giovedì 4 luglio 2019


PARTS: THE CLONUS HORROR 

Titolo originale: Parts: The Clonus Horror
AKA: The Clonus Horror; Clonus
Anno: 1979
Data di uscita (USA): Agosto 1979
Paese: Stati Uniti
Lingua: Inglese
Durata: 90 min
Regia: Robert S. Fiveson
Genere: Fantascienza, horror
Sottogenere: Distopia
Produzione: Robert S. Fiveson, Myrl A. Schreibman
Co-produttore: Michael D. Lee
Casa di produzione: Clonus Associated
Soggetto: Bob Sullivan (storia)
     Ron Smith (screenplay),
     Myrl A. Schreibman
     Robert S. Fiveson (adattamento)
Musiche: Hod David Schudson

Scenografia: Max Beaufort
Fotografia: Max Beaufort
Costumi: Durinda Wood
Montaggio: Robert Gordon
Distribuzione: Group 1 International Distribution
    Organization Ltd.

Personaggi e interpreti: 
   Tim Donnelly: Richard Knight Junior
    Paulette Breen: Lena
    Dick Sargent: Dottor Jameson
    David Hooks: Il professor Richard P. Knight 
    Peter Graves: Jeffrey Knight
    James Mantell: Ricky Knight
    Keenan Wynn: Jake Noble
    Lauren Tuttle: Anna Noble
    Frank Ashmore: George Walker 
    Zale Kessler: Dottor Nelson
    William Bufkin: Clone
    Tony Haig: Jack
    Eileen Dietz: Dana
    Boyd Holister: Il senatore
    Eddy Carroll: Un medico
    John Donovan: Una guida
    Joel Lawrence: Una guida
    Keith Langsdale: Una guida
    Larry Manning: Una guida
    Ricky DiAngelo: Una guida
    Eugene Robert Glazer: Una guida
Titoli tradotti: 
    Spagnolo: El horror de Clonus
Budget: 257.000 dollari US
Premi: Saturn Awards for Science Fiction, Fantasy and
    Horror Films, 1980 (nomination, miglior film con budget
    inferiore a 1 milione di dollari US) 


Trama:
La vicenda inizia in un complesso abitativo isolato chiamato Clonus, situato nel bel mezzo di una regione desertica. In questa struttura vengono allevati uomini e donne, che sono tutti cloni di persone del mondo esterno: la finalità del progetto è quella di fornire organi di ricambio per i trapianti. Ovviamente nessuna dei confinati a Clonus sa nulla di tutto questo. Per non far sorgere velleità di esplorazione o di fuga, viene fatto loro credere che uno alla volta saranno scelti per raggiungere una paradisiaca destinazione finale, una terra prospera e felice chiamata America. Richard ha un carattere diverso da quello dei suoi simili. Si pone domande ed è curioso, inquieto. Durante una corsa incontra casualmente Lena, una bellissima ragazza bionda che appartiene al suo stesso gruppo di controllo (riconoscibile dal particolare orecchino) e inizia una relazione con lei. A un certo punto qualcosa nel mondo di Richard si incrina. Mentre passeggia lungo il fiume, scopre una lattina con la scritta Milwaukee - il nome della marca della birra. Non conoscendo la parola, che gli suona aliena, comincia a irritare tutti con le sue domande. Non è soddisfatto dalla risposta che riceve da un meccanismo simile a un confessionale funzionante come un'enciclopedia - secondo cui il Milwaukee sarebbe una specie di minerale. Le febbrili indagini del giovane lo portano infine a un ufficio incustodito, in cui trova abbondante materiale cartaceo ed audiovisivo capace di spiegargli l'orrenda verità sul progetto Clonus. Così apprende di essere un clone, destinato a fare una ben brutta fine, macellato per salvare la vita del suo originale. In preda al terrore, Richard si dà alla fuga e riesce ad evadere da Clonus, inseguito dagli aguzzini. Giunge così in una cittadina che si trova oltre la distesa desertica, alla ricerca dell'uomo di cui è una copia. Presto scopre che le autorità di Clonus non hanno rinunciato a braccarlo: sa troppe cose compromettenti e non gli deve essere permesso in nessun modo di rivelarle. Caso vuole che a soccorrere il povero Richard, finito in un cumulo di immondizia per sfuggire agli inseguitori, sia proprio un giornalista in pensione, Jack Noble. Questi porta il clone dal suo promotore, che risulta essere Richard Knight, fratello del più noto Jeffrey, un cinico politicante in corsa per la presidenza degli States. Ebbene, si scopre subito che proprio Richard Knight è l'originale del clone che porta il suo stesso nome. Oltre ai problemi etici e filosofici (il fuggitivo è o meno un essere umano?), sorge una situazione di gravissimo pericolo, perché Jeffrey Knight, finanziatore occulto del progetto Clonus, non vuole certo che la verità si risappia... Sequenze ad alta tensione, fino all'epilogo annichilente.


Recensione:
Ho trovato il film interessante e godibile, anche se mi ha fatto uno strano effetto visionarlo con l'audio in spagnolo, non essendo stato in grado di reperirne una copia in italiano. All'epoca nessuno avrebbe mai pensato che si sarebbe arrivati in così poco tempo a disporre della capacità di clonare anche soltanto un topo. Si era dunque nel campo della fantascienza profonda. In un mondo di lettori e di spettatori ossessionati da robot, astronavi e alieni, il tema della clonazione era tutto sommato poco sentito. I film sui cloni erano rari ancora nei primi anni '90: sono diventati più numerosi a partire dal 1996, anno in cui è stata clonata la famosa pecora Dolly. Negli anni '70 il concetto di clone era ancora così poco familiare alle masse da ingenerare equivoci esilaranti. Nel doppiaggio in italiano di Guerre Stellari (George Lucas, 1977), la Guerra dei Cloni diventa un'incomprensibile Guerra dei Quoti, per via di un'epidemia di raffreddore che tra le altre cose trasformò Darth Vader in Darth Fener. Ne Il dormiglione (Woody Allen, 1973), una prosperosa fellatrice capisce "incoronazione" anziché "clonazione". Proprio il film del segaligno ashkenazita occhialuto parrebbe la prima attestazione rilevante di questo argomento nella SF; di lì a pochi anni sarebbe stato reso appena più popolare da I ragazzi venuti dal Brasile (Franklin J. Schnaffner, 1978) - più che altro per via del potere traumatizzante del dottor Josef Mengele. 

Riporto una lista di film sulla clonazione umana, tratta dalla Wikipedia in italiano e di certo non esaustiva: 


Il film di Woody Allen non è riportato, ma Clonus fa bella figura tra le più antiche e autorevoli pellicole sui cloni, preceduta solo da quella sulle prodezze di un Mengele galvanizzato, interpretato in modo superbo da Gregory Peck. Si noterà che nell'elenco non esiste nemmeno un'opera cinematografica che sia anteriore agli anni '70. Neanche una. 

