giovedì 2 giugno 2022

ARCHEOLOGIA TRANSUMANISTA

1. Non licet esse Christianos

Il Dipartimento di Archeologia Sperimentale Transumanista dell'Università di Colonia ferveva di attività. Al team della Dottoressa Louise Kenzler era stata chiesta una ricostruzione minuziosa di un antico marchingegno: un microchip sottocutaneo che all’epoca dell’Imperatore Traiano veniva usato per spiare gli imputati sospettati di Cristianesimo. Ancora non si riusciva a ricostruire l’insieme delle conoscenze cibernetiche dell’Antica Roma, ma tutte le ricerche portavano a supporre che l’Intelligenza Artificiale fosse già molto avanzata nella prima epoca imperiale. Le tecniche di localizzazione indoor furono portate al massimo sviluppo sotto l’Imperatore Decio: sembra che i pochi Paleocristiani scampati alla sua persecuzione siano riusciti a salvarsi per via di un satellite difettoso. Ecco spiegata la leggenda dei Sette Dormienti di Efeso. I superstiti, liberi dal monitoraggio si erano immersi in un sonno criogenico, probabilmente in una cella frigorifera che si trovava nelle profondità di una montagna cava.
Mentre la Dottoressa Kenzler si stava dedicando all’impostazione di un nuovo loop temporale, suo fratello Ulrich entrò nel laboratorio. Il suo volto era abbronzato in seguito a una settimana bianca sull’Himalaya. Era ancora vestito con il completo sciistico, con tanto di reattore dorsale e di stivali completi di retrorazzi. Baciò l’amata sorella e andò nel retro a cambiarsi. Presto sarebbero cominciati i diverbi.

2. Facebook e l’Imperatore Costantino

Il Vescovo di Roma, Silvestro, entrò trafelato nella Stanza Imperiale del Divino Costantino. Aveva un pc portatile con sé, dell’ultimo modello. Come fu ricevuto, mostrò subito all’Imperatore il risultato della sua ricerca in Google.
Vi compariva un commento che Flavio Valerio Costantino aveva lasciato su un blog dieci anni prima. Le lettere latine comparivano come un marchio d’infamia destinato a durare nei secoli, forse per sempre. Eccone la traduzione imbarazzante: Che si fottano i Cristiani e la loro superstizione sanguinaria! Decio non ha finito il suo lavoro!
L’avatar rimandava all’account di Flavius_V_Constantinus, univocamente associato proprio a lui, al figlio di Costanzo Cloro. Era una situazione al limite del surreale, e ora il Vescovo di Roma gliene chiedeva conto. Come poteva questo spietato bestemmiatore fare ora voto che tutti i suoi sudditi seguissero quella che impudentemente chiamava la sua religione? Che faccia tosta di un voltagabbana opportunista! Altro che conversione!
L’Imperatore Costantino salutò il Vescovo Silvestro con un cenno e gli disse di aspettare. Stava discutendo animatamente con la sua concubina, Minervina.
- Guarda che ti ho beccato con quella troia che adesso ha distrutto il suo profilo! - strillò la donna, in preda a un’evidente crisi isterica. La gelosia la divorava.
Un tempo, quando Caio Giulio Cesare era ancora un frugoletto, si stava meglio: non erano ancora giunti i Crononauti ad appestare il mondo con i loro maledetti pc portatili connessi alla Grande Rete Intercosmica. Già quando Cesare era giovane le cose stavano precipitando. Il filmato che lo ritraeva mentre dava in escandescenza perché stava perdendo i capelli era diventato un mito ed era giunto persino nelle terre oltre il Mare Oceano. I Galli e i Libi sghignazzavano vedendo il monarca effeminato scagliare lontano il pettine pieno di capelli e di forfora dopo essersi tinto e cotonato.
“Accidenti ai Crononauti!”, pensò Costantino, fremente per l’ira. “Per colpa loro ogni singolo pensiero lasciato in giro in un attimo di esuberanza rimarrà registrato e documentabile per l’eternità!”
A questo punto il Regista diede il segnale di stop. La simulazione tridimensionale si spense all’improvviso e la rete sinaptica empatica dei sequenziatori fu lasciata in standby. La pausa sarebbe durata due ore, poi sarebbe stata avviata una nuova procedura di calcolo. Anche per quel giorno i Ricostruzionisti avevano fatto un ottimo lavoro. Tutti sapevano che non era facile scavare in quei perigliosi meandri storici, ma alla fine con la tenacia si riusciva sempre a rievocare tutto con precisione micrometrica. Ancora qualche piccolo sforzo, e il backup delle più importanti personalità umane scomparse sarebbe diventato una realtà acquisita.

3. L’epopea del Vescovo Ambrogio

Yoshio Okahata osservava il portone del Duomo di Milano che recava plasmata nel bronzo la vita del Vescovo Ambrogio. In particolare fu colpito dalla penitenza dell’Imperatore Teodosio, inginocchiato davanti ad Ambrogio. Quanto era realistico quel fregio coperto da antica ruggine verdognola! Teodosio contrito dettava qualcosa, mentre Ambrogio lo trascriveva tramite il suo pc portatile. Un Compaq, era evidente. Forse sarebbe stato meglio dire Compaquus, perché si pensava che all’epoca i marchi avessero quasi tutti un suffisso –us poi caduto. Il rito penitenziale sarebbe stato pubblicato su tutti i principali quotidiani online in tempo reale. Il turista giapponese si domandò dove poter reperire le copie di backup di quegli archeositi web ormai scomparsi da tempo immemorabile: era uno storico di fama mondiale, giunto a Milano per studiare le testimonianze del tardo Impero Romano. Scavare nelle polverose miniere di dati era la sua passione, e una commozione sincera lo coglieva fino alle lacrime ogni volta che riportava alla luce qualche dato coerente da quell’oceano di bit fossili.
Quanto era realistico il fregio sulla parte inferiore del portone bronzeo, che illustrava Ambrogio apparso miracolosamente mille anni dopo la sua morte nel bel mezzo della Battaglia di Parabiago! Il Vescovo adorno di porpora impugnava il pastorale, fiero sul suo cavallo impennato, trasmettendo gli ordini attraverso un cellulare Nokia. Gli storici erano quasi all’unanimità sicuri che quello smartphone fosse un Nokia, anche se esisteva uno zoccolo duro di oppositori che sostenevano si trattasse di un Panasonicus.
Si stava facendo tardi. Un bip proveniente dall’orologio da polso scosse Yoshio Okahata dai suoi sogni ad occhi aperti. Il suo tempo libero era appena scaduto, adesso doveva tornare all’Archivio Storico per il turno serale. Per certi versi il suo lavoro non era dissimile da quello degli antichi minatori, solo che si occupava di estrarre dati preziosi che rischiavano altrimenti di andare perduti senza rimedio. Mentre si avviava a passi sostenuti verso il grande palazzo dell’Archivio Storico, Yoshio si sentì fiero di se stesso e del suo prezioso lavoro. Era grazie a persone come lui che la Memoria del Genere Transumano continuava ad esistere.

4. Transhumanist Commercial Partnership 
 
Occhi azzurri come l’antico cielo. Penetranti, abissali, vere e proprie porte su un mondo alieno. Sguardo torvo, sopracciglia inarcate. Baffetti inconsueti, capelli corvini impomatati. All’ultimo piano di un grattacielo di New York, il Direttore della TCP smanettava al suo laptop, seduto su una scrivania di rovere sintetico plasmato da fibre plastiche metallorganiche nei Laboratori dell’Immortalità. Cravatta rossa, lunga. Camicia bianca. Sul lato destro della sua camicia candida pendeva un tesserino di riconoscimento. A sinistra c’era il logo dell’azienda, con l’antico geroglifico IBM bene in vista. A destra recava impresso il nominativo. HITLER, Adolf. Sotto c’era una piccola foto dell'Amministratore Delegato, utile per un riconoscimento immediato, qualora ce ne fosse stato bisogno. Sullo schermo del laptop la chat era accesa. All’altro capo Josif Stalin rispondeva ai messaggi.
Il grande schermo si affievolì e divenne bianco come l’antica neve, ormai da tempo immemorabile scomparsa. Anche l’immagine di Adolf Hitler svanì. Il Ricostruzionista si rivolse al pubblico, esponendo le sorprendenti difficoltà incontrate nella rievocazione di quello che un tempo era noto come “XX-XXI secolo”, che ora tutti conoscevano come Primo Transumanismo. Eppure gli eventi accaduti in quei decenni erano stati fondamentali per la definizione della Nuova Era, il balzo prigoginico che aveva portato alla rapida nascita della Nuova Specie. Nell’udire le parole del Ricostruzionista, dal pubblico salì qualche borbottio. Il Dottor Andrew Gross, che era seduto all’ultima fila, meditò stancamente sul Principio di Indeterminazione di Heisenberg, pensando che forse era già troppo tardi.

