mercoledì 24 agosto 2016


EPEPE

Titolo originale: Epepe
AKA: Metropole
Autore: Ferenc Karinthy
Genere: Romanzo
Sottogenere: Letteratura mitteleuropea, romanzo
     kafkiano, romanzo distopico  
Lingua originale: Ungherese
1a pubblicazione: 1970
1a edizione italiana: 2015
Editore italiano: Adelphi
Traduzione: Laura Sgarioto
Codice ISBN: 978-88-45-97662-9

Trama:
Budai è un linguista poliglotta ungherese che deve partecipare a un convegno internazionale a Helsinki. Così prende l'aereo, ma anziché giungere a destinazione, si ritrova in una città non identificabile in cui tutti parlano una lingua a lui del tutto sconosciuta. Per il protagonista è l'inizio di un inimmaginabile inferno in un ambiente dall'opprimente densità di popolazione. Portato da un pullman in un albergo, Budai consegna a un funzionario della reception i suoi documenti e il suo assegno di viaggio, ricevendone in cambio una certa quantità di denaro e la chiave di una camera. Subito si accorge che ogni tentativo di comunicare con gli autoctoni è assolutamente vano: in qualsiasi lingua a lui nota cerchi di dire qualcosa, nessuno è in grado di afferrare neppure una sillaba. Anche la scrittura è di origine ignota, soltanto i numeri arabi sono ben riconoscibili in un mare di inestricabili ideogrammi. Pur essendo avvantaggiato rispetto a una persona di media istruzione, l'esule magiaro non riuscirà a trovare il bandolo della matassa. 

Recensione:
Epepe materializza gli incubi kafkiani che hanno a lungo dominato i paesi del blocco comunista, in cui la riduzione dell'individuo a un atomo di una società disumanizzante era considerata un'utopia da perseguire con ogni mezzo. Davvero singolare che sia stata permessa da quei regimi orwelliani l'espressione abbastanza libera di queste inquietudini nell'arte, ad esempio nei cartoni animati in cui si vedevano persone inghiottite da folle immense e grigie che uscivano come una marea spaventosa da edifici simili ad alveari umani, sotto un cielo di piombo. Forse il fine era quello di demoralizzare le persone fin dalla tenera infanzia per fiaccare ogni possibile germe di individualismo, di certo non quello di mettere in guardia da un'agghiacciante distopia. Siamo di fronte a qualcosa come l'architettura della Germania Est, con i suoi casermoni color merda, progettati per uccidere sul nascere l'anelito di libertà.

Incomunicabilità assoluta

L'unico contatto che Budai riesce ad instaurare con una persona della metropoli sovraffollata è destinato a risolversi in modo drammatico. Si tratta della ragazza bionda il cui supposto nome, che lo studioso ungherese non è capace di trascrivere foneticamente, dà il titolo al romanzo. Epepe, ma anche Bebe, Bebebe, Tetete, Tjetjetje e via discorrendo, tanto incerta è la natura dei fonemi della lingua di quel paese enigmatico. La sua professione è quella di ascensorista: Budai riesce a conoscerla durante i suoi penosissimi spostamenti da un piano all'altro dell'albergo. Cerca di conversare con lei durante le pause, quando i due si rifugiano in un ambiente appartato all'ultimo piano. Dai faticosi tentativi di apprendere la lingua, lui riceve ben poco giovamento. In occasione di un blackout, Epepe si rifugia nella camera di Budai, gli eventi precipitano e i due finiscono a letto. Dopo aver copulato litigano in modo furioso: lei ripete una parola in ungherese pronunciata dall'uomo, che pensa di essere preso in giro e comincia a percuoterla. Dopo averla ridotta a un cencio, si pente e implora il suo perdono: lei si eccita ed ha inizio una nuova copula, ancor più focosa della prima. Un episodio che scandalizzerà non pochi lettori, dato che descrive una sessualità manesca e irruenta d'altri tempi, quando la donna era considerata un oggetto. A seguito di questa avventura, Budai perde l'unico appiglio che gli è rimasto, finendo col diventare un vagabondo in una terra ostile.   

Vane ipotesi

Cos'è realmente il mondo in cui Budai si trova imprigionato? Un altro pianeta? Una dimensione parallela? Un'altra linea temporale? La Terra di un remoto futuro? Che sia un mondo diverso dal nostro lo si capisce immediatamente. Le leggi fisiche non sono esattamente le stesse. Sembra che persino l'incredibile ammassarsi di persone in ogni spazio disponibile obbedisca a qualche forma di fluidodinamica in cui non vigono gli stessi parametri caratteristici del nostro universo. Come spiegare l'assoluta estraneità della lingua a ogni nozione a noi familiare e al contempo l'uso dei nostri stessi numeri arabi? Come sono giunte le cifre in quella terra sconosciuta? Da una parte si sarebbe portati a pensare che sia esistito un contatto che ha portato all'adozione dei numeri arabi, ma dall'altra non si riesce a farsene una ragione. Così le costellazioni in cielo sono quelle che conosciamo, ma la religione non è cristiana e nemmeno islamica, ebraica, buddhista o altro che possiamo descrivere. Quadri appesi alle pareti fanno presupporre l'esistenza di terre incontaminate con montagne e mari, tuttavia per quanto Budai può saperne la città non ha confini, si estende a perdita d'occhio senza che si riesca a scorgere qualcosa di diverso. Ogni teoria fallisce, non spiega proprio nulla e cade in contraddizione con i dati di fatto.     

Uno scontro razziale in discoteca

Un episodio bizzarro mi ha particolarmente colpito. In un mondo in cui tutti i tipi umani sono rappresentati, dal nordico all'ottentotto, dal cinese al patagone, all'improvviso accade qualcosa di imprevisto. In una discoteca ctonia due compagnie si scontrano: una è formata da bianchi, l'altra da neri. Tanto violenta è la rissa che scaturisce da un futile motivo, che presto si arriva a un accoltellamento. In quell'umanità la genetica sembra funzionare in uno strano modo. A differenza di quanto accade sul nostro pianeta, i vari fenotipi non sono miscibili, ma coesistono come l'aqua e l'olio in una bottiglia: per quanto si agiti il contenitore finiranno col separarsi, simile attraendo simile e allontanandosi dal dissimile. Senza dubbio è un'interessante metafora, anche se non si capisce bene di cosa.

La conlang di Epepe

Riporto in questa sede le magre nozioni della lingua del mondo distopico di Epepe, ricavate dalla lettura del libro. Innanzitutto c'è la descrizione, seppur insoddisfacente, del sistema numerale: 

dütt, uno
klooz, grooz, due
tösh, baar, tre
gedirim
, quattro
baar, tösh, cinque (*)
kus, sei
rod, dod, sette
hodod, otto
dohodod
, nove

ezrez, dieci

(*) L'autore commenta: "stranamente, il 3 e il 5 sembravano intercambiabili, o forse solo lui non era capace di distinguerli." Forse le due diverse forme servono a distinguere gli esseri animati o umani da quelli inanimati o non umani, anche se non è chiaro perché solo in questi numerali si manifesti la distinzione. La diversità tra i numerali 3 e 5 potrebbe essere tonale, anche se è chiaro che qualcosa non quadra. L'autore deve aver inserito questa indeterminazione per aumentare il senso di mistero e di inquietudine nel lettore. 

