MANDAROM
La luce del sole andava pian piano incupendosi, virando al giallo scuro. Ancora un’ora e poi l’astro sarebbe sprofondato dietro le montagne. Egle camminava per i campi, diretta alla fonte. I suoi genitori l’avevano mandata a riempire di acqua il secchio, come ogni sera prima di cena.
Quando giunse all’orto, Egle vide che era stato devastato. C’erano escrementi dovunque, di un tipo che non aveva mai visto prima. Per dimensioni sembravano prodotti da esseri umani. Avevano però un aspetto orribile e pastoso, ed emanavano un odore atroce. Un lezzo che sembrava a metà strada tra quello di un cavolo marcio e quello di un cadavere. Accanto alle scorie c’erano tracce di bava densa e schiumosa mista a resti di vegetali masticati. Egle rabbrividì ed estese il suo sguardo oltre i confini dell’orto, spaziando sui campi di cereali. L’intero raccolto era andato distrutto. Non capiva quali bestie fossero capaci di produrre una simile desolazione. Non potevano essere lupi, e neanche orsi, anche se si sapeva che in caso di scarsità di prede erano benissimo capaci di cibarsi di vegetali. La bambina si ricordava che una volta, al colmo dell’inverno, un lupo si era ingozzato di patate fino a vomitare. Non contento, aveva inghiottito il suo vomito, prosciugando poi un intero serbatoio d’acqua. Gli era però andata male, tutto quel pastone in fermentazione nel suo stomaco si era gonfiato e lo aveva fatto esplodere. La sua carcassa sventrata era stata trovata sulla piana innevata vicino al pozzo.
All’improvviso, Egle fu richiamata alla realtà da un rumore. Finì di riempire il secchio, quando vide qualcosa. All’inizio sembrava solo un mantello peloso che si inarcava e ballonzolava ebbro. Poi vide. Era un bruco grande quanto un grosso cane. Sembrava una processionaria del pino, ma aveva la testa sproporzionata come quella delle larve di farfalla sfinge. Mascelle robuste come il becco nero di un pappagallo, occhi composti, pseudopodi prensili, ocelli nerastri sui fianchi. La pelle era quasi trasparente, e sotto il pelo rossiccio si potevano intravedere i visceri scuri, oscillanti mentre l’abominevole larva avanzava lentamente.
Egle si chiese che diavolo potesse essere quello che stava vedendo. Nonostante l’assoluto disgusto che le ispirava, non poteva distoglierne lo sguardo. Era come ipnotizzata dall’obbrobrio. La sensazione era simile a quella che cattura quando si osservano le fiamme che avvampano in una stanza colpita da incendio e nonostante il pericolo non si riesce a muoversi. Qualcosa le disse di scappare, di abbandonare il secchio e di fuggire a gambe levate, ma neppure un muscolo rispose al suo comando. Rimase ferma, immobile come se si fosse mutata in una statua.
Aveva sentito parlare delle Volpi, demoni e spettri che rapivano i viventi per divorarne l’anima. Non aveva dato mai credito a simili storie, né aveva mai sentito qualcuno che avesse davvero incontrato tali presenze. Ma queste cose non avevano l’aspetto attribuito dalle storie popolari alle Volpi.
Una seconda larva giunse caracollando, ancora più grossa della prima. Infierì sui moncherini anneriti di un ceppo marcescente, rosicchiandoli e facendo schiuma come un epilettico. Quando ebbe finito con quel legno fradicio, si inarcò alzando il capo e muovendolo tutt’intorno alla ricerca di qualcosa di commestibile. In preda a un senso di delusione, si mosse e andò dietro all’altro bruco, attaccando il muso al suo deretano in quello che pareva un contatto osceno. Dopo un attimo si staccò e andò via.
Egle era coperta di sudore freddo. Dopo aver fatto leva su tutta la sua volontà riuscì a muoversi quel tanto che bastava per girare il collo e guardarsi attorno. C’erano già altri cinque di quegli esseri mostruosi che la circondavano. Altri, visibili in lontananza, perlustravano la desolazione alla ricerca di qualcosa di commestibile.
