lunedì 9 maggio 2022

PANDORA

L’uomo portava un pesante pacco, che nella sua stoltezza pensava essere composto da un semplice ammasso di cenci da gettar via. Non sapeva nemmeno lui perché sorreggesse tale peso mentre ingobbito e torvo risaliva la ripida rampa di scale. Le lampade che illuminavano il recesso emanavano una luce grigia, le pareti sembravano fatte di galena. All’improvviso la voce parlò, e l’uomo sapeva che proveniva dal profondo. “Guardami, le mie mascelle potrebbero cadere. Allora sarei un individuo inutile, incapace persino di mangiare, forse persino impedito a respirare correttamente”. Ecco che l’uomo fu invaso da un profondo terrore. Come chiuse gli occhi per schermarsi da una rivelazione così traumatizzante e incomprensibile, vide la sagoma di una donna-cadavere. “Da viva sarà anche stata una bella donna”, pensò. Ora però che la contemplava era orrenda. La pelle era di un grigio azzurrognolo malato come le pareti di minerale plumbeo. Gli occhi erano globi neri che sembravano liquidi. Nel centro delle guance c’erano punti di cedimento attraverso i quali si intravedeva il nero marciume all’interno del cavo orale: una lingua simile a una larva di processionaria scura come il petrolio, che si muoveva incessantemente. Una zaffata investì l’uomo, portandogli alle nari i lezzi di una bara scoperchiata. Dopo un attimo di marasma, ritrovò le forze e varcò finalmente la soglia di casa. Mise il pacco di cenci sotto la scrivania e si sedette, accendendo il computer. Accese la macchina, e dopo una tormentosa attesa lo schermo nero si animò. Una figura cominciò a prendere forma. Anziché il consueto caricamento dei programmi, dal turbinio confuso di grigio si rapprese l’immagine della donna morta. Non aveva più la mandibola, si era staccata. Adesso la lingua simile a un bruco era estroflessa oscenamente e guizzava tutt’intorno. “Te lo avevo detto di stare attento”, tuonò ancora la voce telepatica. L’uomo capì tutto e quasi morì di terrore. I suoi occhi andarono al fagotto di stracci che aveva con noncuranza gettato sotto la scrivania. Vide che era sporco di liquame nerastro. Sangue. Aprì l’involto e scoprì una mano femminile mozzata che stringeva una manciata di denti candidi come l’avorio. 

Marco Moretti (Antares666)

sabato 7 maggio 2022

FULMINI BLU

Sono di ritorno da Milano, in treno. C’è uno sciopero e il treno su cui viaggio è uno dei pochi garantiti. Si vedono dei bagliori blu fuoriuscire dai cavi della tensione, forse per qualche guasto su tutta la linea. Giunto in periferia dell’agglomerato urbano, proprio a Sesto San Giovanni, ho un’atroce allucinazione sensoria: sulla distesa di rotaie arrugginite ci sono alcuni flagellanti lebbrosi la cui testa è ricoperta di bruchi. Li vedo chiaramente. Marciano in processione su una pianura coperta di escrementi, di masse di vomito e di gigantesche larve semitrasparenti, grasse e microcefale, simili a quelle che gli aborigeni d’Australia reputano una leccornia, ma grandi più del doppio di un uomo. Gli invertebrati mollicci fanno fatica a muoversi, come se fossero piovuti dal cielo in un ambiente a loro del tutto estraneo, già in agonia. A guidare la processione spettrale è la Bambola Vedova, una donna parzialmente avvolta in un sudario nero lacerato in più punti. È senza piedi, non cammina, galleggia nell’aria. I suoi veli si muovono lentamente, mentre un agghiacciante urlo silenzioso giunge dal suo volto senza bocca e senz’occhi. I suoi capelli sono intrisi di sangue nero e ondeggiano nel vento statico. La pianura stercorale è piena delle rovine dei binari e delle ferrovie del nostro Universo, ma questa visione si sovrappone solo in parte alla realtà. Poi fisso i grigi palazzi, e ho la certezza assoluta che siano sede di un abominio non descrivibile a parole, come se migliaia di vecchi eternamente moribondi vi consumassero la loro dannazione immanente nella demenza e nel cancro, in modo simile alle larve semitrasparenti cadute dal Cielo del Nulla.

Marco "Antares666" Moretti

giovedì 5 maggio 2022

I GIARDINI STATICI

Mi trovavo in una squallida zona di Milano con P. "Nodens", che mi ci aveva trascinato per acquistare vecchi filmati pornografici. L’edificio in cui si trovava il negozio era oltremodo tetro e sorgeva non lungi da giardini pubblici che subito mi sono parsi molto strani. Avevo l’impressione irrazionale che le misere aiuole irradiassero staticità. Neanch’io sapevo spiegarmi in che modo, ma era come se l’acqua stessa ristagnasse nell’erba e nei cespugli. Sentivo la risonanza con il Mondo dell’Oltre. Con la seconda vista ho visto dei grossi bruchi di un color verde chiaro e malato, gonfi, semplicamente ributtanti. Avevano movimenti lenti, mascelle stillanti una secrezione saniosa e ocelli lungo i fianchi. Associato a queste larve coglievo un fetore di decomposizione simile a quello dei cavoli marci, ma con una nota chimica che lo rendeva ancor più nauseabondo. A questo punto mi resi conto che c’era qualcuno. Pur non avendo realtà fisica, quell’uomo glabro era lì: su una panchina lignea avvertivo la presenza di una specie di Hare Krishna vestito con una tunica bianca con ornamenti color giallo smorto. Aveva su di sé tre bruchi simili a larve di farfalla sfinge, eretti nella loro irritazione. Uno era più grande ed ornava la testa, gli altri stavano sulle spalle. Fissai a lungo l’asceta immobile, quando mi accorsi che mi stava guardando. Fissava intento la mia figura esangue, con occhi senza iride né pupilla, come palle marmoree di morte assoluta. Urlai a lungo, ma nulla valse a destarmi.

Marco "Antares666" Moretti 

martedì 3 maggio 2022

I FLAGELLANTI

La giornata si preannunciò subito portentosa. Come P. "Nodens" si presentò all’appuntamento, subito mi accorsi che indossava abiti esattamente identici ai miei. Non era possibile che si trattasse di una semplice coincidenza: i motivi del gilet e della camicia erano abbastanza complessi, eppure non c’era un solo dettaglio fuori posto. La cosa mi inquietò molto, e anche P. "Nodens" presagiva qualcosa. Arrivati a Milano, ci dirigemmo verso recessi particolarmente oscuri e decadenti, dove si trovava un negozio di videocassette pornografiche. P. "Nodens" aveva cercato per anni un film inquietante la cui scena finale era un’orgia di uomini mascherati. Quelle maschere bianche, quella musica abissale, erano diventati per lui una vera ossessione. Ora aveva parlato con il proprietario del negozio in questione e il film era stato trovato. Appena usciti da quel loculo incastonato nei muri anneriti, poco distante da un’orrida strada sopraelevata, fui in grado di percepire presenze inumane. Con la seconda vista vedevo le Volpi. Era in atto una processione di flagellanti spettrali e c’erano anche angoscianti figure gobbe con nere maschere di scimmia. I flagellanti si fustigavano la schiena nuda con rozze fruste o con gatti a nove code. Molti di loro erano lebbrosi, altri avevano la testa coperta di grossi bruchi di farfalla sfinge. Alcune figure erano prive di piedi e pareva che traslassero sospesi nell’aria. Suoni striduli e orrendi sembravano espandersi nel mio labirinto acustico, provenienti da una serie di rozzi strumenti metallici. Avevo l’impressione che quella cacofonia avrebbe mandato in frantumi la struttura stessa dell’Universo. Comunicai a P. "Nodens" ciò che i miei sensi alterati mi stavano trasmettendo, e con mia grandissima sorpresa, mi disse che lui vedeva e udiva proprio le stesse cose. La funesta processione ci accompagnò per tutta la giornata in ogni angolo di Milano che visitammo. Andammo in Via Legnone, e le rotaie del tram tra gli statici filari di alberi malati erano esse stesse teatro della cerimonia. Prendemmo il pullman alla stazione di Sesto San Giovanni, e anche lì sui binari della ferrovia li notammo. Ormai era quasi buio, la luce solare stava offuscandosi nel cielo di un innaturale blu cianidrico. Eravamo in contatto con Universo delle Entelechie: intuimmo che quei demoni, che io chiamavo Volpi, erano abitanti di un mondo sovrapposto al nostro. In condizioni normali non li avremmo mai potuti vedere, ma un evento anomalo doveva aver reso possibile la risonanza con quel Continuum dimensionale. P. "Nodens" rivolse gli occhi al cielo prussico e a quel punto il suo stesso pensiero passò in me quasi per telepatia. Nel mondo delle Volpi si festeggiava il passaggio di una cometa nera dalla coda bifida. L’evento nel nostro Universo sarebbe sommamente nefasto - e forse fisicamente impossibile - ma in quella realtà era considerato molto fausto. Per un istante fui certo di scorgere l’ombra statica dell’immensa cometa nel cielo. La stoltezza della gioventù mi spingeva spesso ad azioni dissennate. Pensai infatti di esprimere alcuni desideri, ritenendo che il potere della Cometa Nera li avrebbe realizzati. Quanto ero stolto! Di questi desideri, due non si avverarono mai e a questo punto credo proprio che ogni speranza si possa ritenere perduta. L’ultimo invece si realizzò perché ineluttabile per legge di Natura di questo Universo fisico - ma solo dopo molti anni di strazi e di difficoltà. Ciò che arreca sommo beneficio a qualcuno può essere veleno per altri e portare alla loro nemesi. Avrei dovuto capirlo. Introdurre una tale contaminazione nell’ordine delle cose che governa la mia vita, ecco cosa mi ha ridotto a ciò che sono. Metto in guardia chi legge queste righe dal fare ciò che ho fatto. Questo io ritengo per certo, che non è affatto un uso salutare esprimere desideri quando nel Regno di Ohork compaiono “comete nere beneauguranti”!

