sabato 21 maggio 2022

ERUZIONE SPIRITUALE

Stazione di Milano Greco Pirelli. Una stridula voce esce da un altoparlante. Treno in transito sul binario 3, allontanarsi dalla linea gialla. Mi sembra di essere lì in attesa sulla piattaforma da tempo immemorabile, nella vana attesa di un convoglio che mi riporti a casa. Giro intorno a un punto invisibile sulla superficie scabra della piattaforma, percorrendo una traiettoria circolare. Per un attimo immagino come sarebbe se tutte le persone in stazione facessero come me. L’immagine che si forma nella mia mente provata è semplicemente esilarante. Centinaia di persone, tutte che ballonzolano intente nella loro danza di follia. È chiaro, qualcosa in me non va. Il treno annunciato si avvicina a velocità incredibile, quasi come un missile, emettendo un rumore tonante. Tutto accade nel giro di poche frazioni di secondo. Sorge in me una tensione incoercibile. L’impulso di gettarsi sul binario, di porre termine alla mia esistenza in quel modo così rapido e devastante. Il tempo stesso mi appare dilatato, si espande in un nero oceano di eternità. Tutto sarà improvviso: un istante prima la mia esistenza afflitta da ridicoli assilli, e all’improvviso la mia prigione corporale ridotta a un ammasso di carne sanguinolenta. Poltiglia rossa che unge le rotaie come un lubrificante. Vedo la scena con un anticipo minimo, appena discernibile. Poi ecco la causa di tutto che si manifesta nella sua insondabile alienità. Un tentacolo candido, fatto di puro flusso energetico. Proprio così. Un lampo bianco simile a un tentacolo di piovra scaturisce da un’improvvisa fessura nell’osso temporale. Si agita e guizza. Cambia forma. A tratti sembra una lucertola albina in preda alle convulsioni, poi si scompone in una selva di fulmini e si intreccia di nuovo in una struttura solida. Sono allibito. Tutto mi è chiaro. Lo Spirito vuole fuggire dal suo carcere. Ha trovato un punto debole e ne approfitta. Il suo moto è regolato da qualche gradiente sconosciuto, che lo guida verso l’alto, che lo porta a lasciare questa realtà degradata ed illusoria. C’è un Grande Cielo lassù, oltre gli estremi confini dimensionali del Continuum: è la sede dello Spirito, un mondo bianco di una vastità insondabile, vicino a noi ma al contempo separato dal più profondo dei baratri. Con mia enorme sorpresa, non identifico me stesso con quell’escrescenza luminosa che si riversa fuori dal mio cranio e sale, come un rivolo di spumante che erutta da una botte forata. Quello con cui mi identifico è invece l’anima corruttibile, il rimescolarsi del sangue nelle arterie, le tempeste elettriche che devastano il mio encefalo ferito. Poi il DNA prende il comando di tutto e rintuzza quella cosa bianca. Il prevalere del brulichio genomico è ferreo, assoluto. Attiva un constraint di sopravvivenza e invia ai muscoli del corpo un comando perentorio, spingendomi all’indietro, lontano dal binario. Stravolto, osservo il treno sfrecciare via come un bolide d’acciaio. Sono un bagno di sudore freddo e tremo. Cosa mi ha salvato dalla fine? Contemplo in preda al terrore cieco i frammenti del mio paradigma spezzato. Devo arrendermi all’evidenza. Quella cosa, che chiamo Spirito, non è consapevole come ho sempre creduto. Non è pensiero né razionalità. Tutto ciò che penso, che sento e che vivo è un prodotto della mia oscena biologia. I miei stessi dogmi spiritualisti cesseranno con il trapasso. Se la mia struttura biologica nel suo insieme è l’hardware, il software è la mia anima corruttibile formata dal sangue, dai neuroni e dalle sinapsi. Lo Spirito è la corrente elettrica che alimenta la macchina.

Marco "Antares666" Moretti

giovedì 19 maggio 2022

I PRIMI CINQUE MINUTI DOPO LA MORTE

Stavo camminando con grande fatica. Affannandomi, seguivo un impervio sentiero montano. Le cime innevate erano incredibilmente cristalline, il sole bucava il cielo sconfinato come una fornace letale di un giallo caustico. Cauterio dello Spirito, quell’astro feriva le deboli retine dei miei occhi. Mi sembrava di essere trafitto da ogni singolo raggio che arroventava il suolo, i fotoni solari trasformati in dardi in grado di bucare la mia fragile epidermide. Ero un lebbroso. Sentivo come corpi estranei gli arti avvolti in spesse bende sporche di pus e di sangue rappreso. Se la malattia fosse ancora peggiorata, sarei stato costretto a nascondere il mio stesso volto all’azzurro: i miei lineamenti erano già molto deturpati, ricoperti di grossi tuberi rossastri. Ognuno di questi schifosi tumori tendeva ad ulcerarsi, spurgando un umore acre che feriva le mie narici. La mia mano sinistra era ormai priva di dita, la destra era tanto rattrappita che a stento riusciva a stringere il bastone da viaggio. In alto, proprio in cima alla montagna più alta, c’era il Castello del Drago. Dovevo raggiungerlo, perché se non avessi supplicato il malvagio Signore dell’Universo, non avrei mai potuto trovare il mio conforto nell’Annientamento. L’unica vera salvezza che potevo aspettarmi: la Morte Totale, la Morte Definitiva. Dovevo fare ancora molta strada per arrivare lassù. Le ore del giorno sembravano non passare mai: il sole era fisso nel Cielo di Luzabel, come l’occhio di un aguzzino ciclopico. Forse proprio quella grande volta di un turchese assoluto era la restaurazione dell’originale Cielo di Vetro, quello che andò in frantumi quando il Drago mosse ai Buoni Spiriti la Prima Guerra Cosmica. I sassi che formavano il sentiero erano acuminati, e di certo avrebbero tagliato i piedi di un comune viandante fino a farli sanguinare. Essendo colpito dalla più immonda elefantiasi, la mia pelle era insensibile come una suola di cuoio. Non di rado mi capitava di scorgere una scia di orribili liquami dietro di me. A un certo punto ho raggiunto un ruscello che scendeva da un pendio roccioso, attraversando il sentiero e disperdendosi in una gola profonda poco sotto. Mi sono fermato un attimo a riflettere. Il sole non era davvero immobile, sembrava piuttosto un frattale brulicante scosso da perenni convulsioni. La sua radioattività mi si riversava addosso, provocandomi un’abbondante sudorazione. D’un tratto mi sono messo in allarme. Ho visto qualcosa muoversi in lontananza. Un animale, non ci potevano essere dubbi, che stava percorrendo la mia stessa strada, ma nel verso contrario, venendo verso di me. Forse stava scendendo direttamente dal Castello. La sua andatura era traballante. Man mano che si avvicinava, potevo distinguere con sempre maggior chiarezza i particolari di quella sagoma che pareva uscita da un incubo delirante. Era un bruco grande come un cane massiccio. Procedeva sugli pseudopodi, contraendo e rilassando la massa delle sue viscere sotto il pingue mantello scarlatto. Aveva sul grosso capo due decorazioni simili a grandi occhi dalla pupilla nerissima. I veri occhi, composti da ommatidi, erano più sotto. Le fauci robuste e scure avrebbero benissimo potuto lacerarmi una gamba e masticare la mia carne in sfacelo. Il dorso gobbo era ornato da ciuffetti di cernecchi neri, mentre ocelli biancastri marcavano ogni segmento del suo addome. Dalla coda, proprio vicino alla regione anale, si protendevano due lunghi flagelli a segmenti bianchi e neri, molli, che si contorcevano senza sosta. Sono stato preso da un acuto conato di vomito. Qualcosa dentro di me mi diceva di distogliere lo sguardo dalla larva scarlatta, ma poi i miei occhi rimanevano immobili, incapaci di sfuggire all’ipnosi luttuosa che li incatenava. Intorno a quel demone l’aria sembrava tremolare. C’erano sciami di piccole mosche che gli ronzavano attorno, attratte dai suoi effluvi pestiferi. O forse i molesti insetti erano attratti dal colore e dalla consistenza del budello, che ai loro sensi era simile a un gran pezzo di carne? Dovevo scappare. Non c’erano dubbi. Se fossi stato raggiunto, sarei stato dannato. Sembrava che una voce senza parole parlasse dentro di me, muovendosi inquieta nelle profondità della mia anima come un uccello svolazzante. All’inizio facevo fatica ad interpretare quei pensieri muti, la cui origine non conoscevo. Poi però, mentre il bruco infernale si avvicinava inesorabilmente, ho saputo per certo che se non mi fossi nascosto, sarebbe avvenuto qualcosa di assurdo e tremendo: i Demoni dell’Etere avrebbero catturato il mio spirito rinchiudendolo nel corpo del bruco, e avrebbero tolto dalle carni larvali la Legione che vi era rinchiusa, dandole possesso sul corpo lebbroso che indossavo. “Via da me, Cane dei Morti!”, mi sono messo ad urlare mentre mi precipitavo dall’unica via di fuga, un pendio franoso. Il suono delle mie parole sembrava estinguersi in un silenzio ovattato, densissimo, poco dopo che era uscito dalla mia gola. È stata una caduta rovinosa, che mi ha provocato diverse fratture scomposte, ma almeno sono riuscito a sottrarmi a un pericolo tanto atroce. Guardavo in alto, fin dove la mia vista poteva arrivare in quello spazio ricurvo. Dovevo essere rotolato per almeno tre miglia sulle rocce. In cima al pendio, il bruco scarlatto si guardava attorno con aria sospettosa ed irritata, contorcendosi, sollevando il capo e la gobba. Qualcosa lo tratteneva dall’inoltrarsi giù per il pendio. Ho immaginato che fosse in qualche modo consapevole che la sua via in una pietraia tanto perigliosa gli avrebbe arrecato ferite mortali. Poco dopo la ripugnante larva si è ritratta dal bordo del dirupo ed è scomparsa alla mia vista. Una cosa era certa: non potevo sperare di tornare da dove ero venuto. Davanti a me c’era una grande cavità che sembrava essere stata scavata nelle pareti rocciose di una montagna dallo scalpello di un gigante. Una corrente fragorosa di acqua gelida si rovesciava nell’Abisso, scaturendo da una ferita nel fianco dell’altura che mi stava di fronte. Una strana salsedine giungeva fino a me, facendomi bruciare le ferite e le piaghe. Cosa potevo fare in quella circostanza davvero singolare? Al solo pensiero di muovermi, una stanchezza mortale mi colpiva. Sentivo un terrore sordo, assoluto, alla sola idea di gettarmi nella corrente che conduceva in un inconoscibile universo ctonio. L’unica alternativa era rimanere lì al mio posto, a lasciarmi uccidere dagli spietati strali del sole assassino. Mentre giacevo in quel luogo, meditando questi pensieri, mi sono accorto di qualcosa che prima non avevo notato. La mia vista si era espansa in modo incredibile, riusciva a cogliere dettagli che non avrei mai ritenuto possibile notare. Ma da questa nuova visione delle cose non ho avuto nessun giovamento. Mi sono accorto che l’intera realtà che mi teneva prigioniero era composta da un microscopico frattale di minuscoli vermi, intrecciati e brulicanti in un numero talmente grande da non poter neppure essere contato in un milione di eternità.