Negli ommatidi che componevano i loro occhi alla bambina sembrava di distinguere riflessi iridescenti. Le sfumature di colori oculari erano come una danza di miraggi, un caleidoscopio sullo sfondo del tremulo moto degli strati di aria caliginosa. Egle non si accorse di aver perso di nuovo il controllo sul suo corpo. I muscoli erano irrigiditi e formicolanti, la pelle insensibile come quando si schiaccia un nervo. A questo punto i suoi pensieri eri torpidi come le sue carni, nulla poteva più far scattare in lei alcun meccanismo di allarme e di sopravvivenza. Si dimenticò del secchio, già caduto a terra da tempo. Lo scorrere degli istanti sembrò rallentare fino a pietrificarsi. Non esisteva più nulla nella sua memoria, non si ricordava più neanche dei suoi genitori che la stavano aspettando a casa. Esistevano soltanto i bruchi. Le Volpi. Ormai aveva capito cos’erano quelle cose. Erano le Volpi. Se nessuno sapeva nulla sul loro aspetto e circolavano solo descrizioni non vere, era perché nessuna persona la cui anima fosse stata divorata poteva tornare indietro per parlarne alla gente del suo villaggio! Come aveva fatto a non pensarci subito? Adesso che lo capiva era troppo tardi. Anche la paura e il disagio se ne erano andati, come se un flusso di potente anestetico scorresse nelle sue vene. Un veleno in grado di azzerare ogni naturale reazione, ma al contempo di conservare la coscienza di sé perfettamente lucida.
L’intero mondo parve dissolversi in un turbine delirante. Dove erano stati campi coltivati ad ortaggi e messi dorate, ora si estendeva una città megalitica. Forme basaltiche si innalzavano verso il cielo di piombo, come le dita di un gigante senza memoria tese in contratture innaturali per tutta l’eternità. Egle non aveva mai neppure immaginato che potessero esistere palazzi così imponenti. In certi punti erano addossati gli uni sugli altri in formazioni dall’aspetto canceroso, contorto fino all’inverosimile. Grottesco architettonico di guglie e torrioni che si intersecavano senza seguire una logica. Il campo delle Volpi non esisteva più, ora Egle si trovava in una strada polverosa della Città di Pietra. All’inizio si domandò dove fossero finiti gli abitanti, perché l’unico senso funzionante era la vista. Non appena poté percepire gli effluvi mefitici tramite l’olfatto, ebbe una risposta inequivocabile. Osservò le finestre intagliate nelle pareti delle costruzioni ciclopiche, anguste feritoie dalle quali filtrava un nero assoluto e aggressivo. Emanavano il lezzo della Peste, tutto lì era invaso dalle Forze del Morbo. Percepì la presenza di migliaia di cadaveri sfatti e deformi nelle sale e nei corridoi che non poteva vedere con i suoi occhi. Niente e nessuno in tutto l’universo avrebbe mai potuto convincerla a mettere piede là dentro. Il terrore la invase, sapeva per certo che in quei recessi aberranti c’era l’Inferno. C’era l’annientamento eterno dell’Essere, la sua riduzione a ombra di ombra. Qualcosa di così orrendo e nefasto che non esistevano neppure parole in alcuna lingua degli umani per definirla. Non esistevano quasi colori in quel paesaggio allucinante. Tutto sembrava stinto e degradato, come se qualche demone avesse privato la realtà stessa di ogni sua apparenza, mostrandone l’intrinseco Nulla. Un vento di disperazione spirava nelle strade e nei vicoli, qualcosa in grado di distruggere non solo la gioia ma anche qualsiasi ricordo della sua esistenza. L’impressione che Egle aveva era che qualcosa senza forma stesse strappandole l’anima per tormentarla a suo piacimento, irrorandola con scaturigini di tenebra fittissima. Pur di fuggire avrebbe voluto cessare di esistere e non essere mai esistita, ma in quei luoghi questo non era permesso: un residuo di consapevolezza sarebbe sempre durato in uno stato di sopravvivenza spettrale solo per subire la distruzione di ogni suo tentativo di porre fine al tormento. Un uovo masticato dai Demoni per l’eternità.