Marco "Antares666" Moretti

domenica 1 maggio 2022

MANDAROM 

La luce del sole andava pian piano incupendosi, virando al giallo scuro. Ancora un’ora e poi l’astro sarebbe sprofondato dietro le montagne. Egle camminava per i campi, diretta alla fonte. I suoi genitori l’avevano mandata a riempire di acqua il secchio, come ogni sera prima di cena.
Quando giunse all’orto, Egle vide che era stato devastato. C’erano escrementi dovunque, di un tipo che non aveva mai visto prima. Per dimensioni sembravano prodotti da esseri umani. Avevano però un aspetto orribile e pastoso, ed emanavano un odore atroce. Un lezzo che sembrava a metà strada tra quello di un cavolo marcio e quello di un cadavere. Accanto alle scorie c’erano tracce di bava densa e schiumosa mista a resti di vegetali masticati. Egle rabbrividì ed estese il suo sguardo oltre i confini dell’orto, spaziando sui campi di cereali. L’intero raccolto era andato distrutto. Non capiva quali bestie fossero capaci di produrre una simile desolazione. Non potevano essere lupi, e neanche orsi, anche se si sapeva che in caso di scarsità di prede erano benissimo capaci di cibarsi di vegetali. La bambina si ricordava che una volta, al colmo dell’inverno, un lupo si era ingozzato di patate fino a vomitare. Non contento, aveva inghiottito il suo vomito, prosciugando poi un intero serbatoio d’acqua. Gli era però andata male, tutto quel pastone in fermentazione nel suo stomaco si era gonfiato e lo aveva fatto esplodere. La sua carcassa sventrata era stata trovata sulla piana innevata vicino al pozzo.
All’improvviso, Egle fu richiamata alla realtà da un rumore. Finì di riempire il secchio, quando vide qualcosa. All’inizio sembrava solo un mantello peloso che si inarcava e ballonzolava ebbro. Poi vide. Era un bruco grande quanto un grosso cane. Sembrava una processionaria del pino, ma aveva la testa sproporzionata come quella delle larve di farfalla sfinge. Mascelle robuste come il becco nero di un pappagallo, occhi composti, pseudopodi prensili, ocelli nerastri sui fianchi. La pelle era quasi trasparente, e sotto il pelo rossiccio si potevano intravedere i visceri scuri, oscillanti mentre l’abominevole larva avanzava lentamente.
Egle si chiese che diavolo potesse essere quello che stava vedendo. Nonostante l’assoluto disgusto che le ispirava, non poteva distoglierne lo sguardo. Era come ipnotizzata dall’obbrobrio. La sensazione era simile a quella che cattura quando si osservano le fiamme che avvampano in una stanza colpita da incendio e nonostante il pericolo non si riesce a muoversi. Qualcosa le disse di scappare, di abbandonare il secchio e di fuggire a gambe levate, ma neppure un muscolo rispose al suo comando. Rimase ferma, immobile come se si fosse mutata in una statua.
Aveva sentito parlare delle Volpi, demoni e spettri che rapivano i viventi per divorarne l’anima. Non aveva dato mai credito a simili storie, né aveva mai sentito qualcuno che avesse davvero incontrato tali presenze. Ma queste cose non avevano l’aspetto attribuito dalle storie popolari alle Volpi.
Una seconda larva giunse caracollando, ancora più grossa della prima. Infierì sui moncherini anneriti di un ceppo marcescente, rosicchiandoli e facendo schiuma come un epilettico. Quando ebbe finito con quel legno fradicio, si inarcò alzando il capo e muovendolo tutt’intorno alla ricerca di qualcosa di commestibile. In preda a un senso di delusione, si mosse e andò dietro all’altro bruco, attaccando il muso al suo deretano in quello che pareva un contatto osceno. Dopo un attimo si staccò e andò via.
Egle era coperta di sudore freddo. Dopo aver fatto leva su tutta la sua volontà riuscì a muoversi quel tanto che bastava per girare il collo e guardarsi attorno. C’erano già altri cinque di quegli esseri mostruosi che la circondavano. Altri, visibili in lontananza, perlustravano la desolazione alla ricerca di qualcosa di commestibile.
Negli ommatidi che componevano i loro occhi alla bambina sembrava di distinguere riflessi iridescenti. Le sfumature di colori oculari erano come una danza di miraggi, un caleidoscopio sullo sfondo del tremulo moto degli strati di aria caliginosa. Egle non si accorse di aver perso di nuovo il controllo sul suo corpo. I muscoli erano irrigiditi e formicolanti, la pelle insensibile come quando si schiaccia un nervo. A questo punto i suoi pensieri eri torpidi come le sue carni, nulla poteva più far scattare in lei alcun meccanismo di allarme e di sopravvivenza. Si dimenticò del secchio, già caduto a terra da tempo. Lo scorrere degli istanti sembrò rallentare fino a pietrificarsi. Non esisteva più nulla nella sua memoria, non si ricordava più neanche dei suoi genitori che la stavano aspettando a casa. Esistevano soltanto i bruchi. Le Volpi. Ormai aveva capito cos’erano quelle cose. Erano le Volpi. Se nessuno sapeva nulla sul loro aspetto e circolavano solo descrizioni non vere, era perché nessuna persona la cui anima fosse stata divorata poteva tornare indietro per parlarne alla gente del suo villaggio! Come aveva fatto a non pensarci subito? Adesso che lo capiva era troppo tardi. Anche la paura e il disagio se ne erano andati, come se un flusso di potente anestetico scorresse nelle sue vene. Un veleno in grado di azzerare ogni naturale reazione, ma al contempo di conservare la coscienza di sé perfettamente lucida.
L’intero mondo parve dissolversi in un turbine delirante. Dove erano stati campi coltivati ad ortaggi e messi dorate, ora si estendeva una città megalitica. Forme basaltiche si innalzavano verso il cielo di piombo, come le dita di un gigante senza memoria tese in contratture innaturali per tutta l’eternità. Egle non aveva mai neppure immaginato che potessero esistere palazzi così imponenti. In certi punti erano addossati gli uni sugli altri in formazioni dall’aspetto canceroso, contorto fino all’inverosimile. Grottesco architettonico di guglie e torrioni che si intersecavano senza seguire una logica. Il campo delle Volpi non esisteva più, ora Egle si trovava in una strada polverosa della Città di Pietra. All’inizio si domandò dove fossero finiti gli abitanti, perché l’unico senso funzionante era la vista. Non appena poté percepire gli effluvi mefitici tramite l’olfatto, ebbe una risposta inequivocabile. Osservò le finestre intagliate nelle pareti delle costruzioni ciclopiche, anguste feritoie dalle quali filtrava un nero assoluto e aggressivo. Emanavano il lezzo della Peste, tutto lì era invaso dalle Forze del Morbo. Percepì la presenza di migliaia di cadaveri sfatti e deformi nelle sale e nei corridoi che non poteva vedere con i suoi occhi. Niente e nessuno in tutto l’universo avrebbe mai potuto convincerla a mettere piede là dentro. Il terrore la invase, sapeva per certo che in quei recessi aberranti c’era l’Inferno. C’era l’annientamento eterno dell’Essere, la sua riduzione a ombra di ombra. Qualcosa di così orrendo e nefasto che non esistevano neppure parole in alcuna lingua degli umani per definirla. Non esistevano quasi colori in quel paesaggio allucinante. Tutto sembrava stinto e degradato, come se qualche demone avesse privato la realtà stessa di ogni sua apparenza, mostrandone l’intrinseco Nulla. Un vento di disperazione spirava nelle strade e nei vicoli, qualcosa in grado di distruggere non solo la gioia ma anche qualsiasi ricordo della sua esistenza. L’impressione che Egle aveva era che qualcosa senza forma stesse strappandole l’anima per tormentarla a suo piacimento, irrorandola con scaturigini di tenebra fittissima. Pur di fuggire avrebbe voluto cessare di esistere e non essere mai esistita, ma in quei luoghi questo non era permesso: un residuo di consapevolezza sarebbe sempre durato in uno stato di sopravvivenza spettrale solo per subire la distruzione di ogni suo tentativo di porre fine al tormento. Un uovo masticato dai Demoni per l’eternità.
Ecco che qualcosa si mosse su una parete lontana e distrasse per qualche secondo Egle dal suo incubo. Decise di avvicinarsi per vedere meglio. All’inizio sembrava una chiazza in cui si mescolavano colori sgargianti che vedeva per la prima volta nella Città di Pietra. Giallo limone fosforescente misto a scarlatto e a verde pisello, con punti di un nero brillante che sembravano danzare. Cosa mai poteva essere? La bambina avanzò lungo una via fino a giungere in una piazzola. Ovunque c’erano rottami di strani veicoli che si consumavano lentamente sotto coltri di polvere corrosiva. Notò che il metallo lebbroso aveva assunto la consistenza e il colore bruno rossiccio dello sterco. Proseguì il suo cammino con passi incerti. Di colpo poté vedere con chiarezza cosa aveva attirato la sua attenzione. Era un bruco variopinto grande come cinque cavalli messi in fila. Sulla schiena aveva centinaia di grossi flagelli neri e collosi che si muovevano guizzando come fruste, in modo del tutto indipendente. I movimenti erano molto complessi e davano un senso di nausea insopprimibile. Sembrava che sotto la pelle le sue interiora fossero altre larve in procinto di uscire. Bastava fissare quella creatura per avvertire il tocco della sua immondità. Cercava di salire fino in cima alla costruzione, ma i suoi movimenti sempre più goffi gli impedivano di fare molta strada. Gli pseudopodi smisero di avanzare e si appiccicarono alla parete per mezzo di una motriglia schiumosa che presto si indurì del tutto. Era già capitato ad Egle di vedere un bruco impuparsi, diventando giorno dopo giorno una dura crisalide, ma quello che qui stava accadendo era di natura molto dissimile. Il corpo della larva si gonfiò e a un certo punto si ruppe. Fu il culmine nauseabondo di un processo necrogenetico. Dalle crepe nella pelle scaturì una selva frattale e brulicante di minuscoli bruchi del tutto simili al loro progenitore. Un’infiorescenza bestiale, ributtante, come le chiome di una mostruosa gorgone. Mentre questo accadeva, altri germi di colore stavano crescendo un po’ dovunque. La rapidità del rigoglio era impressionante. A vista d’occhio prendevano forma nuovi bruchi, che si sviluppavano voraci da ammassi di spore fino a poco prima invisibili. Il groviglio cresceva senza controllo, soffocava le dimore dei Morti abbandonate da eoni. Egle ebbe paura e corse via, fino ad arrivare in una zona che ancora non era stata contaminata. Non si rese conto di quanto spazio aveva fatto, finché non si accorse di non avere piedi. Allora si fermò e cercò di ispezionare il suo corpo. Un tentativo del tutto vano: non aveva più un corpo! Ogni volta che le sembrava di muovere una mano o una gamba vedeva soltanto una fluttuazione nell’aria spessa e opprimente. Questa scoperta la gettò nel panico. In un attimo seppe per certo di essere morta. Come poteva spiegarsi altrimenti il suo stato? Era diventata una specie di fantasma! Dopo la confusione iniziale fu invasa dalla paura e si cerò in lei un’insolita nitidezza mentale. Proiettò la sua volontà in avanti e si mosse per automatismo. Ormai la zona pullulante di larve era lontana alle sue spalle. In ogni caso Egle sapeva che non poteva permettersi il lusso di abbassare la guardia. Se non fosse stata capace di trovare un nascondiglio sicuro, i bruchi l’avrebbero raggiunta e si sarebbero nutriti della sua anima, digerendola e degradandola in scorie di energia vitale da utilizzare per il loro continuo accrescimento.
