
Ma il signor Munodi non era uno spirito intraprendente, sicché aveva cercato di tirare avanti coi vecchi sistemi, vivendo nelle case fabbricate dai suoi antenati e facendo ciò che si era sempre fatto senza nulla cambiare, e alcune altre persone di nobile condizione avevano fatto come lui. Essi però erano mal visti e disprezzati come nemici delle arti e delle scienze, e come cattivi cittadini più amanti del proprio comodo e del dolce far niente che del benessere del paese.

Visita dell'autore alla grande accademia di Lagado – Descrizione dell'accademia; arti e scienze in cui si esercitavano quei dotti.

L'accademia maggiore di Lagado occupava parecchi edifizi posti da ambo i lati d'una strada, che furono destinati a codesto scopo perché disabitati. Ogni stanza conteneva uno scientifico personaggio intento a qualche suo esperimento, e talora più d'uno; e l'accademia comprendeva circa cinquecento stanze. Tornai parecchi giorni consecutivi a visitarla, sempre accolto dal portiere con somma cortesia.
Il primo accademico che visitai aveva il volto magro e spaurito da far compassione, la barba e i capelli incolti, la pelle color tabacco, e gli abiti e la camicia del colore stesso della pelle.
Egli da otto anni si perdeva dietro un progetto consistente nell'estrarre i raggi del sole dalle zucche, affinché fosse possibile, dopo averli chiusi in boccette ermeticamente tappate, di servirsene per riscaldare l'aria nelle stagioni fredde e umide. Mi disse che sperava, entro i prossimi otto anni, di fornire ai giardini del governatore dei raggi solari a un prezzo conveniente.
Si lamentò però d'esser povero, e mi chiese qualche soldo a guisa d'incoraggiamento, tanto più che le zucche erano piuttosto care quell'anno. Per fortuna il signor Munodi, conoscendo gli usi di codesti scienziati, mi aveva dato qualche spicciolo; così potei contentare l'accademico, il quale, come i suoi colleghi, ripeteva la stessa richiesta a tutti i visitatori.
Entrando in un'altra sala, fui quasi tentato di uscirne per l'orribile puzzo che l'empiva. Ma la mia guida mi esortò a farmi avanti, pregandomi sottovoce di non offendere in alcun modo lo scienziato che ivi risiedeva; sicché non osai neppure tapparmi il naso. L'ingegnere che stava lì era il più vecchio dell'accademia; aveva la faccia e la barba giallastre, le mani e le vesti pieni di sudiciume. Quando gli venni presentato mi abbracciò con effusione, ma non gli fui punto grato di codesta cortesia. Costui, fino dal primo giorno del suo ingresso nell'accademia, indagava sul modo di ritrasformare gli escrementi umani nel primitivo aspetto dei cibi da cui risultavano, separandone le varie parti e depurandole dal fiele, che è appunto la causa del puzzo che mandano gli escrementi. Egli faceva svaporare il fiele e toglieva la schiuma derivante dalla saliva. Ogni settimana l'Accademia gli forniva, per le sue esperienze, un recipiente pieno di sostanze fecali grosso all'incirca come un barile di Bristol.
Un terzo che visitai stava arroventando il ghiaccio per estrarne, diceva lui, la migliore qualità di salnitro, con cui fabbricare la polvere da sparo. Mi mostrò anche un suo trattato sulla malleabilità del fuoco, che avrebbe pubblicato presto.
Un architetto di grande genialità, che conobbi dipoi, aveva inventato un nuovo sistema di costruire le case cominciando dal tetto per finire con le fondamenta; e giustificava la sua trovata con l'esempio di ciò che fanno l'ape e il ragno, due insetti di cui nessuno mette in dubbio l'intelligenza.
Un accademico, cieco dalla nascita, aveva sotto di sé parecchi apprendisti non meno ciechi di lui: essi si occupavano di fabbricare i colori per i pittori; e il maestro insegnava agli scolari a distinguere le tinte per mezzo del tatto e dell'olfatto. Disgraziatamente, nell'epoca in cui visitai l'accademia, gli apprendisti non erano ancora esperti nel loro mestiere, e lo stesso maestro s'ingannava generalmente nella scelta dei colori. Tuttavia codesto artista era molto stimato dai suoi colleghi.
In un'altra stanza feci la piacevole conoscenza d'un inventore, al quale si doveva un nuovo sistema per lavorare la terra senza strumenti, servendosi dei maiali. Così si risparmiava, evidentemente, la spesa dei cavalli e dei bovi, dell'aratro e del bifolco. Bastava nascondere sotto terra, a sei pollici di distanza l'uno dall'altro, diversi vegetali di cui i porci sono ghiottissimi, come ghiande, datteri o castagne; poi sparpagliare per ogni acro di superficie circa seicento di codesti animali. Questi in pochissimo tempo, non solo avrebbero smosso la terra col muso e con le zampe in modo da potervi seminare, ma l'avrebbero contemporaneamente concimata coi loro escrementi.
Fatta l'esperienza, il sistema era sembrato poco pratico e assai dispendioso; inoltre il campo non aveva prodotto quasi nulla. Ma tutti ritenevano quest'invenzione suscettibile di essere utilmente perfezionata.
Un'altra stanza era tutta tappezzata di tele di ragno, tanto che lo scienziato ivi racchiuso stentava a muoversi. Quando mi vide, gridò: «Attento a non disturbare i miei operai!» Costui andava deplorando l'accecamento degli uomini che per tanto tempo si erano serviti dei bachi da seta, quando esistevano tanti insetti domestici capaci non solo di filare, ma anche di tessere. Egli sperava di fare risparmiare anche la spesa per la tintura dei tessuti, dando da mangiare ai suoi ragni gran numero di mosche di diversa razza e di svariati e brillanti colori. Me ne fece vedere di tutte le sfumature, e disse che quanto prima avrebbe potuto contentare tutti i gusti: non gli mancava che di trovare i cibi più adatti per le sue mosche, cioé gli oli, le gomme, il glutine necessari perché i fili emessi del ragno avessero la dovuta solidità e resistenza.
Vidi, seguitando, un celebre astronomo che aveva cominciato l'impianto d'una meridiana sulla punta della più alta torre del palazzo municipale, e studiava ora il modo di regolare i movimenti della terra e del sole in tal guisa da farli andar d'accordo con gli spostamenti capricciosi della girandola.
Da qualche tempo mi sentivo un certo dolore di corpo; sicché con molta opportunità il mio cicerone mi fece entrare nella stanza d'un illustre medico, veramente benemerito per avere scoperto il segreto per guarire le coliche con un semplice meccanismo che agisce in senso contrario alla malattia. Egli si serviva d'un grande soffietto munito d'un lungo e sottile tubo d'avorio, che insinuava nell'ano per circa otto pollici di profondità. Per mezzo di codesta specie di clistere a vento, egli pretendeva di portar via, aspirando, tutte le flatulenze interne ripulendo le viscere e rendendole piatte come una vescica vuota.
Quando poi il male era molto grave, egli empiva il clistere d'aria, introduceva il tubo e scaricava tutto quel vento nel corpo dell'ammalato; poi ritirava il soffietto per riempirlo ancora badando a tenere tappato l'orifizio del paziente col dito pollice. Quando l'operazione era stata ripetuta tre o quattro volte, il vento introdotto e compresso prorompeva fuori con tal forza da portar via seco tutti i vapori nocivi, come l'acqua ripulisce i condotti d'una pompa; e il malato era bell'e guarito.
Vidi esperimentare ambedue queste operazioni sopra un cane; ma la prima non produsse alcun effetto sensibile. Dopo la seconda, invece, l'animale era gonfio da scoppiare: a un tratto fece un scarica così tremenda che tutti noi ne restammo quasi tramortiti. L'animale spirò sull'istante, e noi ce n'andammo lasciando il dottore occupato a resuscitarlo ripetendo l'operazione.
Non voglio annoiare il lettore col racconto delle curiosità da me vedute nelle altre stanze dell'accademia, essendomi proposta la massima brevità e concisione. Dirò solo che la parte dell'istituto da me visitata era riservata alle invenzioni meccaniche, ma v'era tutta un'altra parte assegnata agli studiosi delle scienze astratte; e di questa parlerò dopo aver fatto cenno del personaggio più illustre della prima categoria, soprannominato l'artista universale.