Marco "Antares666" Moretti

domenica 29 maggio 2022

LUCENTE, RAPIDO, LETALE

Il corpo dell’indigeno giaceva lì seduto in quel girone di fango, carbonizzato. Nelle mani stringeva ancora gli elettrodi. Il Capo Ricercatore della Società Petrolifera, Jim Lodd, diede uno sguardo alle apparecchiature e subito constatò che erano bruciate. Un’altissima tensione le aveva attraversate, fondendo la loro struttura in un magna nanomolecolare del tutto indistinto. Miliardi di dollari erano stati investiti invano in quella rete neurale ipersenziente. Adesso dei microelaboratori restava solo il Nulla: uno spesso strato di ossido nero ne ricopriva la maggior parte della superficie. Eppure sembrava che per il nativo andare incontro a una simile morte fosse stata una cosa irrilevante. Il corpo aveva l’aspetto di una mummia vecchia di secoli, intrisa di fetido salnitro. Portava solo residui di calzoni neri stracciati e non aveva alcun copricapo: il cranio pelato aveva lo stesso colore giallastro della palta circostante, della sostanza contaminata che ricopriva tutto quel cratere. La dentatura della vittima era ben in mostra in quel sorriso ebete che neppure il rigor mortis aveva saputo cancellare. Gli incisivi prominenti formavano un’arcata grottesca, che non si poteva neppure credere appartenente a un essere umano. In effetti sembrava più un ominide che altro, una specie di subumano oligogenetico. Gli occhi annientati dalle esalazioni caustiche sprigionate all’improvviso dal terreno, erano piccoli globi rinsecchiti all’interno delle orbite infossate, mentre le palpebre rigonfie somigliavano ad oscene grandi labbra. Solo a stento si sarebbe potuta distinguere i residui della maglietta dalla cute sclerotizzata e solcata da profondi canaloni. 
Chiunque sia stato, ha mostrato un certo ingegno nel suo sporco lavoro, pensò Jim Lodd. Proprio un bel modo di iniziare la giornata! Ma i sistemi di sicurezza non erano quantistici, impostati su combinazioni uniche di nucleoni e di colle gluoniche? A oltrepassare tali barriere non poteva essere stato una semplice spia industriale: sarebbe rimasta folgorata al primo tentativo. Per qualche attimo lo scienziato fu colto da un lieve stato di trance, con dettagli di insidiosi trasferimenti dimensionali che si accalcavano nella sua memoria. Equazioni finanziarie si mescolavano a rappresentazioni multidimensionali di equazioni di Schrödinger in grafi senza senso. Gemiti di fatica lo riportarono alla realtà. Per quanto si sforzassero, i manager non riuscivano a staccare quegli stramaledetti elettrodi dalle mani del morto. Ma quelle erano mani o piuttosto artigli? I tendini avevano spaccato la pelle accartocciata in diversi punti, emergendo come corde delle antiche balestre. Le unghie si erano spezzate per la potenza della stretta, spaccandosi alla radice e facendo uscire la polpa livida. Uno spettacolo impressionante. Guardando meglio, Lodd si accorse che c’erano dei fili ridotti ad ammassi di materiale nerastro, sporgevano dal corpo dei blocchi di metalloplastica tenuti ancora ben stretti dal subumano.
Altri impiegati della Società Petrolifera accorsero per vedere se potevano aiutare i loro compagni e il loro principale. Nulla da fare, neanche unendo i propri sforzi a quelli dei nuovi arrivati era possibile ottenere qualcosa. Eppure erano solo tre ossa deformi e un po’ di carne di mummia! Niente da fare, pareva saldato al terreno, come se gli fosse stato colato dentro del piombo fuso. Uno dei top manager della squadra esagerò e pensando di liberare un elettrodo strappò il braccio destro di quel cadavere rachitico. Non uscì neanche una goccia di sangue dalla carne lacerata: i fluidi ematici si erano coagulati nelle vene e nelle arterie, formando grossi ammassi della consistenza di formaggio nero. Una folata di carogna appestò l’aria. Sotto la crosta secca del derma e dei muscoli superficiali, la decomposizione dei tessuti interni era andata avanti. Le cose stavano prendendo una brutta piega.
Si rese necessario chiamare il Responsabile Extra-Rete, Job Names, che avrebbe avuto l’autorità di far intervenire l’Esercito. Pochi minuti dopo che il Capo Ricercatore l’ebbe chiamato, Job Names arrivò in quella miniera a cielo aperto. Era un uomo calvo e dal fisico asciutto, dagli occhi neri e furbi. Tutti lo conoscevano per il suo costante buonumore e per la sua capacità di mantenere la calma nei momenti difficili. Altri, più malevoli, dicevano che la sua euforia fosse causata dal doping – era un ciclista dilettante – e che la sua ponderatezza fosse soltanto ignavia mascherata. Quando vide lo scempio, rimase di sasso, e tutta l’aria ridanciana che ostentava fino a pochi attimi prima svanì. Non gli importava niente dell’uomo-scimmia, tanto ne avrebbero sintetizzati altri a basso costo. Tirchio com’era, sapeva valutare il dare e l’avere in ogni situazione che si presentasse. Il vero colpo allo stomaco fu il fato degli elettrodi, la cui distruzione avrebbe comportato un nuovo contratto con la Gross-Kampff.
Senza alcun preavviso, una scocca fece sobbalzare le mani del morto. Nessuno si aspettava di vedere un segno di vita negli elettrodi. Non era possibile. Non secondo le leggi della fisica che ancora si ostinavano a voler governare l’Universo, con buona pace dei Vingeani.
- Diavolo! – esclamò Jim Lodd – Se non c’è tensione e i circuiti sono inceneriti, come accidenti fa quella cosa a scintillare?
- Io non ho visto niente! – strillò Erd Fakes, esasperato da tre notti insonni e vicino alla soglia di un’esplosione isterica. Tutta quella faccenda non gli sembrava di buon auspicio.
- Invece sì, guardate! – urlò Job Names indicando le barre metalliche 
Le macchine si stanno riattivando! Forse riusciamo a recuperarle!
Di fronte a quanto detto dal Responsabile Extra-Rete, Erd Fakes non poteva permettersi di perdurare nel suo scetticismo, e anche se i suoi occhi continuavano a non cogliere mutamenti, assunse un’espressione stranita.
Job Names non riusciva a trattenere la propria frenesia: - Ecco ancora che si muove!
- Lo vedete? – disse Jim Lodd – Avevo ragione io! Qualcosa sta dando energia…
Non fece neanche in tempo a finire la frase: un lampo di luce viola scaturì dal sinistro marchingegno penetrandogli nel cranio e schiantandolo al suolo, tra le miriadi di rottami informatici e di liquami cianurali di terre rare radioattive. La poltiglia scura sembrò inumidirsi per un istante, come se fosse intrisa da un’occulta ondata di acqua filtrata dalle viscere della pianeta. Nonostante il terrore, una paralisi nervosa impediva a tutti di muovere anche un solo muscolo. Nessuno dei presenti riusciva a credere ai propri occhi, per quanto assurdo era ciò che i sensi stavano loro comunicando. In preda a un panico muto, come bruchi paralizzati da una vespa parassitogena, i top manager non poterono che subire in modo passivo gli eventi. Ridotti ad oggetti, avevano perso la loro stessa ontologia. L’attività ectoplasmica non accennava a cessare. Dall’elettrodo distrutto e vulcanizzato uscì all’improvviso un lampo di orrore liquido in forma di scarafaggio. La blatta bioluminescente viaggiava su una guida tensoriale invisibile, percorrendo con avidità la traiettoria che le era stata destinata ancor prima che l’eternità avesse inizio. Le antenne erano tese, ricetrasmittenti collegate alle galassie più remote, in grado di captare i segnali di morte di quasar agonizzanti nel cancro cosmico. Volando sul cursore d’aria, l’immondo artropode dell’etere zampettò fino alla faccia del Responsabile Extra-Rete, penetrandogli ardente in un nervo ottico, scavando il proprio destino ultimo in quella molle cavità grigiastra e cedevole.