Etica, trapianti e cloni 

Il tema dei trapianti di organi era molto sentito nei tardi anni '70 e nei primi anni '80. Ricordo dibattiti furibondi al liceo. L'insegnante di italiano ci aveva proposto un tema sul caso di una bambina a cui era stato trapiantato il cuore di una scimmia. Uno intervento che risultò fallimentare, scatenando però un vespaio a livello mondiale, soprattutto tra i religiosi. Il mio scarno componimento era stato giudicato "scioccante", avendo "lasciato inevasa la questione morale". In pratica ero ritenuto una specie di piccolo Mengele. Se tuttavia avessi osato parlare di clonazione - dopo aver spiegato il concetto - sarei stato ritenuto un pazzo, alla meglio mi avrebbero apostrofato: "Leggi troppi libri di fantascienza!" Il che era già considerato un primo indizio di psicosi. Eppure il tema di un possibile trapianto di cervello non era ritenuto fantascienza e destava un incontenibile terrore al solo menzionarlo. Oltre ai "problemi etici", basati sui borborigmi della divinità biblica e sull'esagerato valore dato alla vita umana dai moderni ("sacralità della persona", "inviolabilità", "progetto divino", etc.), c'era anche un'altra criticità impellente: il rigetto! Ebbene, nel film di Fiveson è suggerita una soluzione. Un organo fornito da un'altra persona o da un animale non è sempre compatibile. L'organismo può non accettarlo, riconoscendolo come un corpo estraneo. Spesso ne nascono reazioni che possono condurre alla morte. Se però il donatore dell'organo è un clone del paziente, con lo stesso identico genoma, non si può presentare alcun rigetto. A questo punto si pone un ulteriore problema, non facilmente eludibile: per donare un organo, il clone deve essere messo a morte. Non si tratta qui di rischiare la vita di qualcuno per un troppo audace amor della Scienza o di estrarre organi da un corpo condannato al coma vegetativo: la soppressione del clone è a tutti gli effetti un omicidio a sangue freddo. 

Assuefazione all'Orrore 

Richard Knight, l'uomo che ha fornito il materiale genetico da cui è stato prodotto il suo omonimo clone, prova un'istintiva ripugnanza morale per il progetto che ha permesso a suo fratello Jeffrey di avere un cuore nuovo di zecca. Lo paragona ad Auschwitz (nella pronuncia spagnola il toponimo è adattato in Áujvij, con due suoni aspirati). Vengono da lui evocati anche i fantasmi di Stalin e di Hitler (nell'ordine della classifica degli antisociali, io risulterei al terzo posto). Il suo malvagio fratello Jeffrey cerca di convincerlo della liceità dell'obbrobrioso progetto Clonus con un argomento assai audace: i cloni non sarebbero in realtà esseri umani e dovrebbero essere giudicati oggetti (non animali, si badi bene: non devono poter suscitare empatia). Ecco riesumate tonnellate di paccottiglia biblica adattata in modo posticcio alle dottrine scientifiche del presente. I cloni non avrebbero quella cosa imponderabile chiamata "anima" o "spirito", pur essendo capaci di parlare e possedendo tutte le facoltà mentali di qualsiasi essere umano. La prima preoccupazione dell'Homo americanus è fare i conti con la Bibbia. All'inzio Richard Knight reputa atroci e inaccettabili i discorsi di Jeffrey sulla non umanità dei cloni. Poi fa uno sforzo per accettarli (un fratello è sempre un fratello) e nel suo salotto afferma - pur non credendoci fino in fondo - che in realtà i cloni sarebbero mostri, scherzi della Natura. Il Richard clonato sbuca a questo punto da una porta urlando: "Sono umano come voi!!" Il pathos è gestito con somma maestria da Fiveson. La scena non si dimentica facilmente. 

La condizione di semi-immortalità 

La fuga di Logan (Michael Anderson, 1976) costituisce il prototipo dell'ontologia narrativa di Clonus, anche se l'ambientazione è molto diversa. Il tema cardine è sempre quello del Fuggitivo, un uomo nato e cresciuto in un contesto innaturale di isolamento, votato a un destino miserrimo, che riesce ad evadere dalla sua prigionia per venirsi a trovarsi perso in un mondo ignoto. Senz'altro è un tipo di storia di grande fecondità e versatilità, che può adattarsi ai più svariati contesti storici, assumendo sempre nuove forme. Mentre nell'opera di Anderson il tema opprimente era quello della brevità della vita biologica, la cui durata era amministrata con impietosa severità da una Macchina-Carnefice, Fiveson ci presenta l'anelito di eternità dei politicanti, della stramaledetta classe dirigente. Quel verminaio immondo che si è formato già nel Neolitico e che continua ad opprimerci, non accetta e non accetterà mai i limiti imposti dalla biologia: desidera perpetuare l'esistenza materiale fino alla Fine dei Secoli. Quello che il fondatore del progetto Clonus mira ad ottenere è una condizione che potremmo chiamare semi-immortalità. Non è proprio l'abolizione della Morte e dei limiti imposti dalla disgregazione dei tessuti; direi però che è qualcosa che si avvicina in modo sorprendente a tutto questo. Un essere vivente, uomo o donna che sia, può sostituire tutto ciò che nel suo corpo è difettoso, eliminando ogni fonte di entropia e di marasma, eludendo così l'exitus. Lo può fare, a rigor di logica, un gran numero di volte, arrivando a durare nei secoli - a discapito degli agnelli sacrificali da cui saranno ricavati i pezzi di ricambio. Non basta essere ricchi per ottenere simili privilegi biologici: occorre essere super-ricchi. Autentici plutocrati, i cui averi sono tanto cospicui da far apparire il tirannello della Corte di Hardcore un semplice provincialotto. E con questo ho detto tutto.

Atrocità

Il trucco scenico dello smascheramento finale del cattivo in realtà non apporta alcun sollievo allo spettatore. Certo, alla conferenza stampa del neoinsediato presidente Jeffrey Knight fanno irruzione due giornalisti che gli chiedono di parlare di Clonus, con la videocassetta compromettente alla mano. Per quella prova schiacciante, il presidente ha fatto uccidere suo fratello assieme al figlio. Prima di macchiarsi di tali spaventosi delitti, aveva affermanto che l'orrore del progetto Clonus è qualcosa che vale la pena. Un simile mostro merita di essere annientato dalla furia degli Elementi. Perché il film non è dunque da considerarsi a lieto fine e ottimista? La risposta è semplice: la Nemesi di Jeffrey Knight non riesce a salvare i cloni Richard e Lena, che fanno una fine atroce. Il ritorno di Richard nel campus di Clonus non è vittorioso come il ritorno di Logan 5 nella città controllata dal Computer Centrale. Attirato dalla vista dell'amata Lena alla finestra della sua stanza, il giovane clone viene subito catturato. Con orrore scopre che la bionda ragazza è stata lobotomizzata. Quando lei si volta, lui resta raggelato dal suo aspetto: il sorriso ebete, lo sguardo allucinato e perso nel vuoto, la cicatrice sulla fronte, proprio dove il trapano ha tagliato l'osso per ledere il lobo frontale. Nei fotogrammi finali si vede Richard congelato come un merluzzo, appeso e sventrato. Eppure è cosciente: da un occhio gli esce una lacrima.

Clonus e The Island 

Ovviamente non poteva mancare il remake. Famoso è il caso di The Island (Michael Bay, 2005), che riprende punto per punto l'intera impalcatura filmica di Clonus. Si tratta di un remake non autorizzato, che diede origine a un'aspra battaglia legale. Tra i due film si riscontrano tuttavia alcune differenze non da poco. In Clonus il progetto di clonazione è segreto e noto solo a pochissimi politici, oltre che agli scienziati che vi lavorano e al personale coinvolto (infermiere sadiche, psichiatri assassini, lobotomizzatori, gorilla e affini). Tutto viene tenuto nascosto, si fa capire che la produzione di un Übermensch semi-immortale desterebbe nella massa americana un tale sdegno da causare rivolte violentissime. Invece The Island ci mostra una società in cui tutti sanno della produzione di organi di ricambio tramite clonazione. L'industria che gestisce il processo è ritenuta la punta di diamante della tecnologia umana, perché viene tenuta nascosta la verità sulla soppressione dei cloni. Si fa bere a tutti, volgo e notabili, la scemenza colossale degli agnati privi di consapevolezza, in pratica embrioni troppo cresciuti e incapaci di interpretare il mondo.      