Costui ci disse d'aver passato trent'anni a riflettere sul modo di migliorare il vivere degli uomini, e ci mostrò due grandi sale piene di cose curiose, dove cinquanta operai lavoravano, sotto la sua direzione, gli uni a condensare l'aria fino a renderla solida, con l'estrarne il nitro e lasciarne svaporare le particelle fluide e liquide; gli altri a rammollire il marmo per farne guanciali e materassi; altri ancora a pietrificare gli zoccoli dei cavalli per rendere inutile la ferratura. Il grande scienziato poi, si occupava per suo conto di due grandi disegni. Il primo consisteva nel fecondare la terra con una speciale acqua seminale di effetto prodigioso, com'egli dimostrava con diverse esperienze troppo superiori al mio comprendonio; il secondo consisteva in un composto di gomme vegetali e minerali destinato a impedire lo sviluppo del pelo sul corpo degli agnelli. Quello scienziato sperava di potere, fra non molto tempo, propagare in tutto il paese la razza delle pecore senza lana.
Traversando un giardino ci trovammo nella seconda divisione dell'accademia, assegnata ai cultori delle discipline astratte. Nella prima grande sala trovai un professore circondato da quaranta scolari. Dopo esserci salutati, siccome egli si accorse ch'io guardavo con curiosità una certa macchina che occupava quasi tutta la sala, mi spiegò che il suo più ambizioso disegno consisteva nella scoperta del metodo di perfezionare le scienze mentali con mezzi meccanici. Egli andava orgoglioso di questo concetto, il più vasto e geniale che cervello umano avesse mai avuto, e sperava che tutti, quanto prima, ne riconoscessero l'utilità.
Mentre, infatti, i metodi comunemente adottati per arrivare alle diverse nozioni scientifiche e ideali sono faticosi e difficili, col suo nuovo sistema, invece, anche un ignorante poteva scrivere libri di filosofia o di poesia, trattati i politica e di matematica, senza bisogno di speciale vocazione né di studio: bastava una modesta spesa e un piccolo sforzo muscolare.
Nello spiegarmi ciò, egli mi fece vedere il meccanismo intorno a cui stavano i suoi scolari.
Era una specie di telaio di venti piedi quadrati, sul quale erano disposti moltissimi pezzetti di legno simili a dadi, di cui alcuni erano alquanto più grossi; e tutti erano legati insieme per mezzo di fili sottili. Ogni faccia di ciascun dado portava un pezzo di carta, su cui stava scritta una parola; sicché sul telaio si trovavano tutte le parole della loro lingua nei differenti modi, tempi e declinazioni, ma mescolate alla rinfusa.
Il professore mi avvertì che stava per mettere in moto la macchina: a un suo cenno, infatti, ciascun allievo prese in mano un manubrio di ferro (ve ne sono quaranta fissati lungo il telaio). Essi, facendolo girare, cambiarono totalmente la disposizione dei dadi, e perciò delle parole corrispondenti. Allora il professore ordinò a trentasei dei suoi scolari di leggere fra sé le frasi che ne risultavano, via via che le parole apparivano sul telaio; e quando trovassero tre o quattro parole che avessero l'apparenza d'una frase, di dettarle agli altri quattro giovinetti, che facevano da segretari. Questo esercizio fu ripetuto diverse volte, e col successivo capovolgersi dei cubi sempre nuove parole e frasi comparivano sulla macchina. Gli scolari si dedicavano a tale occupazione per sei ore del giorno.
Il professore mi fece vedere diversi volumi in folio pieni di frasi sconnesse ch'egli aveva raccolto e di cui pensava fare un estratto, ripromettendosi di cavar fuori da codesto materiale, il più ricco del mondo, una vera enciclopedia scientifica e artistica. Egli sperava che codesto suo lavoro, spinto con energia, avrebbe toccata la massima perfezione, a patto che la popolazione consentisse a fornire il denaro necessario per impiantare cinquecento consimili macchine in tutto il regno, e che i sovrintendenti dei vari istituti mettessero in comune le loro personali osservazioni.
Ringraziai umilmente codesto illustre inventore, assicurandolo che, se avessi avuto la fortuna di tornare in Inghilterra, gli avrei reso giustizia celebrandolo fra i miei concittadini come primo creatore d'una macchina sì meravigliosa; anzi mi feci dare il disegno di questa e la descrizione dei suoi vari movimenti, e sopra tavole apposite li unii alle mie memorie. Assicurai anche l'accademico che avrei saputo prendere le necessarie cautele perché l'onore della scoperta restasse tutto suo, data l'usanza vigente fra gli scienziati europei di rubarsi reciprocamente i loro ritrovati, tanto che non si sa quasi mai a chi attribuirli.
Passammo poi alla scuola delle lingue, dove tre professori discutevano insieme sul modo di perfezionare l'idioma del paese.
Il loro primo disegno era di rendere più conciso il discorso, riducendo tutti i polisillabi a monosillabi e sopprimendo i verbi e ogni altra parte del discorso, tranne i sostantivi: perché in realtà tutti gli oggetti di questo mondo si possono rappresentare con sostantivi.
Ma il sistema di riforma più radicale doveva consistere, secondo loro, nel fare a meno addirittura delle parole, con grande risparmio di tempo e beneficio per la salute; perché è chiaro che ogni parola da noi pronunziata corrode i nostri polmoni e li danneggia, accorciando così la nostra esistenza. Ora, siccome le parole sono in conclusione i nomi delle cose, costoro proponevano semplicemente che ognuno portasse seco tutti gli oggetti corrispondenti all'argomento delle varie discussioni. E la riforma sarebbe certamente stata adottata, con notevole vantaggio della salute e del comodo generale, se il popolaccio, e specialmente le donne, non avessero minacciato di fare addirittura la rivoluzione qualora fosse loro vietato di parlare nella solita lingua, come i loro antenati avevano fatto fin lì: tanto il volgo è costante e irreconciliabile nemico della scienza!
Tuttavia, il nuovo metodo era adoperato da alcuni dei più illuminati e dotti personaggi, i quali se ne trovavano benissimo. Il solo inconveniente s'affacciava quando costoro dovevano trattare di parecchi e complicati argomenti, perché in tal caso erano costretti a portare addosso dei pesi enormi; a meno che non potessero permettersi il lusso di mantenere un paio di robusti facchini per codesto ufficio. Più d'una volta ho osservato due di codesti scienziati, curvi sotto il peso del loro fardello, fermarsi in mezzo alla strada per conversare, posare in terra il sacco e slegarlo; poi, dopo un'ora di colloquio, aiutarsi reciprocamente a ripigliare il carico sulle spalle e riprendere il cammino.
S'intende che, mentre per i discorsi più comuni ciascuno portava indosso tutti gli oggetti necessari per farsi capire, in ogni casa v'era poi una provvista di molti altri oggetti; e nei locali dove si doveva tenere qualche adunanza di adepti della nuova lingua, si trovava ogni sorta di cose capaci di sopperire alla più complessa conversazione artificiale. E si noti che questo nuovo sistema aveva anche il sommo pregio d'essere universale, cioé di fornire un idioma comune a tutti i popoli civili, come sono loro comuni, press'a poco, tutti gli utensili e gli oggetti d'uso; né gli ambasciatori avrebbero avuto più bisogno, così, di studiare le lingue straniere per trattare coi principi e coi ministri degli altri paesi.
Visitai finalmente la scuola di matematica, in cui trovai un professore che adoperava, per l'istruzione dei suoi scolari, un metodo che in Europa nessuno sarebbe mai stato capace d'inventare.
Ogni dimostrazione, proposizione o teorema veniva scritto sopra una piccola ostia, con uno speciale inchiostro di succo cefalico. Lo studente inghiottiva l'ostia e stava digiuno tre giorni, nutrendosi solo d'un po' di pane e acqua. Durante la digestione dell'ostia, il succo cefalico saliva al cervello e vi recava l'esercizio o il teorema desiderato.
Questo sistema non aveva dato, a quanto sentii riferire, risultati molto brillanti; ma ciò era dovuto solo al fatto d'essersi ingannati nel quantum, cioé nella dose del succo cerebrale; oppure anche al contegno maligno e ribelle degli scolari, i quali trovando nauseante il sapore dell'ostia, invece d'inghiottirla la sputavano da una parte, o dopo averla inghiottita la rivomitavano prima che potesse compiere il suo effetto, oppure anche non avevano la costanza di mantenere per tre giorni il regime d'astinenza necessario.