Marco "Antares666" Moretti

mercoledì 25 maggio 2022

FARBAUTI

Il corpo del Procuratore Distrettuale fu trovato nelle latrine, seduto per terra contro una parete. Tutti capirono subito che in quella morte c’era qualcosa di terribile, di sbagliato. La testa era come esplosa dall’interno, ma non si era dispersa in mille frammenti come ci si sarebbe aspettati se fosse stata colpita da un proiettile. Il Signor Spencer pensò che il cranio del morto somigliasse a un melograno secco squarciato da una pressione improvvisa generata nel suo centro, una pressione comunque insufficiente a distruggerne del tutto la forma. Quello che restava consisteva in lembi rinsecchiti e rigidi, in cui erano ancora ben riconoscibili i lineamenti del defunto.
- Si vedono gli occhi, anche se sembrano fatti di terra cotta in un forno - disse il Signor Rasmussen perplesso. Il senso di straniamento lo portava a credere che quello che aveva davanti a sé fosse un fantoccio, che tutto fosse solo una macabra messinscena.
- E guardate i capelli – fece notare la Signorina Badminton – Sulla punta di ogni striscia c’è una ciocca ancora nera.
- È grottesco, non può essere reale – commentò il Signor Langster.
Proprio in quel momento arrivò il medico della Scientifica, il Dottor Bigfellow. Una goccia di sudore freddo imperlò la sua fronte corrugata.
- Mio Dio! – fu ciò che disse, terreo in volto, quando vide il cadavere del Procuratore Distrettuale. - In tutta la mia carriera non ho mai visto un caso simile! – aggiunse dopo una pausa.
- Questo complica un po’ le cose, non crede? – sentenziò il perito legale, Dottor Stengston.
Anche l’agente assicurativo, il Signor Benhill dei Lloyds di Londra, si trovava di fronte a difficoltà insormontabili. - Non sappiamo come tener conto di tutto ciò nel contratto assicurativo del defunto - sospirò – Prima di compiere anche un solo passo dobbiamo sapere di più sulla natura di questo incidente. Tenete conto dell’impossibilità di pagare in caso di suicidio.
- E come diamine pensa che uno possa essersi tolto la vita in un modo simile? – domandò sarcastico il Dottor Spencer. Gli sembrava già di sapere che i Lloyds avrebbero trovato qualsiasi pretesto pur di non sganciare un centesimo.
Nel frattempo il medico si era messo ad esplorare il corpo.
- Quanto riscontro è impossibile! – esclamò – Non è un manichino, è davvero fatto di carne e di ossa come tutti noi, ma posso garantire che la testa esplosa dall’interno si è trasformata in qualcosa di molto simile al cartone.
- Cartone?! – ripeté a pappagallo il Signor Benhill, assumendo un’espressione da ebete.
- Cazzo! – fu tutto quel che il Dottor Stengston ebbe da dire.
- Qui Loki ci ha messo lo zampino – disse il Signor Rasmussen. Non fece in tempo a finire di pronunciare quelle parole che un flash intensissimo si produsse nella sua mente. Barcollò e dovette appoggiarsi al muro per non cadere. Le sequenze proiettate all’interno dei suoi occhi sembravano folli danze oniriche, ma la loro chiarezza aveva qualcosa di mostruoso, d’inumano. Ai bordi della scena che si era formata sullo sfondo retinico guizzavano scintille, e talvolta qualche debole verme di luce si distingueva anche nell’area centrale. Le immagini sovraccaricavano i nervi ottici come un film densissimo di particolari proiettato direttamente nelle pupille da una macchina dei sogni. Ecco il Procuratore Distrettuale che avanzava verso la latrina degli uomini, con l’evidente intenzione di scaricare la propria vescica urinaria. I movimenti, un po’ troppo veloci e grotteschi, dimostravano che la velocità era un po’ maggiore di quella della scena reale da cui questo psicofilm era stato tratto. Il Procuratore Distrettuale aprì la porta, ma prima ancora di riuscire ad estrarre il suo pene dalla lampo dei calzoni fu colpito da una specie di ictus. Di colpo cadde a terra come un peso morto, come un sacco di patate, proprio nella posizione in cui era poi stato trovato.
A questo punto però si manifestò qualcosa di molto strano: il volto della vittima, contratto in una smorfia di dolore e con la bocca storta, assunse un colorito innaturale. Una forza misteriosa lo stava cambiando, facendolo somigliare alla creta. Poi avvenne l’incredibile. Il cranio si spaccò come un uovo fatto scoppiare in un forno a microonde. Per un attimo il cervello sfrigolò simile alla bava, frisse ed evaporò prima ancora di poter colare. Una palla di luce della luminescenza di una lampadina uscì allora dall’interno dei resti del teschio infranto e vetrificato. Era una sferula compatta di un color verde vivo. Un fulmine globulare che emetteva un lievissimo ronzio, quasi un disturbo subliminale, appena coglibile dall’orecchio umano ma incessante e sinistro.
Il Signor Rasmussen urlò a squarciagola di fronte alla rivelazione.
- Quella cosa è viva! Nasce dall’interno e uccide! Si nutre dell’anima! – esclamò in preda al terrore. Si sarebbe detto che nelle sue vene non fosse rimasto un solo globulo rosso, tanto era il pallore del suo volto distorto in una maschera di orrore assoluto.
Tutti si voltarono verso di lui.
L’uomo riprese ad urlare come un ossesso. – Andiamo via di qui! Quella cosa è la Morte Eterna! Chi viene preso smette di esistere! Chi viene preso non è mai esistito!
- Calmati! – esclamò il Signor Spencer trattenendolo per le braccia. In quel momento si accorse che la muscolatura del Signor Rasmussen era completamente paralizzata. Raggelato e madido di sudore, il suo aspetto era quello di un disgraziato colpito dal tetano. Aveva conservato soltanto il funzionamento dei suoi organi fonatori. Era una voce urlante, nulla di più. Un brivido passò per la schiena del Signor Spencer. No, non poteva essere vero quello che stava accadendo.
- Come sarebbe a dire la Morte Eterna? Cosa vai farfugliando? – volle sapere il Dottor Bigfellow, mentre accorreva con i suoi strumenti per prestare soccorso.
Il Signor Rasmussen, con gli occhi ridotti alla cecità e sbarrati, mosse le labbra per automatismo ipnotico e rispose: - È stata una piccola sfera di fuoco che è nata nel cervello e lo ha fatto scoppiare. Lo posso giurare! La Luce Verde è la Morte Eterna! L’essere della vittima è estinto per sempre, e anche la sua esistenza nel passato è cancellata!
- Ma non ha nessun senso! – sbottò il Signor Spencer – Queste cose sono fole degne di un racconto di Lovecraft! Ora le dimostro che ha torto. Il morto esiste nelle nostre memorie e noi sappiamo tutto si di lui. Il nostro inestimabile Procuratore Distrettuale, il Signor… Diavolo, ho il nome sulla punta della lingua e non riesco a dirlo…
- Appunto, non riesce a dirlo perché non è mai esistito. – sentenziò il Signor Rasmussen con un timbro vocale più gelido di una lapide.
Tutti dovettero rendersi conto che aveva ragione. Quel benedetto nome proprio non saltava fuori, per quanti sforzi si facessero.
- Ma di chi stiamo parlando? – trasecolò il Signor Langster. Il suo tono era di un candore impressionante, come se fosse stato svegliato all’improvviso nel cuore della notte nel bel mezzo di una fase REM e non fosse in grado di capire se stava ancora sognando.
- Così non sapete con chi avete lavorato per tutti questi anni?! – sibilò stizzito il Signor Benhill dei Lloyds di Londra – E come potete sperare che l’Assicurazione paghi?
- Buffone inamidato! – lo schernì il Signor Rasmussen – Guardi pure le sue ridicole carte e mi dica a chi avete fatto il contratto assicurativo!
L’agente dei Lloyds dovette constatare che incredibilmente nel suo fascicolo relativo al Procuratore Distrettuale morto non c’era un solo foglio compilato. Nessun nominativo, nessuna firma, soltanto modulistica vergine. – Accidenti di una merda santa! – imprecò non appena se ne accorse. – E questo come diavolo si spiega?
- Forse perché non si può stipulare un contratto con una persona che non esiste – dichiarò il Dottor Stengston. – Non è per caso che è venuto qui per procacciarsi nuovi clienti? – gli chiese a bruciapelo quando notò che il Signor Benhill stava arrossendo.
- In buona sostanza, perché mi avete chiamato? – eruttò all’improvviso il Dottor Bigfellow della Scientifica – Non vedo nulla che possa richiedere la mia presenza qui. Sappiate che non tollero scherzi e che la prossima volta che mi disturbate per un pupazzo vi sporgerò denuncia! Adesso devo fuggire, mia moglie mi aspetta al Club degli Scambisti.
Gettò il mozzicone di sigaro nel cestino della spazzatura, proprio vicino al Procuratore Distrettuale morto, quindi se ne uscì sbattendo la porta, senza salutare.
Anche il perito legale era visibilmente seccato. – Mi dispiace ma non posso trattenermi oltre, ho pratiche urgenti da sbrigare allo Studio.
Al Signor Spencer venne in mente di correre a interrogare il suo personal computer, ma non fu neppure in grado di aprir bocca per articolare il suggerimento concepito dalle sue sinapsi. L’artiglio dell’oblio fermò le sue parole sul nascere, facendole estinguere prima ancora che i segnali nervosi arrivassero alle corde vocali.
- Cazzarola, non capisco cosa ci facciamo ancora qui – fece la Signorina Badminton con quel suo accento da oca microcefala. – Dio mio! Mi sono rotta un’unghia! – strillò all’improvviso la segretaria leggerella dopo qualche secondo – Signor Spencer, spero che non le dispiaccia se prendo mezza giornata di permesso per andare dal manicure! Mio Dio che orrore quest’unghia!
Il Signor Rasmussen stava riacquistando la sua mobilità. L’onda di shock che lo aveva investito si andava dissolvendo: gli era sempre più difficile conservare i dettagli della visione che aveva avuto, e che pure gli era parsa di una densità superiore a quella dello stato di veglia. Si aggrappava in tutti i modi alla certezza che aveva avuto di ricordare per sempre la morte di un uomo ad opera di un fulmine globulare, ma scopriva che l’intera vicenda aveva già perso tutta la consistenza. Mentre si massaggiava le membra intorpidite imprecò contro la macchinetta del caffè, pensando che un prodotto adulterato gli avesse causato quello stato confusionale. Gli altri erano quasi tutti tornati nei rispettivi uffici, restavano soltanto lui e il Signor Spencer.
- Signor Rasmussen, quando può dica agli addetti alle pulizie di far sparire quel macabro fantoccio dal cesso – gli raccomandò il suo superiore, quindi uscì a sua volta. - Se solo sapessi di cosa stai parlando… - disse tra sé e sé il Signor Rasmussen, stordito. Diede un’occhiata alle latrine degli uomini, ma i suoi occhi videro soltanto qualche mucchietto di polvere bruna. Gli ultimi fantasmi abbandonarono la sua mente. Aveva recuperato la sua razionalità. Sapeva con precisione cosa fare. Passando per la portineria all’uscita dal lavoro avrebbe dato disposizioni per la rimozione di quell’immondizia.

Marco "Antares666" Moretti

sabato 21 maggio 2022

ERUZIONE SPIRITUALE

Stazione di Milano Greco Pirelli. Una stridula voce esce da un altoparlante. Treno in transito sul binario 3, allontanarsi dalla linea gialla. Mi sembra di essere lì in attesa sulla piattaforma da tempo immemorabile, nella vana attesa di un convoglio che mi riporti a casa. Giro intorno a un punto invisibile sulla superficie scabra della piattaforma, percorrendo una traiettoria circolare. Per un attimo immagino come sarebbe se tutte le persone in stazione facessero come me. L’immagine che si forma nella mia mente provata è semplicemente esilarante. Centinaia di persone, tutte che ballonzolano intente nella loro danza di follia. È chiaro, qualcosa in me non va. Il treno annunciato si avvicina a velocità incredibile, quasi come un missile, emettendo un rumore tonante. Tutto accade nel giro di poche frazioni di secondo. Sorge in me una tensione incoercibile. L’impulso di gettarsi sul binario, di porre termine alla mia esistenza in quel modo così rapido e devastante. Il tempo stesso mi appare dilatato, si espande in un nero oceano di eternità. Tutto sarà improvviso: un istante prima la mia esistenza afflitta da ridicoli assilli, e all’improvviso la mia prigione corporale ridotta a un ammasso di carne sanguinolenta. Poltiglia rossa che unge le rotaie come un lubrificante. Vedo la scena con un anticipo minimo, appena discernibile. Poi ecco la causa di tutto che si manifesta nella sua insondabile alienità. Un tentacolo candido, fatto di puro flusso energetico. Proprio così. Un lampo bianco simile a un tentacolo di piovra scaturisce da un’improvvisa fessura nell’osso temporale. Si agita e guizza. Cambia forma. A tratti sembra una lucertola albina in preda alle convulsioni, poi si scompone in una selva di fulmini e si intreccia di nuovo in una struttura solida. Sono allibito. Tutto mi è chiaro. Lo Spirito vuole fuggire dal suo carcere. Ha trovato un punto debole e ne approfitta. Il suo moto è regolato da qualche gradiente sconosciuto, che lo guida verso l’alto, che lo porta a lasciare questa realtà degradata ed illusoria. C’è un Grande Cielo lassù, oltre gli estremi confini dimensionali del Continuum: è la sede dello Spirito, un mondo bianco di una vastità insondabile, vicino a noi ma al contempo separato dal più profondo dei baratri. Con mia enorme sorpresa, non identifico me stesso con quell’escrescenza luminosa che si riversa fuori dal mio cranio e sale, come un rivolo di spumante che erutta da una botte forata. Quello con cui mi identifico è invece l’anima corruttibile, il rimescolarsi del sangue nelle arterie, le tempeste elettriche che devastano il mio encefalo ferito. Poi il DNA prende il comando di tutto e rintuzza quella cosa bianca. Il prevalere del brulichio genomico è ferreo, assoluto. Attiva un constraint di sopravvivenza e invia ai muscoli del corpo un comando perentorio, spingendomi all’indietro, lontano dal binario. Stravolto, osservo il treno sfrecciare via come un bolide d’acciaio. Sono un bagno di sudore freddo e tremo. Cosa mi ha salvato dalla fine? Contemplo in preda al terrore cieco i frammenti del mio paradigma spezzato. Devo arrendermi all’evidenza. Quella cosa, che chiamo Spirito, non è consapevole come ho sempre creduto. Non è pensiero né razionalità. Tutto ciò che penso, che sento e che vivo è un prodotto della mia oscena biologia. I miei stessi dogmi spiritualisti cesseranno con il trapasso. Se la mia struttura biologica nel suo insieme è l’hardware, il software è la mia anima corruttibile formata dal sangue, dai neuroni e dalle sinapsi. Lo Spirito è la corrente elettrica che alimenta la macchina.