Marco "Antares666" Moretti

martedì 17 maggio 2022

STRIDOR DI DENTI

La mensa ipogea sembrava un grande ambiente cemeteriale. Opprimenti luci al neon abbacinavano i deboli occhi degli avventori e riverberavano sulle piastrelle delle pareti come i raggi di un sole di morte. Il Tecnico appoggiò il suo vassoio al bancone, rassegnandosi a una lunga coda prima di poter arrivare alla cassa. Ogni operaio davanti a lui doveva apporre una firma dopo aver pagato, e questo non snelliva certo il flusso di gente. Quasi tutti quegli uomini di fatica indossavano tute fluorescenti di un color arancione vivissimo: forse era uno stratagemma per renderli sempre ben visibili ed evitare incidenti, permettendo loro al contempo di lavorare anche in condizioni di semioscurità. Le meditazioni del Tecnico erano di un’amarezza infinita. Tutta questa pantomima si ripeteva quotidianamente, come se si fosse formato un anello di tempo chiuso, come se una stringa cosmica avesse sfiorato la sua vita intrappolandolo nell’eterna ripetizione degli stessi istanti. Un loop infinito. Il Giorno della Marmotta, nel film Ricomincio da Capo con Bill Murray. Solo che qui non si trattava di presenziare una cerimonia all’aria aperta, ma di essere murati vivi in un ciclo ininterrotto di agonia esistenziale che non poteva conoscere sbocco. Una disgustosa zaffata richiamò il Tecnico alla dura realtà. Formaggio rancido. L’esalazione proveniva da un piatto sul vassoio dell’operaio davanti a lui. Come guardò, vide una massa di pasta coperta di formaggio grattugiato putrefatto. Quegli incompetenti della cucina lasciavano le formaggiere chiuse senza cambiarne il contenuto per giorni, così vi si producevano orride fermentazioni anaerobie. Il lezzo era insopportabile. Non era semplicemente rancido quel formaggio, era marcio. Il Tecnico fu preso dalla stizza, non capiva come potesse essere ritenuta commestibile una simile schifezza. Sapeva di unghie di piedi lasciate crescere sporche per mesi, di smegma putrido accumulato sotto il glande di un fimotico. Peggio ancora: sapeva di cadavere. L’operaio si voltò, fissando il Tecnico con uno sguardo ebete. Pelle dal colorito scuro, barba ispida più nera della pece, fattezze grossolane e arcata sopracciliare prominente. Certo Lombroso avrebbe pagato a peso d’oro il suo cranio. A quel punto il Tecnico notò una mano dell’operaio, che aveva l’unghia del mignolo insolitamente lunga, come l’artiglio di un rapace. Si vedeva che molta sozzura nera vi era accumulata sotto. Un conato di vomito scosse lo stomaco del Tecnico, nella sua mente non era possibile distinguere il formaggio sparso sulla pasta dall’immondizia dell’unghia del mignolo. Per poco non vomitò lì in mezzo a tutti. A questo punto la fila avanzò, visto che un operaio aveva finito di firmare anche per tre suoi compagni di schiavitù, evidentemente analfabeti. Quando il Tecnico fu davanti alla cassiera tirò un sospiro di sollievo, il formaggiaro si era allontanando portando con sé il suo fetido pasto. Estrasse il portafoglio e diede alla ragazza, Ivanka, un biglietto da dieci euro. La bruna prosperosa prese la banconota, abbozzò un saluto confuso e diede in cambio all’uomo qualche ramino. Afferrò lo scontrino e glielo porse. Il Tecnico non sapeva che farsene, visto che i pasti non erano rimborsabili, ma il regolamento parlava chiaro. Così prese il biglietto, lo accartocciò e se lo mise in tasca, mentre un operaio dietro di lui gli premette sulle mani con il vassoio. – Un attimo di merda, quel Dio! – imprecò il Tecnico. Un travaso di bile lo colpì. “Unica soluzione possibile, il plutonio”, pensò. Quanto era esecrabile la foga di quei subumani, che prima bramavano di sedersi a consumare quello sterco e poi ne avanzavano la maggior parte nei sudici piatti. Reggendo il suo vassoio, si incamminò verso i tavoli della stanza più estrema della struttura. Schivando le figure barcollanti di alcuni materialoni e maledicendo mentalmente la loro rozza natura, riuscì alla fine a raggiungere il suo solito posto. Dietro di lui era seduto il Corvo, un uomo dagli occhi scavati e forse divorato da un tumore. Come ogni giorno stava lì, avvolto nelle sue vesti nere a consumare un magro pasto a base di pesce. Il suo beveraggio consisteva in una piccola caraffa di vino annacquato. Mentre masticava pensava a chissà quali universi lontani. Il suo sguardo assente ricordava talvolta la fissità di un cadavere a cui nessuno avesse pensato di chiudere le palpebre. I Russi cominciarono ad accomodarsi. In realtà nessuno di loro era etnicamente un puro slavo, venivano da qualche misteriosa repubblica transuralica portando le loro incerte favelle, miscugli inestricabili di idiomi turchi e mongolici frammisti a terminologia islamica di lontana origine araba e ad altro materiale lessicale assolutamente non identificabile. A differenza di altri gruppi di operai, questi vestivano di grossolane tute di jeans, di un colore blu uniforme ed intenso. Ecco “Borat”, con la sua figura longilinea, la sua statura di quasi due metri, il suo volto magro e i suoi baffetti corvini. Accanto a lui c’era “Galuba”, un grassoccio uomo caucasoide di mezza età dai capelli grigi, con la faccia rotonda come una luna piena, gli occhi bovini e inespressivi, le ciglia cispose. Di fronte sedeva “Uldin”, dalle sembianze di un antico condottiero degli Unni. Tipicamente mongolico, il suo sguardo aveva un che di intenso e feroce, forse a causa dell’effetto della tipica plica oculare. Incredibile come il Tecnico avesse per mesi e mesi perso tempo ad etichettare quelle stupide persone con un nomignolo. I loro veri nomi gli sarebbero stati sconosciuti per sempre. Oltre quel gruppo, verso l’esterno, sedeva una strana comitiva di uomini dalla pelle scurissima. Dal loro modo di parlare il Tecnico era riuscito a capire che si trattava di Rom. Nascondevano con cura ai datori di lavoro la loro vera origine per non perdere il posto all’istante e per non essere esposti a discriminazioni. Di solito si facevano passare per genti dello Sri Lanka, tanto poi nessuno indagava a fondo. Erano forse i soli a portare un po’ di allegria in quel mortorio senza speranza. Uno di loro, orecchino dorato al lobo dell’orecchio destro, si alzò dal tavolo e passò all’improvviso dal Romanes all’Italiano. - Io sono fiero di essere un terrone! - urlò come un giullare ubriaco. I suoi compagni lo scoppiarono a ridere e lo fecero sedere prima che combinasse qualche danno. Diverse caraffe grandi facevano bella mostra in mezzo alla tavolata, quasi svuotate dal vino che fino a poco prima contenevano. I gitani sogghignarono ancora per un po’ e si scambiarono commenti fragorosi, poi finirono di mangiare e si alzarono. Alcune inservienti di incerta etnia accorsero subito a rimuovere il porcile che si era formato, così in breve tempo altre persone si sarebbero potute sedere.
I soliti “Borat”, “Galuba” e “Uldin” continuavano la loro conversazione fatta di borbottii. A loro si erano aggiunti “Kaspan” e “Boromir”, un grassone biondiccio con occhi azzurrognoli, evidentemente discendente da coloni sovietici. Che buffo. Il Tecnico aveva battezzato “Kaspan” dal cognome di un suo compagno di scuola per via del somatismo vagamente simile. Una volta, era ancora adolescente, era stato invitato da lui nel garage di casa, dove stavano ammucchiate pile di riviste pornografiche illegali, semplicemente allucinanti. Le recuperava dalla cartiera dell’oratorio, così gli aveva detto, dicendo anche che si trattava di materiale “fichissimo” che non avrebbe venduto neanche a peso d’oro. Il Tecnico ricordava ancoro quelle immagini ributtanti: non si pentiva di essere corso via in preda allo schifo e di non aver messo più piede in quel piccolo inferno. I Russi avevano i vassoi ricolmi di pietanze di ogni genere, non esitavano a dissipare i loro buoni comprando primo, secondo, contorno e frutta. Poi mangiavano soltanto una piccola parte di ciò che avevano davanti. Lo spreco nella mensa era incredibile e sistematico. Quando gli operai si alzavano, lasciavano sui tavoli uno spettacolo desolante, un autentico letamaio di avanzi unti mischiati alla rinfusa. Piatti messi uno sull’altro, con pezzi di pollo e masse di pasta che uscivano dalle intercapedini, posate sporche di salive schifose e cosparse di residui di alimenti. Al Tecnico questo faceva riflettere ogni volta. Già di per sé tali abitudini dissipatorie sarebbero state in grado di demolire il mito buonista della fame nel mondo, dato che la gran parte di tali genti proveniva da nazioni in cui imperversava la carestia. Un sorriso beffardo spuntò sul volto del Tecnico. Fosse stato per lui avrebbe trascinato lì per i capelli le maestrine che in tutte le scuole inculcavano idiozie nelle menti infantili, rovinandole per sempre ed impedendo loro di formarsi un’immagine corretta della realtà dei fatti. A sentire quelle troie decerebrate, il terzo e il quarto mondo brulicavano di poveri bambini sempre pronti a divorare qualunque cosa capitasse loro a tiro, condizionati in ogni loro comportamento da una fame inestinguibile. Invece le genti di quei paesi erano anche quelle che avevano più pregiudizi alimentari, tanto che non pochi MANDINGO si rifiutavano di mangiare il cibo che trovavano in Europa. Non ce n’era nessuno che fosse un ghiotto divoratore. Il Tecnico vedeva le stesse scene ogni giorno. Marocchini che continuavano a chiedere con insistenza se nel pesto ci fosse il maiale e così via. Una volta una donna islamica indicò della carne e chiese se fosse suino. Nell’altra vaschetta c’erano delle grasse salsicce. Come l’inserviente addetta alla distribuzione rispose che l’arrosto era di maiale, la donna disse candidamente: “Allora mi dia le salsicce”. Le figure tristi dei Nordafricani avevano qualcosa di sfuggente. Si mettevano tutti tra loro, molti bevevano lattine di energy drink tipo Red Bull nonostante il loro costo fosse proibitivo, forse per esibire un surrogato del vino. Un islamico da solo in mezzo a genti di altra religione poteva bere tranquillamente il vino, ma se c’erano altri suoi compagni non osava, visto che si controllavano a vicenda. Il comportamento immorale di un membro della comunità avrebbe potuto essere riferito all’Imam, dal momento che i delatori erano molto numerosi. “Ecco