venerdì 4 marzo 2016

IL VIAGGIO MARITTIMO DELL'INDIO CHEPO: UN'UTOPIA ONORISTORICA

Per certi versi simile all'avventura dell'Inca Tupac Yupanqui è la storia di Chepo, un indio della stirpe dei Changos, pescatori cileni che vivevano in condizioni di estrema miseria. Tanto dura era la loro permanenza sulla Terra che non riuscivano ad accedere a sufficienti risorse di acqua potabile e si dissetavano bevendo il sangue dei leoni marini; a quanto è riportato i cagnotti si nutrivano dei coaguli che imbrattavano il loro volto e scavavano nella pelle coriacea. Chepo raccontò di aver compiuto un viaggio in mare aperto con la sua zattera rudimentale, navigando per nove settimane fino a raggiungere un'isola deserta chiamata Coatu. Da quell'isola, dopo altre due settimane di viaggio sarebbe giunto fino a due isole abitate, chiamate Qüen e Acabana. Gli isolani, stando al suo racconto, sarebbero state genti ricche, dotate di vesti finissime, di greggi di lama e di grande abbondanza di oro, che offrivano al loro idolo. Chepo specificò che tali genti parlavano la lingua di don Sebastian Camanchac, ossia l'originaria lingua dei Changos, purtroppo estinta nel XVIII secolo e sostituita dapprima dal Mapudungun, e infine sul finire del XIX secolo dallo spagnolo. Questo idioma ci è testimoniato quasi soltanto da numerosi antroponimi nei registri parrocchiali, che però nella maggior parte dei casi sono incomprensibili e non mostrano affinità con alcun'altra lingua amerindiana. Ne ho identificati alcuni di origine Quechua e altri presi a prestito dal Kunza, l'antica lingua di Atacama. Riporto un elenco di antroponimi dei Changos, specificandone anche il genere. 

Maschili:

Alaguana
Alagues
Alicantir
Alicanto
Aychil
Caichuca
Cancota
Cherrepe
Chiquin
Cholotinti
"Cagnaccio-Locusta" (*)
Coquillo
Cutaipi
Galopin
Jalague
Lacmor
Laicor
Lamza
Liguacho
Melique
Quichan
Sacaia
Sajaya
Sanpalasi
Suiç
Tinticaur
"Colle della Locusta" (**)
Tocotinti "Gufo-Locusta" (**)
Yllagues 

Femminili: 

Ala
Allupin
Anchuña
Cañal
Caqui
Cayani 
Cola
Colamar
"Luogo delle Pernici" (**)
Gosan
Gualila
Jaguaña
Jañuco
Lenca
Llancha
Ñaypul
Oja
Pocalche
Puisnes
Pulo
Puñota
Sacalla
Sailaguari
Sailapa
Samaza
Unca

Ylon
Yta

(*) Quechua
(**) Kunza (il lemma tinti "locusta" è comunque un prestito dal Quechua) 

Questo è il testo originale in spagnolo (Collezione Egerton n. 1816, Museo Britannico, Londra, foglio 223): 