I numerali hodod "otto" e dohodod "nove" sono palesemente formati a partire da rod, dod "sette" tramite l'uso di suffissi. Inutili i tentativi fatti dal protagonista di collegare alcuni numerali con i loro equivalenti in lingue note: si tratta di semplici assonanze, e per giunta alquanto vaghe. "Certo, con un po' di fantasia il gedirim (4) poteva essere assimilato al russo četyre, il kus (6) al kuusi del finlandese, l'ezrez (10) all'ashr dell'arabo." 

Una forma che ricorre spesso nelle conversazioni è identificata come un pronome: 

klött "Lei, Voi" 

Forse si tratta di una forma di origine onorifica, come l'italiano Vossignoria. Sono attestate le varianti klütt e glütt. Quando Budai viene espulso dall'albergo per insolvenza, gli viene contestato il mancato pagamento del conto di due settimane con questa frase: 

"Tuluplubru klött apalapala groz paratléba... Klött, klött, klött...! 

Si distingue il numerale groz "due", sopra riportato come klooz, grooz, in una forma atona. Si deduce che paratléba deve esprimere il concetto di "conto". Qui il klött assume una sfumatura di accusa.

Poche traduzioni si possono ottenere in modo abbastanza sicuro dal contesto narrativo: 

chlom brattibratt "hai da accendere?"
durung! "smettila!"

je duruntj "la devi smettere"


Durante lo scontro razziale tra bianchi e neri alla discoteca, volano esclamazioni insultanti come "Durumba!" e "Undurumbunda!" Si nota che il morfo durum- potrebbe essere lo stesso che compare in "Durung!" e in "Je duruntj"

Budai ha stilato, con immensa fatica, un elenco di vocaboli scelti tra quelli più tipici della vita urbana nel mondo moderno, che dovrebbero essere internazionali, parole come "cacao", "cioccolato", "caffè", "arancia", "taxi", "hotel", "buffet", "aeroporto", "ambasciata", ma non ne menziona nessuno, limitandosi a constatare che nessuno è formato a partire da radici note. Ci è anche riportato un inno rivoluzionario, soltanto che ci manca la traduzione e non abbiamo il benché minimo elemento per capirci qualcosa:  

Cetec topa debette
E
tek gl
ö chri fefee
Bügiüti gnemelaga
Pecice... ! 

Durante la rivolta, i militari urlano alla massa degli insorti prima la parola "Cetencia!" e poi una sua variante, "Cetencio!" Si potrebbe pensare che sia un adattamento dell'italiano "sentenza", intesa come "condanna"? Non mi faccio illusioni in proposito: in un diverso contesto un poliziotto usa la parola "cetence" in una domanda. Budai cerca disperatamente di aggrapparsi a qualcosa di noto, così ipotizza che la lingua possa avere in comune qualcosa con le lingue altaiche come il turco o con le lingue uraliche come il magiaro e il finlandese, a causa della grande frequenza dei suoni bemollizzati ö, ü, che in diverse sequenze sembrano obbedire a un principio di armonia vocalica. D'altro canto le parole pronunciate dalla ragazza bionda, Epepe, sono caratterizzate da una fonetica un po' diversa, con abbondanza del suono laterale -tl- e uscite in -lli che ricordano il Nahuatl, anche se non sussiste alcuna relazione tra le due lingue. "Jejee tlehuatlan... muula tlalaalli?", dice Epepe in un'occasione. E ancora: "Tuulli ulumulu alaulp tleplé..." Forse la lingua usata dagli uomini è un po' diversa da quella usata dalle donne, come avviene tra diversi popoli indigeni delle Americhe. Sarebbe interessante sottoporre tutte le frasi riportate a un'analisi serrata per vedere se si riesce a estrapolare qualcosa ancora. Purtroppo temo che il materiale sia insufficiente e dubito che l'autore abbia interesse a fornircene di nuovo. Non escludo che all'origine della creazione di Karinthy possano esserci suoi episodi di glossolalia. 

sabato 20 agosto 2016


SOTTOMISSIONE

Titolo originale: Soumission
Autore: Michel Houellebecq
1ª ed. originale: gennaio 2015
1ª ed. italiana: 2015
Editore italiano: Bompiani
Genere: Romanzo
Sottogenere: Fantapolitica, romanzo distopico
Lingua originale: Francese
Traduttore: Vincenzo Vega
Codice ISBN: 978-88-45-27870-9
Ambientazione: Francia
Protagonisti: François
Coprotagonisti: Myriam
Altri personaggi:
    Marie-Françoise 
    Tanneur
    Godefroy Lempereur 
    Robert Rediger
    Steve

Trama:

Siamo in Francia nel 2022. Il secondo mandato di François Hollande sta per finire. Le alternative sono due: il Fronte Nazionale di Marine Le Pen e la Fratellanza Islamica di Mohammed Ben Abbes, che riesce a vincere al secondo turno con l'appoggio dei socialisti, dei liberali e dei moderati. Mohammed Ben Abbes sceglie con cura la sua strategia. Impone una versione soft della Shari'a, che se da un lato cambia radicalmente la condizione della donna nella società, dall'altro lascia alcune valvole di sfogo, come il libero uso delle bevande alcoliche, permettendo persino ai docenti universitari di festeggiare la loro conversione all'Islam con un cocktail party.
François è un docente universitario intrappolato in una vita mediocre e bidimensionale. La frattura con il passato giunge tra capo e collo. Gli sconvolgimenti politici che ridisegnano il volto della Francia non risparmiano le istituzioni scolastiche: la Sorbona diventa un'università islamica finanziata dall'Arabia Saudita. François fa qualche debole tentativo di resistere al nuovo corso degli eventi e all'influenza pervasiva della religione musulmana. Cerca conforto spirituale prima a Rocamadour, poi nell'abbazia di Ligugé, due luoghi altamente simbolici. A Rocamadour si trova un'immagine della Vergine Nera che fu venerata da sovrani e santi nel corso della storia della Francia, mentre Ligugé fu il ritiro monastico dove Joris-Karl Huysmans andò a vivere come oblato in seguito alla sua conversione. Eppure François in quei luoghi non riesce a trovare nemmeno una ragione per aggrapparsi alla religione cattolica, ormai defunta e ridotta a un fantasma senza colore incapace di comunicare alcunché a un intellettuale laico. La seduzione esercitata dal parolaio Rediger è potente, troppi sono i benefici promessi, tra cui uno stipendio triplo e la possibilità di prendere giovani studentesse come mogli e concubine. Siamo di fronte al primo caso noto di una conversione all'Islam ottenuta tramite libagioni alcoliche, un colpo di scena degno del migliore teatro giapponese.  