Marco "Antares666" Moretti

giovedì 19 maggio 2022

I PRIMI CINQUE MINUTI DOPO LA MORTE

Stavo camminando con grande fatica. Affannandomi, seguivo un impervio sentiero montano. Le cime innevate erano incredibilmente cristalline, il sole bucava il cielo sconfinato come una fornace letale di un giallo caustico. Cauterio dello Spirito, quell’astro feriva le deboli retine dei miei occhi. Mi sembrava di essere trafitto da ogni singolo raggio che arroventava il suolo, i fotoni solari trasformati in dardi in grado di bucare la mia fragile epidermide. Ero un lebbroso. Sentivo come corpi estranei gli arti avvolti in spesse bende sporche di pus e di sangue rappreso. Se la malattia fosse ancora peggiorata, sarei stato costretto a nascondere il mio stesso volto all’azzurro: i miei lineamenti erano già molto deturpati, ricoperti di grossi tuberi rossastri. Ognuno di questi schifosi tumori tendeva ad ulcerarsi, spurgando un umore acre che feriva le mie narici. La mia mano sinistra era ormai priva di dita, la destra era tanto rattrappita che a stento riusciva a stringere il bastone da viaggio. In alto, proprio in cima alla montagna più alta, c’era il Castello del Drago. Dovevo raggiungerlo, perché se non avessi supplicato il malvagio Signore dell’Universo, non avrei mai potuto trovare il mio conforto nell’Annientamento. L’unica vera salvezza che potevo aspettarmi: la Morte Totale, la Morte Definitiva. Dovevo fare ancora molta strada per arrivare lassù. Le ore del giorno sembravano non passare mai: il sole era fisso nel Cielo di Luzabel, come l’occhio di un aguzzino ciclopico. Forse proprio quella grande volta di un turchese assoluto era la restaurazione dell’originale Cielo di Vetro, quello che andò in frantumi quando il Drago mosse ai Buoni Spiriti la Prima Guerra Cosmica. I sassi che formavano il sentiero erano acuminati, e di certo avrebbero tagliato i piedi di un comune viandante fino a farli sanguinare. Essendo colpito dalla più immonda elefantiasi, la mia pelle era insensibile come una suola di cuoio. Non di rado mi capitava di scorgere una scia di orribili liquami dietro di me. A un certo punto ho raggiunto un ruscello che scendeva da un pendio roccioso, attraversando il sentiero e disperdendosi in una gola profonda poco sotto. Mi sono fermato un attimo a riflettere. Il sole non era davvero immobile, sembrava piuttosto un frattale brulicante scosso da perenni convulsioni. La sua radioattività mi si riversava addosso, provocandomi un’abbondante sudorazione. D’un tratto mi sono messo in allarme. Ho visto qualcosa muoversi in lontananza. Un animale, non ci potevano essere dubbi, che stava percorrendo la mia stessa strada, ma nel verso contrario, venendo verso di me. Forse stava scendendo direttamente dal Castello. La sua andatura era traballante. Man mano che si avvicinava, potevo distinguere con sempre maggior chiarezza i particolari di quella sagoma che pareva uscita da un incubo delirante. Era un bruco grande come un cane massiccio. Procedeva sugli pseudopodi, contraendo e rilassando la massa delle sue viscere sotto il pingue mantello scarlatto. Aveva sul grosso capo due decorazioni simili a grandi occhi dalla pupilla nerissima. I veri occhi, composti da ommatidi, erano più sotto. Le fauci robuste e scure avrebbero benissimo potuto lacerarmi una gamba e masticare la mia carne in sfacelo. Il dorso gobbo era ornato da ciuffetti di cernecchi neri, mentre ocelli biancastri marcavano ogni segmento del suo addome. Dalla coda, proprio vicino alla regione anale, si protendevano due lunghi flagelli a segmenti bianchi e neri, molli, che si contorcevano senza sosta. Sono stato preso da un acuto conato di vomito. Qualcosa dentro di me mi diceva di distogliere lo sguardo dalla larva scarlatta, ma poi i miei occhi rimanevano immobili, incapaci di sfuggire all’ipnosi luttuosa che li incatenava. Intorno a quel demone l’aria sembrava tremolare. C’erano sciami di piccole mosche che gli ronzavano attorno, attratte dai suoi effluvi pestiferi. O forse i molesti insetti erano attratti dal colore e dalla consistenza del budello, che ai loro sensi era simile a un gran pezzo di carne? Dovevo scappare. Non c’erano dubbi. Se fossi stato raggiunto, sarei stato dannato. Sembrava che una voce senza parole parlasse dentro di me, muovendosi inquieta nelle profondità della mia anima come un uccello svolazzante. All’inizio facevo fatica ad interpretare quei pensieri muti, la cui origine non conoscevo. Poi però, mentre il bruco infernale si avvicinava inesorabilmente, ho saputo per certo che se non mi fossi nascosto, sarebbe avvenuto qualcosa di assurdo e tremendo: i Demoni dell’Etere avrebbero catturato il mio spirito rinchiudendolo nel corpo del bruco, e avrebbero tolto dalle carni larvali la Legione che vi era rinchiusa, dandole possesso sul corpo lebbroso che indossavo. “Via da me, Cane dei Morti!”, mi sono messo ad urlare mentre mi precipitavo dall’unica via di fuga, un pendio franoso. Il suono delle mie parole sembrava estinguersi in un silenzio ovattato, densissimo, poco dopo che era uscito dalla mia gola. È stata una caduta rovinosa, che mi ha provocato diverse fratture scomposte, ma almeno sono riuscito a sottrarmi a un pericolo tanto atroce. Guardavo in alto, fin dove la mia vista poteva arrivare in quello spazio ricurvo. Dovevo essere rotolato per almeno tre miglia sulle rocce. In cima al pendio, il bruco scarlatto si guardava attorno con aria sospettosa ed irritata, contorcendosi, sollevando il capo e la gobba. Qualcosa lo tratteneva dall’inoltrarsi giù per il pendio. Ho immaginato che fosse in qualche modo consapevole che la sua via in una pietraia tanto perigliosa gli avrebbe arrecato ferite mortali. Poco dopo la ripugnante larva si è ritratta dal bordo del dirupo ed è scomparsa alla mia vista. Una cosa era certa: non potevo sperare di tornare da dove ero venuto. Davanti a me c’era una grande cavità che sembrava essere stata scavata nelle pareti rocciose di una montagna dallo scalpello di un gigante. Una corrente fragorosa di acqua gelida si rovesciava nell’Abisso, scaturendo da una ferita nel fianco dell’altura che mi stava di fronte. Una strana salsedine giungeva fino a me, facendomi bruciare le ferite e le piaghe. Cosa potevo fare in quella circostanza davvero singolare? Al solo pensiero di muovermi, una stanchezza mortale mi colpiva. Sentivo un terrore sordo, assoluto, alla sola idea di gettarmi nella corrente che conduceva in un inconoscibile universo ctonio. L’unica alternativa era rimanere lì al mio posto, a lasciarmi uccidere dagli spietati strali del sole assassino. Mentre giacevo in quel luogo, meditando questi pensieri, mi sono accorto di qualcosa che prima non avevo notato. La mia vista si era espansa in modo incredibile, riusciva a cogliere dettagli che non avrei mai ritenuto possibile notare. Ma da questa nuova visione delle cose non ho avuto nessun giovamento. Mi sono accorto che l’intera realtà che mi teneva prigioniero era composta da un microscopico frattale di minuscoli vermi, intrecciati e brulicanti in un numero talmente grande da non poter neppure essere contato in un milione di eternità.