“Relación muy particular dada al capitán Francisco de Cáceres* por un indio que se llama Chepo, y sería de edad de ciento quince a ciento veinte años, de las islas de Salomón, que están en la mar del Sur, con expresiones de sus nombres y el tiempo que tardaban los indios sus naturales desde el puerto de Anca y de Ilo a ellas...
“Un indio que se llama Chepo, que sería de edad de ciento quince o ciento veinte años, dijo que en todo lo que se le preguntase acerca de las dichas islas, diría la verdad, con presupuesto que si mintiese le matarían; y esto fue en tiempo del capitán Francisco de Cáceres, que procurando por dicho indio topó con él, y le dio la relación siguiente:
“Preguntado que desde donde atravesaban los indios de la dicha isla, dijo que:
“—Desde el puerto de Anca y el de Ilo.
“Preguntado que cuántos días tardaban los dichos indios en ir desde los dichos puertos a las dichas islas, dijo que:
“—Tardaban dos meses en dar en una isla despoblada que se llamaba Coatu, que tiene tres cerros altos, en donde hay muchos pájaros.
“Preguntado que cómo se llama la primera isla después de la despoblada, dijo que:
“—Se llamaba Qüen, que tiene mucha gente y el señor de ella se llama Qüentique.
“Preguntósele si había más señores, dijo que:
Otros dos se llaman Uquenique y Cauxanique.
“Preguntósele si había otras islas, y dijo que:
“Si la cual se llama Acabana.
“Preguntósele cuántos días tardaban en ir desde la isla de Qüen a la de Acabana, dijo que:
“—Díez días.
Preguntósele que cual es mayor; dijo que:
“—Acabana.
“Preguntósele si tenía algún señor la dicha isla; dijo que:
“—Si y del mismo nombre de la misma isla, y que tiene un hijo que se llama Casira, el cual gobierna y manda toda la dicha isla en lugar del padre, el cual dicho padre por su autoridad había dado el mando y facultad al dicho su hijo que gobernase la dicha isla, sin entenderse él en ella.
“Preguntósele que si habían muchos señores otros, sujetos a los dichos padre e hijo; dijo que:
“—Si, que son los señores de las primeras islas susodichas y otras que no sabe los nombres.
“Preguntósele si era mayor señor éste que Guaynacava, y dijo que:
“—Sí.
“Preguntósele que si esta isla de Acabana sabe que lo es” (o sea: si es isla o continente); “dijo que:
“—No lo sabe, porque es tan grande que no sabe si isla o tierra firme.
“Preguntado si hay ovejas, dijo que:
“—Sí, y guanacos y venados.
“Preguntósele de qué se visten, y dijo que:
—De algodón y lana.
“Preguntado que qué traen en la cabeza, dijo que:
“—Unas llantos” [¿llautos?] “como los indios chichas” [¿chinchas?].
“Preguntósele que qué traía Acabana en la cabeza, dijo que:
—Un chuco como de collas, y al derredor lleno de oro, y unas plumas encima.
“—Y, asimismo, que traía vestido —dijo— que era de lana y algodón muy galano.
“Preguntado en qué caminaba el dicho Acabana de un pueblo a otro, dijo que:
“—En unas andas, que todo el cerco de ellas y todo lo alto para guarda del sol, era de oro.
“Preguntósele de qué eran las casas en que habitaban, dijo que:
“—De tierra eran las tapias, muy bien hechas, y unas cintas que las cercaban de oro, y que los señores se sirven con oro y que no había visto plata ni la había.
“Preguntado en qué adoraban estos indios, dijo que:
“—En una guaca que tienen, y dentro de ella un bulto y persona hecha de oro.
“Preguntado qué le ofrecían, dijo que:
“—Unas piedras azules, coloradas y blancas, y mucho oro y ropa de algodón y lana de todos los colores, muy galanas y pintadas.
“Preguntado qué lenguaje tenían, dijo que:
—Sabía que entendían la lengua de D. Sebastián Camanchac.
‘‘Avisáronlo que si todo lo que había dicho era verdad, porque donde no le castigarían, y refirió ser así ut supra, y que las balsas que tenían eran de palo.

*Altre fonti nel Web riportano Cadres. Non avendo accesso al manoscritto o a sue trascrizioni di buona qualità, non so risolvere la questione.

La spiegazione più logica è che si tratti di un viaggio, certo, ma non nell'accezione strettamente fisica del termine. In altre parole si tratterebbe di visioni causate dall'uso di qualche sostanza allucinogena. La cosa non deve stupire: è ben nota la passione che i Changos avevano per le sostanze intossicanti, l'unico genere di lusso nelle loro vite di uno squallore desolante. Arrivavano a importare foglie di coca da Atacama, e non è improbabile che usassero qualche fungo dotato di strane proprietà. Sappiamo anche che mangiavano radici chiamate coroma, termine che rimanda alla voce coro, che nella lingua Kakán dei Diaghiti indicava un'erba tossica in grado di produrre visioni. Per inciso, questa notevole voce del sostrato Kakán è tuttora viva nel Quechua di Santiago del Estero (koro è glossato "un tipo di erba"). Non sono in grado di identificare la pianta e di fornirne il nome scientifico. Questo è il brano di Juan Lozano Machuca, tratto da una sua lettera al Viceré del Perù, che riporta anche alcuni etnonimi dei Changos, al momento non analizzabili:

Junto al Cerro Escala hay 4 pueblos de indios "uros", que se llaman Palolo, Notuma, Horomita, Sochusa, gente pobre que no siembran ni cogen y que se sustentan de caza de guanacos y vicuñas, y de pescado y de raices que hay en ciénegas, que llaman "coroma".

Il fatto che i cronisti chiamassero Uros i Changos non deve stupire: si pensa che la denominazione sia stata loro attribuita per il modus vivendi che li caratterizzava, più che non per parentela genetica e linguistica effettiva con quegli Uru del Lago Titicaca che tanto ruolo ebbero nelle fantasie di Thor Heyerdahl e di Peter Kolosimo. Ad esempio si notino passi come questo, sempre di Lozano Machuca:

En la ensenada de Atacama ques donde esta el puerto, hay 400 indios pescadores "uros", que no son bautizados ni reducidos.

Dal momento che non ci fu nulla di simile a un Impero Incaico nelle Isole dei Mari del Sud, si deduce che siamo di fronte a un testo onirostorico. Le imprese di Chepo sono dunque qualcosa di molto simile ai viaggi di San Brendano, che visitò in estasi le Isole Settentrionali, estesi arcipelaghi pieni di meraviglie ma privi di qualsiasi corrispondenza con il mondo fisico. La spiegazione dovrebbe essere ricercata non soltanto nella neurochimica, ma anche nella mitologia, se si trattasse di un'impresa possibile - avendo i Changos smarrito completamente la loro cultura. Forse un giorno dagli archivi salteranno fuori dati molto interessanti che ci permetteranno di conoscere meglio quel popolo affascinante e di attribuire una parentela alla sua lingua perduta.

IL VIAGGIO TRANSOCEANICO DELL'INCA TOPA YUPANQUI: UN'UTOPIA ONIROSTORICA

Una storia mirabolante che ha per protagonista l'Inca Tupac Yupanqui (1430 - circa 1475) ci è stata tramandata nelle cronache incaiche da Pedro Sarmiento de Gamboa, Martín de Murúa e Miguel Cabello de Balboa. In sintesi, si racconta che il sovrano abbia intrapreso la via del mare su grandi zattere con ben 20.000 uomini, facendo ritorno dopo nove mesi e portando con sé un bottino alquanto strano: uomini dalla pelle nera, una sedia di ottone e la mandibola di un grande quadrupede, che gli Spagnoli hanno in seguito identificato con un cavallo.