il Carognaro”, si disse il Tecnico osservando un uomo procedere tra i tavoli abbandonati in cerca di rifiuti. Ormai i Russi se ne erano andati e in tutta l’ala erano rimasti in tre: il Tecnico, il Corvo e il Carognaro. Al Corvo nessuno osava avvicinarsi, la gente pensava che portasse sfiga. Il Carognaro si diresse verso i posti dei Russi e rovistò tra i piatti. Era italiano e aveva tutta l’aria di una persona ben al di sopra di chi lo circondava. Forse ricopriva addirittura un posto di una certa responsabilità, visto che i suoi vestiti erano impeccabili. Nonostante questo, il suo comportamento era al di là di ogni decenza. Con ogni probabilità era l’effetto strisciante dei prioni dell’Alzheimer a spingerlo al contatto con gli avanzi altrui. Prese una forchetta usata e si riempì un piatto di cibi eterogenei, quindi si sedette a mangiare. Non che il Tecnico fosse una persona di grandi appetiti, ma solo guardare quello che restava della sua pasta dal sugo acidulo gli fece venire una nausea insistente. Non poteva sbocconcellare la piccola forma di pane senza provare a calcolare il tenore di larve di coleottero e di blatte nella farina, così decise di lasciar perdere. Versò nel bicchiere quanto rimaneva della sua acqua minerale. In quel momento arrivò il Professore. Era un uomo sulla cinquantina, magro e con i capelli brizzolati. Portava gli occhiali. Depose sul tavolo un vassoio con un piatto di pasta al pomodoro e una bottiglietta d’acqua. “Che stavolta sia solo?”, si domandò il Tecnico, “Che lei l’abbia inculato?”. Non appena finito di formulare quelle oziose domande, ecco che vide arrivare l’amante del Professore, “Ano”. A dire il vero si chiamava Elena, ma il Tecnico l’aveva ribattezzata “Ano” perché era un’anoressica terminale. Le foto di Auschwitz avevano di certo perso ogni loro potere traumatizzante da quando si era potuto constatare che sempre più ragazze si riducevano a scheletri volontariamente, senza nessuna SS che le costringesse, e tutto per la più fatua delle motivazioni: il narcisismo. Se “Ano” si fosse offerta per interpretare una deportata ebrea in un film sull’Olocausto, sarebbe stata perfetta nella parte.
“Ano” era una ragazza dalle lunghe chiome bionde e dagli occhi azzurri. Una volta una collega del Tecnico aveva ironizzato dicendo che era troppo ariana per interpretare il ruolo della gassata ad Auschwitz, ma lui si faceva beffe di simili obiezioni: sapeva bene che gli Ebrei Ashkenaziti avevano il più alto tasso di biondi dagli occhi azzurri del mondo. Detto questo, “Ano” non era ebrea. Era di Parma. Bionda, pettegola e coi dentoni, come tutte le genti di Parma. Le braccia non avevano alcuna muscolatura, a parte forse qualche fibra atrofizzata: soltanto ossa fragili e pelle. Con ogni probabilità si muoveva grazie ai tendini. Le si contavano le costole attraverso la maglietta, i suoi seni erano piccolissimi e vizzi, poco più che rigonfiamenti appena abbozzati. A parte questo, il suo corpo era così poco sessuato che avrebbe potuto essere scambiata per una bambina. L’addome era scavato, il bacino si sarebbe potuto rompere con uno spintone. Il Tecnico dubitava che il Professore la penetrasse, le avrebbe fratturato qualche osso con un paio di spinte. Avrebbe naturalmente potuto possederla more ferarum o farla salire su di lui, ma anche così i pericoli sarebbero stati eccessivi. Era chiaro che lei gli procurava piacere fellandolo. Cos’altro avrebbe potuto fargli se non prenderglielo in bocca e succhiarlo? Ogni volta che “Ano” si sedeva davanti al suo adorato Professore, lo fissava estasiata, con un’espressione assolutamente ebete negli occhi in preda all’ipnosi. Sorrideva vuota, come una vergine di Medjugorie in piena apparizione mariana. Non ci potevano essere dubbi. Non solo leccava e succhiava il Professore, ma gli passava anche la lingua sull’ano. Se lui le avesse detto di farsi defecare in bocca, lei avrebbe aperto la bocca perché lui la usasse come latrina. La cosa che più sorprendeva era però un’altra. “Ano” mangiava. Prendeva sempre un piatto di pasta e una ciotola di mirtilli e non c’erano dubbi che si introducesse queste cose nello stomaco. Il Tecnico sapeva come spiegare anche questo fenomeno. Lo scheletro deambulante ingurgitava tutto e poi si recava immancabilmente al cesso a vomitare. Ogni input doveva corrispondere a un output, per usare un linguaggio per iniziati alla Scienza Occulta dell’Informatica, alla Ghematria dei Bit. Era ben possibile che andasse a vomitare anche dopo aver inghiottito gli impetuosi zampilli di sperma che il Professore le riversava in bocca: ogni apporto calorico, di qualsiasi origine, doveva essere tenuto sotto spietato controllo. L’ennesima ondata di disgusto assalì il Tecnico, che decise di ritornare al suo noioso e logorante lavoro di programmatore. Si sentì in preda a una stanchezza incredibile. Sarebbe uscito e avrebbe percorso un breve tratto di una via coperta di escrementi canini, sui cui lati stavano sorgendo grattacieli tanto alti che una volta ultimati avrebbero oscurato il sole. Tutto un cantiere. Dove prima c’era un centro sociale, ora ferveva l’opera di migliaia e migliaia di formiche in un titanismo, minuscoli atomi di un progetto il cui titanismo aveva qualcosa di cinese.
Nell’attraversare la sezione principale della mensa ctonia, il Tecnico fu colpito dalla figura di un operaio particolarmente grottesco. I suoi tratti erano molto devianti rispetto al valor medio di qualsiasi tipo di umano. “Un uomo di Neanderthal”, venne subito in mente al Tecnico, che si fermò a fissarlo. L’essere aveva una corporatura robusta e tarchiata, muscoli da culturista, duri e lucidi come acciaio. Collo quasi assente, cranio massiccio dall’ossatura spessa. Fronte sfuggente, assenza di mento, arcate sopracciliari prominenti. I capelli, foltissimi, arrivavano quasi alle sopracciglia ed erano di un nero lucente. La barba di due o tre giorni era composta da peli aguzzi la cui area di crescita giungeva fin quasi agli occhi. Il naso era imponente, una cosa mai vista. I denti massicci sembravano pioli. Per il modo di vestire non si distingueva da altri seduti nei tavoli attorno a lui: indossava la tipica tuta arancione fosforescente. Il Tecnico trasecolò. Era come se un uomo di Neanderthal fosse piovuto a Milano dai suoi territori di caccia preistorici, fosse stato ripulito sommariamente, rasato e vestito, gli fosse stata impartita un’istruzione rudimentale consistente di brevi comandi e fosse stato messo a lavorare alla costruzione dei nuovi palazzi regionali. Mangiava a quattro palmenti. Aveva già svuotato tre piatti e si preparava ora a finire il quarto. A quanto pare si nutriva unicamente di carne. Alcuni muratori bergamaschi gli si avvicinarono e lo salutarono usando il loro dialetto. “Ola!”, fece uno di loro. Lui in risposta alzò una mano ed emise un suono stridulo. Inumano. Le vocali erano diverse dalle nostre, nessuno avrebbe saputo trovare un sistema di trascrizione. Quella parola estranea all’umanità sconvolse il Tecnico, che volle avvicinarsi per chiedere informazioni. Non fece in tempo a muovere due passi nella direzione scelta che fu colpito da un malore improvviso. Una sensazione indescrivibile lo attraversò con la potenza di un fulmine. Il campo visivo si offuscò e si rese appena conto che le gambe stavano per cedergli. Cadde come un sacco vuoto, perdendosi nelle nebbie dell’incoscienza. Quando riaprì gli occhi, il Tecnico capì subito che qualcosa non andava. Il pavimento era bianco, sembrava di ceramica. Una grande massa profumata di arrosto stava davanti a lui. Non voleva credere ai suoi sensi: quello era davvero arrosto fumante. Si guardò e vide che era nudo come un verme. I vestiti che indossava erano in qualche modo spariti. Alzando gli occhi verso il soffitto distinse un enorme lampada al neon. Troppo grande, sproporzionata. Un cozzare terribile lo fece piegare in due, assordandolo. Si girò e vide delle aste di acciaio cozzare contro la ceramica del pavimento. Un digrignare tremendo pervadeva l’aria, come se denti giganteschi stridessero l’uno contro l’altro. Ecco che tutto gli si rivelò di colpo come vide il faccione dell’Uomo di Neanderthal sopra di sé, un mostro grande come una casa. Allora comprese di essere nel piatto di quel mostro e di essere stato ridotto per scherzo di un destino atroce e inesplicabile alle dimensioni di un vermicello. Non gli restava altro che correre al riparo. Troppo tardi, era stato visto. Una montagna di carne fu rimossa e scomparve nelle fauci del Neanderthal in men che non si dica, tra rumori assordanti di masticazione. Rimanevano davanti al Tecnico soltanto pochi frammenti inutilizzabili. Il bruto lo fissò con occhi pieni di ferocia e passò all’attacco. Incredibile come avesse appreso bene ad usare le posate, divertendosi a tagliare e al infilzare. Il coltello cozzò contro il piatto emettendo un verso straziante. Il Tecnico non poté far altro che turarsi le orecchie, come per impulso riflesso. Non serviva proprio a nulla: l’eco di quell’insopportabile fischio lo uccideva. Le vene si gonfiavano sul suo collo e sulla sua faccia, tese fino a scoppiare. Sentiva che sarebbe morto per la rottura di un aneurisma o per un infarto entro pochi minuti. Il terrore gli aveva deformato il cuore e faceva pulsare all’impazzata le arterie: nessun sistema cardiovascolare poteva resistere a lungo a una sollecitazione tanto violenta. La forchetta calò con infinita crudeltà proprio mentre i molari cozzavano come Simplegadi. Sembrò alla vittima che i Cieli stessero crollando. I timpani si lacerarono e un dolore sordo gli prese il torace e la schiena, paralizzandolo completamente. Uno dei rebbi più esterno della forchetta gli straziò l’addome. Sangue uscì misto ad intestini e a coaguli fecali spandendosi sull’immacolata ceramica: era la fine. Un altro colpo infilzò il torace, spappolando un polmone e mancando il cuore per un soffio. Con gli ultimi istanti di vita raggelata, l’uomo vide la bocca del Neanderthal avvicinarsi. Gli ultimi pensieri che passarono per la rete neuronale del moribondo erano confuse accozzaglie di reminiscenze scolastiche e di letture di gioventù. Polifemo, Crono divoratore dei suoi stessi figli, Grendel della Stirpe di Caino. Poi il Nulla. 