Ecco che qualcosa si mosse su una parete lontana e distrasse per qualche secondo Egle dal suo incubo. Decise di avvicinarsi per vedere meglio. All’inizio sembrava una chiazza in cui si mescolavano colori sgargianti che vedeva per la prima volta nella Città di Pietra. Giallo limone fosforescente misto a scarlatto e a verde pisello, con punti di un nero brillante che sembravano danzare. Cosa mai poteva essere? La bambina avanzò lungo una via fino a giungere in una piazzola. Ovunque c’erano rottami di strani veicoli che si consumavano lentamente sotto coltri di polvere corrosiva. Notò che il metallo lebbroso aveva assunto la consistenza e il colore bruno rossiccio dello sterco. Proseguì il suo cammino con passi incerti. Di colpo poté vedere con chiarezza cosa aveva attirato la sua attenzione. Era un bruco variopinto grande come cinque cavalli messi in fila. Sulla schiena aveva centinaia di grossi flagelli neri e collosi che si muovevano guizzando come fruste, in modo del tutto indipendente. I movimenti erano molto complessi e davano un senso di nausea insopprimibile. Sembrava che sotto la pelle le sue interiora fossero altre larve in procinto di uscire. Bastava fissare quella creatura per avvertire il tocco della sua immondità. Cercava di salire fino in cima alla costruzione, ma i suoi movimenti sempre più goffi gli impedivano di fare molta strada. Gli pseudopodi smisero di avanzare e si appiccicarono alla parete per mezzo di una motriglia schiumosa che presto si indurì del tutto. Era già capitato ad Egle di vedere un bruco impuparsi, diventando giorno dopo giorno una dura crisalide, ma quello che qui stava accadendo era di natura molto dissimile. Il corpo della larva si gonfiò e a un certo punto si ruppe. Fu il culmine nauseabondo di un processo necrogenetico. Dalle crepe nella pelle scaturì una selva frattale e brulicante di minuscoli bruchi del tutto simili al loro progenitore. Un’infiorescenza bestiale, ributtante, come le chiome di una mostruosa gorgone. Mentre questo accadeva, altri germi di colore stavano crescendo un po’ dovunque. La rapidità del rigoglio era impressionante. A vista d’occhio prendevano forma nuovi bruchi, che si sviluppavano voraci da ammassi di spore fino a poco prima invisibili. Il groviglio cresceva senza controllo, soffocava le dimore dei Morti abbandonate da eoni. Egle ebbe paura e corse via, fino ad arrivare in una zona che ancora non era stata contaminata. Non si rese conto di quanto spazio aveva fatto, finché non si accorse di non avere piedi. Allora si fermò e cercò di ispezionare il suo corpo. Un tentativo del tutto vano: non aveva più un corpo! Ogni volta che le sembrava di muovere una mano o una gamba vedeva soltanto una fluttuazione nell’aria spessa e opprimente. Questa scoperta la gettò nel panico. In un attimo seppe per certo di essere morta. Come poteva spiegarsi altrimenti il suo stato? Era diventata una specie di fantasma! Dopo la confusione iniziale fu invasa dalla paura e si cerò in lei un’insolita nitidezza mentale. Proiettò la sua volontà in avanti e si mosse per automatismo. Ormai la zona pullulante di larve era lontana alle sue spalle. In ogni caso Egle sapeva che non poteva permettersi il lusso di abbassare la guardia. Se non fosse stata capace di trovare un nascondiglio sicuro, i bruchi l’avrebbero raggiunta e si sarebbero nutriti della sua anima, digerendola e degradandola in scorie di energia vitale da utilizzare per il loro continuo accrescimento.
Le sembrava di essere imprigionata in quel folle mondo da ere immemorabili. Il tempo fluiva in modo stranamente lento, o forse la sua natura era illusoria e come in un circolo perverso si finiva col tornare sempre al punto di partenza? La bambina-fantasma aveva imparato comunque una cosa: il tempo non era scandito dal moto degli astri e dal mutare dei cieli, anche perché in quella volta celeste non cambiava nulla. Tutto era pietrificato in un giorno fioco, simile a un grigio crepuscolo di caligine putrida. Un cielo del Nulla, privo di riferimenti, orfano del Sole, della Luna e delle stelle. Forse era davvero il Non Essere ciò che stava al di là della cappa di vapori simile a piombo, per quanto fosse esprimere in modo sensato un concetto come quello di Non Essere. Forse quello sarebbe stato un posto adatto dove fuggire e trovare la pace nell’annichilirsi? Le sensazioni che provava le dicevano che non era così. Non solo non poteva alzarsi dal suolo, ma quel Nulla le pareva maligno, anche se molto diverso da quello che irradiava dai palazzi cadenti. Era come se non fosse una semplice mancanza di definizione di realtà, ma nascondesse in sé un distillato di tutto ciò che di mostruoso si poteva concepire. Un dragone senza forma, vago e terribile al contempo. Un dragone senza contorni e colore. Cinereo delirio.