Curiosità varie 

Il titolo del film doveva essere semplicemente Clonus. La casa di distribuzione pretendeva  che fosse cambiato in Parts. Siccome il regista si opponeva, fu deciso di assemblare le due opzioni, dando così vita al definitivo Parts: The Clonus Horror

La casa con la piscina è una dimora reale, non un semplice set in cartapesta. L'indirizzo è 3366 Scadlock Lane, Los Angeles, California, US. Se vi sia avvenuto davvero qualche omicidio è una cosa che ignoro. Certo, tutto è possibile. Una dimora famosa negli States può sempre ospitare stravaganti festini e balli in maschera dalle conseguenze imprevedibili...

Che altro dire? Non si trovano molti trivia nel Web su Clonus. Forse perché la gente non vuole pensare. Troppo grande è il flusso di aberrazioni stomachevoli. A nessuno piace soffermarsi troppo su tematiche tanto avvilenti. Vorrà dire che faremo un bilancio nel prossimo futuro.  

Un cognome di origine pictica

Fiveson è un cognome molto peculiare. Ai tempi della sua formazione era un patronimico. Il suffisso -son è chiaramente norreno (sonr, -son "figlio"), ma la base proviene da un'altra lingua, ben misteriosa: l'idioma dei Picti. Infatti uno degli eponimi di tale popolo dell'antica Scozia è proprio Fib, nome di un re figlio di Cruithne. Proprio da questo Fib ha tratto il suo nome il regno di Fife.

domenica 30 giugno 2019

TEDESCO NACHEN 'PICCOLA BARCA' E NORRENO NǪKKVI 'BARCA, NAVE': UN RELITTO PREINDOEUROPEO

Approfondendo i miei studi di lessico norreno, la mia attenzione è caduta sulla seguente voce, estratta dal dizionario di Zoëga

nǫkkvi (m.), barca; nave
   gen./dat./acc. nǫkkva 
   plurale: 
   nom. nǫkkvar, gen./acc. nǫkkva, dat. nǫkkvum 


Si tratta di un vocabolo poetico, che non ricorrereva nella lingua corrente. È anche attestato come nome proprio maschile di persona: Nǫkkvi. L'antroponimo era tipico dei Vichinghi e fu portato da un loro capitano, un Re del Mare.   

Il tedesco moderno ha una parola imparentata: Nachen (m.) "piccola imbarcazione". Si tratta di un diretto discendente del medio alto tedesco nache, a sua volta dall'antico alto tedesco nahho "barchetta, barca fluviale". In antico sassone si ha nako "barchetta", ovviamente senza rotazione consonantica.

Anche in antico inglese esiste una parola derivata dalla stessa radice: naca (m.) "barca; nave". Il suo uso era esclusivamente poetico. Purtroppo questa singolare voce è andata perduta abbastanza presto, a causa del tremendo trauma che ha portato nel lessico anglosassone ingenti quantità di materiale romanzo dall'antico francese, facendo diventare obsolete moltissime parole ereditate. 

In olandese abbiamo aak "piccola imbarcazione (per navigare nei canali)". Evidentemente l'assenza della nasale iniziale è dovuta a deglutizione. In altre parole, si dovrebbe avere *naak, ma la consonante n- è stata interpretata come parte dell'articolo indeterminativo: a un certo punto een *naak è diventato een aak. In medio olandese è attestata sia la forma con nasale integra, naecke, che quella con nasale deglutita, aecke. Questo fenomeno esiste anche in antico frisone, che ha âke, âk (aek, aak in frisone occidentale moderno). 

Non abbiamo attestazioni nella lingua dei Goti. Se il vocabolo fosse stato presente, sarebbe sicuramente *naqa, con la declinazione debole maschile: gen. *naqins, dat. *naqin, acc. *naqan; pl. nom./acc. *naqans, gen. *naqane, dat. *naqam. Troverei strana l'assenza di questa parola in gotico, dato che è stata ereditata da tutti gli altri rami del germanico.

Si ricostruisce agevolmente una forma protogermanica *nakwæ:n "barca; nave". Veniamo ora al punto. Qual è l'origine ultima di questa parola? I neogrammatici danno per scontato che si tratti di una forma indoeuropea e ricostruiscono così una radice *nagw- che in modo ridicolo proiettano nelle steppe dell'Asia. Ecco cosa riporta la Wikipedia in tedesco (2019): 

"Ein Nachen (althochdeutsch Nahho, germanisch Nakwa, indogermanisch Nagua) bezeichnet ursprünglich einen Einbaum, ein kompaktes, flaches Boot bzw. einen Kahn für die Binnenschifffahrt." 

Guardando la cronologia della pagina wikipediana, si scopre che a quanto pare queste oscenità sono in Rete dal 2013. Il protogermanico è chiamato "germanisch"; l'indoeuropeo è chiamato "indogermanisch", usando una denominazione obsoleta; le forme ricostruite non hanno asterisco alcuno. L'ortografia usata per la pretesa forma indoeuropea Nagua ha del grottesco, sembra quasi una voce amerindiana ispanizzata. Tutto ciò è talmente rozzo che potrebbe essere stato concepito dalla mente febbrile di un contadino paccianesco in qualche desolata campagna sassone. 

Vediamo che la radice *nagw- deve essere un resto di una lingua di sostrato, anteriore alla formazione del protogermanico. Quello che invece trovo interessante è una sua possibile relazione con l'indoeuropeo *na:w- "nave". Forse si tratta di un prestito remoto, in una direzione o nell'altra. Oppure entrambe le lingue avranno preso questo nome della nave da una terza lingua del tutto sconosciuta. A favore dell'idea che *na:w- sia un prestito in indoeuropeo sta il suo vocalismo peculiare. La /g/ presupposta dal protogermanico /k/ può ben corrispondere a una laringale ricostruibile per uno stadio particolarmente antico dell'indoeuropeo comune. Mentre in indoeuropeo l'antica laringale è scomparsa prolungando per compensazione la vocale precedente, nella lingua preindoeuropa del sostrato nordico si è conservata e indurita, diventando un'occlusiva.

venerdì 28 giugno 2019

IL RIBALDO E LA RIBALDERIA IN NORRENO: UN IMPORTANTE PRESTITO CULTURALE

Approfondendo i miei studi di lessico norreno, la mia attenzione è caduta sulle seguenti voci, estratte dal dizionario di Zoëga

ribbaldi (m.), ribaldo, selvaggio
   gen./dat./acc. ribalda; pl. ribbaldar "ribaldi"
ribbungr (m.), ribaldo
    gen. ribbungs "del ribaldo"; pl. ribbungar "ribaldi" 
ribbalda-skapr (m.), ribalderia 

Trovo notevole la forma ribbungr, il cui suffisso non ha facile spiegazione. L'origine di queste parole è l'antico francese ribautz, ribaltz (obl. ribaut, ribalt, ribaud, ribald) "ribaldo". Il prestito deve essere giunto in norreno nel XIII secolo, nell'epoca gloriosa delle Saghe dei Cavalieri (Riddarasǫgur). A quei tempi la Norvegia era un crocevia in cui l'antica eredità pagana si incontrava con il Cristianesimo ormai imperante e con la poesia cavalleresca della Francia, dando origine alle più bizzarre contaminazioni, del massimo interesse per un filologo.  