Marco "Antares666" Moretti

domenica 15 maggio 2022

LA COMPAGNIA DELLE LARVE

Ancora nella mensa ipogea. Sembra la stessa sequenza che si ripete da un’eternità come una manciata di fotogrammi impazziti. Tutto nasce dai fumi alcolici e si disperde nella nebbia impenetrabile che avvolge ogni mia percezione del futuro. Sono un etilista terminale. Non so neanch’io come abbia fatto a ridurmi in questo stato. Tutto viene dal Nulla e procede verso il Nulla. Non conservo alcun ricordo preciso della mia esistenza, salvo qualche tabella e qualche grafico nei file .xls che elaboro quotidianamente in stato di semincoscienza. Dopo aver lottato contro la sonnolenza, vengo qui in questo sotterraneo saturo di radon a ingurgitare qualcosa. Che lavoro svolgo davvero in quell’ufficio-prigione, in quel loculo? Non lo ricordo già più. Quando vi farò rientro, finita la pausa pranzo, riprenderò i miei automatismi, svanendo poi nell’Oblio che contraddistingue ogni tardo pomeriggio. Mi riempio una grossa caraffa da un litro di vino bianco frizzante estratto dalla spina. A volte lo rendo rosato aggiungendovi qualche spruzzo di rosso. Ne bevo subito qualche sorso per placare il tremore, quindi passo a rabboccare di nuovo la caraffa. Dopo aver pagato alla cassa, mi avvio verso un tavolo nella zona più isolata della mensa, stando attento a mantenermi in equilibrio. Non c’è quasi nessuno oltre a me, solo qualche operaio russo che mastica rumorosamente il suo cibo insipido, avanzandone la maggior parte. Non bado a quei subumani. Mi verso invece la bevanda intossicante in un bicchiere di plastica trasparente e comincio a bere, perdendo i già esili contatti con la realtà di veglia. Qualcosa prende forma attorno a me sul tavolo. Presenze a me familiari, dato che costituiscono la mia sola compagnia. Dialogo con quei grossi bruchi variopinti e pieni di flagelli semoventi, partoriti dal mio delirium tremens. Di solito farfuglio parole in una lingua che io stesso non capisco. “Oldens enumens, entairom olders”, saluto i budelli, poi proseguo i miei discorsi. Alcuni segmenti ricorrono di frequente. “Enimenda soktodal”. So soltanto che “soktodal” significa “fulmine”, ma il resto non mi è chiaro. A volte ripeto quella parola isolata un gran numero di volte, come un mantra per allontanare la malasorte. Soktodal, soktodal, soktodal, soktodal… Forse parlo senza neanche saperlo dei Massimi Sistemi, anche se dubito di essere capito. Ogni volta che mi succede, ci sono bruchi diversi per colore e per forma che si affollano sul mio tavolo. Ricordo ancora bene che ieri è venuta a trovarmi la larva di una farfalla sfinge, era verde come lo smeraldo e grande quanto un mio avambraccio. Aveva due flagelli rossi sulla coda, proprio in prossimità del “boccone del prete”, simili a tentacoli con le estremità avvolte a spirale. Ogni tanto faceva guizzare questi flagelli e li contraeva di nuovo, mentre faceva la gobba. Stando attento, mi riusciva di vedere gli intestini muoversi sotto la pelle sottile mentre muoveva gli pseudopodi. Non osava avvicinarsi a me più di tanto. Negli occhi composti da ommatidi non brillava alcuna luce di consapevolezza, ma forse c’era più capacità di comprendere l’ambiente in quel bruco che non negli operai russi.
Faccio una pausa dalla mia amara meditazione, approfittando per svuotare il bicchiere. Il sapore del vino è asprigno, ma non mi curo delle proprietà organolettiche di ciò che bevo. L’importante è che abbia un suo tenore alcolico. Se appena ci rifletto, mi rendo conto che il ricordo dei miei visitatori invertebrati rappresenta una delle poche cose nitide e certe della mia infelice esistenza. Proprio adesso vicino alla caraffa strisciano due frutti della mia follia. Uno è più grande e l’altro non arriva neanche alla metà del primo. Eppure si tratta di visioni che pochi sopporterebbero. In fondo questo pianeta, pur avvicinandosi così tanto alla definizione di Inferno, non è il peggio che si possa immaginare. A quanto pare, in Natura non vi sono specie di bruchi di proporzioni simili. Le salsicce deambulanti che indugiano sulla superficie di plastica del tavolo sono molto simili tra loro. I loro corpi sono adorni di giallo, di rosso e di bruno, cosparsi di vibrisse sottili. Dal dorso inarcato si dipartono appendici molli e animate che sembrano tentacoli o frustini, di un nero untuoso come quello di certo petrolio greggio. Ogni dettaglio mi appare chimico, ripugnante, al punto da smuovere ondate di nausea nel mio stomaco. Gli ocelli sui fianchi molli delle creature dell’incubo sono macchie azzurre sui fianchi con in mezzo un’apertura minuscola che li rende simili ad atrettanti sfinteri. “Inutile che cerchiate con tanta insistenza”, dico loro in preda alla stizza, “Tanto qui non c’è nulla di commestibile per voi”. Ritorno alle mie libagioni. Un rigurgito acido sale dal mio stomaco, ricordandomi che morirò quasi di certo soffocato nel sonno, anche se dei miei sonni non mi resta alcuna memoria. Due flashback irradiano in me, come se una macchina fotografica aliena avesse colto spezzoni della mia vita subliminale che io non riuscivo a richiamare a livello conscio. In uno di questi psicodrammi mi vedo mentre inginocchiato vomito nella tazza del cesso i rimasugli del mio fegato ridotto a poltiglia violetta. Nell’altro, sono sicuro di scorgere il mio corpo dall’alto, essendomene separato, mentre i rianimatori si accalcano attorno alla carcassa nel vano tentativo di richiamarmi nella prigionia corporale. Sono ricordi del passato o ricordi del futuro? Non saprei dirlo. Non distinguo più nulla del flusso temporale, a parte i miei amici bruchi. Non sono neanche sicuro di poter definire i compagni della mia sventura con il termine “larve di lepidottero”, perché mi appare ridicola la sola idea che un giorno potranno impuparsi e sfarfallare, lasciandosi alle spalle la loro precedente esistenza di masticazione. Provo a interrogare i miei muti interlocutori sul significato delle esperienze di pre-morte. Anche se non mi attendo una risposta comprensibile, data l’assenza di organi fonatori, sono sicuro che il brusio assordante nelle mie orecchie possa contenere qualcosa di razionale, quasi una risposta diretta alle mie allocuzioni. Il discorso mi sale dalle labbra. “Entimenenda sintamanda soktoks felimenda astamoks fenima ondomaima ondeks fanomu endimos onondagamas…” Non sento alcuna alterazione nelle frequenze bassissime che premono contro i miei timpani sovraccarichi. Eppure la metarazionalità dei flussi ricevuti dai miei nervi acustici va a nutrire il mio inconscio. O si tratta di qualche residuo di sedute di analisi che ho sopportato in qualche mia vita precedente? “Ontoma sinted anomoina fenomu anostriks enosoktodal enima entimanoskuma…” Non so dire se sia un dialogo vero o piuttosto un monologo degno di un Aleister Crowley in preda alla demenza furiosa. Mentre fisso le due apparizioni spettrali, eppure fin troppo concrete, noto che i loro corpi molli si stanno irrigidendo. Perché continuo ad aspettarmi una risposta, quando neppure comprendo il senso delle mie domande?
Ho trangugiato quasi tutto il contenuto della caraffa. Non credo di avere il tempo di andarne a prendere una nuova, ma tanto per il pomeriggio posso confidare su un recipiente di etanolo puro che tengo assicurato alla cintola, ben nascosto dal maglione. Presto cesserà l’attività della mia coscienza, diventerò un servo robotico e sprofonderò nella nebbia. Ad emergere dalla formattazione dei miei neuroni sarà il prossimo pranzo in questo sepolcro che gli altri si ostinano a chiamare mensa. Qualcosa però mi convince a trattenermi, nonostante l’orologio appeso alla squallida parete di fronte a me mi avvisi che il mio tempo sta per finire. I due bruchi sono adesso quasi immobili. La loro stessa struttura fisica è cambiata. Si sono gonfiati a dismisura. Ho la netta impressione che un’orribile pressione minacci di farli esplodere dall’interno da un momento all’altro. I gibbi e le protuberanze compaiono sempre più numerose sulla loro cute inspessita, come oscene verruche. Un essudato spurga, lo capisco dalla lucidità. Le appendici sensoriali sul dorso sono ora prive di vita, non guizzano più come prima. Non mi ricordano più le chiome di una gorgone, ma una qualche formazione algosa ormai priva di vita. Negli abissi del mio essere c’è sconvolgimento. Percepisco il pelo della mia anima come la superficie del Mare Avvelenato agitato dal Serpente del Mondo. Le onde si sollevano e cozzano le une contro le altre, perdendo qualsiasi coerenza. I germi dell’inaudito sono all’opera, in me come nelle larve sprofondate nel loro stato comatoso. La pressione interna cresce ancora nelle loro viscere, al punto che comincio ad intravedere qualche piccola spaccatura, da cui cola un sangue di un color giallo marcio, semitrasparente. Un fetore di cavoli marci si sprigiona dai corpi in metamorfosi, ed è tanto aspro e pungente che non credo riuscirò a sopportarlo a lungo. Non posso alzarmi, non posso allontanarmi dal tavolo prima di aver visto, prima di aver ricevuto la rivelazione finale del teatrino entelechiano che ho davanti agli occhi. Ecco che si fa più vicino l’esito. Masse si muovono, mi ricordano il pullulare di piccoli cagnotti nella carne marcia. Finalmente alcuni di questi figli della necrogenesi fanno capolino. Le loro robuste mandibole stanno masticando quello che resta dei loro genitori. Sono decine, e ciascuno di loro è una copia in miniatura dei bruchi appena morti. Si riproducono in questo modo, esclamo tra me e me, esterrefatto e catturato dallo spettacolo macabro quanto ipnotico di quella germinazione. Lo avevo sempre sospettato, ma adesso ne ho una conferma incontrovertibile. Cosa sono queste forme infernali che affliggono i miei sensi esausti e piagati? Nulla di più lontano dai bruchi delle farfalle, che si trasformano in qualcosa di bello. Questi non portano nessuna gioia nel cuore, ma non fanno altro che replicare il loro schema all’infinito. Non hanno in sé le potenzialità della meraviglia. La loro ontologia non ha nulla a che vedere con quella dei lepidotteri.
“Quanto sono stupido!”, esclamo all’improvviso. “Sto scambiando per realtà oggettiva quello che è l’infetto prodotto della mia follia allucinatoria! Non mi era mai capitato di subire un rapimento così profondo, un solipsismo così assoluto…” Proprio quando cerco di convincermi dell’irrealtà di quanto mi circonda, mi rendo conto che uno dei giovani bruchi mi ha morso una mano. Mi agito e urlo in preda all’obbrobrio, scagliando lontano il piccolo predatore. Quando guardo la ferita, vedo che sanguina e che si corrode lentamente, come se la saliva lasciata dalle fauci della larva stesse digerendo la mia carne. Non avverto sensazioni dolorose, ma di anestesia. Quella piccola puttana mi ha anestetizzato la mano per poterla mangiare indisturbata. “Non è possibile!”, impreco con furia, “Le allucinazioni non lasciano ferite, non straziano le carni…” Non mi sono accorto di nulla, non riesco a capacitarmi di come sia potuto accadere. Ora però ogni cosa mi è chiara. Con infinito orrore vedo che tutti i bruchi voraci hanno abbandonato il tavolo e sono saliti sul mio corpo, iniziando a fare il loro banchetto con le carni delle mie braccia e delle mie gambe. Di nuovo le mie urla folli lacerano l’aere. “Mi sta entrando in un occhio! Mi divorerà il cervello! Aiuto!”, strillo come un’aquila. Niente da fare. La cameriera filippina non si accorge di nulla. Mi vede mentre cerco disperatamente di strapparmi la faccia dal teschio, e non dice una sillaba. Si limita a ritirare la caraffa ormai vuota e si allontana come se fosse la cosa più normale del mondo. Il buio si fa strada in me, gelido come la morte essenziale. Mi immedesimo con Thanatos e so che nulla esiste al di fuori. È stato un attimo, tutto quello che ho creduto di vivere, e ora sta per finire con la morte eterna. L’anestesia ha raggiunto i miei centri cognitivi. Tra poco non sentirò più nulla. Ecco, il Dio della Morte è giunto, finalmente, con il suo pungiglione. Non c’è più nulla, il mio corpo non esiste più. Non c’è più il lavoro con i grafici e le tabelle .xls, non c’è più la mensa ipogea. Non ci sono più gli pseudoricordi, i flash di mie esistenza alternative. Tutto acquista la sua concretezza, il suo senso definitivo. Il Non-Essere. Ho soltanto un dubbio. Perché sto continuando a pensare?