Questo è il testo originale in lingua spagnola di Pedro Sarmiento de Gamboa:

“Andando Topa Inga Yupanqui conquistando la costa de Manta y la isla de la Puná y Túmbez, aportaron allí unos mercaderes que habían venido por la mar de hacia el poniente en balsas, navegando a la vela. De los cuales se informó de la tierra de donde venían, que eran unas islas, llamadas una Auachumbi y otra Niñachumbi, adonde había mucha gente y oro. Y como Topa Inga era de ánimos y pensamientos altos y no se contentaba con lo que en tierra había conquistado, determinó tentar la feliz ventura que le ayudaba por la mar… y… se determinó ir allá. Y para esto hizo una numerosísima cantidad de balsas, en que embarcó más de veinte mil soldados escogidos”. Y concluye la crónica: “Navegó Topa Inga y fue y descubrió las islas Auachumbi y Niñachumbi, y volvió de allá, de donde trajo gente negra y mucho oro y una silla de latón y un pellejo y quijadas de caballo…”.

El hecho es tan inusitado que Sarmiento se ve obligado a explicar: “Hago instancia en esto, porque a los que supieren algo de Indias les parecerá una caso extraño y dificultoso de creer”. 

Questa invece è la versione di Miguel Cabello de Balboa: 

“De este viaje, [Topa Inga Yupangui] se alejó de tierra más [de lo] que se puede fácilmente creer, mas cierto afirman los que sus cosas de este valeroso Inga cuentan, que de este camino se detuvo por la mar duración y espacio de un año y dicen más que descubrió ciertas islas a quien llamaron Hagua Chumbi y Nina Chumbi. Qué islas estas sean   en   el   Mar   del   Sur   (en   cuya   costa   el   Inga   se   embarcó),   no   lo   osaré determinadamente afirmar, ni qué tierra sea la que pueda presumirse ser hallada en esta navegación”.

Come interpretare queste portentose narrazioni? Ogni tentativo che si possa concepire per collocarle in un contesto reale appare votato al fallimento.

La cosa più logica che possiamo pensare è che l'Inca abbia raggiunto le isole conosciute ai nostri giorni come Galápagos o Encantadas. La descrizione geografica è a prima vista compatibile: l'isola di Niñachumbi (Nina Chumbi), alla lettera "Cintura di Fuoco", può ben essere La Isabela, che ha forma allungata e su cui si trovano ben cinque vulcani. Non va però nascosto che l'isola di Auachumbi (Hagua Chumbi), alla lettera "Cintura Esterna", non trova a parer mio alcuna reale corrispondenza nelle caratteristiche morfologiche dell'arcipelago. Occorre precisare che le isole Galápagos erano disabitate prima della loro scoperta casuale ad opera di Tomás de Berlanga nel 1535. Thor Heyerdahl, che godette negli anni '70 dello scorso secolo di una grande fama per via dei suoi viaggi transoceanici compiuti con la zattera Kon-Tiki e delle sue singolari teorie, riteneva che l'isola fosse già visitata e abitata regolarmente prima dell'arrivo degli Spagnoli. A riprova di questo indicò una certa quantità di vasellame peruviano. Tuttavia non è stato possibile datare i frammenti con sicurezza, e potrebbe anche darsi che il vasellame sia stato portato nell'arcipelago da navigatori spagnoli che se ne servivano per i loro quotidiani usi potori. Thor Heyerdahl non sarebbe mai stato in grado di fornire prove irrefutabili di stanziamenti preispanici. Esiste poi un altro dettaglio non trascurabile. Lo scopritore delle Galápagos ci testimonia che gli animali delle isole erano mansueti e non temevano l'uomo - cosa che non sarebbe stata possibile se la presenza umana fosse stata sufficientemente antica. Inoltre non si può per nessuna ragione trovare in tale arcipelago alcun manufatto di ottone, e neppure animali simili a cavalli. Una pelle di mammifero marino avrebbe potuto anche essere scambiata per il resto di un cavallo dai narratori spagnoli, ma per i restanti trofei non ci sono spiegazioni possibili. Quindi la destinazione di Tupac Yupanqui deve essere stata un'altra, oppure egli ha compiuto davvero il viaggio arrivando alle Galápagos, ma tutto il resto (le genti dalla pelle nera, la sedia d'ottone, etc.) è mera invenzione.

Numerose sono state le ipotesi fatte nel tentativo di razionalizzare la storia dei viaggi di Tupac Yupanqui. Si è pensato all'Isola di Pasqua, anch'essa al centro delle fantasie di Thor Heyerdahl. I nativi non sono più scuri di pelle degli antichi peruviani, semmai più chiari, inoltre non conoscevano la metallurgia né gli animali da traino. Tutti i loro manufatti erano ricavati dal legno, dalle conchiglie, dai gusci di tartarughe marine, dalla pietra. Siamo daccapo: incongruenze simili a quelle già viste nel caso delle Galápagos emergono e vanificano l'identificazione. Sul problema dei contatti precolombiani tra le genti di Rapa Nui e quelle dell'America Meridionale si è scritto molto. Sembra che nel corredo genetico di alcuni Pascuensi si sia trovata una certa percentuale di materiale attribuibile a contatti con Amerindiani (circa l'8%), ma i connubi potrebbero benissimo essere avvenuti in un'epoca successiva ai primi contatti con gli Europei - anche considerando la storia di deportazione e schiavitù degli isolani, che potrebbe aver portato a connubi con meticci sul continente. Alcuni pensano che siano stati i Polinesiani a raggiungere l'America, portando con sé alcune donne della terraferma. In ogni caso, non sembra che il viaggio di Tupac Yupanqui ci azzecchi molto. Suggerisco la lettura di questo interessante articolo: 


Mangareva apparirebbe a prima vista promettente, visto che tra i suoi sovrani annovera un certo Tupa, per giunta ricordato come uno straniero arrivato su zattera. Nonostante l'assonanza affascinante, non siamo affatto sicuri che si tratti del sovrano incaico. Un'assonanza di questo genere è molto facile a prodursi in una lingua polinesiana, la cui fonotattica ammette soltanto sillabe aperte. Come risaputo, gli stessi spagnoli hanno adattato il nome originale dell'Inca, Tupaq, trascrivendolo come Topa. È anche possibile che un polinesiano avrebbe trascurato la consonante postvelare finale -q, di suono molto aspro, ma questo non è affatto detto. Concreta è la possibilità che un indigeno di Mangareva avrebbe piuttosto adattato Tupaq come *Tupaka.  