Le sembrava di essere imprigionata in quel folle mondo da ere immemorabili. Il tempo fluiva in modo stranamente lento, o forse la sua natura era illusoria e come in un circolo perverso si finiva col tornare sempre al punto di partenza? La bambina-fantasma aveva imparato comunque una cosa: il tempo non era scandito dal moto degli astri e dal mutare dei cieli, anche perché in quella volta celeste non cambiava nulla. Tutto era pietrificato in un giorno fioco, simile a un grigio crepuscolo di caligine putrida. Un cielo del Nulla, privo di riferimenti, orfano del Sole, della Luna e delle stelle. Forse era davvero il Non Essere ciò che stava al di là della cappa di vapori simile a piombo, per quanto fosse esprimere in modo sensato un concetto come quello di Non Essere. Forse quello sarebbe stato un posto adatto dove fuggire e trovare la pace nell’annichilirsi? Le sensazioni che provava le dicevano che non era così. Non solo non poteva alzarsi dal suolo, ma quel Nulla le pareva maligno, anche se molto diverso da quello che irradiava dai palazzi cadenti. Era come se non fosse una semplice mancanza di definizione di realtà, ma nascondesse in sé un distillato di tutto ciò che di mostruoso si poteva concepire. Un dragone senza forma, vago e terribile al contempo. Un dragone senza contorni e colore. Cinereo delirio.
Senza accorgersene Egle era giunta in una strada che costeggiava un fiume di liquame nero. Ponti di marmo finemente scolpiti permettevano il passaggio sulla sponda opposta di quella fogna a cielo aperto, dove sorgevano edifici tra loro sovrapposti e intrecciati secondo un’architettura folle. Era tutto un dedalo intricatissimo di mausolei, di cappelle funebri, di statue diroccate e di camminamenti impervi che sfidavano le stesse leggi della logica. Non era facile capire dove stava l’alto e dove il basso, al punto che le nozioni elementari della geometria vi erano stravolte. Egle avvertì un capogiro. Il suo senso della vista era disturbato da quell’incredibile sovrabbondanza di dettagli, pur non essendo fondato su occhi fisici. A un certo punto vide l’accesso che conduceva nel sottosuolo. Qualcosa le diceva che i bruchi lì non potevano avventurarsi, ma la cosa non le fu di grande conforto. Era un ingresso intagliato nel marmo ciclopico, un portale che lasciava intravedere un’infinità di cunicoli e di meandri ritorti. In migliaia di piccoli loculi aperti giacevano cadaveri rinsecchiti. Si poteva sentirne l’odore anche a quella distanza. Si poteva distinguere ogni particolare anche nell’ombra più cupa. Soltanto in fondo c’era una tenebra assolutamente impenetrabile che divorava ogni capacità di percepire le forme. Era il Luogo dell’Incubazione. Questa consapevolezza sconvolse Egle, che per poco non perse i sensi. Si impose di resistere e di proseguire.
Dopo una parete liscia di marmo grigio che sembrava illimitata, ecco un altro portale, più largo del primo. Il fiume nero vi si gettava dentro e continuava il suo corso nel mondo ctonio. La visuale non euclidea permetteva di seguirlo per molte miglia all’interno delle Catacombe. Scorreva in un alveo costruito da chissà quale razza di giganti usando lo stesso marmo dello sconfinato cimitero.
Qualcosa attrasse la bambina-fantasma in quei diverticoli funebri, ma una barriera si frapponeva tra lei e la sua destinazione: quel flusso denso e di un durissimo nero. Non avrebbe potuto in nessun caso superarlo. Avrebbe dovuto tornare indietro fino a raggiungere uno dei ponticelli che aveva visto, anche se nessuno di quei passaggi portava alle Catacombe. Conducevano invece tra le tombe del Cimitero Monumentale che si estendeva fino all’orizzonte. Poteva soltanto sperare di trovare un adito al mondo sotterraneo in quella selva di statue grottesche, lapidi, tempietti e cappelle. E se non ci fosse riuscita? Se si fosse persa per sempre? Cosa la spingeva? Si fermò e si chiese cosa la stava muovendo verso il Luogo di Incubazione. Se fosse tornata indietro sarebbe andata a buttarsi proprio tra le fauci dei bruchi famelici. C’era anche un’altra possibilità: proseguire sperando di trovare un passaggio praticabile. Non era una cosa facile: il fiume spariva nel portale e il lungofiume si trovava sull’altra sponda.
Guardò in direzione del quartiere che aveva appena superato e vide un bruco lungo come una casa colonica. In assoluto il più grande che avesse mai visto. Era peloso come le Volpi e simile ad esse, ma era tutto ricoperto da migliaia di altri bruchi più piccoli di forma identica, dai quali a loro volta se ne diramavano altri in scala ridotta. Questi budelli abominevoli non erano figli dell’animale che li portava, non erano separati dalla sua carne. Erano invece escrescenze carnose, come organi di uno stesso essere. I movimenti erano di una tale vomitevole complessità che anche solo fissarvi la propria attenzione avrebbe paralizzato anche la persona più impavida, e chi finiva paralizzato in un simile luogo avrebbe subìto un fato peggiore di un milione di morti. Egle dovette decidere cosa fare nella frazione sfuggente di un battito di ciglia. Mosse la sua volontà in direzione opposta alla processionaria frattale che avanzava, schizzando via lungo il desolato boulevard. Così facendo riuscì a mettere tra sé e il ributtante predatore uno spazio che non avrebbe mai creduto possibile percorrere tanto rapidamente, ma si allontanò dall’unica cosa che avrebbe potuto condurla via da quella città. Non riusciva più a ricordare dove fossero le Catacombe. Provò ad esplorare con estrema cautela qualche stradina laterale, senza successo. Vi trovò soltanto polvere e macerie. Dopo un po’ si arrese. Aveva perso del tutto l’orientamento e non sarebbe mai più riuscita a ritrovare la strada. L’unico riferimento che rimaneva era una strada tanto ampia che le costruzioni ai suoi lati apparivano sminuite a chi le osservasse stando nel centro. Non poteva fare altro che scoprire dove l’avrebbe portata.
Dopo quello che le sembrò un susseguirsi di eoni, Egle si trovò in una piazza talmente ampia che avrebbe benissimo potuto contenere tutto il mondo che aveva conosciuto da quando era nata. Su quella vastità di porfido torreggiava un edificio che al di là di ogni dubbio era un luogo di culto. Una cattedrale così alta da proiettare la sua ombra sinistra su ogni cosa nel raggio di molte miglia. La bambina-fantasma guardò in alto nel tentativo di abbracciare ogni dettaglio di quel tempio sacrilego, e quando lo comprese nel suo campo visivo fu attraversata da un moto di orrore inesprimibile. La facciata aveva la forma di una pietra tombale con un imponente rosone centrale. Le strutture che la ornavano, scolpite nella candida roccia, erano tanto complesse e intricate che Egle ebbe subito chiaro che quella che aveva davanti era la Chiesa Ingarbugliata. Non c’era nome migliore per descrivere quella rete di venature ritorte, sovrapposte e compenetrate tra di loro. Si avvicinò, e man mano che si avvicinava si sentiva schiacciata al suolo da forze atrocissime, di un’oscura e sconfinata potenza. Dal rosone si spandeva una tenebra aggressiva, come una nube di spettri urlanti senza requie. Qualcosa urlava là dentro, strideva come l’acciaio spaccato da sbalzi estremi di temperatura. Egle non poteva fare a meno di avanzare, come se qualcosa si fosse impadronito di lei e l’avesse privata del tutto della volontà. Anche se voleva soltanto girarsi e lanciarsi via, non ci poteva fare niente. Quando fu abbastanza vicina, si accorse che la cattedrale era composta interamente da teschi di scimmie deformi. Vide che musi ghignanti formavano composizioni assurde che le trasmettevano significati subliminali raggelanti. Non c’era via di fuga, non poteva sottrarsi all’incubo. Si mise a strillare come un’ossessa, in preda a un marasma infernale.
Tutto parve precipitare e sfasciarsi, perdendosi in un vortice crepuscolare. Egle aprì gli occhi e di colpo si ritrovò nel suo corpo. Provò un immediato sollievo nel vedere le proprie mani davanti a sé. Persino il raccolto distrutto le parve confortante. Quando però cercò di camminare, si rese conto che le gambe erano dure come il marmo e incapaci di muoversi. Fu allora che si accorse delle Volpi intente a banchettare con la sua carne! La processionaria più grossa era intenta a strapparle i muscoli del polpaccio destro dalle ossa e a masticarli rumorosamente. Vide che un’altra larva si stava gonfiando e spruzzava contro l’altra gamba dei getti d’acido. Non sentiva alcun dolore perché era già del tutto narcotizzata. Quel succo era paralizzante e impediva alla vittima di lottare: associava proprietà allucinogene e corrosive, predigerendo i tessuti colpiti. Non c’era possibilità di scampo. La bambina capì che era finita. In breve ogni parte del suo corpo sarebbe stata divorata, dissolta e ridotta a pochi mucchietti di sterco grasso. Tutto questo era accaduto nel giro di pochi attimi, così quando i suoi genitori fossero venuti a cercarla non ne avrebbero di certo trovato traccia.