Marco "Antares666" Moretti 

mercoledì 11 maggio 2022

METANÒR

Quello che mi accingo a descrivervi desterà in voi più di un dubbio sulla mia sanità mentale, ma nonostante ciò non posso più passare la cosa sotto silenzio. La mia permanenza forzata nell’orrida colonia di Cardano al Campo è stata resa tormentata e insopportabile da molteplici manifestazioni che la Scienza può soltanto definire allucinatorie. Non arrendendomi alla mia disgrazia, ho persino teorizzato in cerca di una qualche spiegazione, e ho anche dato un nome ai demoni astrali che mi perseguitavano: Metanòr. Questi Metanòr hanno forma di grossi bruchi microcefali simili per sagoma a una pera, panciuti, come certe larve migranti sottocutanee. In cima alla piccola testa sta un unico occhio umano. Nessun segno di apparato masticatore. Il corpo è segmentato, molle e coloratissimo, non troppo diverso dal corpo di certi bruchi della nostra realtà: ad esempio i Metanòr hanno le sei zampe vere da insetto, nere, e molte paia di pseudozampe colorate, coperto di radi cernecchi di peli, di papule, di piccole vibrisse e di altre escrescenze. Il tutto si muove e si inarca con movimenti complessi ed alquanto abominevoli. La massa delle loro viscere pulsa di continuo sotto l’esile pelle. La percezione di uno o più Metanòr è avvenuta da principio con la Seconda Vista, una specie di senso difficile a descriversi, che mi ha accompagnato per tutta l’esistenza. Presto però hanno cominciato a subentrare sensazioni nettamente fisiche, come l’onda di ribrezzo, che più di una volta mi ha fatto urlare per strada. Una volta, mentre mi dirigevo dal luogo in cui ero costretto a lavorare al tugurio cadente in cui dormivo, la crisi è stata tanto forte da provocarmi quasi lo svenimento. Per fortuna nessuno mi ha visto, altrimenti mi avrebbero di sicuro preso per un drogato o per un derelitto affetto dalla fase terminale del delirium tremens. I Metanòr mi attaccavano in sfuriate successive, inducendomi pensieri immondi, come il contatto con latrine e con escrementi, umani e non umani. Facevano formare immagini deboli ma non descrivibili a parole di tutto ciò che di più orribile può essere concepito nell’Esistenza. Quando più Metanòr mi abbattevano unendosi, i loro occhi si fondevano in un occhio gigantesco e lucente, a volte con più pupille. In quelle occasioni, io dico che si sono uniti in corona, come se fosse un processo quantistico in cui nuvole orbitali probabilistiche di atomi esotici si ibridizzano. Sempre, ogni volta che ciò mi è accaduto, ho perso completamente il controllo sui miei pensieri e la mia libertà è stata violata. I teologi di due millenni potranno blaterare quello che vogliono, ma nessuno potrà mai convincermi che esiste il libero arbitrio. Aveva ragione Lutero quando scrisse: “Quod evidens est argumentum, liberum arbitrium esse merum mendacium”. Se il vomito di un verme diabolico è in grado di annichilire la mia volontà, allora sono soltanto una spada nelle mani di entità immonde. Finita la cattività cardanese, la comparsa dei Metanòr è stata sempre meno frequente ed intensa, fino a cessare del tutto. Eppure il terribile shock che l’infestazione mi ha inflitto ha polarizzato la mia materia grigia in modo permanente, e non potrà mai essere dimenticato finché avrò un alito di vita nei polmoni. 
 