Marco "Antares666" Moretti

martedì 17 maggio 2022

STRIDOR DI DENTI

La mensa ipogea sembrava un grande ambiente cemeteriale. Opprimenti luci al neon abbacinavano i deboli occhi degli avventori e riverberavano sulle piastrelle delle pareti come i raggi di un sole di morte. Il Tecnico appoggiò il suo vassoio al bancone, rassegnandosi a una lunga coda prima di poter arrivare alla cassa. Ogni operaio davanti a lui doveva apporre una firma dopo aver pagato, e questo non snelliva certo il flusso di gente. Quasi tutti quegli uomini di fatica indossavano tute fluorescenti di un color arancione vivissimo: forse era uno stratagemma per renderli sempre ben visibili ed evitare incidenti, permettendo loro al contempo di lavorare anche in condizioni di semioscurità. Le meditazioni del Tecnico erano di un’amarezza infinita. Tutta questa pantomima si ripeteva quotidianamente, come se si fosse formato un anello di tempo chiuso, come se una stringa cosmica avesse sfiorato la sua vita intrappolandolo nell’eterna ripetizione degli stessi istanti. Un loop infinito. Il Giorno della Marmotta, nel film Ricomincio da Capo con Bill Murray. Solo che qui non si trattava di presenziare una cerimonia all’aria aperta, ma di essere murati vivi in un ciclo ininterrotto di agonia esistenziale che non poteva conoscere sbocco. Una disgustosa zaffata richiamò il Tecnico alla dura realtà. Formaggio rancido. L’esalazione proveniva da un piatto sul vassoio dell’operaio davanti a lui. Come guardò, vide una massa di pasta coperta di formaggio grattugiato putrefatto. Quegli incompetenti della cucina lasciavano le formaggiere chiuse senza cambiarne il contenuto per giorni, così vi si producevano orride fermentazioni anaerobie. Il lezzo era insopportabile. Non era semplicemente rancido quel formaggio, era marcio. Il Tecnico fu preso dalla stizza, non capiva come potesse essere ritenuta commestibile una simile schifezza. Sapeva di unghie di piedi lasciate crescere sporche per mesi, di smegma putrido accumulato sotto il glande di un fimotico. Peggio ancora: sapeva di cadavere. L’operaio si voltò, fissando il Tecnico con uno sguardo ebete. Pelle dal colorito scuro, barba ispida più nera della pece, fattezze grossolane e arcata sopracciliare prominente. Certo Lombroso avrebbe pagato a peso d’oro il suo cranio. A quel punto il Tecnico notò una mano dell’operaio, che aveva l’unghia del mignolo insolitamente lunga, come l’artiglio di un rapace. Si vedeva che molta sozzura nera vi era accumulata sotto. Un conato di vomito scosse lo stomaco del Tecnico, nella sua mente non era possibile distinguere il formaggio sparso sulla pasta dall’immondizia dell’unghia del mignolo. Per poco non vomitò lì in mezzo a tutti. A questo punto la fila avanzò, visto che un operaio aveva finito di firmare anche per tre suoi compagni di schiavitù, evidentemente analfabeti. Quando il Tecnico fu davanti alla cassiera tirò un sospiro di sollievo, il formaggiaro si era allontanando portando con sé il suo fetido pasto. Estrasse il portafoglio e diede alla ragazza, Ivanka, un biglietto da dieci euro. La bruna prosperosa prese la banconota, abbozzò un saluto confuso e diede in cambio all’uomo qualche ramino. Afferrò lo scontrino e glielo porse. Il Tecnico non sapeva che farsene, visto che i pasti non erano rimborsabili, ma il regolamento parlava chiaro. Così prese il biglietto, lo accartocciò e se lo mise in tasca, mentre un operaio dietro di lui gli premette sulle mani con il vassoio. – Un attimo di merda, quel Dio! – imprecò il Tecnico. Un travaso di bile lo colpì. “Unica soluzione possibile, il plutonio”, pensò. Quanto era esecrabile la foga di quei subumani, che prima bramavano di sedersi a consumare quello sterco e poi ne avanzavano la maggior parte nei sudici piatti. Reggendo il suo vassoio, si incamminò verso i tavoli della stanza più estrema della struttura. Schivando le figure barcollanti di alcuni materialoni e maledicendo mentalmente la loro rozza natura, riuscì alla fine a raggiungere il suo solito posto. Dietro di lui era seduto il Corvo, un uomo dagli occhi scavati e forse divorato da un tumore. Come ogni giorno stava lì, avvolto nelle sue vesti nere a consumare un magro pasto a base di pesce. Il suo beveraggio consisteva in una piccola caraffa di vino annacquato. Mentre masticava pensava a chissà quali universi lontani. Il suo sguardo assente ricordava talvolta la fissità di un cadavere a cui nessuno avesse pensato di chiudere le palpebre. I Russi cominciarono ad accomodarsi. In realtà nessuno di loro era etnicamente un puro slavo, venivano da qualche misteriosa repubblica transuralica portando le loro incerte favelle, miscugli inestricabili di idiomi turchi e mongolici frammisti a terminologia islamica di lontana origine araba e ad altro materiale lessicale assolutamente non identificabile. A differenza di altri gruppi di operai, questi vestivano di grossolane tute di jeans, di un colore blu uniforme ed intenso. Ecco “Borat”, con la sua figura longilinea, la sua statura di quasi due metri, il suo volto magro e i suoi baffetti corvini. Accanto a lui c’era “Galuba”, un grassoccio uomo caucasoide di mezza età dai capelli grigi, con la faccia rotonda come una luna piena, gli occhi bovini e inespressivi, le ciglia cispose. Di fronte sedeva “Uldin”, dalle sembianze di un antico condottiero degli Unni. Tipicamente mongolico, il suo sguardo aveva un che di intenso e feroce, forse a causa dell’effetto della tipica plica oculare. Incredibile come il Tecnico avesse per mesi e mesi perso tempo ad etichettare quelle stupide persone con un nomignolo. I loro veri nomi gli sarebbero stati sconosciuti per sempre. Oltre quel gruppo, verso l’esterno, sedeva una strana comitiva di uomini dalla pelle scurissima. Dal loro modo di parlare il Tecnico era riuscito a capire che si trattava di Rom. Nascondevano con cura ai datori di lavoro la loro vera origine per non perdere il posto all’istante e per non essere esposti a discriminazioni. Di solito si facevano passare per genti dello Sri Lanka, tanto poi nessuno indagava a fondo. Erano forse i soli a portare un po’ di allegria in quel mortorio senza speranza. Uno di loro, orecchino dorato al lobo dell’orecchio destro, si alzò dal tavolo e passò all’improvviso dal Romanes all’Italiano. - Io sono fiero di essere un terrone! - urlò come un giullare ubriaco. I suoi compagni lo scoppiarono a ridere e lo fecero sedere prima che combinasse qualche danno. Diverse caraffe grandi facevano bella mostra in mezzo alla tavolata, quasi svuotate dal vino che fino a poco prima contenevano. I gitani sogghignarono ancora per un po’ e si scambiarono commenti fragorosi, poi finirono di mangiare e si alzarono. Alcune inservienti di incerta etnia accorsero subito a rimuovere il porcile che si era formato, così in breve tempo altre persone si sarebbero potute sedere.
I soliti “Borat”, “Galuba” e “Uldin” continuavano la loro conversazione fatta di borbottii. A loro si erano aggiunti “Kaspan” e “Boromir”, un grassone biondiccio con occhi azzurrognoli, evidentemente discendente da coloni sovietici. Che buffo. Il Tecnico aveva battezzato “Kaspan” dal cognome di un suo compagno di scuola per via del somatismo vagamente simile. Una volta, era ancora adolescente, era stato invitato da lui nel garage di casa, dove stavano ammucchiate pile di riviste pornografiche illegali, semplicemente allucinanti. Le recuperava dalla cartiera dell’oratorio, così gli aveva detto, dicendo anche che si trattava di materiale “fichissimo” che non avrebbe venduto neanche a peso d’oro. Il Tecnico ricordava ancoro quelle immagini ributtanti: non si pentiva di essere corso via in preda allo schifo e di non aver messo più piede in quel piccolo inferno. I Russi avevano i vassoi ricolmi di pietanze di ogni genere, non esitavano a dissipare i loro buoni comprando primo, secondo, contorno e frutta. Poi mangiavano soltanto una piccola parte di ciò che avevano davanti. Lo spreco nella mensa era incredibile e sistematico. Quando gli operai si alzavano, lasciavano sui tavoli uno spettacolo desolante, un autentico letamaio di avanzi unti mischiati alla rinfusa. Piatti messi uno sull’altro, con pezzi di pollo e masse di pasta che uscivano dalle intercapedini, posate sporche di salive schifose e cosparse di residui di alimenti. Al Tecnico questo faceva riflettere ogni volta. Già di per sé tali abitudini dissipatorie sarebbero state in grado di demolire il mito buonista della fame nel mondo, dato che la gran parte di tali genti proveniva da nazioni in cui imperversava la carestia. Un sorriso beffardo spuntò sul volto del Tecnico. Fosse stato per lui avrebbe trascinato lì per i capelli le maestrine che in tutte le scuole inculcavano idiozie nelle menti infantili, rovinandole per sempre ed impedendo loro di formarsi un’immagine corretta della realtà dei fatti. A sentire quelle troie decerebrate, il terzo e il quarto mondo brulicavano di poveri bambini sempre pronti a divorare qualunque cosa capitasse loro a tiro, condizionati in ogni loro comportamento da una fame inestinguibile. Invece le genti di quei paesi erano anche quelle che avevano più pregiudizi alimentari, tanto che non pochi MANDINGO si rifiutavano di mangiare il cibo che trovavano in Europa. Non ce n’era nessuno che fosse un ghiotto divoratore. Il Tecnico vedeva le stesse scene ogni giorno. Marocchini che continuavano a chiedere con insistenza se nel pesto ci fosse il maiale e così via. Una volta una donna islamica indicò della carne e chiese se fosse suino. Nell’altra vaschetta c’erano delle grasse salsicce. Come l’inserviente addetta alla distribuzione rispose che l’arrosto era di maiale, la donna disse candidamente: “Allora mi dia le salsicce”. Le figure tristi dei Nordafricani avevano qualcosa di sfuggente. Si mettevano tutti tra loro, molti bevevano lattine di energy drink tipo Red Bull nonostante il loro costo fosse proibitivo, forse per esibire un surrogato del vino. Un islamico da solo in mezzo a genti di altra religione poteva bere tranquillamente il vino, ma se c’erano altri suoi compagni non osava, visto che si controllavano a vicenda. Il comportamento immorale di un membro della comunità avrebbe potuto essere riferito all’Imam, dal momento che i delatori erano molto numerosi. “Ecco