In un blog, Articulos Cortos sobre el Peru antiguo, si parla di Tahiti e si identificano le isole descritte dai cronisti spagnoli con Huahine Nui e Huahine Iti, che l'autore interpreta dolosamente come "Cintura Grande" e "Cintura Piccola". Questo blogger non ha alcuna familiarità con le lingue austronesiane, o più in generale con qualsiasi lingua non sia quella ispanica. Il vocabolo tahitiano huahine non è affatto privo di traduzione, come egli sostiene. Significa pudendum muliebre, ossia vulva. In altre parole, è quel buco che le genti di questo paese idolatrano e a cui danno il nome di fica. Non dunque "Cintura Grande" e "Cintura Piccola", ma "Grande Fica" e "Piccola Fica". I toponimi non corrispondono affatto a quelli riportati da Sarmiento de Gamboa e dagli altri cronisti: il riferimento a un ipotetico termine per "cintura" è una pia illusione, al suo posto c'è la fica, non si fa menzione né del fuoco né dell'esterno. Per il resto, l'autore del blog riporta numerose inconsistenze. Ad esempio afferma il seguente sproposito: 

"Auachumbi y Niñachumbi son nombres que muy probablemente se fueron transformando al quechua, aunque “aua” y “niña” no tengan ningún significado reconocible (o sí, no lo sé)."  

I due toponimi sono certamente Quechua, anche se la trascrizione lascia a desiderare. I vocaboli hawa "fuori" (Ayakuchu hawa, Qhochapampa jawa /'xawa/, Qosqo hawa, Qasamarka sawa, Tucumán aa, etc.) e nina "fuoco" (comune a tutte le varietà) appartengono al lessico di base della lingua incaica. Ovviamente una persona può ignorare queste parole e nessuno può fargliene una colpa. È invece colpevole avere la possibilità di fare ricerche per appurare la verità su un argomento e non farlo, per poi asserire il falso a bella posta e diffondere disinformazione. Questo sembra proprio essere il caso.  

Se anche la spedizione incaica si fosse spinta fino in Melanesia, dove avrebbe scoperto genti dalla pelle nera, non avrebbe potuto trovarvi manufatti in leghe metalliche e neppure bestiame.

A questo punto, se volessimo salvare la storicità del racconto, resterebbero altre due possibilità: le Filippine e il Giappone. Entrambe le destinazioni sono a mio avviso troppo remote per essere prese in considerazione. Nelle Filippine sono tuttora stanziate popolazioni antichissime che gli Spagnoli chiamarono Negritos, stupiti dalla somigianza con i neri d'Africa, a parte la bassa statura. Si tratta degli Aeta e degli Ati, i discendenti di uno dei più antichi popolamenenti umani, di cui restano come testimonianza le popolazioni native della Papua Nuova Guinea, della Melanesia e delle Andamane. In Giappone simili pigmoidi dalla pelle scura dovevano essere presenti in epoca preistorica. Le difficoltà poste dall'ipotesi di un viaggio fino nelle Filippine o in Giappone sono insormontabili. Si capisce come l'arrivo di zattere dall'Oceano sarebbe stato un evento eccezionale anche in un paese come il Giappone, che aveva una civiltà molto progredita e la capacità di registrare gli eventi tramite la scrittura: sicuramente se ne troverebbe menzione nelle cronache locali. Allo stesso modo le Filippine non erano così isolate e tagliate fuori da influenze esterne come si potrebbe credere. È riportato che l'Islam cominciò a diffondersi nelle isole di Sulu e di Mindanao a partire dal XIII secolo, arrivando nei dintorni di Manila nella seconda metà del XVI secolo. La stessa venuta di esploratori europei si colloca in un tempo non troppo lontano da quello del fantomatico viaggio di Tupac Yupanqui, che avrebbe lasciato qualche traccia nella memoria degli isolani. Nel 1521 il navigatore portoghese Magellano a capo di una spedizione spagnola sbarcava nell'arcipelago, finendo ucciso in una rivolta dei nativi; nel 1565 veniva stabilita la prima colonia spagnola.

Analizzando bene tutta questa considerevole mole di informazioni, pensiamo alle difficoltà incredibili che l'impresa avrebbe comportato. Cosa avrebbero fatto l'Inca e il suo seguito in Polinesia? Anche se fossero giunti davvero fino a Rapa Nui, a Mangareva, a Tahiti o nelle Filippine, come avrebbero potuto ritrovare facilmente la rotta per fare ritorno a casa? Avrebbero condotto con sé genti negroidi, ma non gli ottimi navigatori polinesiani? Non avrebbero abbandonato le zattere utilizzando le migliori imbarcazioni della Polinesia? Le cronache ci parlano infatti di un viaggio transoceanico con ritorno. Eppure le possibilità di perdersi e di finire col morire di inedia nel bel mezzo dell'Oceano sarebbero state soverchianti. Per queste fondate ragioni sono incline a pensare che l'impresa marittima dell'Inca non sia un genuino fatto storico e che riguardi piuttosto il concetto di onirostoria.

domenica 28 febbraio 2016


IL MIRACOLO DELLA VITA
Terzo capitolo della Trilogia Fecale

Autore: Vinicio Motta
Anno: 2016
Genere: Scat Science Fiction (Fantascienza
      scatologica)
Pubblicazione: VERDE
    (mensile elettrocartaceo, autoprodotto e
    gratuito di protolettere, interpunzioni
    grafiche e belle speranze, fondato a Roma
    nell’aprile 2012 da Pierluca D’Antuono)

Link: https://verderivista.wordpress.com/
2016/02/08/il-miracolo-della-vita/

Illustrazione: Silvia Priska Benedetti (Dodici)

La Trilogia Fecale del grande Vinicio Motta giunge al suo compimento con questa gemma della letteratura scatologica, fulgido genere rivoluzionario che sta assumendo sempre più consistenza e che spero possa presto rivaleggiare con la fantascienza classica. Dopo il viaggio mistico in un condotto fognario, descritto nel precedente racconto Dallo scarico all'alba, il protagonista si ritrova su un pianeta desertico, dotato di un nuovo corpo il cui motore è un cuore fatto di escrementi umani. Anticiperò soltanto un breve accenno al tema centrale del racconto: la demiurgia che plasma umanoidi dal corpo composto interamente da sterco. A questo punto riporto l'incipit:

Sono un uomocacca, sono nato trentanove giorni fa su questo pianeta di sabbia e sono fatto perlopiù di carne: nel mio petto batte un cuore di merda arido e rovente come il deserto sotto i miei piedi. Ho fatto il giro del mondo centouno volte, ma di altri miei simili, finora, ahimè, neanche l’ombra. Il privilegio di battezzare il pianeta, quindi, immagino spetti a me. Lettiera?
Mmmh… suona bene. Sì, mi piace!
È deciso, allora: questo mondo, la mia casa, d’ora in avanti si chiamerà così:
Lettiera

Con una pisciata, spiano una duna. Osservo il risultato del getto poderoso del mio pene e mi sento un dio.
Interessante: il rilievo appena eliminato nascondeva qualcosa… Dalla sabbia impregnata di urina, spunta il vertice marrone di un oggetto a prima vista squadrato, che subito recupero con entrambe le mani.
Un cubo marrone.
Inutile. Ma tutto sommato affascinante.
Decido di tenerlo: mi terrà compagnia nel prossimo giro del mondo.