Marco "Antares666" Moretti

lunedì 9 maggio 2022

PANDORA

L’uomo portava un pesante pacco, che nella sua stoltezza pensava essere composto da un semplice ammasso di cenci da gettar via. Non sapeva nemmeno lui perché sorreggesse tale peso mentre ingobbito e torvo risaliva la ripida rampa di scale. Le lampade che illuminavano il recesso emanavano una luce grigia, le pareti sembravano fatte di galena. All’improvviso la voce parlò, e l’uomo sapeva che proveniva dal profondo. “Guardami, le mie mascelle potrebbero cadere. Allora sarei un individuo inutile, incapace persino di mangiare, forse persino impedito a respirare correttamente”. Ecco che l’uomo fu invaso da un profondo terrore. Come chiuse gli occhi per schermarsi da una rivelazione così traumatizzante e incomprensibile, vide la sagoma di una donna-cadavere. “Da viva sarà anche stata una bella donna”, pensò. Ora però che la contemplava era orrenda. La pelle era di un grigio azzurrognolo malato come le pareti di minerale plumbeo. Gli occhi erano globi neri che sembravano liquidi. Nel centro delle guance c’erano punti di cedimento attraverso i quali si intravedeva il nero marciume all’interno del cavo orale: una lingua simile a una larva di processionaria scura come il petrolio, che si muoveva incessantemente. Una zaffata investì l’uomo, portandogli alle nari i lezzi di una bara scoperchiata. Dopo un attimo di marasma, ritrovò le forze e varcò finalmente la soglia di casa. Mise il pacco di cenci sotto la scrivania e si sedette, accendendo il computer. Accese la macchina, e dopo una tormentosa attesa lo schermo nero si animò. Una figura cominciò a prendere forma. Anziché il consueto caricamento dei programmi, dal turbinio confuso di grigio si rapprese l’immagine della donna morta. Non aveva più la mandibola, si era staccata. Adesso la lingua simile a un bruco era estroflessa oscenamente e guizzava tutt’intorno. “Te lo avevo detto di stare attento”, tuonò ancora la voce telepatica. L’uomo capì tutto e quasi morì di terrore. I suoi occhi andarono al fagotto di stracci che aveva con noncuranza gettato sotto la scrivania. Vide che era sporco di liquame nerastro. Sangue. Aprì l’involto e scoprì una mano femminile mozzata che stringeva una manciata di denti candidi come l’avorio. 

Marco Moretti (Antares666)

sabato 7 maggio 2022

FULMINI BLU

Sono di ritorno da Milano, in treno. C’è uno sciopero e il treno su cui viaggio è uno dei pochi garantiti. Si vedono dei bagliori blu fuoriuscire dai cavi della tensione, forse per qualche guasto su tutta la linea. Giunto in periferia dell’agglomerato urbano, proprio a Sesto San Giovanni, ho un’atroce allucinazione sensoria: sulla distesa di rotaie arrugginite ci sono alcuni flagellanti lebbrosi la cui testa è ricoperta di bruchi. Li vedo chiaramente. Marciano in processione su una pianura coperta di escrementi, di masse di vomito e di gigantesche larve semitrasparenti, grasse e microcefale, simili a quelle che gli aborigeni d’Australia reputano una leccornia, ma grandi più del doppio di un uomo. Gli invertebrati mollicci fanno fatica a muoversi, come se fossero piovuti dal cielo in un ambiente a loro del tutto estraneo, già in agonia. A guidare la processione spettrale è la Bambola Vedova, una donna parzialmente avvolta in un sudario nero lacerato in più punti. È senza piedi, non cammina, galleggia nell’aria. I suoi veli si muovono lentamente, mentre un agghiacciante urlo silenzioso giunge dal suo volto senza bocca e senz’occhi. I suoi capelli sono intrisi di sangue nero e ondeggiano nel vento statico. La pianura stercorale è piena delle rovine dei binari e delle ferrovie del nostro Universo, ma questa visione si sovrappone solo in parte alla realtà. Poi fisso i grigi palazzi, e ho la certezza assoluta che siano sede di un abominio non descrivibile a parole, come se migliaia di vecchi eternamente moribondi vi consumassero la loro dannazione immanente nella demenza e nel cancro, in modo simile alle larve semitrasparenti cadute dal Cielo del Nulla.

Marco "Antares666" Moretti

giovedì 5 maggio 2022

I GIARDINI STATICI

Mi trovavo in una squallida zona di Milano con P. "Nodens", che mi ci aveva trascinato per acquistare vecchi filmati pornografici. L’edificio in cui si trovava il negozio era oltremodo tetro e sorgeva non lungi da giardini pubblici che subito mi sono parsi molto strani. Avevo l’impressione irrazionale che le misere aiuole irradiassero staticità. Neanch’io sapevo spiegarmi in che modo, ma era come se l’acqua stessa ristagnasse nell’erba e nei cespugli. Sentivo la risonanza con il Mondo dell’Oltre. Con la seconda vista ho visto dei grossi bruchi di un color verde chiaro e malato, gonfi, semplicamente ributtanti. Avevano movimenti lenti, mascelle stillanti una secrezione saniosa e ocelli lungo i fianchi. Associato a queste larve coglievo un fetore di decomposizione simile a quello dei cavoli marci, ma con una nota chimica che lo rendeva ancor più nauseabondo. A questo punto mi resi conto che c’era qualcuno. Pur non avendo realtà fisica, quell’uomo glabro era lì: su una panchina lignea avvertivo la presenza di una specie di Hare Krishna vestito con una tunica bianca con ornamenti color giallo smorto. Aveva su di sé tre bruchi simili a larve di farfalla sfinge, eretti nella loro irritazione. Uno era più grande ed ornava la testa, gli altri stavano sulle spalle. Fissai a lungo l’asceta immobile, quando mi accorsi che mi stava guardando. Fissava intento la mia figura esangue, con occhi senza iride né pupilla, come palle marmoree di morte assoluta. Urlai a lungo, ma nulla valse a destarmi.

Marco "Antares666" Moretti 

martedì 3 maggio 2022

I FLAGELLANTI

La giornata si preannunciò subito portentosa. Come P. "Nodens" si presentò all’appuntamento, subito mi accorsi che indossava abiti esattamente identici ai miei. Non era possibile che si trattasse di una semplice coincidenza: i motivi del gilet e della camicia erano abbastanza complessi, eppure non c’era un solo dettaglio fuori posto. La cosa mi inquietò molto, e anche P. "Nodens" presagiva qualcosa. Arrivati a Milano, ci dirigemmo verso recessi particolarmente oscuri e decadenti, dove si trovava un negozio di videocassette pornografiche. P. "Nodens" aveva cercato per anni un film inquietante la cui scena finale era un’orgia di uomini mascherati. Quelle maschere bianche, quella musica abissale, erano diventati per lui una vera ossessione. Ora aveva parlato con il proprietario del negozio in questione e il film era stato trovato. Appena usciti da quel loculo incastonato nei muri anneriti, poco distante da un’orrida strada sopraelevata, fui in grado di percepire presenze inumane. Con la seconda vista vedevo le Volpi. Era in atto una processione di flagellanti spettrali e c’erano anche angoscianti figure gobbe con nere maschere di scimmia. I flagellanti si fustigavano la schiena nuda con rozze fruste o con gatti a nove code. Molti di loro erano lebbrosi, altri avevano la testa coperta di grossi bruchi di farfalla sfinge. Alcune figure erano prive di piedi e pareva che traslassero sospesi nell’aria. Suoni striduli e orrendi sembravano espandersi nel mio labirinto acustico, provenienti da una serie di rozzi strumenti metallici. Avevo l’impressione che quella cacofonia avrebbe mandato in frantumi la struttura stessa dell’Universo. Comunicai a P. "Nodens" ciò che i miei sensi alterati mi stavano trasmettendo, e con mia grandissima sorpresa, mi disse che lui vedeva e udiva proprio le stesse cose. La funesta processione ci accompagnò per tutta la giornata in ogni angolo di Milano che visitammo. Andammo in Via Legnone, e le rotaie del tram tra gli statici filari di alberi malati erano esse stesse teatro della cerimonia. Prendemmo il pullman alla stazione di Sesto San Giovanni, e anche lì sui binari della ferrovia li notammo. Ormai era quasi buio, la luce solare stava offuscandosi nel cielo di un innaturale blu cianidrico. Eravamo in contatto con Universo delle Entelechie: intuimmo che quei demoni, che io chiamavo Volpi, erano abitanti di un mondo sovrapposto al nostro. In condizioni normali non li avremmo mai potuti vedere, ma un evento anomalo doveva aver reso possibile la risonanza con quel Continuum dimensionale. P. "Nodens" rivolse gli occhi al cielo prussico e a quel punto il suo stesso pensiero passò in me quasi per telepatia. Nel mondo delle Volpi si festeggiava il passaggio di una cometa nera dalla coda bifida. L’evento nel nostro Universo sarebbe sommamente nefasto - e forse fisicamente impossibile - ma in quella realtà era considerato molto fausto. Per un istante fui certo di scorgere l’ombra statica dell’immensa cometa nel cielo. La stoltezza della gioventù mi spingeva spesso ad azioni dissennate. Pensai infatti di esprimere alcuni desideri, ritenendo che il potere della Cometa Nera li avrebbe realizzati. Quanto ero stolto! Di questi desideri, due non si avverarono mai e a questo punto credo proprio che ogni speranza si possa ritenere perduta. L’ultimo invece si realizzò perché ineluttabile per legge di Natura di questo Universo fisico - ma solo dopo molti anni di strazi e di difficoltà. Ciò che arreca sommo beneficio a qualcuno può essere veleno per altri e portare alla loro nemesi. Avrei dovuto capirlo. Introdurre una tale contaminazione nell’ordine delle cose che governa la mia vita, ecco cosa mi ha ridotto a ciò che sono. Metto in guardia chi legge queste righe dal fare ciò che ho fatto. Questo io ritengo per certo, che non è affatto un uso salutare esprimere desideri quando nel Regno di Ohork compaiono “comete nere beneauguranti”!