il Carognaro”, si disse il Tecnico osservando un uomo procedere tra i tavoli abbandonati in cerca di rifiuti. Ormai i Russi se ne erano andati e in tutta l’ala erano rimasti in tre: il Tecnico, il Corvo e il Carognaro. Al Corvo nessuno osava avvicinarsi, la gente pensava che portasse sfiga. Il Carognaro si diresse verso i posti dei Russi e rovistò tra i piatti. Era italiano e aveva tutta l’aria di una persona ben al di sopra di chi lo circondava. Forse ricopriva addirittura un posto di una certa responsabilità, visto che i suoi vestiti erano impeccabili. Nonostante questo, il suo comportamento era al di là di ogni decenza. Con ogni probabilità era l’effetto strisciante dei prioni dell’Alzheimer a spingerlo al contatto con gli avanzi altrui. Prese una forchetta usata e si riempì un piatto di cibi eterogenei, quindi si sedette a mangiare. Non che il Tecnico fosse una persona di grandi appetiti, ma solo guardare quello che restava della sua pasta dal sugo acidulo gli fece venire una nausea insistente. Non poteva sbocconcellare la piccola forma di pane senza provare a calcolare il tenore di larve di coleottero e di blatte nella farina, così decise di lasciar perdere. Versò nel bicchiere quanto rimaneva della sua acqua minerale. In quel momento arrivò il Professore. Era un uomo sulla cinquantina, magro e con i capelli brizzolati. Portava gli occhiali. Depose sul tavolo un vassoio con un piatto di pasta al pomodoro e una bottiglietta d’acqua. “Che stavolta sia solo?”, si domandò il Tecnico, “Che lei l’abbia inculato?”. Non appena finito di formulare quelle oziose domande, ecco che vide arrivare l’amante del Professore, “Ano”. A dire il vero si chiamava Elena, ma il Tecnico l’aveva ribattezzata “Ano” perché era un’anoressica terminale. Le foto di Auschwitz avevano di certo perso ogni loro potere traumatizzante da quando si era potuto constatare che sempre più ragazze si riducevano a scheletri volontariamente, senza nessuna SS che le costringesse, e tutto per la più fatua delle motivazioni: il narcisismo. Se “Ano” si fosse offerta per interpretare una deportata ebrea in un film sull’Olocausto, sarebbe stata perfetta nella parte.
“Ano” era una ragazza dalle lunghe chiome bionde e dagli occhi azzurri. Una volta una collega del Tecnico aveva ironizzato dicendo che era troppo ariana per interpretare il ruolo della gassata ad Auschwitz, ma lui si faceva beffe di simili obiezioni: sapeva bene che gli Ebrei Ashkenaziti avevano il più alto tasso di biondi dagli occhi azzurri del mondo. Detto questo, “Ano” non era ebrea. Era di Parma. Bionda, pettegola e coi dentoni, come tutte le genti di Parma. Le braccia non avevano alcuna muscolatura, a parte forse qualche fibra atrofizzata: soltanto ossa fragili e pelle. Con ogni probabilità si muoveva grazie ai tendini. Le si contavano le costole attraverso la maglietta, i suoi seni erano piccolissimi e vizzi, poco più che rigonfiamenti appena abbozzati. A parte questo, il suo corpo era così poco sessuato che avrebbe potuto essere scambiata per una bambina. L’addome era scavato, il bacino si sarebbe potuto rompere con uno spintone. Il Tecnico dubitava che il Professore la penetrasse, le avrebbe fratturato qualche osso con un paio di spinte. Avrebbe naturalmente potuto possederla more ferarum o farla salire su di lui, ma anche così i pericoli sarebbero stati eccessivi. Era chiaro che lei gli procurava piacere fellandolo. Cos’altro avrebbe potuto fargli se non prenderglielo in bocca e succhiarlo? Ogni volta che “Ano” si sedeva davanti al suo adorato Professore, lo fissava estasiata, con un’espressione assolutamente ebete negli occhi in preda all’ipnosi. Sorrideva vuota, come una vergine di Medjugorie in piena apparizione mariana. Non ci potevano essere dubbi. Non solo leccava e succhiava il Professore, ma gli passava anche la lingua sull’ano. Se lui le avesse detto di farsi defecare in bocca, lei avrebbe aperto la bocca perché lui la usasse come latrina. La cosa che più sorprendeva era però un’altra. “Ano” mangiava. Prendeva sempre un piatto di pasta e una ciotola di mirtilli e non c’erano dubbi che si introducesse queste cose nello stomaco. Il Tecnico sapeva come spiegare anche questo fenomeno. Lo scheletro deambulante ingurgitava tutto e poi si recava immancabilmente al cesso a vomitare. Ogni input doveva corrispondere a un output, per usare un linguaggio per iniziati alla Scienza Occulta dell’Informatica, alla Ghematria dei Bit. Era ben possibile che andasse a vomitare anche dopo aver inghiottito gli impetuosi zampilli di sperma che il Professore le riversava in bocca: ogni apporto calorico, di qualsiasi origine, doveva essere tenuto sotto spietato controllo. L’ennesima ondata di disgusto assalì il Tecnico, che decise di ritornare al suo noioso e logorante lavoro di programmatore. Si sentì in preda a una stanchezza incredibile. Sarebbe uscito e avrebbe percorso un breve tratto di una via coperta di escrementi canini, sui cui lati stavano sorgendo grattacieli tanto alti che una volta ultimati avrebbero oscurato il sole. Tutto un cantiere. Dove prima c’era un centro sociale, ora ferveva l’opera di migliaia e migliaia di formiche in un titanismo, minuscoli atomi di un progetto il cui titanismo aveva qualcosa di cinese.
Nell’attraversare la sezione principale della mensa ctonia, il Tecnico fu colpito dalla figura di un operaio particolarmente grottesco. I suoi tratti erano molto devianti rispetto al valor medio di qualsiasi tipo di umano. “Un uomo di Neanderthal”, venne subito in mente al Tecnico, che si fermò a fissarlo. L’essere aveva una corporatura robusta e tarchiata, muscoli da culturista, duri e lucidi come acciaio. Collo quasi assente, cranio massiccio dall’ossatura spessa. Fronte sfuggente, assenza di mento, arcate sopracciliari prominenti. I capelli, foltissimi, arrivavano quasi alle sopracciglia ed erano di un nero lucente. La barba di due o tre giorni era composta da peli aguzzi la cui area di crescita giungeva fin quasi agli occhi. Il naso era imponente, una cosa mai vista. I denti massicci sembravano pioli. Per il modo di vestire non si distingueva da altri seduti nei tavoli attorno a lui: indossava la tipica tuta arancione fosforescente. Il Tecnico trasecolò. Era come se un uomo di Neanderthal fosse piovuto a Milano dai suoi territori di caccia preistorici, fosse stato ripulito sommariamente, rasato e vestito, gli fosse stata impartita un’istruzione rudimentale consistente di brevi comandi e fosse stato messo a lavorare alla costruzione dei nuovi palazzi regionali. Mangiava a quattro palmenti. Aveva già svuotato tre piatti e si preparava ora a finire il quarto. A quanto pare si nutriva unicamente di carne. Alcuni muratori bergamaschi gli si avvicinarono e lo salutarono usando il loro dialetto. “Ola!”, fece uno di loro. Lui in risposta alzò una mano ed emise un suono stridulo. Inumano. Le vocali erano diverse dalle nostre, nessuno avrebbe saputo trovare un sistema di trascrizione. Quella parola estranea all’umanità sconvolse il Tecnico, che volle avvicinarsi per chiedere informazioni. Non fece in tempo a muovere due passi nella direzione scelta che fu colpito da un malore improvviso. Una sensazione indescrivibile lo attraversò con la potenza di un fulmine. Il campo visivo si offuscò e si rese appena conto che le gambe stavano per cedergli. Cadde come un sacco vuoto, perdendosi nelle nebbie dell’incoscienza. Quando riaprì gli occhi, il Tecnico capì subito che qualcosa non andava. Il pavimento era bianco, sembrava di ceramica. Una grande massa profumata di arrosto stava davanti a lui. Non voleva credere ai suoi sensi: quello era davvero arrosto fumante. Si guardò e vide che era nudo come un verme. I vestiti che indossava erano in qualche modo spariti. Alzando gli occhi verso il soffitto distinse un enorme lampada al neon. Troppo grande, sproporzionata. Un cozzare terribile lo fece piegare in due, assordandolo. Si girò e vide delle aste di acciaio cozzare contro la ceramica del pavimento. Un digrignare tremendo pervadeva l’aria, come se denti giganteschi stridessero l’uno contro l’altro. Ecco che tutto gli si rivelò di colpo come vide il faccione dell’Uomo di Neanderthal sopra di sé, un mostro grande come una casa. Allora comprese di essere nel piatto di quel mostro e di essere stato ridotto per scherzo di un destino atroce e inesplicabile alle dimensioni di un vermicello. Non gli restava altro che correre al riparo. Troppo tardi, era stato visto. Una montagna di carne fu rimossa e scomparve nelle fauci del Neanderthal in men che non si dica, tra rumori assordanti di masticazione. Rimanevano davanti al Tecnico soltanto pochi frammenti inutilizzabili. Il bruto lo fissò con occhi pieni di ferocia e passò all’attacco. Incredibile come avesse appreso bene ad usare le posate, divertendosi a tagliare e al infilzare. Il coltello cozzò contro il piatto emettendo un verso straziante. Il Tecnico non poté far altro che turarsi le orecchie, come per impulso riflesso. Non serviva proprio a nulla: l’eco di quell’insopportabile fischio lo uccideva. Le vene si gonfiavano sul suo collo e sulla sua faccia, tese fino a scoppiare. Sentiva che sarebbe morto per la rottura di un aneurisma o per un infarto entro pochi minuti. Il terrore gli aveva deformato il cuore e faceva pulsare all’impazzata le arterie: nessun sistema cardiovascolare poteva resistere a lungo a una sollecitazione tanto violenta. La forchetta calò con infinita crudeltà proprio mentre i molari cozzavano come Simplegadi. Sembrò alla vittima che i Cieli stessero crollando. I timpani si lacerarono e un dolore sordo gli prese il torace e la schiena, paralizzandolo completamente. Uno dei rebbi più esterno della forchetta gli straziò l’addome. Sangue uscì misto ad intestini e a coaguli fecali spandendosi sull’immacolata ceramica: era la fine. Un altro colpo infilzò il torace, spappolando un polmone e mancando il cuore per un soffio. Con gli ultimi istanti di vita raggelata, l’uomo vide la bocca del Neanderthal avvicinarsi. Gli ultimi pensieri che passarono per la rete neuronale del moribondo erano confuse accozzaglie di reminiscenze scolastiche e di letture di gioventù. Polifemo, Crono divoratore dei suoi stessi figli, Grendel della Stirpe di Caino. Poi il Nulla. 