Recensione:

Anche se quasi tutti ne dicono peste e corna, a me quest'opera di Houellebecq è piaciuta. Certo, è un libro controverso e alcuni suoi assunti suscitano in me non poche perplessità, tuttavia gli spunti di riflessione che suggerisce sono degni di essere sviluppati. 

Il Decadentismo è presente in tutto il romanzo attraverso la figura di Joris-Karl Huysmans. Il percorso dello scrittore ottocentesco, che lo ha portato alla conversione e al pentimento - il suo meme più ossessivo è l'ammissione di avere il cuore "indurito e affumicato dai bagordi" - si rivela tuttavia posticcio. Un attento studio porta François ad individuare nel cambiamento di Huysmans un puro e semplice tic naturalistico, ora della fine una posa. Quelle che Houellebecq illustra per bocca del suo personaggio sono conclusioni originali e a parer mio meritorie, a cui tanti studiosi universitari non erano mai arrivati. Seguiamo dunque l'autore di Là-bas nelle sue peregrinazioni terrene. Dopo una vita trascorsa nei labirintici meandri del Ministero dell'Interno e dei Culti (il "maledetto ufficio"), costretto alla squallida cucina delle mense, tra formaggi desolanti e sogliole temibili, ha infine trovato scampo dai fratacchioni, che notoriamente da qualche secolo a questa parte hanno sviluppato una certa allergia nei confronti della vita ascetica. Appurato che il grande Huysmans fu un poser, attratto più dalla buona cucina borghese che dal concetto stesso di Spirito, cosa resta più al tormentato François? Tipico esemplare del genere umano postmoderno, nudo e balbuziente di fronte al concetto stesso di Verità, non riuscirà a reggere al trauma: la sua sola alternativa sarà la sottomissione alla Volontà di Dio.

Assenza di contenuti profetici

Stupisce che in tutto il romanzo non si faccia la benché minima allusione allo Stato Islamico e agli attentati terroristici che hanno sconvolto la Francia. Il terrorismo è il grande assente dalle pagine di Sottomissione. In un passaggio vengono menzionati i salafiti, che protestano perché il regime di Ben Abbes ammette troppe immoralità e non impone una reale applicazione della Shari'a. Vengono anche menzionati scontri violenti tra gli identitari e gli attivisti islamici durante le presidenziali, episodi al limite della guerra civile, ma questa ondata di violenza è destinata a spegnersi in breve tempo: non si ha nulla che somigli davvero alla realtà in cui viviamo. Se vogliamo considerare Houellebecq un profeta, non possiamo fare a meno di notare che ha fallito, non essendo riuscito a prevedere l'attuale corso degli eventi, che pure era in formazione o già in pieno sviluppo mentre lui stava dando vita alla sua opera.

Natura ucronica del romanzo

Ci si rende conto che qualcosa non quadra quando si legge che la Siria ha presentato domanda di adesione all'Unione Europea allargata governata da Ben Abbes: evidentemente nel corso storico narrato da Houellebecq non si è mai verificata la guerra civile. Non c'è mai stata la scintilla che ha fatto esplodere la rivolta, Assad non ha mai bombardato i ribelli, Aleppo e Homs non sono mai diventate cumuli di macerie. Il romanzo è stato annunciato nel dicembre del 2015, pare quindi che sia stato scritto durante il 2014. Eppure tutto si spiegherebbe molto meglio se si assumesse che sia stato scritto molto prima, già nel 2011 e tenuto nascosto dall'autore. Tutto è molto semplice. Nel dicembre 2010 è esplosa la crisi del pane in Tunisia, che ha raggiunto il suo apice nel gennaio 2011, provocata dalle sciagurate e irrealistiche politiche di coltivazione di vegetali destinati alla produzione di biocarburanti. I politicanti non hanno pensato che sottrarre terra all'agricoltura per produrre il biodiesel avrebbe avuto conseguenze. La crisi del pane ha innescato le cosiddette Primavere Arabe, che le nostrane Eumenidi femministe hanno salutato come "trionfo della democrazia". Questo vento di Primavera Araba si è spento in fretta quasi ovunque, soffocato dalla repressione, portando però a una ribellione di vaste proporzioni in Siria e alla disastrosa guerra civile. Complice una gravissima siccità, si sono instaurate le condizioni di instabilità che hanno portato all'ascesa dello Stato Islamico, con tutte le spaventose conseguenze che questo ha avuto a livello mondiale. Quindi il Punto di Divergenza tra la nostra realtà e gli eventi ucronici narrati da Houellebecq è per necessità anteriore alla crisi del pane e alle Primavere Arabe. 

Mohammed Ben Abbes, l'Augusto musulmano 

Figlio di un droghiere tunisino e maestro di taqiyya, Mohammed Ben Abbes riesce ad imporre una sua singolare visione politica che affonda le sue radici nell'Antica Roma e in particolare nella figura di Ottaviano Augusto, il fondatore dell'Impero. Egli intende far rivivere quella grandiosa costruzione nel XXI secolo, utilizzando come collante religioso l'Islam. Questo ambizioso progetto gli riesce così bene che non soltanto ripristina l'antica unità di Roma Imperiale, ma estende il suo dominio anche a regioni che non erano mai state soggette all'autorità dell'Urbe, come la Germania e il Nordeuropa. Mohammed Ben Abbes diviene il restauratore della continuità territoriale e culturale del mondo classico, che era stata infranta proprio dalla comparsa dell'Islam. Cosa rende sommamente improbabile la comparsa di un simile genio politico? Il fatto stesso che nella realtà i maestri di taqiyya non hanno la necessaria pazienza e non riescono a trattenere le teste calde dal compiere azioni mostruose. Sono proprio questi atti sanguinari e ributtanti che hanno inoculato nelle genti delle nazioni europee una benedetta e salvifica diffidenza nei confronti della religione di Maometto, ostacolandone la diffusione.

Pratiche sessuali dimenticate

A un certo punto François evoca il ricordo di una lettura sui bordelli della Belle Epoque, affermando di aver provato un autentico choc nel constatare che certe pratiche sessuali menzionate gli erano totalmente sconosciute. Tra queste il "viaggio in terra gialla" e la "saponetta imperiale russa". Ne deduce quindi che siano cadute nell'oblio proprio come certi mestieri tradizionali. a quelle che chiama pratiche sessuali dimenticate. In realtà dopo un'attenta ricerca in siti francesi sono riuscito ad apprendere che il cosiddetto "viaggio in terra gialla" (voyage en terre jaune) è semplicemente il coito anale: la terra gialla è una metafora poetica dello sterco, una vera e propria kenning. Così faire dans la terre jaune e gouter la terre jaune sono locuzioni traducibili con être sodomite actif, se livrer a la pédérastie, mentre ne pas croquer de la terre jaune equivale a ne pas être sodomite actif. Ovviamente la terra gialla è rigorosamente unisex: questi detti possono applicarsi alla penetrazione anale di un uomo come di una donna. Il nome di tali rapporti è obsoleto, non certo la realtà descritta. Pensare che il protagonista descritto da Houellebecq possa ignorare questo lessico è poco credibile. Per quanto riguarda la "saponetta imperiale russa" (savonnette impériale russe), era una masturbazione lenta e sensuale eseguita con l'uso di sapone come lubrificante. L'operatrice doveva stare molto attenta a non far entrare del sapone nell'uretra del cliente. Era previsto un supplemento in caso di uso di "sapone del Congo" (savon du Congo).