Marco "Antares666" Moretti

venerdì 29 aprile 2022

CIRRIPEDI A PERDITA D’OCCHIO

Una salsedine corrosiva offende all’improvviso le mie narici. Non è il solito vento che spira dal mare portando con sé particelle saline. Non solo è più intenso, ma ha anche qualcosa di cadaverico, un persistente sentore di smegma rancido e di feci grasse. È come se una massa immensa di materia in putrefazione pervadesse un intero oceano anossico. Non riesco a capire cosa possa essere successo, per tanto mi appare incredibile. Apro gli occhi e mi ritrovo in un mondo diverso dal mio. Per poco il cuore non si ferma nel mio petto: il cervello cerca di attivare un estremo meccanismo di protezione dal pericolo bloccando le funzioni vitali. Qualcosa di inspiegabile impedisce al mio muscolo cardiaco di estinguersi, e subito le pulsazioni riprendono all’impazzata acquistando lentamente un andamento regolare. L’orizzonte è talmente esteso che il mio sguardo vi si perde quasi fossi diventato miope come una talpa. La curvatura non euclidea mi genera vertigine come se stessi precipitando in un pozzo infinito, eppure vedo ogni cosa da una grande altezza, quasi mi fossi trasformato in un esile gigante. Una visuale si estende sotto vi me, uno spazio che potrebbe benissimo contenere un centinaio di pianeti come la Terra. In contrasto a ciò, riesco a distinguere gli oggetti al di sotto di me con incredibile precisione e a valutarne in modo micrometrico le proporzioni. Le mie gambe tremano come fuscelli. Le guardo e mi paiono semitrasparenti, fatte di gelatina. Non indosso alcun vestito, e questo fatto bizzarro di certo non mi è di aiuto a comprendere la situazione. Forse sono passato attraverso un portale dimensionale dopo quella festa al bar con gli amici, mentre mi stavo incamminando verso casa. Gli emissari del Governo ci avevano detto che dovevamo fingere di aver vinto un colossale jackpot e ci avevano passato 500 carichi per organizzare la baldoria davanti alle telecamere. Il popolo doveva continuare ad alimentare l’Erario Globale, e noi non dovevamo rivelare a nessuno l’imbroglio. Troppo rum puro, ricordo ancora il mal di testa lancinante e il dissolversi del mio campo visivo. Adesso mi succede questo. Tra le nebbie della mente turbata fa capolino un’intuizione. Come ho fatto a non pensarci prima? Certo che esiste una spiegazione più logica dell’ipotesi della singolarità spaziotemporale! Doveva esserci dell’acido nel liquore, non ci sono dubbi. Questo non è altro che un cattivo viaggio indotto da meta-LSD. Eppure, qualunque cosa possa escogitare per spiegare l’assurdo, io sono qui. Posso vedere attraverso le mie flaccide membra nude e poggio i piedi su una piattaforma simile a uno scoglio liscio e untuoso, con il rischio concreto di scivolare in queste acque pestilenziali. Mentre mi guardo attorno, mi sento rimpicciolire assieme a parte del macrocosmo. Alla fine mi attesto su una statura che valuto in una ventina di metri, fluttuando come un peduncolo. Sono stirato come l’uomo di gomma dei Fantastici 4, ma vedo le mie mani e le mie braccia delle proporzioni naturali. La materia di questo universo, o piuttosto la forma di questa allucinazione, è insolitamente densa e resiliente. In netto contrasto con la mia definizione evanescente, quasi olografica. Più in là c’è una serie di scogli frastagliati, quasi un arcipelago che si estende sulle acque fin dove giunge il potere risolutore dei miei cristallini. Ci sono incrostazioni che sembrano grossi molluschi, una lebbra rocciosa bagnata dalle onde grigie e dalla spuma venefica. Il tempo è come pietrificato, fluisce con una lentezza esasperante. Mi domando quando mi libererò dagli effetti di quella merda che mi hanno fatto prendere. Oppure finirò come Charles Freck, condannato a sentirsi accusare per l’eternità da un mostro occhiuto che gli recita senza requie una lista infinita di peccati? Già che c’erano potevano anche piantarmi una pallottola nella schiena quei maiali del Governo, almeno sarebbero stati sicuri del mio silenzio. Il ricorso ai killer di Stato non è poi così raro di questi tempi, non capisco perché non abbiano adottato questa pratica soluzione. Comincio davvero a pensare che rimarrò in questo stato di psicosi permanente, con il cervello fulminato. Non rivedrò mai più gli amici e nemmeno la mia donna, quella pazza cocainomane dalle mille perversioni sessuali. Tutto è finito, le catene della percezione alterata mi avvincono. Mentre rumino paranoie, macinando miriadi di scenari alternativi, ecco che qualcosa trema. Come milioni di martelli pneumatici in sincro. Mi guardo intorno, ma il rumore viene da dentro. È una vibrazione innaturale, che coinvolge l’essenza stessa delle cose. Il livello degli scogli si sta alzando, e anche le onde diventano violente. Lontano scorgo dei cavalloni. Ho il terrore che lo tsunami all’orizzonte mi travolgerà presto, invece ecco che si dissolve. Non riesco ad abituarmi a queste prospettive, né a farmi un senso della profondità. Man mano che gli scogli si alzano, comincio a comprendere che non sono fatti di roccia né di una qualche specie di asfalto. Mi trovo come San Brendano, sul dorso di un mostro marino, una qualche forma di cetaceo. Ma esistono animali così grandi? No, neppure nelle mie più sfrenate fantasie. Per spiegarsi questa aberrazione, bisognerebbe immaginarsi un essere vivente più grande di tutte le terre emerse della Terra messe insieme! Eppure eccolo che si alza, che traspira attraverso la cute coriacea. Le verruche si espandono, come se fiorissero tutte insieme. Diventano più grandi, vanno in erezione come falli giganteschi. L’asta che esce allo scoperto dilatandosi e inturgidendosi è screziata di bianco e di rosso, segmentata in strutture anulari che mi ricordano dei cockring sgargianti. Il glande è costituito da due valve di cozza da cui sporgono lunghi tentacoli da polpo, di un fetore infernale. Queste strutture si gonfiano ancora e sibilano oscenamente, spruzzando liquido seminale tutt’intorno. Mi destano nausea e angoscia. Osservando quella giungla fiorire mi sento un bambino sperduto in un bosco buio popolato da fiere soprannaturali. Di nuovo quella vibrazione. Questa volta è più lunga e più intensa di prima. Guardo i miei piedi e vedo che si sono fusi alla superficie sottostante. Sto diventando una specie di vegetale, un semplice parassita di questa fottuta balena! Lo sento, mi trasformerò anch’io in un leproma, in un foruncolo destinato a vegetare per l’eternità sul dorso della balena di San Brendano! In lontananza uno sbuffo si fa sentire. Un geyser, una colonna di vapore che sale fino a penetrare nel cielo incurvato. Sparisce salendo su fino alle stelle, ammesso che ci siano stelle incastonate nella volta celeste di questo inferno! Il respiro del mostro. Il suo sfiatatoio. Sulla nostra Terra, la sola onda d’urto avrebbe potuto travolgere l’intera Europa e spazzarla via. Centinaia di milioni di persone sarebbero finite nella corrente, granelli di polline che confluiscono in un gorgo fino in fondo a un tombino. Qui l’effetto non è tanto micidiale. L’acqua nebulizzata dopo la violenta ascensione si piega in un diverticolo e tutto ritorna come prima. Sono in balia di quanto mi accade intorno. Quell’eiezione di acqua ad altissima pressione può significare solo una cosa, che presto questo Leviatano si inabisserà e mi porterà con sé. Una nuova vibrazione, solo che questa volta ha qualcosa di diverso. Tutto fibrilla, i contorni stessi delle cose per qualche attimo perdono ogni definizione. Colgo l’interazione tra rumore e senso della vista: le onde sonore non possono essere pienamente distinte dal campo che conserva le forme percepibili con gli occhi. Lo sfasamento dei contorni acquista un che di musicale. La balena sta cantando! I molluschi repellenti emanano lezzi intollerabili. Mi sembra che siano state scoperchiate bare dovunque e che i cadaveri in disfacimento siano ora esposti all’olfatto dei malcapitati. I colori di quelle strutture falliche si spengono, e le masse di tentacoli che sporgono dalle valve delle conchiglie lentamente fuoriescono. Qualcosa si stacca e prende forma. Vedo che quei rigurgiti sono piccoli uccelli avvolti in una specie di saniosa placenta. Uccelli neri e deformi. Cadono tra i flutti maleodoranti, si nutrono dei resti degli organismi ormai agonizzanti che hanno dato loro la vita. Crescono a vista d’occhio. Sembrano paperi scuri coperti di morchia oleosa. Presto sono abbastanza nutriti da essere autosufficienti e si levano in volo. Il cielo stesso ne è oscurato. Mentre sciamano tra zaffate di molluschi morti, fanno precipitare una pioggia di guano dappertutto. Con mia grande sorpresa, lo sterco non mi tocca: mi passa attraverso. Ne percepisco la consistenza e il puzzo nauseabondo, ma non riesco ad interagire. Mentre medito su questa stranezza, uno stronzo mi cade sul cranio, e anziché spiaccicarsi tra i miei capelli mi attraversa il cervello, mi passa per il ventre e precipita ai miei piedi. Solo sullo scoglio si sparge seguendo una dinamica familiare. Con orrore vedo che da tutta quella merda una nuova generazione di cirripedi ancora più grandi sta fiorendo di secondo in secondo. Sono robusti e minacciosi, tanto che quelli di prima al confronto mi appaiono adesso esili e rachitici. Sulle aste martellanti di linfa crescono altre strutture ramificate, quasi frattali. Una selva prende forma, virulenta. Sento che ogni mio incubo si sta frattalizzando e che alla fine ne sarò soffocato. Devo trovare a tutti i costi una via di uscita. So per certo che quando avverrà l’immersione, per me sarà l’inizio di un inferno di gran lunga peggiore. La fuga non può in ogni caso avvenire tramite un semplice canale fisico: essendo l’intero universo che sono costretto a subire un prodotto della mia mente in preda all’allucinogeno, devo soltanto facendo leva su qualche meccanismo psicologico per farlo dissolvere e ritornare alla normale realtà di veglia. Probabilmente quando mi sveglierò avrò un gran mal di testa e non potrò recarmi al lavoro. Una disdetta, visto che ho già non poche ore di arretrato da recuperare. Maledetto Palazzo Blu! I miei superiori e le mie colleghe dovrebbero trovarsi dove sono io in questo momento, accidenti a loro! Quanto è ingiusta la Sorte, io sono costretto a lottare contro questa situazione assurda e loro neanche si accorgono che le loro esistenze sono insignificanti e meritevoli di dissoluzione. Eppure non è così facile, che io sia dannato! Questo schifo intorno a me non se ne va, per quanto io mi sforzi di riacquistare il controllo! Ecco che le carnosità priapiche sono diventate alberi grandi come piccole querce, e continuano a gettare rami che si distendono in sempre nuove infiorescenze. Non si fermano. Li vedo dappertutto, formano una fitta e delirante foresta di tentacoli che poggia sul mare in burrasca. Il vento aumenta di intensità, ed è talmente gelido da sembrarmi ben al di sotto lo zero. Mi entra nelle braccia, nel torace, nel ventre, come se io non esistessi, ma nonostante questo è in grado di ferirmi. Comincia a spazzare il paesaggio, piegando quell’obbrobrio e spezzando alcuni fusti tra i più grossi. Il rumore è violento, l’aria sembra fatta di vetriolo. Se fossi qui con una definizione del tutto simile a quella ho nello stato di veglia, di me non sarebbe rimasta neppure una manciata di atomi dispersi. Se non fosse per la sagoma spettrale che mi caratterizza, non potrei mai competere con l’atroce furia di questi elementi. Un suono mi lacera. Non lo capto con i miei nervi acustici per mezzo dei timpani, viene piuttosto da dentro. Mi accorgo di aver acquisito un senso nuovo che mi permette di convertire in onde sonore le vibrazioni che scuotono il mio labirinto. Di nuovo un sussulto, inspiegabile. Alzo gli occhi al cielo, e vedo qualcosa in coincidenza con un rumore che mi stride nel liquido cefalorachidiano. Una sagoma argentea, fatta come di mercurio, una malefica goccia cristallizzata tra le nuvole. Non ho la benché minima idea di cosa possa essere, so soltanto che mi urla qualcosa, caricandomi di alienità. La fisso, cercando di carpirne i segreti. Mi concentro sul suo nucleo, perché mi pare che non sia composto dalla stessa sostanza che ne forma le regioni periferiche. A dispetto dell’omogeneità cromatica di quello strale celeste, la regione centrale ha un luccicore le cui proprietà non posso descrivere a parole. Da quel singolo punto irradiano sensazioni che mi ricordano qualcosa che devo aver vissuto, tanto è presente in me, ma che al contempo so non essere possibile aver mai sperimentato. Una stella marina fatta di niente si staglia invisibile sul pelo della mia anima e accarezza il mio Es con i cernecchi gelatinosi di tentacoli che non possono esistere. Lo sfregio nel cielo è ancora al suo posto. Tremendo. Apertura che lascia tracimare non-cose in quello che già è un non-universo! Per una frazione di nanosecondo un sogno dimenticato mi sfiora. L’ho come preso attraverso la cruna di un ago psichico. Lo reggo, ne sono certo. Ma nel perverso gioco di questa stringa temporale, ecco che già mi è sfuggito. Appartiene al substrato, è cementato in eterno nell’Oblio, quando avrebbe potuto scorrere come una sensuale cordicella oliata fino al limite della mia autocoscienza piena di piaghe. Pur essendo fermo in questo Spazio delle Fasi, il dardo procede a velocità superiore a quella della luce, quasi infinita: è evidente che la mia percezione è difettosa. Forse è questa l’origine del suo misterioso baluginare. Ha un fare ipnotico, mi irretisce. Non riesco assolutamente a staccare gli occhi, neanche per un attimo. Tutto è una girandola, un gorgo che ruota con impressionante lentezza, inesorabile fagocitatore di istanti mal definiti. Un soave oblio mi ha preso come un pesce all’amo, impedendomi di pensare anche per un solo istante. Dimentico ogni cosa dell’oceano alieno e delle sue raccapriccianti creature, sensazione dopo sensazione, un quanto concettuale dopo l’altro, finché non mi beo del mio vuoto cerebrale. Quasi ci riesco, sto per riprendere la mia vita passata. Lo so per certo, è come se mi rendessi conto che ritornerò presto in me. Abbandonerò le curvature ipergeometriche e questo orizzonte infinito per ricevere la benedizione di una terribile emicrania causata dalla sbornia. Qualcosa di inatteso mi distoglie, un tocco impercettibile che io interpreto come un lieve spostamento d’aria. Una cosa da nulla, all’apparenza, ma sufficiente a farmi perdere la consapevolezza cristallina che mi ha sfiorato in modo tanto effimero. Ritorno di colpo a quella che è la sola realtà. Abbasso gli occhi e vedo brulicare ovunque quelle abominazioni. Adesso sono scarlatte, come coperte di sangue immortale incapace di coagularsi. Mio Dio, hanno riempito ogni spazio vuoto! Le loro valve enormi si sono dischiuse e dalle loro viscere salgono rumori raggelanti. La loro crescita non si arresta. Qualcosa mi graffia una gamba. Abbasso ancora di più lo sguardo e vedo che un rostro mi ha colpito un polpaccio. Uno di quegli stramaledetti invertebrati mi ha arpionato. Anche se non sono fatto della stessa loro sostanza, la mia ferita li nutre tutti. Tremo e avverto l’inizio della Morte Eterna. Quel liquame rosso è il mio sangue!