Tutti noi ci siamo imbattuti almeno una volta nelle parole ribaldo e ribalderia, ma cosa significano esattamente? Per usare un linguaggio tecnico, in epoca medievale si chiamava ribaldo un soldato di bassa condizione sociale, che viveva di rapine e di saccheggi. Questo riportano i dizionari. In genere il vocabolo è ormai considerato un sinonimo di malfattore e può ad esempio indicare un ladruncolo, un emarginato che vive di espedienti. Tutto ciò è riduttivo. Stando all'originale semantica, il ribaldo è sì un malfattore, un individuo violento e poco raccomandabile, ma in aggiunta è anche libidinoso. La parola dell'antico francese ha connotazioni inscindibili dalla libidine e indica anche un amante lascivo. Designa un uomo dominato da istinti primordiali, capace di sfoderare l'arma davanti a una fanciulla e di cercare il contatto, lo sfregamento, nei casi più gravi anche la penetrazione. La categoria è di per sé piuttosto eterogenea. Ai tempi non comprendeva soltanto i puttanieri e i vecchi sileni bavosi: anche quelli che attualmente chiamiamo pedofili, nel Medioevo erano chiamati ribaldi. Proverbiale era la ribalderia dei canonici!

Vediamo ora di chiarire da dove la lingua d'oïl ha preso la parola in analisi. Nell'antica lingua dei Franchi doveva esistere il verbo *rîban "essere lascivo", corrispondente alla perfezione all'omonimo vocabolo dell'antico alto tedesco, che però è ben attestato: rîban "essere in calore". L'antico francese aveva ereditato il verbo riber "essere licenzioso" proprio dal vocabolo franco. Tramite il suffisso peggiorativo -ald, di origine germanica, si è dunque formato il termine ribaut. La parola ha avuto fortuna e si è diffusa fino in Italia e altrove, giungendo fino in Scandinavia. La protoforma germanica del verbo usato dai Franchi e in Germania è ricostruita come *wri:banan e il suo originario significato è "sfregare" (da cui il medio alto tedesco rîben e il tedesco moderno reiben "sfregare"). Anche in inglese è derivata una parola da questa fonte: il verbo to rub, che significa "sfregare" ma anche "fare sesso". Sì, il ribaldo è colui che sfrega l'uccello addosso all'oggetto della sua libidine sfrenata, senza limiti. 

Tutto parrebbe chiaro. C'è però un problema non di poco conto. A quanto si legge in molti dizionari etimologici e nel Web, sarebbe esistita in antico alto tedesco la voce hrîba "prostituta", che sarebbe la base da cui ha tratto origine l'antico francese ribaut. Questa designazione della meretrice è incompatibile col protogermanico *wri:banan - dovendo risalire a una protoforma con *χr- iniziale. Siccome già nel medio alto tedesco il gruppo hr- si era semplificato in r-, ecco che avremmo un problema di confusione etimologica. Qual è la corretta origine del ribaldo e della ribalderia? Il punto è questo: è davvero esistita la parola hrîba in antico alto tedesco? La risposta sarebbe considerata desolante da molti studiosi: molto probabilmente il vocabolo in questione non è mai esistito. Si tratta di un frutto della mancata verifica delle fonti o addirittura della disonestà intellettuale dei romanisti, che contestano tanto la filologia germanica e i suoi cultori, per poi inventarsi vocaboli fantomatici a seconda delle loro necessità. Ignorano persino i rudimenti più elemenari delle lingue germaniche e della loro evoluzione storica: ad esempio le liste di elementi di adstrato germanico nelle lingue romanze diventano in mano loro qualcosa di incomprensibili e non analizzabile, come se provenissero da lingue preindoeuropee del Neolitico.

La realtà è che esiste soltanto un'occorrenza di *hrîba (mettiamoci questo benedetto asterisco) in tutta la letteratura in antico alto tedesco. Per giunta compare soltanto come glossa. Questo hapax legomenon è anche scritto diversamente. Si tratta di una forma accusativa: HRIPUN, glossata in latino come "prostitutam" in un commento di San Gerolamo al Vangelo di Matteo (il manoscritto si trova nella Biblioteca di Monaco, Clm 14747, f. 93b). Si tratterà di una cattiva trascrizione di *uurîba, che è un chiaro derivato del verbo *wri:banan. Trovo possibile il gruppo consonantico /wr-/ (in genere già semplificato in /r/ in antico alto tedesco), in qualche dialetto abbia dato una rotica diversa da quella consueta (es. un flap anziché un trillo), che il glossatore avrebbe trascritto come HR- per imperizia. Il medio alto tedesco ha il composto hoverîbe "prostituta di corte, cortigiana", che contiene lo stesso elemento. 

martedì 25 giugno 2019

UN INTERESSANTE PRESTITO GRECO IN NORRENO E LA SUA ORIGINE

Approfondendo i miei studi di lessico norreno, la mia attenzione è caduta sulla seguente voce, estratta dal dizionario di Zoëga

paðreimr (m.), l'Ippodromo di Costantinopoli  

Forme declinate:
sing.

gen. paðreims
dat. paðreimi
acc. paðreim 

pl.
nom. paðreimar 
gen./acc. paðreima
dat. paðreimum


La forma plurale indica soprattutto le arene dell'antica Roma. 

Un sostantivo derivato, che indica le corse nell'Ippodromo: 
paðreimsleikr (m.) "gioco circense"

Riporto un interessante brano tratto dalla Saga di Sigurd il Crociato, di Eystein e di Olaf (Saga Sigurðar Jórsalafara, Eysteins ok Óláfs), detta anche Saga dei figli di Magnus (Magnússona Saga) e contenuta nella Heimskringla (capitolo 12): 

Þar dvalðisk Sugurðr konungr um hríð. Ok eitthvert sinn þá sendi Kirjalax konungr til Sigurðar konungs menn at spyrja hvárt hann vill þiggja af honum sex skippund af rauðu gulli eða vildi hann at keisari láti efna til leiks þess er hann var vanr at láta leika á paðreimi. Sigurðr konungr kaus leikinn. Þá sǫgðu sendimenn keisara Sigurði konungi at keisara kostaði eigi minna fé leikinn en þetta gullit. Þá lét keisari efna til leiks. Ok þá er leikrinn var veittu allir leikar keisara betr þat sinn en dróttningu, er átti hálfan leikinn ok keppir í ǫllum leikum en nú gengr keisara betr ok hans mǫnnum, ok segja Grikkir at þat ár er keisari vinnr fleiri leika á paðreimi en dróttning þá mun keisari vinna sigr í herferð.

Þat segja þeir menn er verit hafa í Miklagarði at paðreimr sé á þá leið gǫrr atveggr hár er settr um einn vǫll, at jafna til víðs túns kringlótts, ok gráður um-hverfis með steinveggnum, ok sitja menn þar á, en leikr er á vellinum. Eru þarskrifuð  margskonar  forn tíðendi,  Æsir  ok  Vǫlsungar  ok  Gjúkungar,  gǫrt  af kopar ok málmi með svá miklum hagleik at þat þykkir kvikt vera. Ok meðþessi umbúð þykkir mǫnnum, sem þeir sé í leiknum, ok er leikrinn settr meðmiklum brǫgðum ok vélum. Sýnisk sem menn ríði í lopti, ok við er ok skoteldr hafðr ok sumt af forneskju. Þar við eru hǫfð alls konar sǫngfœri, psalterium ok organ, hǫrpur, gígjur ok fiðlur ok alls konar strengleikr.

Traduzione (mi si perdoni se è un po' raffazzonata): 

Il Re Sigurd stette là per qualche tempo. Allora il Re Kirjalax inviò uomini da lui per vedere se desiderava accettare sei libbre d'oro di carico navale, o se piuttosto volesse che il Re facesse preparativi per i giochi che l'Imperatore era solito svolgere nell'Ippodromo. Il Re Sigurd scelse i giochi. I messaggeri dissero che i giochi sarebbero costati all'Imperatore non meno di quel quantitativo d'oro. Allora il Re fece i preparativi per i giochi, e i giochi si svolsero nel modo usuale, e tutti i giochi andarono nel modo migliore per il Re quella volta. Metà dei giochi sono della Regina, e i loro uomini hanno gareggiato in tutti i giochi; i Greci dicono che quando il Re vince più giochi della Regina nell'Ippodromo, allora il Re sarà vittorioso se andrà in una spedizione di guerra.  