Una grande verità

Non mi sono sfuggite le meditazioni sulla natura del desiderio maschile e sulla castità. In un mondo in cui i sessi vivono in uno stato di segregazione, la libidine dell'uomo tende ad affievolirsi fino a scomparire. A renderla un ardente fuoco dell'Inferno che tortura i viventi è proprio quella grande successione di tette e di culi femminili che pongono l'osservatore in uno stato febbrile, fino a farlo consumare nel desiderio di toccare, di leccare, di penetrare. Come in un perverso feedback, le tonnellate di pornografia nel Web, con tutti quei video di pompini maestosi e di buchi del culo stimolati oralmente, hanno reso possibile questa terribile tossicosi. Detto questo, un Mohammed Ben Abbes non certo è il rimedio: chiamare i piranha per cacciare i lucci non è una strategia molto furba. 

Reazioni nel Web:

L'amica N. considera sprezzantemente questo romanzo come il "diario di uno scopatore incallito". A dire il vero le descrizioni delle avventure erotiche del protagonista non mi sembrano così sconvolgenti, nulla che possa scandalizzare un navigatore di questi tempi, avvezzo a imbattersi in tonnellate di pornografia nel corso delle sue peregrinazioni nel Web. Più probabile che l'eterea N. intendesse fustigare un suo ex amante, a cui l'attribuzione dell'epiteto "scopatore incallito" potrebbe anche essere azzeccata. Tuttavia N. dimentica un piccolo dettaglio: per scopare bisogna essere in due.

Concludo con il link a un interessante articolo: 

lunedì 15 agosto 2016

PROVE ESTERNE E INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: LATINO PUGNA, PUGNUS E FORME CORRELATE

Risalgono chiaramente alla stessa radice pug- le parole latine pugnus "pugno", pugna "lotta", pugil "pugile" e pugillus "manciata".

Da questo si vede come la pronuncia restituta è la sola che possa spiegare l'origine e la formazione delle forme riportate, mentre coloro che sostengono la pronuncia ecclesiastica ab aeterno non possono dare spiegazioni sensate. 

Questa è la pronuncia che le parole in questione dovevano avere in epoca classica (/g/ è sempre l'occlusiva velare, ossia la g di gatto/ŋ/ è il suono velare dell'inglese song): 

pugnus /'pu(:)gnus, 'pu(:)ŋnus/
pugna /'pu:gnus, 'pu:ŋnus/

pugil /'pugil/
pugillus /pu'gillus/

Questa invece è la pronuncia ecclesiastica delle parole in questione (/dʒ/ è l'affricata postalveolare, ossia la g di getto/ɲ/ è la gn di ragno): 

pugnus /'puɲ(ɲ)us/
pugna /'puɲ(ɲ)a/

pugil /'pudʒil/
pugillus /pu'dʒillus/

Ancora una volta, i nostri avversari non possono spiegare in che modo sia possibile che un fantomatico scontro tra un'affricata /dʒ/ (la g di geco e una nasale /n/ possa aver prodotto una nasale palale /ɲ/ (la gn di ragno). 

Veniamo ora alle parole pu:milus e pu:milio: (gen. pu:milio:nis) "nano", che derivano da pug-, col significato originale di "uomo grande quanto un pugno". Chiaramente un antico nesso /gm/ si è semplificato, allungando per compenso la vocale precedente: le protoforme sono rispettivamente *pugmilos e *pugmilio: (secondo altri *pugsmilos e *pugsmilio:). Questo è inspiegabile per coloro che postulano la pronuncia ecclesiastica ab aeterno e  a partire dalle forme a loro note ricostruiscono una radice contenente un suono palatale.

La radice pug- del latino si trova anche in greco, e da essa deriva una serie di parole. La più nota è πυγμαῖος, che fu presa a prestito dal latino come pygmaeus, importata in italiano dotto come pigmeo - perfetto corrispondente etimologico e semantico di pu:milio: e di pu:milus. I Pigmei erano un popolo fantastico di uomini che a detta dei loro inventori non raggiungevano la statura di un cubito ed erano sempre in guerra con le gru.

Questi sono i dati riportati nel database di Sergei Starostin:   

Proto-IE: *pug(')-Meaning: fist

   Old Greek: pǘks `fäustlings, im Faustkampf', {pǘks = pügmḗ Hsch. - not found!}, pǘktǟ-s m., püg-mákho-s m. `Faustkämpfer', pügmǟ́ f. `Faust, Faustkampf; Längenmass (vom Ellbogen bis zu den Knöcheln)', pügṓn, -ónos m. `Längenmass (die Weute vom Ellbogen biz zum ersten Fingerlenk)'  
  
Latin: pugil, gen. -is m. `Fauskämpfer', pūgnus, -ī m. `Faust', pūgna f. `(Faust)kampf, Kampf Mann gegen Mann', pugillus m. `Handvoll' 

Ulteriori studi permetteranno forse di acclarare se la radice ricostruita sia davvero indoeuropea oppure se, data la sua limitata diffusione, debba essere considerata un relitto di sostrato.

domenica 14 agosto 2016

PROVE ESTERNE E INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: DIGNUS VIENE DALLA RADICE DI DECET E DI DECUS

Questo riporta il benemerito Sergei Starostin nel suo immenso dizionario etimologico The Tower of Babel a proposito della radice indoeuropea *dek'-, da cui provengono le parole latine dignus "degno", decet "si addice", decus, gen. decoris "dignità, onore" e deco:rus "bello; conveniente":  

Proto-IE: *dek'-
Meaning: to acquire, gain; respect, thank

    Old Indian: daśā f. `state or condition of life, condition, circumstances, fate'; dāśnóti, dā́ṣṭi, dā́śati `to serve or honour a god, offer, present', dāśváṁs- `honouring the gods'; daśasyáti `to render service, serve, worship'; dakṣati `to act to the satisfaction of', dákṣa- `able, fit, passable' 
    Avestan: dāṣṭa- `erhalten, erlangt', dasa- n. `Gegenstand der fahrenden Habe, Vermögennsstück'
    Old Greek: dékhomai̯, 3 pl. dékhatai̯ (Hom.), protí-degmai̯ `prosdékhomai' (Hsch.), aor. déksasthai̯, ep. edégmǟn, dékto, ptc. dégmeno-; [ dokó-s m. `Balken' ], dokhós `Behälter', -deksi-s `Aufnahme, Empfang'; -déktōr der etwas auf sich nimmt'; dektḗr `Einnehmer', déktǟ-s m. `Almosenempfänger, Bettler'; hom. 3 pl. d[ē]dékhatai̯, ipf. d[ḗ]dekto, d[ē]dékhato (codd. dei-) `begrüssen, bewillkommen'; iter. d[ē]dísketo, d[ē]diskómeno- (codd. deid-); d[ē]knǘmeno-, d[ē]kanóōnto (codd. dei-) `huldigen, grüssen'
    Slavic: *desītī, *dosī́tī
    Germanic: *tix-ɵ=
Meaning: execute