Senza accorgersene Egle era giunta in una strada che costeggiava un fiume di liquame nero. Ponti di marmo finemente scolpiti permettevano il passaggio sulla sponda opposta di quella fogna a cielo aperto, dove sorgevano edifici tra loro sovrapposti e intrecciati secondo un’architettura folle. Era tutto un dedalo intricatissimo di mausolei, di cappelle funebri, di statue diroccate e di camminamenti impervi che sfidavano le stesse leggi della logica. Non era facile capire dove stava l’alto e dove il basso, al punto che le nozioni elementari della geometria vi erano stravolte. Egle avvertì un capogiro. Il suo senso della vista era disturbato da quell’incredibile sovrabbondanza di dettagli, pur non essendo fondato su occhi fisici. A un certo punto vide l’accesso che conduceva nel sottosuolo. Qualcosa le diceva che i bruchi lì non potevano avventurarsi, ma la cosa non le fu di grande conforto. Era un ingresso intagliato nel marmo ciclopico, un portale che lasciava intravedere un’infinità di cunicoli e di meandri ritorti. In migliaia di piccoli loculi aperti giacevano cadaveri rinsecchiti. Si poteva sentirne l’odore anche a quella distanza. Si poteva distinguere ogni particolare anche nell’ombra più cupa. Soltanto in fondo c’era una tenebra assolutamente impenetrabile che divorava ogni capacità di percepire le forme. Era il Luogo dell’Incubazione. Questa consapevolezza sconvolse Egle, che per poco non perse i sensi. Si impose di resistere e di proseguire.
Dopo una parete liscia di marmo grigio che sembrava illimitata, ecco un altro portale, più largo del primo. Il fiume nero vi si gettava dentro e continuava il suo corso nel mondo ctonio. La visuale non euclidea permetteva di seguirlo per molte miglia all’interno delle Catacombe. Scorreva in un alveo costruito da chissà quale razza di giganti usando lo stesso marmo dello sconfinato cimitero.
Qualcosa attrasse la bambina-fantasma in quei diverticoli funebri, ma una barriera si frapponeva tra lei e la sua destinazione: quel flusso denso e di un durissimo nero. Non avrebbe potuto in nessun caso superarlo. Avrebbe dovuto tornare indietro fino a raggiungere uno dei ponticelli che aveva visto, anche se nessuno di quei passaggi portava alle Catacombe. Conducevano invece tra le tombe del Cimitero Monumentale che si estendeva fino all’orizzonte. Poteva soltanto sperare di trovare un adito al mondo sotterraneo in quella selva di statue grottesche, lapidi, tempietti e cappelle. E se non ci fosse riuscita? Se si fosse persa per sempre? Cosa la spingeva? Si fermò e si chiese cosa la stava muovendo verso il Luogo di Incubazione. Se fosse tornata indietro sarebbe andata a buttarsi proprio tra le fauci dei bruchi famelici. C’era anche un’altra possibilità: proseguire sperando di trovare un passaggio praticabile. Non era una cosa facile: il fiume spariva nel portale e il lungofiume si trovava sull’altra sponda.