Gli uomini che sono stati a Bisanzio affermano che un ippodromo è così organizzato che un alto muro è stato sistemato attorno a un grande piano rotondo, e su per il muro ci sono scale, dove le persone siedono mentre il gioco va in campo. Sono stati scolpiti molti eventi antichi, Asi e Volsunghi e Nibelunghi, fatti di rame e minerale, così abilmente che sembrano essere vivi. E con questi dispositivi, ci si sente parte del gioco e il gioco procede da solo con molti trucchi e arti. Sembra che gli uomini stiano cavalcando nell'aria, che ci siano incendi e ci siano esplosioni di fuoco greco, e alcune cose sono opere di magia. Queste includono tutti i tipi di strumenti, salteri e organi, arpe, concerti e violini e tutti i tipi di giochi d'archi.

Veniamo ora all'etimologia della parola in analisi. Si tratta chiaramente di un prestito dal greco ἱππόδρομος (hippodromos), ossia "luogo dove corrono i cavalli", formato a partire da ἵππος (hippos) "cavallo" e δρόμος (dromos) "corsa". L'etimologia è indubitabile. Gli sviluppi fonetici sono degni di nota, in particolare la presenza del dittongo -ei-, che non ci aspetteremmo affatto. Trovo poi strano il vocalismo della prima sillaba, dato che in greco bizantino la /o/ breve doveva avere una pronuncia chiusa. Ci saremmo piuttosto aspettati una forma *poðromr, che però non mi risulta esistere (se qualcuno è in grado di provare il contrario, lo invito a comunicarmelo). Forse la parte finale della parola è stata modificata per associazione paretimologica con hreimr (m.) "grida; urlo", come allusione al pubblico rumoroso e festante? Oppure l'associazione è in qualche modo con heimr (m.) "paese", anche se la semantica è fragile? Come ipotesi sono tirate per i capelli, al momento non saprei cos'altro proporre per spiegare questo benedetto dittongo. 

In medio alto tedesco è documentata la forma poderâm "ippodromo", che è molto più vicina all'originale rispetto al norreno paðreimr. Resta comunque abbastanza strana la vocale lunga /a:/ nell'ultima sillaba. Potrebbe la forma norrena essere un prestito dall'area tedesca? Forse si potrebbe spiegare il dittongo /ei/ come un tentativo di nativizzare qualcosa di incomprensibile? Per risolvere in modo definitivo la questione servirebbero altri dati.

Si noterà che lo stesso vocabolo greco δρόμος "corsa", che compare come secondo membro nel nome dell'Ippodromo, in epoca più tarda è stato preso a prestito nella lingua dei Rom e dei Sinti, dove ha dato drom "viaggio; strada" (pl. droma). Ben noto è il saluto tradizionale latcho drom "buon viaggio". Approfondiremo tutto ciò in altra sede.

sabato 22 giugno 2019

UN PRESTITO NORRENO IN INGLESE: DUSK 'CREPUSCOLO'

Meditando sullo strano aspetto fonetico della parola inglese dusk "crepuscolo", sono stato assillato a lungo dal problema della sua origine non nativa - ferma restando la sua derivazione ultima dalla radice indoeuropea *dhwes- / *dhus- "fumo". 


Questa è la traduzione di quanto riportato nel sito: 

"oscurità parziale, stato tra la luce e la tenebra, crepuscolo", Il vocabolo è attestato a partire dal 1620, da un precedente aggettivo dusk, a sua volta dal medio inglese dosc (circa 1200) "scuro, non lucente; tendente all'oscurità, ombroso". L'aggettivo aveva più a che fare col colore che non con la luce. L'origine è incerta: il vocabolo non si trova in antico inglese. Nel medio inglese esisteva anche un verbo, dusken "diventare scuro". Il nome derivato era dusknesse "tenebra" (tardo XV secolo). 

Secondo gli autori di Etymonline.com, il nostro dusk potrebbe essere da una variante dell'antico inglese dox "scuro di capelli; scuro per assenza di luce", attestata nella lingua della Northumbria. La consonante -x /ks/ è dovuta a trasposizione di -s- e -k-: /*dosk/ > /doks/ (scritto dox), avvenuta prima della palatalizzazione. Resta tuttavia il fatto innegabile che soltanto poche parole inglesi con il gruppo consonantico -sk sono native. Siccome dusk non è un discendente di dox, deve essere venuto da fuori. 

Siccome in svedese esiste duska "essere fosco", sono incline a pensare che il northumbriano dox (per *dosc con /-sk/ finale) sia giunto almeno in parte dell'antico inglese proprio dal norreno. Doveva esistere in norreno un aggettivo *doskr "fosco; nebbioso; scuro", anche se non ci è attestato. Evidentemente questo *doskr è scomparso in epoca anteriore ai primi documenti letterari. Sarebbe interessante sapere se il grandissimo sapiente d'Islanda, Snorri Sturluson (1179 - 1241), fosse a conoscenza di questa parola o se ai suoi tempi fosse già estinta nell'ambiente in cui egli è nato e cresciuto. Se anche l'ombra del grand'uomo, evocata tramite necromanzia, ci confermasse che non conosceva alcun vocabolo simile, resta il fatto che la lingua norrena non era uniforme in tutto il territorio in cui era parlata e in tutta la durata della sua esistenza. Questo *doskr avrebbe potuto benissimo durare in antico svedese anche quando altrove si era già spento da lungo tempo, visto che un verbo corradicale vive ancor oggi in Svezia. 

Abbiamo così: 

Norreno *doskr < protogerm. *duskaz "fosco"
Norreno *duska < protogerm. *dusko:nan "offuscare" 


Si ha formale identità con il latino fuscus "fosco, fuligginoso; marrone scuro", che mostra lo stesso suffisso con consonante velare. Altre forme corradicali nelle lingue germaniche sono le seguenti: 

Antico inglese dosan, dosen "marrone, castano" < *dusinaz
Antico alto tedesco dosan, tusin "giallo pallido" < *dusinaz


Nel tardo latino troviamo la parola dosinus "grigio cenere", che è un evidente prestito da una lingua germanica. Si noterà che l'antico alto tedesco tusin è glossato in tardo latino con gilvus, a sua volta prestito germanico, identico nell'origine all'inglese yellow e al tedesco moderno gelb "giallo".

UN PRESTITO NORRENO IN INGLESE: TUSK 'ZANNA'

Meditando sullo strano aspetto fonetico della parola inglese tusk "zanna", mi sono posto il problema della sua etimologia. Innanzitutto i miei ricordi di mitologia nordica mi hanno restituito immediatamente il nome del gigantesco scoiattolo Ratatoskr, che rosicchiava con i suoi acuminati incisivi il Frassino del Mondo, Yggdrasill, avvicinando vieppiù la Catastrofe Finale. Si tratta di un composto, il cui secondo membro può essere così enucleato:

-toskr (m.), zanna 

Non risultano altre attestazioni di questa parola: abbiamo soltanto questo nome del fantomatico roditore, tramandatoci dall'Edda in prosa di Snorri Sturluson e dall'Edda Poetica (XIII secolo). Il primo membro del composto, Rata-, è tradizionalmente associato a Rata (m., gen. di *Rati), nome del trapano usato da Odino per perforare una parete di roccia allo scopo di raggiungere l'Idromele della Poesia (Hávamál, 106, 1). La traduzione di Ratatoskr è riportata come "Dente a Trivella". Esiste però anche un'altra scuola di pensiero, che considera Rata- come un prestito dall'antico inglese ræt "ratto" (inglese moderno rat). Ratatoskr significherebbe quindi "Dente di Ratto". Se devo essere franco propendo per questa seconda ipotesi. Non è poi improbabile che lo stesso nome del trapano odinico fosse un prestito dalla parola anglosassone e avesse il senso originale di "Rosicchiatore". 