Marco "Antares666" Moretti

domenica 15 maggio 2022

LA COMPAGNIA DELLE LARVE

Ancora nella mensa ipogea. Sembra la stessa sequenza che si ripete da un’eternità come una manciata di fotogrammi impazziti. Tutto nasce dai fumi alcolici e si disperde nella nebbia impenetrabile che avvolge ogni mia percezione del futuro. Sono un etilista terminale. Non so neanch’io come abbia fatto a ridurmi in questo stato. Tutto viene dal Nulla e procede verso il Nulla. Non conservo alcun ricordo preciso della mia esistenza, salvo qualche tabella e qualche grafico nei file .xls che elaboro quotidianamente in stato di semincoscienza. Dopo aver lottato contro la sonnolenza, vengo qui in questo sotterraneo saturo di radon a ingurgitare qualcosa. Che lavoro svolgo davvero in quell’ufficio-prigione, in quel loculo? Non lo ricordo già più. Quando vi farò rientro, finita la pausa pranzo, riprenderò i miei automatismi, svanendo poi nell’Oblio che contraddistingue ogni tardo pomeriggio. Mi riempio una grossa caraffa da un litro di vino bianco frizzante estratto dalla spina. A volte lo rendo rosato aggiungendovi qualche spruzzo di rosso. Ne bevo subito qualche sorso per placare il tremore, quindi passo a rabboccare di nuovo la caraffa. Dopo aver pagato alla cassa, mi avvio verso un tavolo nella zona più isolata della mensa, stando attento a mantenermi in equilibrio. Non c’è quasi nessuno oltre a me, solo qualche operaio russo che mastica rumorosamente il suo cibo insipido, avanzandone la maggior parte. Non bado a quei subumani. Mi verso invece la bevanda intossicante in un bicchiere di plastica trasparente e comincio a bere, perdendo i già esili contatti con la realtà di veglia. Qualcosa prende forma attorno a me sul tavolo. Presenze a me familiari, dato che costituiscono la mia sola compagnia. Dialogo con quei grossi bruchi variopinti e pieni di flagelli semoventi, partoriti dal mio delirium tremens. Di solito farfuglio parole in una lingua che io stesso non capisco. “Oldens enumens, entairom olders”, saluto i budelli, poi proseguo i miei discorsi. Alcuni segmenti ricorrono di frequente. “Enimenda soktodal”. So soltanto che “soktodal” significa “fulmine”, ma il resto non mi è chiaro. A volte ripeto quella parola isolata un gran numero di volte, come un mantra per allontanare la malasorte. Soktodal, soktodal, soktodal, soktodal… Forse parlo senza neanche saperlo dei Massimi Sistemi, anche se dubito di essere capito. Ogni volta che mi succede, ci sono bruchi diversi per colore e per forma che si affollano sul mio tavolo. Ricordo ancora bene che ieri è venuta a trovarmi la larva di una farfalla sfinge, era verde come lo smeraldo e grande quanto un mio avambraccio. Aveva due flagelli rossi sulla coda, proprio in prossimità del “boccone del prete”, simili a tentacoli con le estremità avvolte a spirale. Ogni tanto faceva guizzare questi flagelli e li contraeva di nuovo, mentre faceva la gobba. Stando attento, mi riusciva di vedere gli intestini muoversi sotto la pelle sottile mentre muoveva gli pseudopodi. Non osava avvicinarsi a me più di tanto. Negli occhi composti da ommatidi non brillava alcuna luce di consapevolezza, ma forse c’era più capacità di comprendere l’ambiente in quel bruco che non negli operai russi.
Faccio una pausa dalla mia amara meditazione, approfittando per svuotare il bicchiere. Il sapore del vino è asprigno, ma non mi curo delle proprietà organolettiche di ciò che bevo. L’importante è che abbia un suo tenore alcolico. Se appena ci rifletto, mi rendo conto che il ricordo dei miei visitatori invertebrati rappresenta una delle poche cose nitide e certe della mia infelice esistenza. Proprio adesso vicino alla caraffa strisciano due frutti della mia follia. Uno è più grande e l’altro non arriva neanche alla metà del primo. Eppure si tratta di visioni che pochi sopporterebbero. In fondo questo pianeta, pur avvicinandosi così tanto alla definizione di Inferno, non è il peggio che si possa immaginare. A quanto pare, in Natura non vi sono specie di bruchi di proporzioni simili. Le salsicce deambulanti che indugiano sulla superficie di plastica del tavolo sono molto simili tra loro. I loro corpi sono adorni di giallo, di rosso e di bruno, cosparsi di vibrisse sottili. Dal dorso inarcato si dipartono appendici molli e animate che sembrano tentacoli o frustini, di un nero untuoso come quello di certo petrolio greggio. Ogni dettaglio mi appare chimico, ripugnante, al punto da smuovere ondate di nausea nel mio stomaco. Gli ocelli sui fianchi molli delle creature dell’incubo sono macchie azzurre sui fianchi con in mezzo un’apertura minuscola che li rende simili ad atrettanti sfinteri. “Inutile che cerchiate con tanta insistenza”, dico loro in preda alla stizza, “Tanto qui non c’è nulla di commestibile per voi”. Ritorno alle mie libagioni. Un rigurgito acido sale dal mio stomaco, ricordandomi che morirò quasi di certo soffocato nel sonno, anche se dei miei sonni non mi resta alcuna memoria. Due flashback irradiano in me, come se una macchina fotografica aliena avesse colto spezzoni della mia vita subliminale che io non riuscivo a richiamare a livello conscio. In uno di questi psicodrammi mi vedo mentre inginocchiato vomito nella tazza del cesso i rimasugli del mio fegato ridotto a poltiglia violetta. Nell’altro, sono sicuro di scorgere il mio corpo dall’alto, essendomene separato, mentre i rianimatori si accalcano attorno alla carcassa nel vano tentativo di richiamarmi nella prigionia corporale. Sono ricordi del passato o ricordi del futuro? Non saprei dirlo. Non distinguo più nulla del flusso temporale, a parte i miei amici bruchi. Non sono neanche sicuro di poter definire i compagni della mia sventura con il termine “larve di lepidottero”, perché mi appare ridicola la sola idea che un giorno potranno impuparsi e sfarfallare, lasciandosi alle spalle la loro precedente esistenza di masticazione. Provo a interrogare i miei muti interlocutori sul significato delle esperienze di pre-morte. Anche se non mi attendo una risposta comprensibile, data l’assenza di organi fonatori, sono sicuro che il brusio assordante nelle mie orecchie possa contenere qualcosa di razionale, quasi una risposta diretta alle mie allocuzioni. Il discorso mi sale dalle labbra. “Entimenenda sintamanda soktoks felimenda astamoks fenima ondomaima ondeks fanomu endimos onondagamas…” Non sento alcuna alterazione nelle frequenze bassissime che premono contro i miei timpani sovraccarichi. Eppure la metarazionalità dei flussi ricevuti dai miei nervi acustici va a nutrire il mio inconscio. O si tratta di qualche residuo di sedute di analisi che ho sopportato in qualche mia vita precedente? “Ontoma sinted anomoina fenomu anostriks enosoktodal enima entimanoskuma…” Non so dire se sia un dialogo vero o piuttosto un monologo degno di un Aleister Crowley in preda alla demenza furiosa. Mentre fisso le due apparizioni spettrali, eppure fin troppo concrete, noto che i loro corpi molli si stanno irrigidendo. Perché continuo ad aspettarmi una risposta, quando neppure comprendo il senso delle mie domande?
Ho trangugiato quasi tutto il contenuto della caraffa. Non credo di avere il tempo di andarne a prendere una nuova, ma tanto per il pomeriggio posso confidare su un recipiente di etanolo puro che tengo assicurato alla cintola, ben nascosto dal maglione. Presto cesserà l’attività della mia coscienza, diventerò un servo robotico e sprofonderò nella nebbia. Ad emergere dalla formattazione dei miei neuroni sarà il prossimo pranzo in questo sepolcro che gli altri si ostinano a chiamare mensa. Qualcosa però mi convince a trattenermi, nonostante l’orologio appeso alla squallida parete di fronte a me mi avvisi che il mio tempo sta per finire. I due bruchi sono adesso quasi immobili. La loro stessa struttura fisica è cambiata. Si sono gonfiati a dismisura. Ho la netta impressione che un’orribile pressione minacci di farli esplodere dall’interno da un momento all’altro. I gibbi e le protuberanze compaiono sempre più numerose sulla loro cute inspessita, come oscene verruche. Un essudato spurga, lo capisco dalla lucidità. Le appendici sensoriali sul dorso sono ora prive di vita, non guizzano più come prima. Non mi ricordano più le chiome di una gorgone, ma una qualche formazione algosa ormai priva di vita. Negli abissi del mio essere c’è sconvolgimento. Percepisco il pelo della mia anima come la superficie del Mare Avvelenato agitato dal Serpente del Mondo. Le onde si sollevano e cozzano le une contro le altre, perdendo qualsiasi coerenza. I germi dell’inaudito sono all’opera, in me come nelle larve sprofondate nel loro stato comatoso. La pressione interna cresce ancora nelle loro viscere, al punto che comincio ad intravedere qualche piccola spaccatura, da cui cola un sangue di un color giallo marcio, semitrasparente. Un fetore di cavoli marci si sprigiona dai corpi in metamorfosi, ed è tanto aspro e pungente che non credo riuscirò a sopportarlo a lungo. Non posso alzarmi, non posso allontanarmi dal tavolo prima di aver visto, prima di aver ricevuto la rivelazione finale del teatrino entelechiano che ho davanti agli occhi. Ecco che si fa più vicino l’esito. Masse si muovono, mi ricordano il pullulare di piccoli cagnotti nella carne marcia. Finalmente alcuni di questi figli della necrogenesi fanno capolino. Le loro robuste mandibole stanno masticando quello che resta dei loro genitori. Sono decine, e ciascuno di loro è una copia in miniatura dei bruchi appena morti. Si riproducono in questo modo, esclamo tra me e me, esterrefatto e catturato dallo spettacolo macabro quanto ipnotico di quella germinazione. Lo avevo sempre sospettato, ma adesso ne ho una conferma incontrovertibile. Cosa sono queste forme infernali che affliggono i miei sensi esausti e piagati? Nulla di più lontano dai bruchi delle farfalle, che si trasformano in qualcosa di bello. Questi non portano nessuna gioia nel cuore, ma non fanno altro che replicare il loro schema all’infinito. Non hanno in sé le potenzialità della meraviglia. La loro ontologia non ha nulla a che vedere con quella dei lepidotteri.
“Quanto sono stupido!”, esclamo all’improvviso. “Sto scambiando per realtà oggettiva quello che è l’infetto prodotto della mia follia allucinatoria! Non mi era mai capitato di subire un rapimento così profondo, un solipsismo così assoluto…” Proprio quando cerco di convincermi dell’irrealtà di quanto mi circonda, mi rendo conto che uno dei giovani bruchi mi ha morso una mano. Mi agito e urlo in preda all’obbrobrio, scagliando lontano il piccolo predatore. Quando guardo la ferita, vedo che sanguina e che si corrode lentamente, come se la saliva lasciata dalle fauci della larva stesse digerendo la mia carne. Non avverto sensazioni dolorose, ma di anestesia. Quella piccola puttana mi ha anestetizzato la mano per poterla mangiare indisturbata. “Non è possibile!”, impreco con furia, “Le allucinazioni non lasciano ferite, non straziano le carni…” Non mi sono accorto di nulla, non riesco a capacitarmi di come sia potuto accadere. Ora però ogni cosa mi è chiara. Con infinito orrore vedo che tutti i bruchi voraci hanno abbandonato il tavolo e sono saliti sul mio corpo, iniziando a fare il loro banchetto con le carni delle mie braccia e delle mie gambe. Di nuovo le mie urla folli lacerano l’aere. “Mi sta entrando in un occhio! Mi divorerà il cervello! Aiuto!”, strillo come un’aquila. Niente da fare. La cameriera filippina non si accorge di nulla. Mi vede mentre cerco disperatamente di strapparmi la faccia dal teschio, e non dice una sillaba. Si limita a ritirare la caraffa ormai vuota e si allontana come se fosse la cosa più normale del mondo. Il buio si fa strada in me, gelido come la morte essenziale. Mi immedesimo con Thanatos e so che nulla esiste al di fuori. È stato un attimo, tutto quello che ho creduto di vivere, e ora sta per finire con la morte eterna. L’anestesia ha raggiunto i miei centri cognitivi. Tra poco non sentirò più nulla. Ecco, il Dio della Morte è giunto, finalmente, con il suo pungiglione. Non c’è più nulla, il mio corpo non esiste più. Non c’è più il lavoro con i grafici e le tabelle .xls, non c’è più la mensa ipogea. Non ci sono più gli pseudoricordi, i flash di mie esistenza alternative. Tutto acquista la sua concretezza, il suo senso definitivo. Il Non-Essere. Ho soltanto un dubbio. Perché sto continuando a pensare?