Marco "Antares666" Moretti

martedì 26 aprile 2022

CARAVELLA PORTOGHESE

1.

L’uomo in doppiopetto grigio era andato a dormire dopo una massacrante giornata di lavoro, passata con gli occhi incollati davanti allo schermo del suo computer. Senza neppure mangiare qualcosa, si era subito gettato nel letto, sperando di recuperare le sue usurate energie. Aveva faticato non poco a prendere sonno, le vene della testa gli ronzavano per il martellamento sanguigno, le sinapsi friggevano nel suo cranio nel tentativo di ridurre la devastante entropia informativa. L’indomani sarebbe stata una giornata campale: era stato fissato un cruciale tavolo tecnico con le aziende coinvolte nel progetto di distribuzione del nuovo software da lui ideato. La promozione era se possibile ancor più estenuante della realizzazione pratica, e andava condotta attraverso logoranti azioni di marketing subliminale. I neuroni del manager lavoravano ancora a pieno ritmo nel tentativo di deframmentare l’hard disk cerebrale, e durante questo processo l’abbraccio di Morfeo lo sciolse in un bagno di piombo liquido. Un oblio privo di qualsiasi parvenza di attività onirica calò su di lui come un mantello d’un nero siderale assoluto. Dopo un’eternità criogenica, il risveglio avvenne senza che il suono della sveglia gli sibilasse fastidioso nei condotti uditivi. Per lui questa era una cosa del tutto insolita, che ricordava gli fosse mai capitata nell’arco della sua vita lavorativa. Non sentiva premere su di sé il maglio della stanchezza mattutina, come se avesse fatto un giro d’orologio di sonno. Eppure la cosa era impossibile, la sveglia funzionava per mezzo di un contatore quantistico praticamente infallibile. Nulla andava per il verso giusto quella mattina. Non riusciva ad aprire gli occhi, soffocati dagli umori cisposi. Fece per sfregarseli, quando all’improvviso si rese conto di qualcosa di assolutamente anomalo: era bagnato, avvolto in un fluido amniotico. Il senso dell’equilibrio gli fece allora realizzare che si trovava in una posizione impossibile. Fece violenza alla sue palpebre incollate e aprì di colpo gli occhi. Quello che vide lo stordì per la violenza della sua irrealtà. Non poteva essere vero, era una cosa non solo assurda, ma inconcepibile. Galleggiava in un oceano! Erano acque saline che emanavano un leggero sentore di putredine, talmente ricche di minerali da impedire al suo corpo di affondare. Come il Mare di Sodoma. Il cielo era di un colore blu chimico con nervature violacee e fucsia, innaturali e malsane. Le nuvole di un bianco accecante parevano zucchero candito fluttuante in densi banchi di gas radioattivo. Il sole era sfolgorante, ma minuscolo. Anche la sua luce era strana, non avendo la benché minima sfumatura di giallo. Gli occhi dell’uomo smarrito colsero subito quella nota non familiare in quel doloroso chiarore. Nel complesso, gli sembrava che il vecchio caro sole che da milioni di anni aveva donato al mondo la vita fosse stato sostituito da un ciclope rachitico con un faro bianco nel bel mezzo della fronte. Tornò a chiudere gli occhi. Quello stordimento autistico gli sembrava un prodromo di follia incipiente. Aveva letto in alcuni manuali di psicologia di casi in cui persone gravate per lungo tempo da uno stress eccessivo perdevano il lume della ragione fino a non riconoscersi più. Era capitato ad attori famosi come Robert De Niro, che a un certo punto credeva di essere Lucifero. Assodato che in quell’acqua non correva il rischio di affondare, cercò di concentrarsi e di tirare le somme. La sua situazione non somigliava affatto a quella degli attori in preda a confusione della personalità. Lui sapeva perfettamente chi era e cosa aveva fatto finora. Ogni minimo dettaglio della presentazione che avrebbe dovuto tenere erano stampati nella sua memoria in modo micrometrico. Non aveva il benché minimo dubbio su tutto ciò che lo riguardava. Era quello che si trovava all’esterno che non si spiegava! 
 
