EPEPE
Titolo originale: Epepe
AKA: Metropole
Autore: Ferenc Karinthy
Genere: Romanzo
Sottogenere: Letteratura mitteleuropea, romanzo
kafkiano, romanzo distopico
Lingua originale: Ungherese
1a pubblicazione: 1970
1a edizione italiana: 2015
Editore italiano: Adelphi
Traduzione: Laura Sgarioto
Codice ISBN: 978-88-45-97662-9
AKA: Metropole
Autore: Ferenc Karinthy
Genere: Romanzo
Sottogenere: Letteratura mitteleuropea, romanzo
kafkiano, romanzo distopico
Lingua originale: Ungherese
1a pubblicazione: 1970
1a edizione italiana: 2015
Editore italiano: Adelphi
Traduzione: Laura Sgarioto
Codice ISBN: 978-88-45-97662-9
Trama:
Budai è un linguista poliglotta ungherese che deve partecipare a un convegno internazionale a Helsinki. Così prende l'aereo, ma anziché giungere a destinazione, si ritrova in una città non identificabile in cui tutti parlano una lingua a lui del tutto sconosciuta. Per il protagonista è l'inizio di un inimmaginabile inferno in un ambiente dall'opprimente densità di popolazione. Portato da un pullman in un albergo, Budai consegna a un funzionario della reception i suoi documenti e il suo assegno di viaggio, ricevendone in cambio una certa quantità di denaro e la chiave di una camera. Subito si accorge che ogni tentativo di comunicare con gli autoctoni è assolutamente vano: in qualsiasi lingua a lui nota cerchi di dire qualcosa, nessuno è in grado di afferrare neppure una sillaba. Anche la scrittura è di origine ignota, soltanto i numeri arabi sono ben riconoscibili in un mare di inestricabili ideogrammi. Pur essendo avvantaggiato rispetto a una persona di media istruzione, l'esule magiaro non riuscirà a trovare il bandolo della matassa.
Budai è un linguista poliglotta ungherese che deve partecipare a un convegno internazionale a Helsinki. Così prende l'aereo, ma anziché giungere a destinazione, si ritrova in una città non identificabile in cui tutti parlano una lingua a lui del tutto sconosciuta. Per il protagonista è l'inizio di un inimmaginabile inferno in un ambiente dall'opprimente densità di popolazione. Portato da un pullman in un albergo, Budai consegna a un funzionario della reception i suoi documenti e il suo assegno di viaggio, ricevendone in cambio una certa quantità di denaro e la chiave di una camera. Subito si accorge che ogni tentativo di comunicare con gli autoctoni è assolutamente vano: in qualsiasi lingua a lui nota cerchi di dire qualcosa, nessuno è in grado di afferrare neppure una sillaba. Anche la scrittura è di origine ignota, soltanto i numeri arabi sono ben riconoscibili in un mare di inestricabili ideogrammi. Pur essendo avvantaggiato rispetto a una persona di media istruzione, l'esule magiaro non riuscirà a trovare il bandolo della matassa.
Recensione:
Epepe materializza gli incubi kafkiani che hanno a lungo dominato i paesi del blocco comunista, in cui la riduzione dell'individuo a un atomo di una società disumanizzante era considerata un'utopia da perseguire con ogni mezzo. Davvero singolare che sia stata permessa da quei regimi orwelliani l'espressione abbastanza libera di queste inquietudini nell'arte, ad esempio nei cartoni animati in cui si vedevano persone inghiottite da folle immense e grigie che uscivano come una marea spaventosa da edifici simili ad alveari umani, sotto un cielo di piombo. Forse il fine era quello di demoralizzare le persone fin dalla tenera infanzia per fiaccare ogni possibile germe di individualismo, di certo non quello di mettere in guardia da un'agghiacciante distopia. Siamo di fronte a qualcosa come l'architettura della Germania Est, con i suoi casermoni color merda, progettati per uccidere sul nascere l'anelito di libertà.
Epepe materializza gli incubi kafkiani che hanno a lungo dominato i paesi del blocco comunista, in cui la riduzione dell'individuo a un atomo di una società disumanizzante era considerata un'utopia da perseguire con ogni mezzo. Davvero singolare che sia stata permessa da quei regimi orwelliani l'espressione abbastanza libera di queste inquietudini nell'arte, ad esempio nei cartoni animati in cui si vedevano persone inghiottite da folle immense e grigie che uscivano come una marea spaventosa da edifici simili ad alveari umani, sotto un cielo di piombo. Forse il fine era quello di demoralizzare le persone fin dalla tenera infanzia per fiaccare ogni possibile germe di individualismo, di certo non quello di mettere in guardia da un'agghiacciante distopia. Siamo di fronte a qualcosa come l'architettura della Germania Est, con i suoi casermoni color merda, progettati per uccidere sul nascere l'anelito di libertà.