    Latin: decet, -ēre, -uit `einen zieren, kleiden; sich für jd. schicken, geziemen', decus, -oris n. `Zierde, Schmuck, Würde'; dī̆gnus, -ä `würdig, wert'
   
Other Italic: Umbr tic̨it `decet'
    Celtic: MIr dech `der beste, vorzüglichste'

In modo simile a quanto avvenuto per cygnus, cycnus, che ha prodotto le varianti cucinus e cicinus, si è avuta una variante digina per digna (CIL 6, 25741), citata da Xaverio Ballester nel suo lavoro Fonematica del Latin Clasico. Consonantismo. Si noti che non sto parlando della forma *dicinus per dignus costruita da Daniël van Lennep nel suo Etymologicum Linguae Graecae nel tentativo di dare un'etimologia a questa parola, falsamente ricondotta al greco δείκνυμι "io mostro" (che è invece parente del latino di:cere). Appare più che evidente che uno scriba antico non avrebbe mai usato una grafica digina se la pronuncia del nesso gn fosse stata /ɲɲ/ e se la lettera g fosse servita ad esprimere il suono palatale /dʒ/ davanti alla vocale i

Queste sono le pronunce ecclesiastiche delle parole in questione:

dignus /'diɲ(ɲ)us/(1)
digina /'did
ʒina/(2)
decet /'detʃet/
decus /'dekus/
deco:rus
/de'korus/ 


(1) Si noterà tuttavia che Karol Wojtyła pronunciava /'dignus/.
(2) Così a scuola un docente leggerebbe questa variante.


Queste sono invece le pronunce classiche:

dignus /'di(:)gnus, 'di(:)ŋnus/(3)
digina /'digina/
decet /'deket/
decus /'dekus/
deco:rus /de'ko:rus/ 

(3) Secondo gli antichi la vocale tonica era prolungata dal nesso consonantico, ma le forme romanze discendenti - come l'italiano degno - postulano invece una vocale breve.

Mentre il greco kyknos non ha etimologia indoeuropea credibile e deve trarre la sua origine dal sostrato pre-ellenico (la tradizionale connessione con IE *kan- "cantare" è insostenibile per motivi fonetici), le parole latine dignus, decet, decus e deco:rus ci permettono di fare confronti più estesi. Così vediamo che in sanscrito la radice indoeuropea mostra esiti con consonante sibilante e . La prima è l'usuale fricativa palatale /ʃ/ (la sc di scena), la seconda è un suono simile ma retroflesso. Queste pronunce assibilate derivano dal fonema indoeuropeo originale, che era una /kj/, ossia suonava in modo simile alla chi di chiesa. Nelle lingue cosiddette "centum" questo suono è diventato /k/ diventando pienamente velare, mentre nelle lingue cosiddette "satem" lo stesso suono ancestrale si è assibilato - e questo indipendentemente dalla vocale seguente. Sono in grave errore i nostri avversari, che confondono la situazione del sanscrito con quella del latino e dei suoi esiti romanzi - o dell'umbro, una lingua italica in cui /k/ davanti a vocali anteriori /e/ e /i/ si è assibilata in /ʃ/.

Tuttavia quando il suono IE /kj/ precedeva la sibilante -s- di un suffisso, ha perso il suo elemento palatale e si è conservato come occlusiva velare anche in sanscrito, ecco perché abbiamo la forma dákṣa-.

mercoledì 10 agosto 2016

PROVE ESTERNE E INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: I NOMI DEL CIGNO, CYGNUS, CUCINUS E CICINUS

Già abbiamo trattato dei prestiti greci nella lingua latina. Ora veniamo a un caso particolare e di estremo interesse, perché mette in luce l'ennesima situazione che i nostri avversari, sostenitori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno, non possono assolutamente spiegare. In greco antico il nome del cigno è κύκνος (kyknos), che come tutti sanno è passato in latino come cygnus.

Ovviamente i sostenitori della pronuncia ecclesiastica del latino prescivono per questa parola una pronuncia simile a quella del suo esito italiano, ossia /'tʃiɲ(ɲ)us/. Così facendo, essi proiettano l'attuale situazione fonetica del vocabolo italiano indietro nei secoli, senza tenere in alcun conto la sua etimologia, che ci dice tutt'altro.

Troviamo infatti alcune varianti di cygnus più vicine a quella greca. Non soltanto abbiamo cycnus, con consonante velare sorda, ma anche cucinus e cicinus, con tanto di vocale epentetica.

Questa è la sequenza delle pronunce ecclesiastiche delle forme qui riportate:

cygnus /'tʃiɲ(ɲ)us/
cycnus /'tʃiknus/
cicinus /'t
ʃitʃinus/
cucunis /'kut
ʃinus/
 

Si noterà la serie di alternanze inspiegabili e incoerenti tra /k/ e /tʃ/, dettate solo da motivi ortografici e oltremodo complesse, per non parlare della consonante palatale /ɲ/, che di certo non è riducibile allo scontro di /tʃ/ + /n/.

Vediamo ora la sequenza delle corrispondenti pronunce classiche, dove il carattere IPA /ŋ/ indica la n velare dell'inglese gang:

cygnus /'kignus, 'kiŋnus/(*)
cycnus /'kiknus/
cicinus /'kikinus/
cucunis /'kukinus/
(*) 

Le classi colte, che affettavano familiarità col greco, avranno cercato di mantenere la pronuncia /'kygnus/ con il suono greco originario espresso dal carattere IPA /y/.

Vedete come queste ultime corrispondono all'etimologia e alla logica? Già soltanto una cauta applicazione del Rasoio di Occam farebbe piazza pulita delle farneticanti tesi dei nostri avversari.

È chiaro e di per sé evidente che il suono epentetico -i- in cucinus e in cicinus doveva essere stato inserito per rendere pronunciabile il nesso /kn/.  

Gli esiti romanzi ci permettono di fare qualche altra considerazione. In italiano la forma cigno è provenuta da una regolare palatalizzazione del nesso /gn/, la cui prima consonante si è nasalizzata dando /ŋn/ e quindi ha subìto palatalizzazione in /ɲɲ/. Si noti che /gn/ ha invece dato origine a /nn/ in Sardegna: mannu "grande" < magnu(m).