2.

Al manager venne in mente una nozione che il suo psicoterapeuta e maestro di Yoga gli aveva insegnato anni prima. Secondo quell’uomo, seguace della Teoria Olografica di Bohm e di Pribram, tutta la realtà non sarebbe che un’illusione, una costruzione di cui ognuno possiede le chiavi. Non aveva capito granché di quelle astrusità, ma decise comunque di fare una prova. Avrebbe chiuso gli occhi concentrandosi profondamente, e dopo aver raggiunto uno stato di profonda consapevolezza si sarebbe di certo risvegliato nel suo amato letto. Già pregustava quale felicità gli avrebbe portato la liberazione da un incubo tanto reale. Fece del suo meglio, e il tempo che passò in meditazione gli sembrò esteso in modo incredibile. Incrociò le dica e tornò ad aprire gli occhi, sperando di essere riuscito a far sparire l’orrore. Niente da fare. Il ciclope abbacinante lo fissava dal cielo, con un ghigno beffardo. Passarono le ore, nonostante lui pensasse che si trattasse soltanto di un inganno onirico. Nulla di nuovo accadeva, e il sole in tutto quel tempo si era mosso di pochissimo: la sua corsa nella volta celeste era di una lentezza esasperante. Ne approfittò per addormentarsi. Al risveglio tutto si sarebbe dissolto come per incanto e avrebbe ritrovato la sua amata realtà di tutti i giorni. Galleggiò per un tempo che parve infinito, cullato da quegli abissi salini. Dormì profondamente, quindi si svegliò. Prima di prendere completamente coscienza, passò qualche attimo con la sensazione di essere riposato e tranquillo. Quando aprì gli occhi dovette disilludersi. Adesso il piccolo sole bianco era più basso, pur continuando la giornata ad essere più luminosa della più chiara giornata terrestre. Nell’acqua c’erano banchi di sargassi, sembravano le chiome verdi di una gorgone. In lontananza questi accumuli di vegetazione aumentavano in densità: si stava avviando verso un groviglio inestricabile di putrescenza. Mentre le alghe gli passavano vicino, notò che tutta una fauna le popolava. Strano che con quella concentrazione di cloruro di sodio potesse sussistere la vita. Subito pensò che era inutile sottoporre a regolette razionaleggianti quanto i suoi stanchi sensi gli comunicavano: cominciava ad accettare il fatto che fosse lui a doversi adattare alla realtà esterna e non viceversa. Si fece strada in un banco di spessi budelli ramificati di un color verde acido. C’era qualcosa di osceno in quei vegetali, come un subliminale sessuale che non si sapeva spiegare, affondato com’era sotto l’apparenza. Smosse una massa il cui nucleo era più grande di un grosso cavolo e subito ne sgusciarono fuori delle pulci marine. Erano piccoli crostacei scuri, simili a porcellini di terra. Ne raccolse una e la analizzò. Qualcosa di alieno e di innominabile lo colpì. Un’altra pulce più piccola si stava formando nel ventre molle, e già le sue zampette si muovevano in modo indipendente da quelle del genitore non ancora separato. Fu colto da un attacco di nausea e scagliò lontano il ripugnante artropode. Dormire in quella situazione non era certo una prospettiva piacevole. Nuvole cremisi cominciavano a comparire all’orizzonte mentre il sole bianco si stava tingendo di azzurro. Un’aurora gialla e lontana dal punto verso cui era diretto l’astro si stava formando, e quella mancanza di simmetria lo colpiva, anche perché la luce non accennava a diminuire. Tutto fu chiaro quando in mezzo a quelle formazioni di zafferano si alzò un grande sole simile del colore di un tuorlo d’uovo. Il suo corso era più rapido di quello del compagno tramontato, ma nonostante ciò era troppo lento. Cercò di vincere il sonno. Era chiaro che delle correnti lo stavano trasportando, e che quello che poteva fare nuotando non poteva essere di grande utilità. Si avvicinò ad alcuni pesci morti. Se quelli erano pesci, lui non ne aveva mai visto uno in vita sua. Si ricordò dell’immagine di un fossile vivente chiamato celacanto, e decise che era quanto di più simile fosse stoccato nel suo archivio mnemonico. Avevano molti ordini di pinne soprannumerarie e un orrendo becco di pappagallo. Gli occhi grossi erano di un nero così lucido da sembrare palline di ematite. Quando la fame avesse cominciato a fare sentire i suoi morsi, non avrebbe avuto altra scelta che cibarsene. Per il momento il suo stomaco sembrava morto e non gli comunicava la benché minima necessità. Scacciò il pensiero delle pulci di mare e si addormentò di nuovo.

3.

Quando l’uomo si destò dal sonno pesante si sentì invadere dal raccapriccio. Una colonia di pulci marine si era accalcata su di lui, premendo fastidiosamente. Alcuni esemplari erano lunghi quasi una decina di centimetri. Stavano nutrendosi dei brandelli dei vestiti. Cercò di cacciarle via, ma presto si accorse che nuotava in una densa zuppa di quegli animaletti, e in quella poltiglia galleggiavano grandi isole di alghe carnose e fetide. L’odore era un nauseabondo misto di salsedine e di smegma, e sembrava qualcosa di denso, che si muoveva in banchi visibili come tremolii nell’aria caliginosa. Entrambi i soli erano in cielo: quello di un placido giallo tuorlo e quello di un maligno bianco. Alzò lo sguardo ancora appannato per scrutare l’orizzonte e a un tratto si accorse di qualcosa di atroce, una visione apocalittica che incombeva: una massa gelatinosa più alta di una montagna, galleggiante tra le onde. Era un physeter colossale dalla forma di sacco di plastica trasparente, rigonfio e dotato di una spessa cresta gelatinosa. Dalle sue propaggini inferiori si espandeva in acqua una cascata di tentacoli blu, così urticanti da far ribollire ogni cosa nel raggio di molte miglia. Quanto poteva essere grande quell’obbrobrio? Sembrava che le correnti stessero accelerando in modo impressionante, trasportando continenti di rifiuti organici e di carogne verso le cellule gastrozoidi. Si sentiva una vittima inerme catturata da un nastro trasportatore, e le dimensioni del mostro si ingigantivano rapidamente. Man mano che le distanze si riducevano, l’abnormità del sinoforo lo riempiva di una nuova definizione di terrore, qualcosa che trascendeva gli stessi fondamenti biologici delle tempeste adrenaliniche. Non potevano esserci dubbi: in ciò che ora lo sconvolgeva c’era un’essenza metafisica. Vide un filamento blu intenso pieno di vescicole che sembravano di plastica farsi strada tra i mucchi di crostacei decomposti alla deriva. Qualcosa gli sfiorò una gamba e sentì l’acido farsi strada sulle sue gambe e aggredire i tessuti. Lo strazio che provò al contatto con quel liquame caustico era insopportabile, ma nonostante ciò poté constatare che la carne non veniva corrosa. Udì il riverbero di un essere intrappolato eoni prima in quello stesso inferno, e capì che il suo urlo verso il cielo non euclideo non sarebbe mai morto.