Marco "Antares666" Moretti

domenica 1 maggio 2022

MANDAROM 

La luce del sole andava pian piano incupendosi, virando al giallo scuro. Ancora un’ora e poi l’astro sarebbe sprofondato dietro le montagne. Egle camminava per i campi, diretta alla fonte. I suoi genitori l’avevano mandata a riempire di acqua il secchio, come ogni sera prima di cena.
Quando giunse all’orto, Egle vide che era stato devastato. C’erano escrementi dovunque, di un tipo che non aveva mai visto prima. Per dimensioni sembravano prodotti da esseri umani. Avevano però un aspetto orribile e pastoso, ed emanavano un odore atroce. Un lezzo che sembrava a metà strada tra quello di un cavolo marcio e quello di un cadavere. Accanto alle scorie c’erano tracce di bava densa e schiumosa mista a resti di vegetali masticati. Egle rabbrividì ed estese il suo sguardo oltre i confini dell’orto, spaziando sui campi di cereali. L’intero raccolto era andato distrutto. Non capiva quali bestie fossero capaci di produrre una simile desolazione. Non potevano essere lupi, e neanche orsi, anche se si sapeva che in caso di scarsità di prede erano benissimo capaci di cibarsi di vegetali. La bambina si ricordava che una volta, al colmo dell’inverno, un lupo si era ingozzato di patate fino a vomitare. Non contento, aveva inghiottito il suo vomito, prosciugando poi un intero serbatoio d’acqua. Gli era però andata male, tutto quel pastone in fermentazione nel suo stomaco si era gonfiato e lo aveva fatto esplodere. La sua carcassa sventrata era stata trovata sulla piana innevata vicino al pozzo.
All’improvviso, Egle fu richiamata alla realtà da un rumore. Finì di riempire il secchio, quando vide qualcosa. All’inizio sembrava solo un mantello peloso che si inarcava e ballonzolava ebbro. Poi vide. Era un bruco grande quanto un grosso cane. Sembrava una processionaria del pino, ma aveva la testa sproporzionata come quella delle larve di farfalla sfinge. Mascelle robuste come il becco nero di un pappagallo, occhi composti, pseudopodi prensili, ocelli nerastri sui fianchi. La pelle era quasi trasparente, e sotto il pelo rossiccio si potevano intravedere i visceri scuri, oscillanti mentre l’abominevole larva avanzava lentamente.
Egle si chiese che diavolo potesse essere quello che stava vedendo. Nonostante l’assoluto disgusto che le ispirava, non poteva distoglierne lo sguardo. Era come ipnotizzata dall’obbrobrio. La sensazione era simile a quella che cattura quando si osservano le fiamme che avvampano in una stanza colpita da incendio e nonostante il pericolo non si riesce a muoversi. Qualcosa le disse di scappare, di abbandonare il secchio e di fuggire a gambe levate, ma neppure un muscolo rispose al suo comando. Rimase ferma, immobile come se si fosse mutata in una statua.
Aveva sentito parlare delle Volpi, demoni e spettri che rapivano i viventi per divorarne l’anima. Non aveva dato mai credito a simili storie, né aveva mai sentito qualcuno che avesse davvero incontrato tali presenze. Ma queste cose non avevano l’aspetto attribuito dalle storie popolari alle Volpi.
Una seconda larva giunse caracollando, ancora più grossa della prima. Infierì sui moncherini anneriti di un ceppo marcescente, rosicchiandoli e facendo schiuma come un epilettico. Quando ebbe finito con quel legno fradicio, si inarcò alzando il capo e muovendolo tutt’intorno alla ricerca di qualcosa di commestibile. In preda a un senso di delusione, si mosse e andò dietro all’altro bruco, attaccando il muso al suo deretano in quello che pareva un contatto osceno. Dopo un attimo si staccò e andò via.
Egle era coperta di sudore freddo. Dopo aver fatto leva su tutta la sua volontà riuscì a muoversi quel tanto che bastava per girare il collo e guardarsi attorno. C’erano già altri cinque di quegli esseri mostruosi che la circondavano. Altri, visibili in lontananza, perlustravano la desolazione alla ricerca di qualcosa di commestibile.
Negli ommatidi che componevano i loro occhi alla bambina sembrava di distinguere riflessi iridescenti. Le sfumature di colori oculari erano come una danza di miraggi, un caleidoscopio sullo sfondo del tremulo moto degli strati di aria caliginosa. Egle non si accorse di aver perso di nuovo il controllo sul suo corpo. I muscoli erano irrigiditi e formicolanti, la pelle insensibile come quando si schiaccia un nervo. A questo punto i suoi pensieri eri torpidi come le sue carni, nulla poteva più far scattare in lei alcun meccanismo di allarme e di sopravvivenza. Si dimenticò del secchio, già caduto a terra da tempo. Lo scorrere degli istanti sembrò rallentare fino a pietrificarsi. Non esisteva più nulla nella sua memoria, non si ricordava più neanche dei suoi genitori che la stavano aspettando a casa. Esistevano soltanto i bruchi. Le Volpi. Ormai aveva capito cos’erano quelle cose. Erano le Volpi. Se nessuno sapeva nulla sul loro aspetto e circolavano solo descrizioni non vere, era perché nessuna persona la cui anima fosse stata divorata poteva tornare indietro per parlarne alla gente del suo villaggio! Come aveva fatto a non pensarci subito? Adesso che lo capiva era troppo tardi. Anche la paura e il disagio se ne erano andati, come se un flusso di potente anestetico scorresse nelle sue vene. Un veleno in grado di azzerare ogni naturale reazione, ma al contempo di conservare la coscienza di sé perfettamente lucida.
L’intero mondo parve dissolversi in un turbine delirante. Dove erano stati campi coltivati ad ortaggi e messi dorate, ora si estendeva una città megalitica. Forme basaltiche si innalzavano verso il cielo di piombo, come le dita di un gigante senza memoria tese in contratture innaturali per tutta l’eternità. Egle non aveva mai neppure immaginato che potessero esistere palazzi così imponenti. In certi punti erano addossati gli uni sugli altri in formazioni dall’aspetto canceroso, contorto fino all’inverosimile. Grottesco architettonico di guglie e torrioni che si intersecavano senza seguire una logica. Il campo delle Volpi non esisteva più, ora Egle si trovava in una strada polverosa della Città di Pietra. All’inizio si domandò dove fossero finiti gli abitanti, perché l’unico senso funzionante era la vista. Non appena poté percepire gli effluvi mefitici tramite l’olfatto, ebbe una risposta inequivocabile. Osservò le finestre intagliate nelle pareti delle costruzioni ciclopiche, anguste feritoie dalle quali filtrava un nero assoluto e aggressivo. Emanavano il lezzo della Peste, tutto lì era invaso dalle Forze del Morbo. Percepì la presenza di migliaia di cadaveri sfatti e deformi nelle sale e nei corridoi che non poteva vedere con i suoi occhi. Niente e nessuno in tutto l’universo avrebbe mai potuto convincerla a mettere piede là dentro. Il terrore la invase, sapeva per certo che in quei recessi aberranti c’era l’Inferno. C’era l’annientamento eterno dell’Essere, la sua riduzione a ombra di ombra. Qualcosa di così orrendo e nefasto che non esistevano neppure parole in alcuna lingua degli umani per definirla. Non esistevano quasi colori in quel paesaggio allucinante. Tutto sembrava stinto e degradato, come se qualche demone avesse privato la realtà stessa di ogni sua apparenza, mostrandone l’intrinseco Nulla. Un vento di disperazione spirava nelle strade e nei vicoli, qualcosa in grado di distruggere non solo la gioia ma anche qualsiasi ricordo della sua esistenza. L’impressione che Egle aveva era che qualcosa senza forma stesse strappandole l’anima per tormentarla a suo piacimento, irrorandola con scaturigini di tenebra fittissima. Pur di fuggire avrebbe voluto cessare di esistere e non essere mai esistita, ma in quei luoghi questo non era permesso: un residuo di consapevolezza sarebbe sempre durato in uno stato di sopravvivenza spettrale solo per subire la distruzione di ogni suo tentativo di porre fine al tormento. Un uovo masticato dai Demoni per l’eternità.
Ecco che qualcosa si mosse su una parete lontana e distrasse per qualche secondo Egle dal suo incubo. Decise di avvicinarsi per vedere meglio. All’inizio sembrava una chiazza in cui si mescolavano colori sgargianti che vedeva per la prima volta nella Città di Pietra. Giallo limone fosforescente misto a scarlatto e a verde pisello, con punti di un nero brillante che sembravano danzare. Cosa mai poteva essere? La bambina avanzò lungo una via fino a giungere in una piazzola. Ovunque c’erano rottami di strani veicoli che si consumavano lentamente sotto coltri di polvere corrosiva. Notò che il metallo lebbroso aveva assunto la consistenza e il colore bruno rossiccio dello sterco. Proseguì il suo cammino con passi incerti. Di colpo poté vedere con chiarezza cosa aveva attirato la sua attenzione. Era un bruco variopinto grande come cinque cavalli messi in fila. Sulla schiena aveva centinaia di grossi flagelli neri e collosi che si muovevano guizzando come fruste, in modo del tutto indipendente. I movimenti erano molto complessi e davano un senso di nausea insopprimibile. Sembrava che sotto la pelle le sue interiora fossero altre larve in procinto di uscire. Bastava fissare quella creatura per avvertire il tocco della sua immondità. Cercava di salire fino in cima alla costruzione, ma i suoi movimenti sempre più goffi gli impedivano di fare molta strada. Gli pseudopodi smisero di avanzare e si appiccicarono alla parete per mezzo di una motriglia schiumosa che presto si indurì del tutto. Era già capitato ad Egle di vedere un bruco impuparsi, diventando giorno dopo giorno una dura crisalide, ma quello che qui stava accadendo era di natura molto dissimile. Il corpo della larva si gonfiò e a un certo punto si ruppe. Fu il culmine nauseabondo di un processo necrogenetico. Dalle crepe nella pelle scaturì una selva frattale e brulicante di minuscoli bruchi del tutto simili al loro progenitore. Un’infiorescenza bestiale, ributtante, come le chiome di una mostruosa gorgone. Mentre questo accadeva, altri germi di colore stavano crescendo un po’ dovunque. La rapidità del rigoglio era impressionante. A vista d’occhio prendevano forma nuovi bruchi, che si sviluppavano voraci da ammassi di spore fino a poco prima invisibili. Il groviglio cresceva senza controllo, soffocava le dimore dei Morti abbandonate da eoni. Egle ebbe paura e corse via, fino ad arrivare in una zona che ancora non era stata contaminata. Non si rese conto di quanto spazio aveva fatto, finché non si accorse di non avere piedi. Allora si fermò e cercò di ispezionare il suo corpo. Un tentativo del tutto vano: non aveva più un corpo! Ogni volta che le sembrava di muovere una mano o una gamba vedeva soltanto una fluttuazione nell’aria spessa e opprimente. Questa scoperta la gettò nel panico. In un attimo seppe per certo di essere morta. Come poteva spiegarsi altrimenti il suo stato? Era diventata una specie di fantasma! Dopo la confusione iniziale fu invasa dalla paura e si cerò in lei un’insolita nitidezza mentale. Proiettò la sua volontà in avanti e si mosse per automatismo. Ormai la zona pullulante di larve era lontana alle sue spalle. In ogni caso Egle sapeva che non poteva permettersi il lusso di abbassare la guardia. Se non fosse stata capace di trovare un nascondiglio sicuro, i bruchi l’avrebbero raggiunta e si sarebbero nutriti della sua anima, digerendola e degradandola in scorie di energia vitale da utilizzare per il loro continuo accrescimento.