In spagnolo si è avuta una sequenza più complessa. Il nome del cigno infatti in quella lingua è cisne /θisne/ (in America Latina /sisne/). Questa forma non può essere derivata direttamente da cygnus e richiede invece la variante cicinus. Così si è sviluppata la forma moderna, da tarde palatalizzazioni delle antiche velari:

/'kikinum/ > /'kjikjinum//'tsitsinu//'tsisne//'θisne/.

In sardo logudorese abbiamo chìghinu, senza traccia di palatalizzazione, mentre in sardo campidanese abbiamo la forma sìsini, che mostra assibilazione. La forma cicinus ha dato anche alcuni esiti in italiano antico: cécino e cécero, ormai desueti.

Per quanto riguarda l'alternanza /u/ - /i/ che abbiamo in cucinus - cicinus, deriva chiaramente dal tentativo di rendere il suono bemollizzato /y/ della lingua greca. Può apparire un puro e semplice vezzo ortografico, eppure non è così, come dimostrato dall'analisi degli esiti spagnoli e sardi di cicinus.

Il ruolo della lingua etrusca

Dalla stessa radice del greco κύκνος deriva, per intermediazione etrusca, il nome latino della cicogna, ossia cico:nia. In etrusco abbiamo attestato il gentilizio Cicunia /'kikunja/ (f.) che ci testimonia il diretto antenato della forma latina. Sono anche attestate le forme latine cico:nis e ciquo: "cigno", che corrispondono al gentilizio etrusco Cicu (m.), Cicui (f.).

PROVE ESTERNE E INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: L'EVOLUZIONE DEL PREFISSO ARCHI- IN ROMANZO E IN GERMANICO

Molte considerazioni possono dedursi dall'analisi degli esiti del prefisso greco ἀρχι- (arkhi-) in varie lingue. Incorporato in numerosi composti di uso comune, questo elemento deriva la sua origine dalla radice ellenica che significa "capo, primo", che si trova nel verbo ρχω (arkho:) "io comincio"; "io comando", "io governo" e nel sostantivo ρχων (arkho:n) "governatore" (pl. ρχοντες), da cui deriva il termine Arconte, usato dagli antichi Gnostici e dai moderni esoteristi. Dal greco il prefisso è passato in latino, dove è scritto archi- e compare in parole come archiepiscopus "arcivescovo", archigubernus "capo timoniere", archipirata "capo dei pirati", architectus "architetto", architriclinus "capo maggiordono".

La pronuncia del prefisso ἀρχι- era in greco antico /arkhi-/, con una occlusiva velare aspirata /kh/. In seguito questa aspirata divenne una fricativa velare o uvulare /x, χ/. In epoca bizantina questo suono divenne una fricativa palatale /ç/ quando seguito da vocale anteriore /e/ o /i/, del tutto simile alla consonante del tedesco ich /iç/. Le orecchie degli italiani spesso assimilano questo suono a /ʃ/ (la "sc" di scena), ma un ascolto attento rivelerà la differenza tra i due fonemi. La situazione del greco bizantino permane tuttora sia nella lingua colta e artificiale detta katharevousa che nel greco demotico.

In rumeno il prefisso è stato ereditato direttamente dal greco e compare come arhi-, con consonante aspirata, ad esempio in arhiepiscop "arcivescovo". Si noterà che in rumeno nelle parole native ha avuto la stessa palatalizzazione dell'italiano.   

La pronuncia ecclesiastica del latino, del tutto isolata dagli sviluppi avvenuti in greco nel corse dei secoli, realizza il prefisso archi- con una consonante occlusiva non aspirata, ossia /arki-/. Così la Chiesa di Roma pronuncia archiepiscopus come /arkie'piskopus/, con un singolare accordo con la pronuncia restituta. Questa pronuncia è tuttavia in netto contrasto con il suono che questo elemento assume nella maggior parte delle lingue moderne che lo continuano. Come sappiamo, in italiano si ha come esito arci- /artʃi-/ in arcivescovo, con un'affricata postalveolare /tʃ/ (la "c" di cece); soltanto quando il prefisso presenta un'antica perdita della vocale finale davanti a vocale non anteriore si mantiene l'antico suono velare, come in arcangelo  - o in parole dotte come archiatra e architetto.

In spagnolo l'arcivescovo è detto arzobispo /arθo'βispo/, con la regolare assibilazione: la consonante velare /k/, divenuta /kj/, si è evoluta in /ts/ e quindi in una fricativa interdentale /θ/, oggi pronunciata /s/ in gran parte dell'America Latina. In modo simile si è avuta la forma portoghesce arcebispo /arse'bispu/. Singolare il contrasto con il catalano, in cui si è conservata invece la consonante velare integra: arquebisbe /arkə'βizβə/.

In francese abbiamo archevêque /aRʃə'vɛ:k/, che presenta palatalizzazione secondaria. Non ha infatto l'esito /s/ di parole come ciel < caelu(m), cent < centu(m), ma l'esito /ʃ/ di parole come chose < causa(m), chair < carne(m), etc. Questa seconda palatalizzazione si è formata in epoca molto tarda, quando quella primaria si era già conclusa.

Il sardo, particolarmente conservativo, chiama l'arcivescovo archipíscamu, con la consonante velare integra.

In tedesco abbiamo due casi interessanti in cui il prefisso greco mostra una consonante fricativa /ts/, scritta -z-

archiangelus(1)Erzangel "arcangelo"
archiaterArzt "medico"
archiepiscopus > Erzbischof "arcivescovo" 

(1) Sta per archangelus 

Si noterà nel secondo esempio la presenza dell'Umlaut palatale: l'influenza dell'antica vocale -i- ha trasformato la a- del prefisso in e-. Questo indica che l'elemento che ha dato origine a Erz- è sufficientemente antico: il prefisso doveva trovarsi nella lingua prima che l'Umlaut palatale cominciasse ad agire. Questo significa che il prestito deve essere avvenuto dal latino ecclesiastico, che all'epoca realizzava l'esito di /k/ palatalizzata come /ts/, come si nota per esempio nella parola Zelle "cella" (monastica, di una prigione, etc.) < cella, in contrasto col più antico Keller "cantina" < cella:rium, che è giunto precocemente con la sua antica pronuncia. 