Marco "Antares666" Moretti

domenica 24 aprile 2022

I GRILLI GIALLASTRI

La casa stava cadendo a pezzi. Nella cucina illuminata da una dura luce al neon ogni cosa mi sembrava rassicurante, ma fuori si estendeva la Notte. La latrina era squallidissima, in completo sfacelo. In pratica era un loculo scavato in una massa di pietrisco friabile che minacciava ad ogni istante di crollare sugli sciagurati ospiti di quella dimora, costretti a una qualche impellenza biologica dalle insindacabili neccessità della Natura matrigna. I muri scrostati e lebbrosi, la tazza sudicia di anonimi escrementi, tutto contribuiva a darmi l’idea dell’estrema dissoluzione dell’Essere, della Mors Ontologica. A causa del diabete da cui ero tormentato fin da giovane, sono stato costretto a recarmi in quel loculo ogni ora, spinto da un’incoercibile impulso ad evacuare la mia dolorante vescica. Era ormai sera, quando ho notato per la prima volta qualcosa di decisamente inusuale. Ho visto le sagome di due grilli pallidi, di un colore malaticcio che mi ricordava quello della diarrea. Fissi sulle pareti, sembravano attendere l’Eterno in prossimità di uno squarcio aperto nell’intonaco cedevole. Quegli insetti mi osservavano tra i calcinacci e l’umidità, trasmettendomi un vivo senso di inquietudine. Le macchie brune che punteggiavano la loro insana corazza, le lunghissime antenne che vibravano sinuose seguendo i ritmi di quasar estinti, tutto contribuiva a ricordarmi l’assoluta nullità della vita umana. La nostra condizione spettrale tra le ombre di questa prigione cosmica chiamata “esistenza”, altro non è che l’effimero zampettare di quegli insetti nella desolazione. Non avrei mai potuto sottrarmi a una tale assenza di significato. A un certo punto, l’emissione del getto di orina si è fatta più penosa del solito. L’uretra infiammata, ristretta in più punti, mi rendeva sempre più difficile evacuare quel rovente distillato di miseria che le cellule del mio corpo si ostinavano a produrre, goccia dopo goccia, in ogni istante della mia dannata sopravvivenza. Qualcosa di nuovo si è prodotto in me nel corso di un battito di cuore, come per un ribaltamento di prospettive. Ricordo ancora quell’istante in cui ho avvertito una fortissima fitta di dolore in un luogo da cui mai mi sarei aspettata una simile sensibilità – essendo estraneo al mio corpo… La pugnalata mi ha lacerato proprio nell’addome di un grillo! Ecco il mio essere disorganizzarsi, disperdersi nell’ambiente a me circostante… Ho sentito i grilli come parte di me, ho avvertito la loro masticazione della polvere e della sozzura! Tutto a un tratto una parte della mia anima si è trovata nel loro addome, proprio nell’apparato digerente, in mezzo alle loro feci in formazione. Viaggiavo nel loro sistema nervoso periferico, ridotto a una serie di scosse elettriche che attraversavano quelle sinapsi residuali! Ed ecco tutta la mia concentrazione rivolgersi a una minuscola nicchia posta proprio sopra le figure pingui dei due grilli. Il ragno nerastro polverulento, abitante di quell’anfratto, non era un semplice artropode, ma la stessa Morte Essenziale che mi attirava a se, trasmettendomi dal suo pozzo di Nero Assoluto echi di galassie moribonde, di buchi neri in evaporazione. Come se fossi stato immerso in una vasca piena di azoto liquido, è avvenuta la mia transizione all’Abisso. Fuori da me stesso, nel gelo compatto, ho colto la Morte stessa come un simbolo, come uno stilema artistico sussurrato durante il sonno dalla voce di un ectoplasma. Si potrebbe dire che dallo Spazio Interiore sono passato allo Spazio Profondo, anche se di certo sono il primo a trovare inadeguato e limitante un simile modo di esprimermi. Ogni altra cosa aveva già perso qualsiasi importanza. Forse qualcuno avrà trovato il mio cadavere, crollato col volto riverso nell’acqua stagnante della tazza, ma la mia Ombra ormai si trova altrove: si estendeva oltre le apparenze allucinatorie che noi siamo soliti considerare tutto ciò che esiste. In un tempo situato nella gabbia della biologia, sarei stato rapito dalla più profonda angoscia per coloro che ho lasciato dietro di me. Adesso quelle figure sono per me del tutto irrilevanti, e non me ne preoccupo più di quanto un uomo si curi della sfuggente silhouette proiettata dal suo corpo su un muro. Le mie parole stanno giungendo a voi che ascoltate, codificate e tradotte in qualche modo, attraversando proprio il Vuoto che sta oltre l’Estinzione Termodinamica. Di certo esse appariranno semplice tremolio di delirio a tutti coloro che hanno una mente razionale, ma di certo lasceranno un segno in grado di dissolvere ogni convenzione dei sensi. Ogni perturbazione così prodotta nel cedevole tessuto della realtà finirà col lacerarlo. Parole. Fantasmi di parole. Strali solipsistici, ideogrammi mortiferi che rappresentano l’unico mezzo per esprimere il Vento Nero che sono.