La miglior descrizione della vera natura dell'esistenza biologica a cui siamo condannati è contenuta nelle righe di questo capolavoro. Ogni nascita è una vera e propria immersione. Non ci sono speranze. Come recita un detto che spesso si incontra nel Web, l'anagramma di dream è merdaCi sono ottime possibilità che la meritoria opera continui con un prequel di Mercuriale sulfureo-scatologico, come si accenna sulla rivista VERDE. Mi spingo più in là ancora. Mi  auspico che verrà alla luce un romanzo di Scat Science Fiction e che vincerà il Premio Urania! Ovviamente sono sempre benvenuti feedback dell'autore, persona geniale di cui ho la massima stima e che colgo l'occasione per salutare.

venerdì 26 febbraio 2016

UNA SEMPLICE SPIEGAZIONE DEL PARADOSSO DI FERMI

Il paradosso di Fermi costituisce un problema che toglie il sonno a non poche persone, al punto che pur di risolverlo sono proposte a getto continuo nuove teorie che vanno al di là delle peggiori elucubrazioni complottiste. Mi sono persino imbattuto in questa spiegazione: l'Universo in cui viviamo sarebbe una simulazione computerizzata tipo Matrix, in cui siamo tenuti imprigionati da una specie aliena o da un'umanità futuribile. A causa della limitata potenza di calcolo delle sue macchine (riecco il solito risibile concetto kurzweiliano), solo la Terra sarebbe simulata in ogni dettaglio, mentre le regioni cosmiche ad essa vicine sarebbero simulate in modo semplificato, e le più lontane sarebbero soltanto sfondi senza spessore alcuno, in tutto simili ai villaggi Potëmkin. Non so quale teoria godrebbe di maggior plauso nell'Accademia di Lagado. L'Universo di Matrix o la farneticante idea cospirazionista della Terra Piatta?

In realtà le cose potrebbero essere ben più semplici di come le si immagina.

Le civiltà extraterrestri che non si autodistruggono prima di poter lasciare il proprio pianeta d'origine e iniziare a viaggiare nello spazio, utilizzano le comunicazioni tramite onde radio solo per un periodo molto limitato di tempo, prima di passare a forme di comunicazione più sofisticate e finora a noi non rilevabili. È ben possibile che in uno stesso tempo coesistano pochissime civiltà che usano onde radio, e talmente distanti tra loro da non essere rilevabili. I segnali radio infatti tendono a perdere coerenza a una certa distanza dalla sorgente che li emette, così con i mezzi a nostra disposizione potremmo rilevare soltanto civilltà che usano onde radio e che sono a noi sufficientemente vicine.

L'idea che una civiltà extraterrestre debba necessariamente inviare segnali nello spazio allo scopo di contattare altre forme di vita è dovuta a un ingenuo antropocentrismo. Soltanto il buonismo melenso che infesta l'Occidente dalla fine dell'ultima guerra mondiale ha potuto portare a una trovata tanto idiota come questa. Ha giocato molto quel ricettacolo di imbecillità che è il film di Spielberg, E.T., un film uterino, umorale e studiato per far secernere agli spettatori flussi di prolattina. Lo stesso Carl Sagan, già sconvolto dalle avances subite da un delfino maschio in una piscina, ne fu stregato. Detto questo, è tuttavia ben possibile che non ci siano in un raggio di molte migliaia di anni luce civiltà tanto idiote come quella americana. 

Abbiamo tuttavia ragione di essere molto pessimisti sulla possibilità che una civiltà extraterrestre possa arrivare a liberare il potere dell'atomo e a governarlo tanto bene da poter lasciare il proprio pianeta ed espandersi nello spazio esterno. In altre parole, tutte le civiltà tecnologiche sarebbero effimere e arriverebbero al collasso nel giro di pochi secoli a causa delle immense criticità provocate dal loro stesso sviluppo. Le stime dell'equazione di Drake, che valutano la durata media di una civiltà tecnologica nell'ordine di 10.000 anni, sono completamente assurde. Anche se non disponiamo di dati sperimentali, possiamo comunque fare qualche considerazione e giungere a conclusioni che non lasciano un grande spazio a futili speranze. Nell'epoca del Positivismo era diffusa la credenza secondo cui l'etica debba per necessità andare di pari passo col progresso tecnologico, tanto che si pensava che una civiltà progredita non potesse compiere atti mostruosi. Basta dare un'occhiata alla storia del XX secolo e agli eventi dei nostri giorni per rendersi conto di come una simile idea sia di una stupidità davvero incredibile. Di certo mi sentirei più a mio agio su un pianeta abitato da tribù paleolitiche simili ai Tasmaniani o agli Alakaluf che in un regime teocratico capace di costruire centrali termonucleari.  

Così come le leggi della fisica sono le stesse ovunque in questo universo, si può immaginare che la biologia, dovunque abbia la possibilità di allignare, si presenti con caratteristiche del tutto simili a quelle che ben conosciamo, essendo dovunque lo stesso il materiale su cui si fonda la replicazione di codici atti a contenere informazioni. In sostanza non esistono migliaia di alternative, ma una sola strada percorribile. Così possiamo immaginare che ovunque vi siano organismi pluricellulari, la riproduzione sia sessuata e fondata sull'accoppiamento. Ciò genera ovunque competizione e aggressività. Così il gene economo o un suo equivalente sarà pure presente ovunque, perché in ogni luogo la vita dovrà combattere contro mille avversità per garantirsi il sostentamento. Da questa istruzione nascono l'avidità, la bramosia, la smania di possedere risorse, la tenzenza all'espansione a detrimento di altri. Così si pongono le basi per la devastazione su scala planetaria. Qualsiasi forma di vita aliena sarà del tutto simile alle forme di vita terrestre: stesse pulsioni, stessi comportamenti. Di più, qualsiasi forma di vita aliena intelligente sarà ontologicamente affine al bipede implume e ovunque si comporterà nello stesso identico modo, esaurendo le risorse, riproducendosi a dismisura. Non appena si manifesta l'intelletto, là si manifestano schiavitù, guerra e distruzione su vasta scala. L'esito scontato di tutte le civiltà su tutti i mondi in cui sono comparse dall'alba dei tempi, sarà uno solo: l'annientamento.