Torniamo ora a -toskr. Un termine simile si trova soltanto nell'antico inglese (tusċ, tux "zanna") e in antico frisone (tusk "zanna"). Si suppone che sia derivato da una protoforma *tunθskaz, connessa con il nome del dente, *tunθuz (da cui il gotico tunþus), *tanθu (da cui il norreno tǫnn) - di chiara origine indoeuropea (< *dṇt- / *dent- / *(e)dont-, da cui anche il latino dēns "dente", gen. dentis). Se fosse una forma regolare, dovrebbe avere una vocale lunga. In effetti in antico inglese è riportata anche una variante con vocale lunga, tūsċ, che non ha però continuatori moderni. A quanto pare si tratta di una forma marginale e non si spiega bene la prevalenza della vocale breve nel dominio in cui sono attestati discendenti di *tunθskaz

In ogni caso, l'inglese tusk "zanna" è di certo un prestito dal norreno e prova per via indiretta che l'elemento -toskr doveva essere un vocabolo vitale: nelle parole genuine il protogermanico /sk/ si palatalizza sempre in /ʃ/ già in antico inglese (scritto ) e questo esito è stato ereditato nell'inglese moderno (scritto sh). Infatti esiste una variante dialettale tush "zanna" (anche termine tecnico, col senso di "corta zanna dell'elefante femmina"), con la consonante palatale che ci attenderemmo come naturale evoluzione dall'anglosassone tusċ. La variante tux è frutto di una trasposizione dell'antico nesso /sk/ in /ks/, avvenuta prima della palatalizzazione di /sk/. Questo tipo di metatesi non è infrequente. A quanto mi risulta, tux non ha lasciato discendenti. Possiamo così riassumere la questione: nella lingua moderna alla forma nativa tush si affianca tusk, che è un prestito dal norreno. Simili doppioni non sono una novità nel lessico della lingua di Albione, si pensi per esempio a shirt "camicia" (termine nativo), che convive con skirt "gonna" (prestito dal norreno).

Menziono ora una cosa che reputo degna di nota: esiste nell'inglese moderno un fortuito omofono della forma dialettale tush "zanna": si tratta del termine gergale tush "culo, ano". Ovviamente non c'entra proprio nulla. L'etimologia è in ultima analisi ebraica. Derivato dall'abbreviazione dello yiddish תחת‎ (tokhes), il vocabolo scurrile in questione proviene dall'ebraico תַּחַת‎ (taḥaṯ "culo"). Ricordo la mia assidua frequentazione del sito pornografico www.tushylickers.com, che mostra le gesta di decine di leccatori (e leccatrici) di buchi del culo femminili. Rimasi incuriosito dal nome tushy, che non sapevo spiegarmi. Come ho indagato, ho appreso qualcosa di nuovo. Anche la pornografia più morbosa può avere un interesse etimologico notevole, non mi stancherò mai di ripeterlo.

mercoledì 19 giugno 2019

UN VOCABOLO NORRENO PER INDICARE LA CASACCA: KǪSUNGR

Approfondendo i miei studi di lessico norreno, la mia attenzione è caduta sulla seguente voce, estratta dal dizionario di Zoëga

kǫsungr (m.), giacca senza maniche 

Come di consueto, l'ortografia usata dall'autore è di tipo moderno e il lemma è scritto kösungr

Questi versi sono tratti dalla Haralds saga Sigurðarsonar (Saga di Harald figlio di Sigurd): 

Ferk í vánda verju;
verr nauð of mér snauðum,
kǫsungr fær víst í vási
vǫmm - en þat vas skǫmmu;
endr vas hitt, at hrunði
hringkofl of mik inga,
gǫgl bǫ́rut sik sára
svǫng - en þat vas lǫngu.


"Indosso una giacca grezza;
difende me, misero, contro il pericolo,
la camicia si è certo rovinata nella fatica, 
e ciò è stato di recente;
fu prima, che il cappuccio ad anello
del re cadde intorno a me,
le papere delle ferite* si mossero affamate;
ma ciò fu molto tempo fa."


*kenning per "corvi"

Salta subito agli occhi che si tratta di una voce entrata nell'antica lingua nordica da Oriente. Anche da noi in Italia si una voce del tutto simile: casacca.

La parola italiana casacca è ritenuta una semplice variante di cosacca, significando alla lettera "veste del cosacco" (vedi dizionario Treccani). In russo si avrebbe una forma analoga: казаки́н (kazakin) "veste del cosacco", da каза́к (kazák) "cosacco" (variante коза́к). L'origine ultima del nome dei Cosacchi è dal turco quzzak "nomade, avventuriero" (trascritto anche come kazak). Dalla stessa radice deriva l'etnonimo Kazakh, a sua volta origine del nome della relativa nazione, il Kazakhistan. Resta però un fatto: l'autorevole Treccani non fornisce alcuna chiara informazione sui percorsi culturali che hanno diffuso questa parola da Oriente a Occidente.

In inglese esiste cassock "tonaca", che indica la veste del monaco. A dispetto del singolare slittamento semantico, l'origine è sempre la stessa, dal turco. Con ogni probabilità il vocabolo è giunto alla Perfida Albione attraverso il francese medio casaque (XVI secolo).

Un'altra ipotesi sull'origine di queste famiglie di parole indicanti la tipica veste lunga è quella che le riconduce all'arabo kazagand "giacca soffice" (termine chiaramente non coranico), a sua volta importazione dal persiano kazhagand, analizzabile come un composto di kazh "seta grezza" e agand "ripieno (di stoppa)". Questa etimologia è consultabile su Etymonline.com.

Torniamo ora alla forma norrena e facciamo alcune considerazioni. Non mi pare che kǫsungr possa derivare direttamente dal medio francese casaque, che ha un aspetto fonetico molto diverso. La forma persiana kazhagand sembra a me la sorgente immediata più verosimile. Se la derivazione da me ipotizzata fosse confermata, dovremmo trarne due conclusioni: 

1) Il nome della casacca si deve a una paretimologia già in russo;
2) La parola norrena, di origine persiana, deve essere separata dai corrispondenti nelle lingue romanze, che vengono invece dal russo: è stata importata molto prima, visto che era già usata nel XIII secolo. 


Ormai è molto difficile, se non impossibile, ricostruire i dettagli di prestiti lessicali come quello discusso; in ogni caso si comprende che i portatori di parole orientali in Islanda e in Scandinavia dovettero essere proprio i Variaghi che militavano a Bisanzio come guardie dell'Imperatore.  

UN VOCABOLO NORRENO PER INDICARE L'ORSO: MǪSMI, MǪSNI

Approfondendo i miei studi di lessico norreno, la mia attenzione è caduta sulla seguente voce

mǫsmi (m.), orso  

Variante:

mǫsni (m.), orso.

Si tratta evidentemente di una parola poetica, che non si trova nel lessico comune. L'orso nel linguaggio quotidiano era infatti denominato bjǫrn (gen. sing. bjarnar; nom. pl. birnir), dal protogermanico *bernuz. Il benemerito Zoëga non riporta queste forme nel suo dizionario: ha soltanto un omonimo mösmar (m., pl.), glossato con "treasures" e ritenuto identico a meiðmar. In realtà meiðmar "tesori", identico al gotico wulfiliano maiþms "dono", è di tutt'altra etimologia e non deve essere ritenuto una variante della forma poetica mösmar, uguale alla parola per indicare il plantigrado per una fortuita omofonia. Ce ne occuperemo in un'altra occasione. 