Incomunicabilità assoluta
L'unico contatto che Budai riesce ad instaurare con una persona della metropoli sovraffollata è destinato a risolversi in modo drammatico. Si tratta della ragazza bionda il cui supposto nome, che lo studioso ungherese non è capace di trascrivere foneticamente, dà il titolo al romanzo. Epepe, ma anche Bebe, Bebebe, Tetete, Tjetjetje e via discorrendo, tanto incerta è la natura dei fonemi della lingua di quel paese enigmatico. La sua professione è quella di ascensorista: Budai riesce a conoscerla durante i suoi penosissimi spostamenti da un piano all'altro dell'albergo. Cerca di conversare con lei durante le pause, quando i due si rifugiano in un ambiente appartato all'ultimo piano. Dai faticosi tentativi di apprendere la lingua, lui riceve ben poco giovamento. In occasione di un blackout, Epepe si rifugia nella camera di Budai, gli eventi precipitano e i due finiscono a letto. Dopo aver copulato litigano in modo furioso: lei ripete una parola in ungherese pronunciata dall'uomo, che pensa di essere preso in giro e comincia a percuoterla. Dopo averla ridotta a un cencio, si pente e implora il suo perdono: lei si eccita ed ha inizio una nuova copula, ancor più focosa della prima. Un episodio che scandalizzerà non pochi lettori, dato che descrive una sessualità manesca e irruenta d'altri tempi, quando la donna era considerata un oggetto. A seguito di questa avventura, Budai perde l'unico appiglio che gli è rimasto, finendo col diventare un vagabondo in una terra ostile.
Vane ipotesi
Cos'è realmente il mondo in cui Budai si trova imprigionato? Un altro pianeta? Una dimensione parallela? Un'altra linea temporale? La Terra di un remoto futuro? Che sia un mondo diverso dal nostro lo si capisce immediatamente. Le leggi fisiche non sono esattamente le stesse. Sembra che persino l'incredibile ammassarsi di persone in ogni spazio disponibile obbedisca a qualche forma di fluidodinamica in cui non vigono gli stessi parametri caratteristici del nostro universo. Come spiegare l'assoluta estraneità della lingua a ogni nozione a noi familiare e al contempo l'uso dei nostri stessi numeri arabi? Come sono giunte le cifre in quella terra sconosciuta? Da una parte si sarebbe portati a pensare che sia esistito un contatto che ha portato all'adozione dei numeri arabi, ma dall'altra non si riesce a farsene una ragione. Così le costellazioni in cielo sono quelle che conosciamo, ma la religione non è cristiana e nemmeno islamica, ebraica, buddhista o altro che possiamo descrivere. Quadri appesi alle pareti fanno presupporre l'esistenza di terre incontaminate con montagne e mari, tuttavia per quanto Budai può saperne la città non ha confini, si estende a perdita d'occhio senza che si riesca a scorgere qualcosa di diverso. Ogni teoria fallisce, non spiega proprio nulla e cade in contraddizione con i dati di fatto.
Uno scontro razziale in discoteca
Un episodio bizzarro mi ha particolarmente colpito. In un mondo in cui tutti i tipi umani sono rappresentati, dal nordico all'ottentotto, dal cinese al patagone, all'improvviso accade qualcosa di imprevisto. In una discoteca ctonia due compagnie si scontrano: una è formata da bianchi, l'altra da neri. Tanto violenta è la rissa che scaturisce da un futile motivo, che presto si arriva a un accoltellamento. In quell'umanità la genetica sembra funzionare in uno strano modo. A differenza di quanto accade sul nostro pianeta, i vari fenotipi non sono miscibili, ma coesistono come l'aqua e l'olio in una bottiglia: per quanto si agiti il contenitore finiranno col separarsi, simile attraendo simile e allontanandosi dal dissimile. Senza dubbio è un'interessante metafora, anche se non si capisce bene di cosa.
La conlang di Epepe
Riporto in questa sede le magre nozioni della lingua del mondo distopico di Epepe, ricavate dalla lettura del libro. Innanzitutto c'è la descrizione, seppur insoddisfacente, del sistema numerale:
dütt, uno
klooz, grooz, due
tösh, baar, tre
gedirim, quattro
baar, tösh, cinque (*)
kus, sei
rod, dod, sette
hodod, otto
dohodod, nove
ezrez, dieci
klooz, grooz, due
tösh, baar, tre
gedirim, quattro
baar, tösh, cinque (*)
kus, sei
rod, dod, sette
hodod, otto
dohodod, nove
ezrez, dieci
(*) L'autore commenta: "stranamente, il 3 e il 5 sembravano intercambiabili, o forse solo lui non era capace di distinguerli." Forse le due diverse forme servono a distinguere gli esseri animati o umani da quelli inanimati o non umani, anche se non è chiaro perché solo in questi numerali si manifesti la distinzione. La diversità tra i numerali 3 e 5 potrebbe essere tonale, anche se è chiaro che qualcosa non quadra. L'autore deve aver inserito questa indeterminazione per aumentare il senso di mistero e di inquietudine nel lettore.