In sintesi: 

1) Non tutti i pianeti terrestri sviluppano la vita
2) Non tutti i pianeti terrestri che sviluppano la vita arrivano a organismi pluricellulari
3) Non tutti i pianeti terrestri che sviluppano organismi pluricellulari arrivano a produrre vita animale
4) Non tutti i pianeti terrestri che sviluppano vita animale arrivano a produrre intelligenza
5) Non tutti i pianeti terrestri che producono intelligenza arrivano a produrre una civiltà tecnologica
6) La vita delle civiltà tecnologiche è incredibilmente breve.

Quanti pianeti terrestri sviluppano davvero la vita? Non è certo incoraggiante un recente studio di Erik Zackrisson di Uppsala pubblicato su The Astrophysical Journal, che basandosi su un modello è arrivato a una conclusione che ha dell'incredibile: su 700 milioni di trilioni di pianeti di tipo terrestre che si stimano presenti nell'Universo conosciuto, non ce ne sarebbe nessuno davvero simile alla Terra.

Questi sono i link a due articoli divulgativi sull'argomenti, che invito tutti a leggere: 



Questo è il link che permette la consultazione e lo scaricamento in formato .pdf del documento originale di Zackrisson, completo di formulazione matematica:


L'articolo si presta a non poche critiche. Innanzitutto quanto dedotto non viola in alcun modo il Principio Copernicano: se la Via Lattea è una galassia abbastanza anomala, dal punto di vista geografico continua a non esserci nulla di speciale nel nostro sistema solare all'interno di tale struttura cosmica. Certo, è una galassia relativamente tranquilla e priva di un nucleo attivo, di spaventosi flussi di raggi cosmici in grado di sterilizzare milioni di mondi, tuttavia è soltanto pulviscolo nel pulviscolo. Già qualche gonzo grida al miracolismo e cerca di riproporre la favola dell'Uomo metro e misura di tutte le cose, del Principio Antropico come fine ultimo dell'Esistenza. Non ci potrebbero essere sentenze più stolte. Se le conclusioni dello studio venissero confermate, salterebbe subito all'occhio la stridente irrilevanza della vita sulla Terra, la nullità sostanziale di questo fenomeno assolutamente microscopico, con ogni probabilità accidentale, che non può in nessun modo essere ritenuto lo scopo di un Universo sterile e di una vastità atroce. Max Tegmark del Massachusets sostiene che la supposta violazione del Principio Copernicano sarebbe dovuta più che altro alla giovane età della Terra. A suo dire, il nostro pianeta sarebbe tra i primi mondi abitabili nell'Universo. La sua teoria mi lascia perplesso. Se i sistemi plantetari più antichi si sono formati in un'epoca in cui gli unici elementi abbondanti erano l'idrogeno e l'elio, col passare del tempo si è giunti a mondi ricchi di elementi più pesanti, tra cui quelli indispensabili alla vita. Immagino che col passar dei miliardi di anni, questa abbondanza di elementi pesanti crescerà ancora, finché avremo pianeti molto diversi da quelli che si sono formati finora. Come sarebbero pianeti sovrabbondanti di elementi pesanti, ricchissimi di metalli e poveri di materiali leggeri? Siamo proprio sicuri che potrebbero essere una valida culla per la biologia? Se noi abbiamo ragione di credere che si stia esaurendo l'età dell'oro della produzione di mondi atti a ospitare la vita, vediamo la sua conseguenza più ovvia: siamo tra le ultime civiltà a perdurare in un cosmo sempre più simile a un immenso cimitero, a un luogo benedetto dove finalmente regnerà la Pace Eterna.

Esiste tuttavia un'altra possibilità. Il nostro sistema solare: una collezione di oggetti del tutto incongrua nell'Universo. Un po' come un orologio in un immenso deserto. La conclusione possibile è una sola: si tratta di un sistema planetario artificiale. Un'altra civiltà deve esistere, ma deve aver avuto origine in una qualche orrenda superterra e ha ottimi motivi per non comunicare con le proprie creature, non diverse da cavie in un laboratorio di vivisezione. In altre parole non è Matrix il film che meglio descrive la realtà delle cose, ma Prometheus.

sabato 20 febbraio 2016

L'ARGOMENTO DELL'ALTERNANZA TRA VOCALE SEMPLICE E DITTONGO: UNA CONFUTAZIONE

Mi sento in dovere di fare alcune considerazioni sui dittonghi in latino e su interessanti paralleli tra la pronuncia rustica che sostituisce una e chiusa al dittongo ae, di cui abbiamo già avuto occasione di parlare. Varianti ortografiche come ceterus, caeterus, coeterus son prese come prove dai soliti sostenitori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno: per loro esiste una sola spiegazione possibile, ossia l'inesistenza dei dittonghi ae ed oe.

I nostri avversari tuttavia non considerano minimamente alternanze del tutto analoghe a quelle di cui sopra, in cui una forma con dittongo au alterna con una forma con o, come ad esempio codex rispetto a caudex; plotus rispetto a plautus; Clodius rispetto a Claudius; foces rispetto a faucesplodere rispetto a plaudere, etc.

Perché dunque i sostenitori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno non usano un argomento simile a quello dell'alternanza tra ae, oe, e per affermare che au si pronunciasse o e che fosse un mero dittongo grafico? Essi usano due pesi e due misure: le varianti ceterus, caeterus, coeterus bastano a far dire loro che ae e oe non esistevano, e che solo e era reale, mentre plotus : plautus e Clodius : Claudius non fanno dir loro che au non esisteva e che la pronuncia era o. Essi si guardano bene dall'affermare una simile enormità, perché hanno per guida la pronuncia ecclesiastica, che riproduce au come dittongo indipendentemente da ogni sua alternanza con o, mentre realizza ae e oe come un monottongo e. Non salta loro all'occhio questa incoerenza interna dell'argomento dell'alternanza tra vocali semplici e dittonghi.

In alcuni di questi casi siamo di fronte a ipercorrettismo: non si ha cioè un dittongo au originale. Così ausculum per osculum /'o:skulum/ "bacio", un chiaro diminutivo di os /o:s/ "bocca". In realtà è ben possibile che forme anche come caeterus e coeterus fossero semplici ipercorrettismi: non è affatto detto che la loro pronuncia fosse la stessa in epoca classica, ma è ben possibile che corrispondessero a tre pronunce ben distinte come ben distinti erano au e o; quindi il valore probante di queste varianti è esattamente pari a zero.

La vocale o per au era rustica e di possibile origine umbra, e il suo suono era chiuso. Non aveva a che fare con gli sviluppi romanzi di au, che hanno invece generato una /ɔ/ aperta. L'occorrenza di questo suono, ritenuto volgare, poteva contagiare anche l'Urbe: sappiamo che vi erano Claudii che chiamavano se stessi Clodii per dimostrare simpatia verso la plebe.