Anche l'olandese ha avuto il prestito dalla stessa fonte da cui l'ha avuto il tedesco, ma non si nota Umlaut: abbiamo infatti aartsbischop "arcivescovo"

In norreno notiamo l'Umlaut come in tedesco, ma per contro non si ha traccia di palatalizzazione: il prefisso si è evoluto in erki-, come ad esempio in erkibiskup "arcivescovo". La stessa forma si conserva ai nostri giorni in islandese. Anche le altre lingue scandinave moderne hanno ereditato questa situazione: il danese ha ærkebiskop, lo svedese ha ärkebislop, il norvegese (sia nynorsk che bokmål) ha erkebiskop

L'esito del prefisso in questione in antico inglese (anglosassone) non aggiunge granché a quanto visto finora, perché in quella lingua si è avuta una palatalizzazione di /k/ davanti a vocale anteriore come in italiano: abbiamo infatti ærċebisċop "arcivescovo", donde l'inglese moderno archbishop /'a:tʃbiʃəp/. La forma è stata adottata dapprima come /*arki-/, quindi ha subìto palatalizzazione come è accaduto per le parole native, dando le varianti arċe-, ærċe-, erċe-, con o senza Umlaut. Notare che questa palatalizzazione ha attaccato la /k/ anche davanti a una antica /a/ dopo che questa ha assunto una pronuncia anteriore /æ/ o /ea/, come nei seguenti casi:

ċealc "gesso" < lat. calce(m)
ċeald "freddo"(*) < proto-germ. *kald-
ċeaster "città romana" < lat. castru(m) 

(*) Forma sassone occidentale; l'inglese moderno cold viene dalla foma anglica cald, non palatalizzata. 

Si tratta di un mutamento che non ha nulla a che fare con quanto è avvenuto in italiano: in altre parole siamo di fronte a due fenomeni indipendenti.

Il nome gallese dell'arcivescovo, archesgob /ar'χɛsgɔb/, presenta una chiara consonante fricativa uvulare, prova che il vocabolo non è giunto dall'inglese ma continua direttamente la forma latina archiepiscopus, con regolare mutamento di /rk/ in /rχ/ (scritto rch) che troviamo anche nelle parole native, come march "cavallo" < *markos.

La situazione nelle lingue slave è eterogenea. In russo si ha una forma greca, архиепископ (arkhiepiskop), ereditata con la conversione al Cristianesimo Bizantino, mentre in polacco si ha arcybiskup con l'affricata /ts/, ereditata con la conversione al Cattolicesimo Romano. Le lingue baltiche hanno forme con /k/ non intaccato, come il lituano arkivyskupas, o con /h/, come il lettone arhibīskaps

Quali conclusioni possiamo trarre da questa grande mole di dati? Semplice. Come già accennato sopra, la stessa pronuncia ecclesiastica del latino prescrive di pronunciare col suono velare /k/ ogni occorrenza di -ch- in parole latine di origine greca. Quindi anche i fautori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno devono ammettere per forza di cose che la consonante palatale di parole come arcivescovo deve essere derivata in epoca tarda, ossia che non è primigenia. Quindi si prova che il loro scetticismo sui mutamenti fonetici, che li porta a postulare il fissismo linguistico, è frutto di ragionamenti inconsistenti. 
Si noti infine che nella pronuncia ecclesiastica si ha contrasto tra archi- /arki-/ "primo, capo" e arci-
/artʃi-/ "arco", come in arcipotens "pratico nel maneggiare l'arco" (epiteto di Apollo) e arcitenens "arciere" (epiteto di Apollo e di Diana).

P.S.

La ridicola fanfaluca delle consonanti palatali del greco antico è un'aberrazione sostenuta dai nostri avversari contro ogni evidenza dell'antichità e dell'epoca modern. Di questo avremo ancora occasione di parlare. 

sabato 6 agosto 2016

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: QUERQUERUS - QUERCERUS 'TREMANTE'

Tra le parole latine meno note al pubblico si ha querquerus "tremante". Si tratta di un termine tecnico riferito specialmente alla febbre e al tremore malarico. Il punto è che accanto alla forma più antica querquerus, sussiste anche una variante quercerus, che mostra una dissimilazione molto affine a quella vista per querqueus "di quercia" che ha dato origine al doppione querceus con soltanto una labiovelare. In altre parole, in due contesti fonetici affini si è prodotta la stessa semplificazione di una occlusiva labiovelare /kw/ in un'occlusiva velare semplice /k/ a causa della presenza dell'occlusiva labiovelare iniziale.

Mentre la parola quercus "quercia" è di chiara origine indoeuropea (risaldente alla protoforma *perkw-), il termine querquerus "tremante" trae la sua origine ultima da un'onomatopea, quale che fosse la lingua da cui è giunto in latino (con ogni probabilità l'etrusco). La sequenza quer-quer- comunica in effetti l'idea del tremore. Quando è avvenuta la dissimilazione della seconda /kw/ in /k/, la natura onomatopeica della parola è stata oscurata, come è avvenuto anche in altri casi (es. pi:pio: "piccione" è termine onomatopeico, mentre il suo derivato italiano piccione ha cessato di esserlo a causa della palatalizzazione dell'antico /-pj-/).

Gli antichi come di consueto si addentravano nei pantani delle false etimologie, non disponendo di mezzi filologici validi: "Querqueram frigidam cum tremore a Graeco κάρκαρα certum est dici, unde et carcer." (Lucilio, Satire, Libro V)

Per motivi fonetici, è impossibile postulare una derivazione dal greco καρκαίrω "io tremo", esso stesso un verbo di origine onomatopeica. L'ipotetica forma etrusca da cui il latino avrebbe preso a prestito querquerus doveva avere essa stessa suoni più complessi della forma greca e un diverso vocalismo: ricostruisco così *χverχver-.

Non mi risulta che querquerus / quercerus abbia dato origine a qualche discendente romanzo. Tuttavia la stessa variazione la troviamo nel nome latino di un uccello, l'alzavola, che è verosimilmente derivato dalla stessa radice qui trattata e che ha avuto esiti in diverse lingue romanze:


L'alzavola è un'anatra di dimensioni ridotte, che sverna in Italia. Varrone fa derivare il vocabolo dal greco κερκουρίς. Tale parola greca presenta le varianti κέρκηρις e κερκήδης. Per motivi fonetici, lat. querquedula non può essere un derivato diretto di queste forme greche, che tuttavia hanno l'aria di avere origine comune e chiaramente non indoeuropea. Data la loro variabilità, non sono in grado di ricostruire una protoforma. Questo è quanto riporta il dizionario Etimo.it alla voce dotta querquedula


"querquèdula prov. sercela, fr. cercelle, sp. e port. cerceta; (ted. krickente): = lat. QUERQUÈDULA, che vuolsi tragga da QUÈRQUERUS algido, frigido, perché comparisce nell'inverno.
   Specie di anitra, grossa come una pernice, vestita di piuma di color vivace e nel petto somigliante a una maglia, che vive negli stagni e sul mare."

Se anche il collegamento a querquerus fosse paretimologico, si noterebbero interessanti fenomeni di evoluzione in provenzale, in spagnolo e in portoghese. In tutte queste lingue romanze, è avvenuta la semplificazione di entrambe le consonanti labiovelari latine, con una protoforma *cerce:dula /ker'ke:dula/ < *querquedula /kwer'ke:dula/. Lo spagnolo e il portoghese richiedono una variante *cerce:tta /ker'ke:tta/ < *querque:tta /kwer'kwe:tta/

Chi sostiene la pronuncia ecclesiastica ab aeterno, non è capace di spiegare queste forme: in nessun caso potrebbe sostenere che nell'originale forma latina potessero esistere consonanti palatali anziché le labiovelari attestate.