I numerali hodod "otto" e dohodod "nove" sono palesemente formati a partire da rod, dod "sette" tramite l'uso di suffissi. Inutili i tentativi fatti dal protagonista di collegare alcuni numerali con i loro equivalenti in lingue note: si tratta di semplici assonanze, e per giunta alquanto vaghe. "Certo, con un po' di fantasia il gedirim (4) poteva essere assimilato al russo četyre, il kus (6) al kuusi del finlandese, l'ezrez (10) all'ashr dell'arabo."
Una forma che ricorre spesso nelle conversazioni è identificata come un pronome:
klött "Lei, Voi"
Forse si tratta di una forma di origine onorifica, come l'italiano Vossignoria. Sono attestate le varianti klütt e glütt. Quando Budai viene espulso dall'albergo per insolvenza, gli viene contestato il mancato pagamento del conto di due settimane con questa frase:
"Tuluplubru klött apalapala groz paratléba... Klött, klött, klött...!
Si distingue il numerale groz "due", sopra riportato come klooz, grooz, in una forma atona. Si deduce che paratléba deve esprimere il concetto di "conto". Qui il klött assume una sfumatura di accusa.
Poche traduzioni si possono ottenere in modo abbastanza sicuro dal contesto narrativo:
chlom brattibratt "hai da accendere?"
durung! "smettila!"
je duruntj "la devi smettere"
durung! "smettila!"
je duruntj "la devi smettere"
Durante lo scontro razziale tra bianchi e neri alla discoteca, volano esclamazioni insultanti come "Durumba!" e "Undurumbunda!" Si nota che il morfo durum- potrebbe essere lo stesso che compare in "Durung!" e in "Je duruntj".
Budai ha stilato, con immensa fatica, un elenco di vocaboli scelti tra quelli più tipici della vita urbana nel mondo moderno, che dovrebbero essere internazionali, parole come "cacao", "cioccolato", "caffè", "arancia", "taxi", "hotel", "buffet", "aeroporto", "ambasciata", ma non ne menziona nessuno, limitandosi a constatare che nessuno è formato a partire da radici note. Ci è anche riportato un inno rivoluzionario, soltanto che ci manca la traduzione e non abbiamo il benché minimo elemento per capirci qualcosa:
Cetec topa debette
Etek glö chri fefee
Bügiüti gnemelaga
Pecice... !
Etek glö chri fefee
Bügiüti gnemelaga
Pecice... !
Durante la rivolta, i militari urlano alla massa degli insorti prima la parola "Cetencia!" e poi una sua variante, "Cetencio!" Si potrebbe pensare che sia un adattamento dell'italiano "sentenza", intesa come "condanna"? Non mi faccio illusioni in proposito: in un diverso contesto un poliziotto usa la parola "cetence" in una domanda. Budai cerca disperatamente di aggrapparsi a qualcosa di noto, così ipotizza che la lingua possa avere in comune qualcosa con le lingue altaiche come il turco o con le lingue uraliche come il magiaro e il finlandese, a causa della grande frequenza dei suoni bemollizzati ö, ü, che in diverse sequenze sembrano obbedire a un principio di armonia vocalica. D'altro canto le parole pronunciate dalla ragazza bionda, Epepe, sono caratterizzate da una fonetica un po' diversa, con abbondanza del suono laterale -tl- e uscite in -lli che ricordano il Nahuatl, anche se non sussiste alcuna relazione tra le due lingue. "Jejee tlehuatlan... muula tlalaalli?", dice Epepe in un'occasione. E ancora: "Tuulli ulumulu alaulp tleplé..." Forse la lingua usata dagli uomini è un po' diversa da quella usata dalle donne, come avviene tra diversi popoli indigeni delle Americhe. Sarebbe interessante sottoporre tutte le frasi riportate a un'analisi serrata per vedere se si riesce a estrapolare qualcosa ancora. Purtroppo temo che il materiale sia insufficiente e dubito che l'autore abbia interesse a fornircene di nuovo. Non escludo che all'origine della creazione di Karinthy possano esserci suoi episodi di glossolalia.