La protoforma germanica che possiamo facilmente ricostruire per mǫsmi "orso" è senz'altro *masumæ:n, dato che la variante terminante in -ni sembra mostrare i segni di un'antica dissimilazione (m- ... -m- > m- ... -n-). 

In apparenza tutto sembra perduto in modo irrimediabile. Non dobbiamo però lasciarci andare alla rassegnazione. Si potrebbe infatti tentare di trovare un parallelo nelle lingue celtiche. Sappiamo che uno dei nomi dell'orso in protoceltico era *matus. Ne deriva direttamente l'antico irlandese math (m.) "orso". Questa è la declinazione del sostantivo in analisi: 

sing.
nom. math "orso" (< *matus)

gen. matho "dell'orso" (< *matous)
dat. math (< *matou, *matō)
acc. math "orso" (< *matun
voc. math "orso" (< *matu)


pl.
nom. mathae, mathai, matha "orsi" (< *matowes)
gen. mathae "degli orsi" (< *matowon)
dat. mathaiḃ "agli orsi" (< *matubis)
acc./voc. mathu "orsi" (< *matūs)


Esiste poi il composto mathġaṁuin "orso", formato da math "orso" e da gaṁuin "vitello" (< *gjamonis, alla lettera "(vitello) di un inverno", cfr. gaṁ "inverno" < *gjamos, corradicale del latino hiems). La forma protoceltica ricostruibile è dunque *matu-gjamonis, che doveva significare "giovane orso". In irlandese moderno si ha mathghamhain, che continua la forma antica. Nel gaelico di Scozia oltre a mathghamhuin si hanno anche mathan e mathon (da *matagnos, *matugnos). Proprio da mathghamhain proviene il cognome del generale francese Patrice de Mac Mahon, alla lettera "Figlio dell'Orso": i suoi antenati erano irlandesi. 

Tra i Celtiberi è attestato l'antroponimo Matugenus, Matucenus "Figlio dell'Orso" (con terminazione adattata al latino, l'originale è *Matugenos), che corrisponde alla perfezione al materiale ibernico. Nella grande iscrizione bronzea di Botorrita (Spagna) abbiamo TIRIS MATUS TINATUZ, che si può ben interpretare come "tre orsi devono poppare" (Schmidt, 1976; Toporov, 1986). Anche in Britannia si ha attestazione dell'antroponimo Matugenus. Nelle Gallie abbiamo poi il notevole antroponimo Teutomatus "Orso della Tribù".

Si potrebbe credere che il protoceltico *matus "orso" sia una semplice variante di *matis "buono" (donde l'antico irlandese maith "buono"), quasi fosse un epiteto tabuistico. Non dimentichiamoci che l'orso era molto temuto nell'antichità. Si noti la differenza della vocale tematica, che è -u- nel sostantivo che indica il plantigrado, mentre è -i- nell'aggettivo. In gallico esiste attestato anche l'aggettivo col tema in -u-, ad esempio nel Calendario di Coligny, dove ogni mese è classificato come matus "buono" oppure anmatus "non buono". In tale contesto rituale la radice matu- sembra aver espresso il concetto di "fausto"; forse l'aggettivo era usato anche col senso di "completo" (cfr. latino mātūrus "maturo, adulto", ma anche "opportuno, tempestivo"). Tuttavia potrebbe anche darsi che l'epiteto dell'orso sia di origine preindoeuropea e che si tratti soltanto di coincidenze.  

A questo punto possiamo ipotizzare un composto protoceltico *matu-samonis, formato in modo del tutto analogo a *matu-gjamonis (dove -*samonis starebbe a indicare "(vitello) di un'estate", cfr. antico irlandese saṁ "estate" < *samos, corradicale dell'inglese summer). Questo derivato non sarebbe irrazionale e potrebbe spiegare la forma norrena. Se così fosse, la protoforma ricostruita *masumæ:n sarebbe in realtà da correggere in *massumæ:n e la potremmo considerare senz'altro derivata da un precedente *maθsumæ:n. Possiamo quindi dire che il vocabolo è con grande probabilità di origine celtica.

Conclusioni: 

Non sono in grado di determinare attraverso quale canale sia avvenuto il prestito. Quello che è certo è che si tratta di un'acquisizione molto antica, anteriore alla scomparsa della sibilante -s- e alla lenizione della nasale -m- in posizione intervocalica. Non mi pare che si possa considerare un prestito dall'antico irlandese, come pure è stato suggerito (Worsaae, 1875). 

domenica 16 giugno 2019

UN VOCABOLO NORRENO PER INDICARE IL DIAVOLO: *KǪLSKI

Approfondendo i miei studi di lessico norreno, la mia attenzione è caduta sulla seguente voce in uso nell'attuale lingua islandese

kölski (m.), diavolo

Visto che non si tratta di un prestito recente, deve per necessità risalire alla lingua più antica, anche se non sono riuscito a trovarne attestazioni. Fidandomi della memoria, ero convinto che fosse presente nel dizionario di Zoëga. Ricontrollando quella fonte, ho visto che il lemma non si trovava. Nell'ortografia dell'antico nordico, la parola si scriverebbe nel seguente modo:

*kǫlski (m.), diavolo

La protoforma germanica che possiamo facilmente ricostruire è senz'altro *kaluskæ:n. Il punto è questo: da dove deriva? Subito ci salta all'occhio l'etrusco Calu, che è il nome di Ade. Vediamo che dal suo genitivo Calus deriva un aggettivo Calusna "degli Inferi", epiteto di Plutone (Tinia Calusna, ossia "Giove degli Inferi"), oltre al sostantivo plurale e collettivo Calusur "i Morti", ossia "coloro che appartengono agli Inferi". Il suffisso -na forma aggettivi, mentre -r è il tipico segno dei plurali animati.

Quello che salta subito all'occhio è la corrispondenza tra il norreno /k-/ e l'etrusco /k/, segno che il prestito deve essere avvenuto dopo l'esaurimento della legge di Grimm. Assieme alla radice /kalu-/ è stata adottata anche la morfologia etrusca: il genitivo in -s a cui è stato agglutinato il pronome /-ka/ "questo". In etrusco avremmo *Calusca "ciò che appartiene all'Ade", da Calu- + -s- (gen.) + -ca (pron. dim. nom.).  La corrispondente forma accusativa sarebbe stata *Caluscn, da Calu- + -s- (gen.) + -c-n (pron. dim. acc.). Abbiamo la prova dell'esistenza di formazioni simili, ad esempio nel testo del Liber Linteus, in cui compare celu-c-n, verosimilmente "alla terra", essendo cel "terra". 

Il protogermanico aveva già adottato dal tirrenico /kalu/ la forma *χaluz, *χallaz "pietra (tombale)" - con regolare applicazione della legge di Grimm, la cosiddetta prima rotazione consonantica comune a tutte le lingue germaniche - e da questa radice abbiamo il gotico wulfiliano halus "pietra", il norreno hallr "pietra", oltre al derivato *χaljo: "gli Inferi", da cui il gotico wulfiliano halja "inferno" e il norreno hel "inferno, morte" (f.). 

Una parola imparentata 

Esiste un lemma curioso già usato nell'antichità, che a parer mio appartiene alla stessa famiglia dell'islandese moderno kölski

kǫlsugr, impertinente 

La parola è riportata da Zoëga nel suo dizionario con la tipica ortografia modernizzante come kölsugr. La glossa inglese è "pert, saucy". Non è un caso difficile. In origine l'aggettivo doveva significare "diabolico, demoniaco", finendo col registrare un naturale slittamento semantico. Un po' come in italiano la parola bastardo, che fino a poco tempo fa era un insulto molto grave e che adesso può essere usata per esprimere un vago biasimo. Ricostruisco una protoforma *kalusuγaz, essendo -uγaz un suffisso aggettivale. Vale quanto detto in precedenza sull'origine tirrenica.