Guardò in direzione del quartiere che aveva appena superato e vide un bruco lungo come una casa colonica. In assoluto il più grande che avesse mai visto. Era peloso come le Volpi e simile ad esse, ma era tutto ricoperto da migliaia di altri bruchi più piccoli di forma identica, dai quali a loro volta se ne diramavano altri in scala ridotta. Questi budelli abominevoli non erano figli dell’animale che li portava, non erano separati dalla sua carne. Erano invece escrescenze carnose, come organi di uno stesso essere. I movimenti erano di una tale vomitevole complessità che anche solo fissarvi la propria attenzione avrebbe paralizzato anche la persona più impavida, e chi finiva paralizzato in un simile luogo avrebbe subìto un fato peggiore di un milione di morti. Egle dovette decidere cosa fare nella frazione sfuggente di un battito di ciglia. Mosse la sua volontà in direzione opposta alla processionaria frattale che avanzava, schizzando via lungo il desolato boulevard. Così facendo riuscì a mettere tra sé e il ributtante predatore uno spazio che non avrebbe mai creduto possibile percorrere tanto rapidamente, ma si allontanò dall’unica cosa che avrebbe potuto condurla via da quella città. Non riusciva più a ricordare dove fossero le Catacombe. Provò ad esplorare con estrema cautela qualche stradina laterale, senza successo. Vi trovò soltanto polvere e macerie. Dopo un po’ si arrese. Aveva perso del tutto l’orientamento e non sarebbe mai più riuscita a ritrovare la strada. L’unico riferimento che rimaneva era una strada tanto ampia che le costruzioni ai suoi lati apparivano sminuite a chi le osservasse stando nel centro. Non poteva fare altro che scoprire dove l’avrebbe portata.
Dopo quello che le sembrò un susseguirsi di eoni, Egle si trovò in una piazza talmente ampia che avrebbe benissimo potuto contenere tutto il mondo che aveva conosciuto da quando era nata. Su quella vastità di porfido torreggiava un edificio che al di là di ogni dubbio era un luogo di culto. Una cattedrale così alta da proiettare la sua ombra sinistra su ogni cosa nel raggio di molte miglia. La bambina-fantasma guardò in alto nel tentativo di abbracciare ogni dettaglio di quel tempio sacrilego, e quando lo comprese nel suo campo visivo fu attraversata da un moto di orrore inesprimibile. La facciata aveva la forma di una pietra tombale con un imponente rosone centrale. Le strutture che la ornavano, scolpite nella candida roccia, erano tanto complesse e intricate che Egle ebbe subito chiaro che quella che aveva davanti era la Chiesa Ingarbugliata. Non c’era nome migliore per descrivere quella rete di venature ritorte, sovrapposte e compenetrate tra di loro. Si avvicinò, e man mano che si avvicinava si sentiva schiacciata al suolo da forze atrocissime, di un’oscura e sconfinata potenza. Dal rosone si spandeva una tenebra aggressiva, come una nube di spettri urlanti senza requie. Qualcosa urlava là dentro, strideva come l’acciaio spaccato da sbalzi estremi di temperatura. Egle non poteva fare a meno di avanzare, come se qualcosa si fosse impadronito di lei e l’avesse privata del tutto della volontà. Anche se voleva soltanto girarsi e lanciarsi via, non ci poteva fare niente. Quando fu abbastanza vicina, si accorse che la cattedrale era composta interamente da teschi di scimmie deformi. Vide che musi ghignanti formavano composizioni assurde che le trasmettevano significati subliminali raggelanti. Non c’era via di fuga, non poteva sottrarsi all’incubo. Si mise a strillare come un’ossessa, in preda a un marasma infernale.
Tutto parve precipitare e sfasciarsi, perdendosi in un vortice crepuscolare. Egle aprì gli occhi e di colpo si ritrovò nel suo corpo. Provò un immediato sollievo nel vedere le proprie mani davanti a sé. Persino il raccolto distrutto le parve confortante. Quando però cercò di camminare, si rese conto che le gambe erano dure come il marmo e incapaci di muoversi. Fu allora che si accorse delle Volpi intente a banchettare con la sua carne! La processionaria più grossa era intenta a strapparle i muscoli del polpaccio destro dalle ossa e a masticarli rumorosamente. Vide che un’altra larva si stava gonfiando e spruzzava contro l’altra gamba dei getti d’acido. Non sentiva alcun dolore perché era già del tutto narcotizzata. Quel succo era paralizzante e impediva alla vittima di lottare: associava proprietà allucinogene e corrosive, predigerendo i tessuti colpiti. Non c’era possibilità di scampo. La bambina capì che era finita. In breve ogni parte del suo corpo sarebbe stata divorata, dissolta e ridotta a pochi mucchietti di sterco grasso. Tutto questo era accaduto nel giro di pochi attimi, così quando i suoi genitori fossero venuti a cercarla non ne avrebbero di certo trovato traccia.
Marco "Antares666" Moretti