Si noterà infine che l'inglese to quiver "tremare" non deriva affatto dal latino querquerus, ma dall'anglosassone cwifer- "zelante", attestato ad esempio in cwiferlice "in modo zelante", che ha per forma corradicale cwic "vivo" (donde deriva l'inglese moderno quick "rapido"). Queste sono parole di chiara origine germanica e derivanti dalla stessa radice indoeuropea *gwei(w)- / *gwi:(w)- "vivere" che ha dato il latino vi:vus, vi:vo, vi:ta, etc. 

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: QUERCUS E DERIVATI, ITALIANO QUERCIA, CERQUA

Il fitonimo latino quercus "quercia" continua quasi inalterato nel sardo kerku, senza traccia alcuna di palatalizzazione della prima consonante velare. L'italiano quercia non può risalire direttamente alla forma latina, per ovvi motivi fonetici. Deve essere invece per necessità il derivato di una forma *quercea, di chiara origine aggettivale.

Vediamo ora le forme aggettivali attestate in latino col significato "di quercia"; "di foglie di quercia". Sono le seguenti: 


Evidentemente l'aggettivo più antico è quernus, formato con un suffisso *-no- di ottima tradizione indoeuropea. Le forme querqueus e querceus sono più moderne. La variante querneus proviene da quernus con l'aggiunta del suffisso di querqueus

Vediamo di ricostruire i passaggi. La radice indoeuropea del fitonimo latino è *perkw-. In latino la consonante labiale *p- è diventata kw- per assimilazione alla kw- seguente, mutamento che vediamo anche in altri casi (lat. quinque < IE *penkwe; lat. coquo: < IE *pekw-). Una volta creato l'aggettivo querqueus /'kwerkwḙus/, la seconda labiovelare /kw/ è diventata /k/ per dissimilazione, ossia si è semplificata naturalmente. Così si è avuta la variante /'kwerkḙus/. L'occlusiva velare /k/, seguita dalla semivocale, si è quindi alterata per vari gradi, dando origine al suono palatale che troviamo nella forma italiana quercia, suono la cui natura secondaria è dimostrata dall'etimologia.

La dissimilazione /-kw/ > /-k-/ è presente anche in un derivato che ha dato origine all'italiano "querceto"


In italiano esiste la variante cerqua, ormai desueta, che trae origine da una diversa dissimilazione della forma latina, in cui è stata la prima labiovelare a semplificarsi. La sequenza dei mutamenti è la seguente: *querquea /'kwerkwa/ > *cerquea /'kerkwa/. La palatalizzazione ha quindi agito sull'occlusiva iniziale in epoca tarda, portando infine all'esito italiano. 

Veniamo ora alla pronuncia ecclesiastica della lingua latina, che i nostri avversari vorrebbero proiettare agli Inizi dei Tempi. La sua incongruenza è marchiana: prescrive infatti le pronunce /'kwerkweus/ e /'kwertʃeus/; /kwer'kwetum/ e /kwertʃetum/, tutte con un'alternanza /kw/ - /tʃ/ che sarebbe assolutamente inesplicabile se la si considerasse primigenia, non potendo in alcun modo risalire a tempi remoti.

mercoledì 3 agosto 2016

PROVE ESTERNE E INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: LATINO SICERA, GRECO SIKERA, EBRAICO SHEKHAR

In ebraico il termine שכר šēkhār /ʃe:'xa:r/ indicava una bevanda fermentata ottenuta da una decozione di cereali, frutta e miele. Era un potente inebriante, tipico del paese di Canaan. La storia dell'adattamento di questa parola nelle lingue dell'Occidente è antica e complessa. Si può dire che il termine ebraico sia passato in greco divenendo σίκερα (sikera), ma è più probabile che il prestito sia avvenuto già in epoca antica a partire da una lingua semitica diversa, probabilmente l'accadico, in cui la birra d'orzo era chiamata sikaru(m), sikru(m). Infatti l'ebraico mostra una consonante fricativa -kh- derivata dalla lenizione della precedente occlusiva -k-, che invece è conservata in greco. Se il termine fosse passato in greco dall'ebraico in epoca tarda, posteriore alla lenizione, il suono -kh- sarebbe stato reso con un'aspirata greca, scritta con la lettera -χ-. Inolte in Tracia è attestato Σικερηνος (Sikerenos) come epiteto di Apollo: senza dubbio trae il nome dalla bevanda, a dimostrazione dell'antichità del termine. La radice semitica ultima da cui sia la forma accadica che quella ebraica derivano ha il significato di "ubriacarsi", "intossicarsi" (es. ebraico šākhar). La traduzione più propria sarebbe quindi "bevanda intossicante (diversa dal vino)".  

Nella lingua neoebraica parlata oggi in Isreaele, che è una vera conlang creata da Ben Yehuda, la parola שכר šēkhār è usata per indicare la birra, pur essendo questa corrispondenza abbastanza impropria. La bevanda usata nell'antica Israele era forte e non somigliava molto alla debole birra dei nostri tempi. Potrebbe invece essere usata per designare certe birre speciali ad alta gradazione, potenti quasi come il vino.

Dal greco sikera la parola è passata in latino come sicera, e da questa forma deriva l'antico francese cisdre, divenuto poi cidre. Infine dal francese cidre è passato in italiano come sidro e in inglese come cider. Proprio il termine sidro è spesso utilizzato nelle traduzioni bibliche per rendere l'ebraico שכר, per quanto il paragone con il succo di mela fermentato non si molto più sensato del paragone con la birra moderna. Il sito Etimo.it, nonostante contenga non di rado proposte etimologiche datate e non sia esente da errori, per quanto riguarda la parola sidro fa bene il punto della situazione:


"sídro a. fr. cisdre, mod. cidre; sp. sira, ant. sizra (ing. cider; celto: gall. <s>eider : dal lat. SÍCERA = gr. SÍKERA contratto in SIC'RA, d'onde SIDRA) voce venuta dall'oriente: ebr. schêkâr qualunque bevanda fermentata ed esilarante [ebr. schâkar essere avvelenato]
  Specie di bevanda fermentata, che si prepara col succo delle mele: anticamente Cidra e Siccera." 

Ora, i sostenitori della pronuncia ecclesiastica del latino, che credono alla presenza in tale lingua di suoni palatali ab aeterno, devono per necessità postulare che la parola sicera dovesse suonare /'sitʃera/ fin dalla sua comparsa nell'Urbe, contraddicendo così la sua chiarissima etimologia e fallendo una volta di più nei loro vani tentativi di ammettere la natura primitiva del suono /tʃ/. Invece è ben evidente che la forma latina suonasse come in greco /'sikera/, che la palatalizzazione avvenne soltanto in epoca tarda, ponendo le basi della forma francese antica cisdre di cui sopra (chiaramente l'elemento la grafia c- è frutto di ipercorrettismo, mentre l'occlusiva dentale -d- è sorta dallo scontro di -s- con -r-).