Le sembrava di essere imprigionata in quel folle mondo da ere immemorabili. Il tempo fluiva in modo stranamente lento, o forse la sua natura era illusoria e come in un circolo perverso si finiva col tornare sempre al punto di partenza? La bambina-fantasma aveva imparato comunque una cosa: il tempo non era scandito dal moto degli astri e dal mutare dei cieli, anche perché in quella volta celeste non cambiava nulla. Tutto era pietrificato in un giorno fioco, simile a un grigio crepuscolo di caligine putrida. Un cielo del Nulla, privo di riferimenti, orfano del Sole, della Luna e delle stelle. Forse era davvero il Non Essere ciò che stava al di là della cappa di vapori simile a piombo, per quanto fosse esprimere in modo sensato un concetto come quello di Non Essere. Forse quello sarebbe stato un posto adatto dove fuggire e trovare la pace nell’annichilirsi? Le sensazioni che provava le dicevano che non era così. Non solo non poteva alzarsi dal suolo, ma quel Nulla le pareva maligno, anche se molto diverso da quello che irradiava dai palazzi cadenti. Era come se non fosse una semplice mancanza di definizione di realtà, ma nascondesse in sé un distillato di tutto ciò che di mostruoso si poteva concepire. Un dragone senza forma, vago e terribile al contempo. Un dragone senza contorni e colore. Cinereo delirio.
Senza accorgersene Egle era giunta in una strada che costeggiava un fiume di liquame nero. Ponti di marmo finemente scolpiti permettevano il passaggio sulla sponda opposta di quella fogna a cielo aperto, dove sorgevano edifici tra loro sovrapposti e intrecciati secondo un’architettura folle. Era tutto un dedalo intricatissimo di mausolei, di cappelle funebri, di statue diroccate e di camminamenti impervi che sfidavano le stesse leggi della logica. Non era facile capire dove stava l’alto e dove il basso, al punto che le nozioni elementari della geometria vi erano stravolte. Egle avvertì un capogiro. Il suo senso della vista era disturbato da quell’incredibile sovrabbondanza di dettagli, pur non essendo fondato su occhi fisici. A un certo punto vide l’accesso che conduceva nel sottosuolo. Qualcosa le diceva che i bruchi lì non potevano avventurarsi, ma la cosa non le fu di grande conforto. Era un ingresso intagliato nel marmo ciclopico, un portale che lasciava intravedere un’infinità di cunicoli e di meandri ritorti. In migliaia di piccoli loculi aperti giacevano cadaveri rinsecchiti. Si poteva sentirne l’odore anche a quella distanza. Si poteva distinguere ogni particolare anche nell’ombra più cupa. Soltanto in fondo c’era una tenebra assolutamente impenetrabile che divorava ogni capacità di percepire le forme. Era il Luogo dell’Incubazione. Questa consapevolezza sconvolse Egle, che per poco non perse i sensi. Si impose di resistere e di proseguire.
Dopo una parete liscia di marmo grigio che sembrava illimitata, ecco un altro portale, più largo del primo. Il fiume nero vi si gettava dentro e continuava il suo corso nel mondo ctonio. La visuale non euclidea permetteva di seguirlo per molte miglia all’interno delle Catacombe. Scorreva in un alveo costruito da chissà quale razza di giganti usando lo stesso marmo dello sconfinato cimitero.
Qualcosa attrasse la bambina-fantasma in quei diverticoli funebri, ma una barriera si frapponeva tra lei e la sua destinazione: quel flusso denso e di un durissimo nero. Non avrebbe potuto in nessun caso superarlo. Avrebbe dovuto tornare indietro fino a raggiungere uno dei ponticelli che aveva visto, anche se nessuno di quei passaggi portava alle Catacombe. Conducevano invece tra le tombe del Cimitero Monumentale che si estendeva fino all’orizzonte. Poteva soltanto sperare di trovare un adito al mondo sotterraneo in quella selva di statue grottesche, lapidi, tempietti e cappelle. E se non ci fosse riuscita? Se si fosse persa per sempre? Cosa la spingeva? Si fermò e si chiese cosa la stava muovendo verso il Luogo di Incubazione. Se fosse tornata indietro sarebbe andata a buttarsi proprio tra le fauci dei bruchi famelici. C’era anche un’altra possibilità: proseguire sperando di trovare un passaggio praticabile. Non era una cosa facile: il fiume spariva nel portale e il lungofiume si trovava sull’altra sponda.
Guardò in direzione del quartiere che aveva appena superato e vide un bruco lungo come una casa colonica. In assoluto il più grande che avesse mai visto. Era peloso come le Volpi e simile ad esse, ma era tutto ricoperto da migliaia di altri bruchi più piccoli di forma identica, dai quali a loro volta se ne diramavano altri in scala ridotta. Questi budelli abominevoli non erano figli dell’animale che li portava, non erano separati dalla sua carne. Erano invece escrescenze carnose, come organi di uno stesso essere. I movimenti erano di una tale vomitevole complessità che anche solo fissarvi la propria attenzione avrebbe paralizzato anche la persona più impavida, e chi finiva paralizzato in un simile luogo avrebbe subìto un fato peggiore di un milione di morti. Egle dovette decidere cosa fare nella frazione sfuggente di un battito di ciglia. Mosse la sua volontà in direzione opposta alla processionaria frattale che avanzava, schizzando via lungo il desolato boulevard. Così facendo riuscì a mettere tra sé e il ributtante predatore uno spazio che non avrebbe mai creduto possibile percorrere tanto rapidamente, ma si allontanò dall’unica cosa che avrebbe potuto condurla via da quella città. Non riusciva più a ricordare dove fossero le Catacombe. Provò ad esplorare con estrema cautela qualche stradina laterale, senza successo. Vi trovò soltanto polvere e macerie. Dopo un po’ si arrese. Aveva perso del tutto l’orientamento e non sarebbe mai più riuscita a ritrovare la strada. L’unico riferimento che rimaneva era una strada tanto ampia che le costruzioni ai suoi lati apparivano sminuite a chi le osservasse stando nel centro. Non poteva fare altro che scoprire dove l’avrebbe portata.
Dopo quello che le sembrò un susseguirsi di eoni, Egle si trovò in una piazza talmente ampia che avrebbe benissimo potuto contenere tutto il mondo che aveva conosciuto da quando era nata. Su quella vastità di porfido torreggiava un edificio che al di là di ogni dubbio era un luogo di culto. Una cattedrale così alta da proiettare la sua ombra sinistra su ogni cosa nel raggio di molte miglia. La bambina-fantasma guardò in alto nel tentativo di abbracciare ogni dettaglio di quel tempio sacrilego, e quando lo comprese nel suo campo visivo fu attraversata da un moto di orrore inesprimibile. La facciata aveva la forma di una pietra tombale con un imponente rosone centrale. Le strutture che la ornavano, scolpite nella candida roccia, erano tanto complesse e intricate che Egle ebbe subito chiaro che quella che aveva davanti era la Chiesa Ingarbugliata. Non c’era nome migliore per descrivere quella rete di venature ritorte, sovrapposte e compenetrate tra di loro. Si avvicinò, e man mano che si avvicinava si sentiva schiacciata al suolo da forze atrocissime, di un’oscura e sconfinata potenza. Dal rosone si spandeva una tenebra aggressiva, come una nube di spettri urlanti senza requie. Qualcosa urlava là dentro, strideva come l’acciaio spaccato da sbalzi estremi di temperatura. Egle non poteva fare a meno di avanzare, come se qualcosa si fosse impadronito di lei e l’avesse privata del tutto della volontà. Anche se voleva soltanto girarsi e lanciarsi via, non ci poteva fare niente. Quando fu abbastanza vicina, si accorse che la cattedrale era composta interamente da teschi di scimmie deformi. Vide che musi ghignanti formavano composizioni assurde che le trasmettevano significati subliminali raggelanti. Non c’era via di fuga, non poteva sottrarsi all’incubo. Si mise a strillare come un’ossessa, in preda a un marasma infernale.
Tutto parve precipitare e sfasciarsi, perdendosi in un vortice crepuscolare. Egle aprì gli occhi e di colpo si ritrovò nel suo corpo. Provò un immediato sollievo nel vedere le proprie mani davanti a sé. Persino il raccolto distrutto le parve confortante. Quando però cercò di camminare, si rese conto che le gambe erano dure come il marmo e incapaci di muoversi. Fu allora che si accorse delle Volpi intente a banchettare con la sua carne! La processionaria più grossa era intenta a strapparle i muscoli del polpaccio destro dalle ossa e a masticarli rumorosamente. Vide che un’altra larva si stava gonfiando e spruzzava contro l’altra gamba dei getti d’acido. Non sentiva alcun dolore perché era già del tutto narcotizzata. Quel succo era paralizzante e impediva alla vittima di lottare: associava proprietà allucinogene e corrosive, predigerendo i tessuti colpiti. Non c’era possibilità di scampo. La bambina capì che era finita. In breve ogni parte del suo corpo sarebbe stata divorata, dissolta e ridotta a pochi mucchietti di sterco grasso. Tutto questo era accaduto nel giro di pochi attimi, così quando i suoi genitori fossero venuti a cercarla non ne avrebbero di certo trovato traccia.

Marco "Antares666" Moretti