Marco "Antares666" Moretti 

mercoledì 11 maggio 2022

METANÒR

Quello che mi accingo a descrivervi desterà in voi più di un dubbio sulla mia sanità mentale, ma nonostante ciò non posso più passare la cosa sotto silenzio. La mia permanenza forzata nell’orrida colonia di Cardano al Campo è stata resa tormentata e insopportabile da molteplici manifestazioni che la Scienza può soltanto definire allucinatorie. Non arrendendomi alla mia disgrazia, ho persino teorizzato in cerca di una qualche spiegazione, e ho anche dato un nome ai demoni astrali che mi perseguitavano: Metanòr. Questi Metanòr hanno forma di grossi bruchi microcefali simili per sagoma a una pera, panciuti, come certe larve migranti sottocutanee. In cima alla piccola testa sta un unico occhio umano. Nessun segno di apparato masticatore. Il corpo è segmentato, molle e coloratissimo, non troppo diverso dal corpo di certi bruchi della nostra realtà: ad esempio i Metanòr hanno le sei zampe vere da insetto, nere, e molte paia di pseudozampe colorate, coperto di radi cernecchi di peli, di papule, di piccole vibrisse e di altre escrescenze. Il tutto si muove e si inarca con movimenti complessi ed alquanto abominevoli. La massa delle loro viscere pulsa di continuo sotto l’esile pelle. La percezione di uno o più Metanòr è avvenuta da principio con la Seconda Vista, una specie di senso difficile a descriversi, che mi ha accompagnato per tutta l’esistenza. Presto però hanno cominciato a subentrare sensazioni nettamente fisiche, come l’onda di ribrezzo, che più di una volta mi ha fatto urlare per strada. Una volta, mentre mi dirigevo dal luogo in cui ero costretto a lavorare al tugurio cadente in cui dormivo, la crisi è stata tanto forte da provocarmi quasi lo svenimento. Per fortuna nessuno mi ha visto, altrimenti mi avrebbero di sicuro preso per un drogato o per un derelitto affetto dalla fase terminale del delirium tremens. I Metanòr mi attaccavano in sfuriate successive, inducendomi pensieri immondi, come il contatto con latrine e con escrementi, umani e non umani. Facevano formare immagini deboli ma non descrivibili a parole di tutto ciò che di più orribile può essere concepito nell’Esistenza. Quando più Metanòr mi abbattevano unendosi, i loro occhi si fondevano in un occhio gigantesco e lucente, a volte con più pupille. In quelle occasioni, io dico che si sono uniti in corona, come se fosse un processo quantistico in cui nuvole orbitali probabilistiche di atomi esotici si ibridizzano. Sempre, ogni volta che ciò mi è accaduto, ho perso completamente il controllo sui miei pensieri e la mia libertà è stata violata. I teologi di due millenni potranno blaterare quello che vogliono, ma nessuno potrà mai convincermi che esiste il libero arbitrio. Aveva ragione Lutero quando scrisse: “Quod evidens est argumentum, liberum arbitrium esse merum mendacium”. Se il vomito di un verme diabolico è in grado di annichilire la mia volontà, allora sono soltanto una spada nelle mani di entità immonde. Finita la cattività cardanese, la comparsa dei Metanòr è stata sempre meno frequente ed intensa, fino a cessare del tutto. Eppure il terribile shock che l’infestazione mi ha inflitto ha polarizzato la mia materia grigia in modo permanente, e non potrà mai essere dimenticato finché avrò un alito di vita nei polmoni. 
 
Marco "Antares666" Moretti

lunedì 9 maggio 2022

PANDORA

L’uomo portava un pesante pacco, che nella sua stoltezza pensava essere composto da un semplice ammasso di cenci da gettar via. Non sapeva nemmeno lui perché sorreggesse tale peso mentre ingobbito e torvo risaliva la ripida rampa di scale. Le lampade che illuminavano il recesso emanavano una luce grigia, le pareti sembravano fatte di galena. All’improvviso la voce parlò, e l’uomo sapeva che proveniva dal profondo. “Guardami, le mie mascelle potrebbero cadere. Allora sarei un individuo inutile, incapace persino di mangiare, forse persino impedito a respirare correttamente”. Ecco che l’uomo fu invaso da un profondo terrore. Come chiuse gli occhi per schermarsi da una rivelazione così traumatizzante e incomprensibile, vide la sagoma di una donna-cadavere. “Da viva sarà anche stata una bella donna”, pensò. Ora però che la contemplava era orrenda. La pelle era di un grigio azzurrognolo malato come le pareti di minerale plumbeo. Gli occhi erano globi neri che sembravano liquidi. Nel centro delle guance c’erano punti di cedimento attraverso i quali si intravedeva il nero marciume all’interno del cavo orale: una lingua simile a una larva di processionaria scura come il petrolio, che si muoveva incessantemente. Una zaffata investì l’uomo, portandogli alle nari i lezzi di una bara scoperchiata. Dopo un attimo di marasma, ritrovò le forze e varcò finalmente la soglia di casa. Mise il pacco di cenci sotto la scrivania e si sedette, accendendo il computer. Accese la macchina, e dopo una tormentosa attesa lo schermo nero si animò. Una figura cominciò a prendere forma. Anziché il consueto caricamento dei programmi, dal turbinio confuso di grigio si rapprese l’immagine della donna morta. Non aveva più la mandibola, si era staccata. Adesso la lingua simile a un bruco era estroflessa oscenamente e guizzava tutt’intorno. “Te lo avevo detto di stare attento”, tuonò ancora la voce telepatica. L’uomo capì tutto e quasi morì di terrore. I suoi occhi andarono al fagotto di stracci che aveva con noncuranza gettato sotto la scrivania. Vide che era sporco di liquame nerastro. Sangue. Aprì l’involto e scoprì una mano femminile mozzata che stringeva una manciata di denti candidi come l’avorio. 

Marco Moretti (Antares666)

sabato 7 maggio 2022

FULMINI BLU

Sono di ritorno da Milano, in treno. C’è uno sciopero e il treno su cui viaggio è uno dei pochi garantiti. Si vedono dei bagliori blu fuoriuscire dai cavi della tensione, forse per qualche guasto su tutta la linea. Giunto in periferia dell’agglomerato urbano, proprio a Sesto San Giovanni, ho un’atroce allucinazione sensoria: sulla distesa di rotaie arrugginite ci sono alcuni flagellanti lebbrosi la cui testa è ricoperta di bruchi. Li vedo chiaramente. Marciano in processione su una pianura coperta di escrementi, di masse di vomito e di gigantesche larve semitrasparenti, grasse e microcefale, simili a quelle che gli aborigeni d’Australia reputano una leccornia, ma grandi più del doppio di un uomo. Gli invertebrati mollicci fanno fatica a muoversi, come se fossero piovuti dal cielo in un ambiente a loro del tutto estraneo, già in agonia. A guidare la processione spettrale è la Bambola Vedova, una donna parzialmente avvolta in un sudario nero lacerato in più punti. È senza piedi, non cammina, galleggia nell’aria. I suoi veli si muovono lentamente, mentre un agghiacciante urlo silenzioso giunge dal suo volto senza bocca e senz’occhi. I suoi capelli sono intrisi di sangue nero e ondeggiano nel vento statico. La pianura stercorale è piena delle rovine dei binari e delle ferrovie del nostro Universo, ma questa visione si sovrappone solo in parte alla realtà. Poi fisso i grigi palazzi, e ho la certezza assoluta che siano sede di un abominio non descrivibile a parole, come se migliaia di vecchi eternamente moribondi vi consumassero la loro dannazione immanente nella demenza e nel cancro, in modo simile alle larve semitrasparenti cadute dal Cielo del Nulla.

Marco "Antares666" Moretti