Conclusioni: 

A mio avviso la lingua protogermanica era in stretto contatto con una lingua tirrenica da cui ha preso prestiti di varia natura, in diverse epoche. Purtroppo i dettagli di questi complicati processi di interscambio linguistico sono andati perduti nel mare dell'entropia dilagante. La speranza, difficile a morire, è che in futuro possano emergere nuovi dati in grado di portare chiarezza nelle tenebre della preistoria.

UN VOCABOLO NORRENO PER INDICARE UN TIPO DI FOCA: ORKN, ERKN, ØRKN

Approfondendo i miei studi di lessico norreno, la mia attenzione è caduta sulla seguente voce, estratta dal dizionario di Zoëga

orkn (n.), tipo di foca 

Si trovano anche le seguenti varianti:  

erkn (n.),
ørkn (n.). 


Le corrispondenti forme ricostruite in protogermanico sono le seguenti: 

*urkanan
*urkinan 


La prima delle protoforme riportate spiega la variante orkn, mentre la seconda è senza dubbio all'origine delle due forme che mostrano l'Umlaut palatale, ørkn e erkn, essendo la forma con vocale /e/ una mera semplificazione fonetica di quella con vocale bemollizzata /ø/

Ci sono stati alcuni deboli tentativi etimologici per spiegare queste voci enigmatiche e antichissime, a parer mio tutti vani, grotteschi o insidiosi.

Alcuni reputano che l'origine sia l'antico inglese orc "demonio", che viene dal latino Orcus "Averno, Regno dei Morti; Dio degli Inferi" (e per metonimia "morte"), a sua volta prestito dal greco Ὅρκος (Horkos). Il teonimo ellenico indica il figlio di Eris, una divinità che si credeva punisse il falso e gli spergiuri. Si tratta di uno sviluppo semantico che si riscontra anche nell'italiano orco "gigante, mostro". La traduzione della parola greca ὅρκος, supposta origine del corrispondente teonimo, è "oggetto su cui si giura". L'etimologia ultima è a mio avviso sconosciuta; l'associazione al giuramento potrebbe anche essere dovuta a una paretimologia. 

Coloro che sostengono l'origine della parola norrena orkn "tipo di foca" dall'antico inglese orc "demonio", "Inferno", potrebbero addurre a giustificazione dello slittamento semantico il fatto che i pinnipedi erano di fatto ritenuti sinistri e funesti già in epoca pagana. Con l'arrivo del Cristianesimo, questa opinione si sarebbe addirittura rafforzata. Gianna Chiesa Isnardi accenna a fatti davvero singolari: i cavalieri del re cristiano Olaf Tryggvason uccidevano foche e trichechi ritenendoli manifestazioni del Demonio. Si gettavano contro i pingui animali infilzandoli con le lance e finendoli a colpi di mazza o di scure, per la gioia dei moderni animalisti. Lascio ai miei detrattori la fatica di sfogliare il seminale volume dell'autrice in questione, I miti nordici, per trovare la citazione esatta (non colorita come la mia descrizione, ma comunque evocativa di stragi e mattanze).

La prima cosa che può venire in mente a un lettore è la parola italianissima orca, che indica il ben noto cetaceo, chiamato in inglese killer whale, alla lettera "balena assassina". Certo, una foca non è un'orca, ma entrambi sono senza dubbio mammiferi acquatici. Hanno qualcosa in comune.  

In latino abbiamo il seguente interessante vocabolo:  

orca (f.)
1) orcio, barile, giara
2) bussolotto per i dadi
3) orca, cetaceo


Secondo i romanisti, il significato 3) proverrebbe dal significato 1) per metafora, come se l'orca fosse un grosso recipiente rigonfio, data la sua forma. Essi sostengono anche che alla base di questa parola ci fosse l'idea dell'Ade come di un immenso animale inghiottitore. Anche per l'amatissimo Popolo Eletto, l'Oltretomba, chiamato Sheol, è una specie di animale inghiottitore non dissimile da un mostro marino. Certo, tutto è molto tirato per i capelli - cosa che è la norma nel mondo concettuale degli accademici. 

Il latino orca nel senso di "barile" è una parola giunta a mio avviso dall'etrusco: si tratta in sostanza di una variante della seguente: 

urceus (m.)
1) orcio, brocca
2) boccale


Con l'aggiunta di un suffisso in nasale abbiamo questo derivato: 

urna (f.)
1) brocca, orcio
2) scrigno
3) urna elettorale
4) urna funebre
5) unità di misura per liquidi (circa 13 litri)


Ricostruiamo queste forme etrusche indicanti tipi di vasi:

*urce 
*urcna
, *urχna


Una forma urcna è attestata realmente in falisco, una lingua italica molto affine al latino. Si tratta di un chiaro prestito dall'etrusco. In greco antico troviamo poi anche ὔρχα e ὔρχη "giara", senz'altro della stessa identica origine. Nobili ingegni come il Trombetti già ai tempi del Duce ipotizzavano che questi vocaboli traessero la loro origine da una radice "mediterranea" che ritroviamo anche nel basco ur "acqua". L'orcio e l'urna dovevano essere in origine dei vasi potori, atti a contenere l'acqua.

Resta ora da capire quale sia la vera origine di orca nel senso di "cetaceo", che è il corrispondente più probabile e diretto del norreno orkn "tipo di foca". In greco esiste ὄρυξ (óryx) "grosso pesce", di origine pre-ellenica, che potrebbe avere qualche connessione. E se si trattasse di una "bestia acquatica", proprio come l'orcio e l'urna sono "vasi dell'acqua"? Sarebbe suggestivo. Forse un giorno recupereremo tutti i dati necessari a determinare una volta per tutte la genealogia di questa famiglia lessicale! 

Nel mondo anglosassone ci sono accademici, per tradizione poco attenti al vasto ginepraio dei sostrati preindoeuropei presenti in greco e in latino. Le idee che coltivano costoro sono molto più prosaiche delle mie: credono che il latino Orcus sia giunto dal latino fino all'antico irlandese, entrando poi direttamente in norreno all'epoca delle scorrerie vichinghe. Il punto è che in antico irlandese orc ha tutt'altro significato, che mi accingo a illustrare nel seguito.

La questione delle connessioni col mondo celtico insulare è in ogni caso particolarmente importante, perché già i Vichinghi avevano usato la parola orkn "tipo di foca" per fornire un'etimologia facilmente comprensibile e diretta del toponimo Orkn-eyjar "Orcadi", alla lettera "Isole delle Foche". Dobbiamo però notare che il toponimo era già noto nell'antichità classica come Orcades. Per l'appunto, le Orcadi.

In antico irlandese abbiamo le seguenti voci, di origine indoeuropea:

orc "maiale"
     < protoceltico *orkos < IE *pork'os
   
(cfr. latino porcus)
orc "salmone"
     < protoceltico *orkos < IE *pork'os
    (cfr. greco antico πέρκη "tipo di pesce di fiume, perca") 


La forma orc "salmone" ha un parallelo notevole anche in antico ligure nell'idronimo Porcobera "Polcevera", alla lettera "che porta trote".  La perdita della labiale *p- indoeuropea è un tipico carattere celtico, presente già nelle più antiche attestazioni delle lingue di quel tipo - e per contro assente in ligure.

Conclusioni: 

Capiremo qualcosa di più quando si potrà diradare la nebbia che ricopre il panorama delle lingue preindoeuropee che precedettero il latino, il greco, il celtico e il germanico. Spero ardentemente che quel giorno arriverà presto!