Marco "Antares666" Moretti

giovedì 21 aprile 2022

AGLOSSA PINGUINALIS

Ali dal dorso peloso, grigio. La falena esausta volava per la stanza, infastidita dalla luce delle candele e dal fumo. Ogni tanto tendeva le antenne ramificate, nel vano tentativo di trovare un luogo adatto in cui scaricare il proprio dolente fardello. Nella camera regnava un’aria viziata e malsana: i lezzi di fiori appassiti e di morte ammorbavano ogni cosa. Per Anne de Roget non faceva ormai più nessuna differenza. Il tempo del suo respiro era finito. Quando il suo petto era vivo, il suo alzarsi e abbassarsi ritmicamente faceva sognare i giovani gentiluomini che frequentavano la casa. Adesso non c’era più speranza, nessuno l’avrebbe più amata, nessuno avrebbe più sospirato nel contemplare le sue forme. Presto sarebbe calato su di lei il coperchio di una solida bara di legno di rovere e tutto avrebbe avuto fine: il mondo sarebbe davvero morto per lei. Non riusciva ad adattarsi all’idea della morte. Certo, non se l’era mai immaginata così. I suoi genitori e il precettore le avevano detto che al momento della morte l’anima si presenta al Creatore, che a seconda dei suoi meriti va in Cielo o all’Inferno. Ora che poteva considerare la cosa per esperienza personale, la giovane Anne sapeva che erano tutte idiozie. Però neanche lo sconsiderato La Palisse aveva ragione. Anche se stava sempre molto attento a non farsi udire, egli era convinto che con la cessazione della vita tutto fosse finito. Adesso che Anne si trovava lì, intrappolata in quel corpo estinto, non sapeva darsi alcuna spiegazione del suo stato. Avrebbe dovuto essere terrorizzata: in fondo sarebbe rimasta nella bara, sprofondata nel sottosuolo. Per tutta l’eternità, anche dopo lo sbriciolarsi del legno e la completa degradazione del cadavere. Inglobata nell’inazione permanente, anche il più insignificante movimento era al di là della sua portata. Eppure i sentimenti turbolenti che caratterizzano i vivi non sorgevano in lei. Il suo modo di esistere non le permetteva di lasciarsi andare a ira e paura, si trovava oltre.
La farfalla indolenzita fu attratta dal drappo rosso in cui era avvolto il cadavere. Volteggiò a lungo, quindi si andò a sistemare proprio sul collo della defunta Anne de Roget. Ovviamente il sistema nervoso del lepidottero non poteva avere alcuna nozione dei drammi di creature gigantesche come gli umani. Le immagini che gli ommatidi trasmettevano alla creatura alata sarebbero parse talmente strane a qualsiasi persona, che neppure la più sfrenata oppiomania avrebbe permesso di immedesimarsi in quell’abisso polidimensionale, sfaccettato, cangiante. Le contrazioni addominali peggiorarono all’improvviso. Una sensazione orribilmente fastidiosa, che per certi versi avrebbe potuto essere assimilata al senso di pena e di dolore provocato da una forte colite spastica. Un grande carico di uova spingeva nel ventre, bramoso di fuoriuscire dalla cloaca per invadere il mondo esterno con la propria vorace fecondità. Tra una contrattura e l’altra, l’esausto lepidottero defecò la propria covata, proprio sulla pelle ancora candida e priva di alterazioni della fanciulla. A questo punto nulla era più sotto controllo: la muscolatura dell’addome e la peristalsi del budello ovopositore avevano sostituito qualsiasi residua volontà ancora potesse risiedere nelle minuscole sinapsi. Il materiale che usciva copioso sembrava tra una scarica di diarrea e una serie di grappoli mollicci, della consistenza dell’albume, ricoperti da una cuticola che teneva a malapena insieme gli acini. Così spirò quel piccolo essere, che era vissuto soltanto lo stretto necessario per copulare e per formare in sé quell’ammasso disgustoso di nuova vita brulicante. Così spirò, come un uomo che non si accorge di rendere l’anima mentre sta evacuando le feci.
Rumori. Passi. Anne de Roget capiva che qualcosa stava accadendo: i necrofori erano giunti a chiudere la bara. Dopo che Jules de Roget, suo fratello, diede il suo assenso con un gesto del capo, due uomini sollevarono il coperchio della bara, lo fissarono e iniziarono a battere per far penetrare a fondo i chiodi. Angoscia. Una nuova specie di angoscia. Qualcosa di inteso come orrore metafisico, molto al di là di qualsiasi reazione terrena. “Ogni battito del metallo riverbera”, pensò la donna, “Ogni battito del metallo è la Morte dell’Universo”. Un colpo secco, impresso dalla testa del maglio sull’estremità piatta di un chiodo. Un altro colpo, altrettanto secco. Ripetizione in crescendo, assordante. Ferro contro ferro, acciaio contro acciaio. Metallo che penetra nel legno. Maligna metanoia. Presagio di un’escatologia rivolta all’annientamento del concetto stesso di Essere. Non a una semplice cessazione, ma a una distruzione eterna e costante, come il supplizio di un antico titano il cui fegato cresceva giorno dopo giorno solo per essere dilaniato da un avvoltoio. “La Morte non è un attimo”, formulò l’intelletto di Anne, incapace di morire. Il rumore di un passo sul pavimento. Poi un altro. Un altro ancora. Insinuante. Come il Serpente Immorale descritto da Ulisse Aldrovandi nel suo Bestiario, questa consapevolezza dardeggiava la più infima componente ontologica della morta. Anche se non osava ammetterlo neppure con se stessa, Anne sentiva il tocco vellicante di una lingua premere sulla parte più bassa del suo corpo, su quell’orifizio che non aveva mai osato considerare nemmeno sul piano dell’immaginazione senza provare una fitta di pudore. Buio. Adesso la luce non esisteva più. L’intera esistenza si era oscurata, come se avesse perso la parte più importante di sé. Le sensazioni lasciavano pensare a un ritorno al grembo materno, una specie di estasi embrionale in cui l’autocoscienza si sarebbe infine consumata nella sua interezza. Nulla di più illusorio delle speranze della giovane donna. Proprio quando pensò di abbandonarsi finalmente al meritato sonno eterno, si accorse che le restava sempre quel fastidioso barlume di lucidità, quel diamante infinitesimale che la costringeva a pensare di esistere. Tutto il Cosmo si articolava in una serie di monadi scollegate, di parti prive della minima connessione. Erano attaccate insieme con un collante esiguo e posticcio, qualcosa di inventato dall’essere umano. Coscienza, moralità, convenzione: tutte queste caduche spoglie della Menzogna erano ciò che dava ai viventi l’impressione di un tutt’uno universale, di una realtà oggettiva. Ora per Anne de Roget questo artificio non aveva più alcun valore: le appariva in tutta la sua desolante inutilità.
Passarono i giorni e le notti, indistinguibili, in una quiete assoluta. Ma Anne sapeva che in realtà ogni parte della carcassa che imprigionava la sua scintilla era in preda ad un esasperato dinamismo. Servendosi di un senso sconosciuto ai vivi, avvertiva i contorni di ogni cosa in un modo tanto netto da essere descrivibile solo con difficoltà. Empatia. Comprendeva ogni mutamento di quelle membra ormai irrigidite nel gelo del rigor mortis e avviate a un triste sfacelo. Sentiva i flussi di gas intestinali accumularsi nelle viscere, esalazioni mefitiche che nascevano dal degrado incessante degli organi, ridotti sempre più ad ammassi liquaminosi. Non potendo più tale meteorismo sfogare attraverso l’ano, si accumulava gonfiando l’addome e provocando borborigmi. Le chiazze verdi sulla pelle viravano al viola e al bruno. Dalla narici usciva un abbondante flusso di percolato, residuo della rapida putrescenza cerebrale. Le larve di mosca sguazzavano in quel calderone, rosicchiando le membrane e le strutture che ancora resistevano. Una vasta gamma di parassiti pullulava nelle parti molli, prosperando in tanta abbondanza escrementizia. Gli ossiuri viaggiavano come matasse di spaghetti verso i ventricoli più adatti alla riproduzione, percorrendo quanto restava del decadente sistema linfatico, drenati dalla circolazione post mortem passiva. Ogni ospite abituale dell’intestino si era attivato per il Grande Banchetto. Autolisi. Distruzione cadaverica. Lo stomaco si era già distrutto, sciolto in una massa di pastone muriatico. La rete venosa putrefattiva emergeva con il suo odioso pigmento, dando origine a focolai interni di cancrena nera, crepitanti di idrogeno solforato. Virulenza senza limiti. Rivoltante lezzo di uova marce che filtrava e avvolgeva ogni cosa in quell’atroce spelonca. Ecco il destino finale della Bellezza e dell’Armonia: sic transit gloria mundi!
Custodite dal tepore dell’ambiente vellutato ed oscuro della bara, anche le uova deposte dalla falena iniziarono a schiudersi, dando origine a innumerevoli piccoli bruchi. Neri, lucidi, armati di peli rigidi simili ad aculei. Voraci mandibole ansiose di rodere il mondo intero, smaltendolo nelle pingui budella e defecandolo in forma di mucchietti di sterco disidratato. Ognuno di quei sacchi mangianti iniziò ad aggredire il guscio stesso dell’uovo da cui si era schiuso, per poi passare ai resti della loro genitrice, che ancora giacevano rinsecchiti lì vicino. Anne de Roget sentiva che sul suo collo qualcosa stava crescendo. Programmati per cibarsi di grasso rancido, i bruchi si fecero strada nella carne in decomposizione fino a raggiungere il grasso delle mammelle, che aveva subito una parziale saponificazione. Quelle gocce di adipe acido e maleodorante attiravano la progenie della falena come l’El Dorado aveva attratto i Conquistadores. Nutrendosi di tanta abbondanza, presto scavarono tanto da estirpare del tutto le mammelle. Sotto le vesti impregnate di umori pestilenziali, si erano formati due grandi crateri cancrenosi, resi nerastri dai succhi digestivi di quegli esseri immondi. Le forze della crescita infuriavano in quei budelli sempre intenti a divorare. Erano diventati grandi come dita delle mani. La cassa da morto era invasa dai bruchi, che avevano cosparso di bava setosa l’oggetto del loro macabro simposio. Non contenti, iniziarono ad introdursi nel ventre, rompendo la cute, provocando l’impetuosa fuoriuscita di gas infiammabile. Qualche larva perì nell’improvvisa combustione di quelle folate, contorcendosi dannata e sfrigolando nel Fuoco dell’Abisso. Presto l’aria residua divenne insufficiente, così le fiamme impure si spensero. Quando i bruchi incendiati morivano tra atroci sofferenze, i loro resti semicarbonizzati venivano prontamente attaccati, smembrati e ingurgitati dai vicini sopravvissuti. Nel frattempo, l’infestazione degli acari stava giungendo al suo culmine. Ogni parte di quella che era stata una meravigliosa femmina umana, ora si muoveva sommersa da masse di piccolissimi esserini quasi invisibili ad occhio nudo. La più grossa tra le larve del fatale lepidottero arrivò al pancreas, che aveva assunto l’aspetto di un grosso grappolo formato da acini di cera. Quel boccone prelibato era ben valso la fatica fatta. Dopo tanto penare squarciando tessuti, inarcandosi e nuotando nella fogna, il carognaro era riuscito alla fine ad accaparrarsi il meglio, un autentico distillato di delizia plasmato da processi chimici imperscrutabili.
La defunta non poteva far altro che sopportare lo scempio nel suo progredire. All’inizio non fu affatto facile consumarsi in un’esistenza di questo genere. Sentire in sé la corrente infinita dell’obbrobrio l’avrebbe fatta impazzire. Se solo fosse riuscita ad evadere, a distogliere la coscienza dal calamitoso e implacabile flusso temporale! Proprio quando era così esausta da essere a un pelo dalla follia più totale, un torpore parve confortarla. Richiamò alla memoria i momenti migliori della sua vita, prima che una misteriosa e maligna consunzione la falciasse. Prima di giacere quasi immobile in quella tomba di materassi e lenzuola che era stata il suo letto. Prima che il sudore e l’anemia prosciugassero le sue forze. Cercò di cambiare lo squallido e repellente diverticolo infero in cui era stata trattenuta, evocando i giardini primaverili della sua infanzia. Era sua ferma intenzione sostituire quanto i suoi sensi raccoglievano con immagini e sensazioni di luoghi assolati. Aria tiepida e primaverile, profumata. Infiorescenze di papaveri nel prato umido, api che migravano alla raccolta di nettare da una corolla all’altra. Il polline dei pioppi trasportato dal venticello. Un’altalena cigolante, un giglio tra i capelli, un giovane corteggiatore che non aveva paura di fare brutte figure mentre lei si dondolava sorridendogli. Il rumore del mare lontano giungeva alle sue orecchie, un ruggito basso e continuo che nei suoi sensi sinestetici si mescolava con grazia ineffabile al sapore della salsedine. Presto sarebbe arrivato il precettore per la consueta ora di latino. Monsieur Adamard, con quella ridicola giacca beige, con quel parrucchino incipriato che a malapena riusciva a coprire il cranio largo e calvo. Per un attimo la nuda realtà parve farsi strada attraverso la densità colorata del giardino e del boschetto, ma la rivelazione del buio sepolcro si rivelò troppo irreale. Nuda, priva di punti di riferimento. Uno scheletro di percezione. Per un attimo la realtà sembrò persino ridicola. Quello spazio angusto e asfittico immerso nel terriccio non aveva nulla della bellezza dei ricordi di una gioventù spensierata. Perché allora prenderlo in considerazione? Ma era poi davvero la realtà? No. Non c’era alcun motivo di pensarlo. Il luogo mortuario era soltanto una finestra che dava su qualcosa di tanto spoglio ed incolore che poteva essere solo uno scherzo della fantasia. Oblio strisciante, silenzioso. Finalmente. I movimenti parvero attutirsi, come quando il dolore di un dente cariato si calma per l’azione di un chiodo di garofano. Il battito della sofferenza, una piccolissima arteria che pulsa dentro un dente e che pian piano muore. Adesso la giovane donna vedeva cespugli di bellissime e fragranti rose intorno a sé. Un ruscelletto scorreva poco oltre, gorgogliando sulle rocce disposte ad arte dai giardinieri. Sembrava quasi di essere a Versailles, tanta perfezione c’era nella vegetazione, nei vialetti, nelle aiuole, nelle fontane. Non riusciva nemmeno più a rendersi conto se era davvero il frutto di un ricordo d’infanzia. Ma aveva poi importanza? Ogni difesa logica si smorzò e venne meno, con dolce gradualità. Rapita dalla realtà simulata, Anne de Roget scivolava lentamente nel solipsismo. Incurante del rumore delle robuste fauci dei bruchi, incurante della loro oscena masticazione. Incurante dell’arrivo dei tarli delle ossa.

Marco "Antares666" Moretti

lunedì 18 aprile 2022

GLI ESUMATORI

Stava albeggiando. I primi raggi del sole implacabile sfregiavano con il loro giallo ammorbante l’immoto e fresco cielo notturno. L’orrore di quelle dita sacrileghe non era amato da chi per necessità o per intima perversione viveva coltivando quella che è forse tra le passioni più singolari: la necrofilia. La campagna devastata si estendeva tutta intorno al sepolcreto. La massima parte delle tombe era già stata scavata nel corso degli anni. Rimanevano in piedi soltanto poche cappelle diroccate, per il resto si vedevano solo lapidi divelte e mucchi di terriccio molle. Nella nebbia mattutina, il fetore delle esalazioni si confondeva con le avvisaglie di una nuova giornata di canicola. Oltre la Terra dei Morti, si vedevano soltanto campi incolti e alcuni cascinali abbandonati. Oltre il pendio digradante, il grande lago assumeva sempre più la forma di un secondo cielo. L’azzurro era ormai alto e pieno, ogni cosa era in lontananza un immenso scrigno di turchese che si stemperava in un fumo indistinto come ci si avvicinava al suolo mefitico. I due esumatori interruppero per un attimo il loro estenuante lavoro per rivolgersi al sole cancerogeno che già irrompeva come l’occhio di un portentoso ciclope sul ritmo delle loro esistenze. Uno dei due si levò il cappello e si deterse la fronte con una specie di fazzoletto, poi riprese a rivolgere gli occhi alla nuda terra, impugnando la vanga. L’altro disse qualcosa, ma le parole si dispersero nella quiete cerulea. Alcune ossa erano emerse durante lo scavo, frammenti sporchi e cariati, tutti costellati dal nero di una putrefazione infelice. Umidità. Molti sostenevano che lo scheletro fosse una parte pura e incorruttibile del corpo umano, ma non era vero. Anche dopo un secolo di permanenza in una fossa restava sempre l’aura delle forze immonde che avevano operato la dissoluzione dei tessuti. Delle bare che un tempo giacevano in quegli strati del campo di inumazione non restava altro che poltiglia acida, il lezzo di legno marcio che si mescolava all’impregnazione cadaverica del suolo. Bisognava smettere il lavoro. Questa certezza si stampò nella mente dei due profanatori. Non potevano proseguire ancora per molto: con il caldo sarebbero arrivate le mosche. Gettarono molte palate di terra sullo squarcio purulento che avevano aperto nel cuore del cimitero e si allontanarono, facendo perdere le loro tracce nella caligine diurna.

Marco "Antares666" Moretti